Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.

Mauro Di Marzio

Risarcimento per fatto illecito.

[I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.]  12.

 

[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209.

[2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24

Inquadramento

La tutela della proprietà si attua attraverso un complesso sistema di rimedi, di volta in volta inibitori, restitutori, di accertamento e risarcitori, ai quali concorre anche il risarcimento della lesione aquiliana del diritto. Nel codice civile del 1942 il diritto di proprietà riceve difatti ampia protezione, rappresentando da sempre uno dei valori fondamentali delle società borghesi (Dogliotti-Figone, 90).

Va fatta al riguardo menzione anzitutto delle azioni a difesa della proprietà e, in particolare: i) l'azione di rivendicazione di cui all'art. 948 c.c.; accanto all'azione di rivendicazione merita altresì rammentare la petitio hereditatis di cui all'art. 533 c.c., che si avvicina alla reivindicatio giacché è anch'essa azione reale, diretta a conseguire il rilascio di beni ereditari da colui che li possegga vantando un titolo successorio che non compete (possessor pro herede) ovvero senza alcun titolo (possessor pro possessore); ii) l'azione negatoria di cui all'art. 949 c.c., che consente al proprietario di agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio, aggiungendo che, se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre alla condanna al risarcimento del danno; l'azione di regolamento di confini di cui all'art. 950 c.c. e quella per l'apposizione di termini di cui all'art. 951 c.c.

Siamo, qui, nel campo delle azioni reali, le quali, secondo quanto ripete stabilmente la S.C., sulla scia della dottrina, sono poste a tutela di diritti c.d. autodeterminati, individuati cioè in base alla sola indicazione del loro contenuto rappresentato dal bene che ne costituisce l'oggetto, cosicché nelle azioni ad essi relative, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, la causa petendi si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda (per tale indirizzo, che consente di tutelare il «terribile diritto» di proprietà più agevolmente dei diritti di credito, v. tra le tante, da ult., Cass. n. 40/2015, la quale ne trae la conseguenza che non viola il divieto di ius novorum in appello la deduzione, da parte del convenuto dell'acquisto per usucapione della proprietà dell'area rivendicata dalla controparte qualora già in primo grado egli abbia eccepito ad altro titolo la proprietà dell'area medesima).

Ed ancora, contribuiscono sia pur indirettamente alla tutela della proprietà anche le azioni possessorie previste dagli artt. 1168 e 1170 c.c. (dei cui risvolti aquiliani, per l'ipotesi di lesione del possesso, si è dato conto in altro capitolo di questo Codice), nella misura in cui il possesso dello spoliatus o della vittima di molestie o turbative corrisponda, come correntemente accade, al suo diritto di proprietà.

Per altro verso, la lesione del diritto di proprietà costituisce in certo qual modo l'archetipo della lesione aquiliana, suscettibile nel nostro sistema di risarcimento: e non solo perché la finalità originaria della lex Aquilia fu di attribuire al titolare di beni economici (schiavi e bestiame) il diritto di ottenere il pagamento di una somma da parte di chi avesse distrutto o deteriorato tali beni, ma anche perché, fino alla svolta che ha ammesso la risarcibilità della lesione di diritti di credito, la S.C. è rimasta ferma nel ribadire la sussistenza dell'illecito extracontrattuale soltanto in presenza di lesioni di diritti assoluti, tali da valere erga omnes, quali, oltre al diritto alla vita, alla integrità, incolumità personale e onore, per l'appunto la proprietà (tra le tante pronunce dell'epoca Cass. n. 1430/1967, in tema di concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale). L'art. 2043 c.c. è dunque destinato ad offrire tutela a fronte di violazioni colpose o dolose dei diritti reali in generale ed in particolare della proprietà: vengono in rilievo tanto gli atti immediatamente lesivi del bene sul quale insiste il diritto reale, tanto le azioni dannose che si traducono semplice impedimento all'esercizio delle facoltà insite (di godere e disporre) in tale diritto. Non è in altri termini dubitabile che la lesione della proprietà, così come degli altri diritti reali, i quali hanno natura di diritti assoluti, costituisca danno ingiusto (Visintini, 443).

Da un lato, in definitiva, le azioni a difesa della proprietà, come si è detto, hanno natura reale; dall'altro lato l'azione aquiliana va qualificata come personale, con tutte le fondamentali conseguenze disciplinari che ne derivano: sul piano del riparto e del contenuto degli oneri probatori, dell'individuazione del legittimato passivo, dell'individuazione del giudice competente, del regime applicabile della prescrizione. Sicché occorre distinguere la tutela del diritto reale dalla tutela personale del proprietario contro le lesioni che attentino al potere di godere e disporre in cui si compendia il contenuto del diritto di proprietà alla luce della previsione di cui all'art. 832 c.c. (v. Ambrosoli, I diritti reali e la responsabilità extracontrattuale, in Gambaro-Morello (a cura di), Trattato dei diritti reali, I, 2008, Milano, 1065).

È stato ad esempio di recente affermato, volendo menzionare una delle differenze disciplinari di maggior rilievo, che nel giudizio di risarcimento dei danni derivati ad un bene immobile da un illecito comportamento del convenuto, atteso che oggetto della pretesa azionata è, non già il diretto e rigoroso accertamento della proprietà del fondo, bensì l'individuazione del titolare del bene avente diritto al risarcimento, non è richiesta la prova rigorosa della proprietà (cd. probatio diabolica), potendo il convincimento del giudice in ordine alla legittimazione alla pretesa risarcitoria formarsi sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad escludere un'erronea destinazione del pagamento dovuto (Cass. n. 18841/2016).

In argomento, vale osservare che nel codice civile diverse norme disciplinano azioni reali cui sono collegate obbligazioni risarcitorie (artt. 840, comma 1, c.c.; art. 872, comma 2, c.c.; art. 890 c.c.; art. 909, comma 2, c.c.; artt. 915-917 c.c.; art. 1049 c.c., oltre al già citato art. 948 c.c.). Nondimeno, resta fermo che, anche in tali ipotesi, l'oggetto della tutela è differente: le prime sono dirette a ripristinare il diritto violato ed a far cessare il fatto lesivo; le seconde, di natura personale, a rimuovere le conseguenze pregiudizievoli di un evento dannoso dal patrimonio del danneggiato (Bianca, 596).

Azione di rivendicazione e risarcimento del danno

Occorre brevemente rammentare che l'azione di rivendicazione ha come scopo il ricongiungimento della proprietà al possesso: essa è cioè posta a tutela del proprietario non possessore, ed è diretta al conseguimento della restituzione, attraverso la prova di un titolo di proprietà sul bene da altri posseduto, con la precisazione che la qualità di proprietario (come pure di comproprietario, non occorrendo l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari: Cass. n. 685/2011) non è presupposto processuale, ma condizione dell'azione, la cui sussistenza va verificata al momento della decisione, potendo mancare al momento della proposizione della domanda giudiziale (Cass. n. 13882/2010). Tale finalità restitutoria presuppone così che il bene rivendicato sia suscettibile di essere restituito e che, al momento della sua proposizione, sia nel possesso del convenuto (Cass. n. 7777/2005, la quale ha confermato la sentenza di merito, che, non avendo i ricorrenti allegato che il bene fosse nel possesso della controparte, aveva escluso la finalità recuperatoria e qualificato la domanda proposta come azione di accertamento del diritto di proprietà: ed infatti l'azione di rivendicazione si distingue da quella di mero accertamento della proprietà, in cui si ha interesse ad una decisione giudiziale che confermi l'esistenza del diritto in capo all'attore, ma non si chiede la restituzione del bene, che normalmente è nel possesso dell'attore, come chiarito da Cass. n. 6258/2009; Cass. n. 12300/1997; Cass. n. 7894/2000). Sul piano probatorio, chi agisce nei confronti di colui che non ha alcun titolo a giustificazione della disponibilità materiale del bene oggetto della controversia al fine di ottenerne la restituzione deve dimostrare un acquisto a titolo originario del bene oggetto di giudizio da parte sua ovvero da parte di uno dei propri danti causa (Cass. SU n. 7305/2014, che fissato il discrimen tra azione di rivendicazione ed azione di restituzione, di cui subito si dirà).

Dall'azione reale di rivendicazione vanno distinte le azioni restitutorie di natura personale, le quali si fondano non sul titolo di proprietà (sicché non è richiesta la relativa prova: Cass. n. 2392/2002; Cass. n. 13605/2000), ma su un obbligo di restituzione di natura per l'appunto personale, quali la nullità o la caducazione del titolo di trasferimento della proprietà, la scadenza contrattuale, ecc., sicché l'attore può limitarsi a fornire la dimostrazione dell'avvenuta consegna della cosa in base ad un titolo e del successivo venir meno di quest'ultimo per qualsiasi causa (Cass. n. 2092/2000). L'azione di rivendicazione e quella di restituzione possono non solo proporsi in via alternativa o subordinata, ma anche trasformarsi l'una nell'altra nel corso del giudizio (Cass. n. 23086/2004; Cass. n. 4416/2007; Cass. n. 1929/2009; Cass. n. 26003/2010; Cass. n. 884/2011; Cass. S.U., n. 7305/2014).

L'azione di rivendicazione contempla espressamente il risarcimento del danno nella sola ipotesi in cui il possessore o detentore abbia cessato per fatto proprio, dopo l'introduzione della domanda, di possedere o detenere la cosa, nel qual caso egli è obbligato a recuperarla per l'attore a proprie spese o, in mancanza, a corrispondergli il valore, oltre a risarcirgli il danno.

A fianco del rimedio restitutorio, rimane salvo il diritto del proprietario di agire, se del caso simultaneamente all'esercizio dell'azione di rivendicazione o dell'azione personale di restituzione di volta in volta esercitabile, con l'azione risarcitoria, azione di carattere personale che, in mancanza di una previsione esplicita, eccezion fatta per la citata ipotesi di cui all'art. 948, comma 1, c.c., trova il suo fondamento nella previsione di ordine generale dettata dall'art. 2043 c.c..

Può darsi tuttavia il caso che l'azione risarcitoria sia l'unico strumento a disposizione del proprietario, non potendo quest'ultimo avvalersi dell'azione di rivendicazione. In generale, l'art. 2058, comma 2, c.c., il quale conferisce al giudice la facoltà di disporre che il risarcimento del danno avvenga per equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, non è applicabile con riguardo alle azioni rivolte alla difesa di diritti reali, rispetto alle quali la tutela giurisdizionale si attua sempre mediante la restitutio in integrum del diritto leso, mentre il risarcimento per equivalente configura nelle stesse un'eventuale sanzione accessoria da applicarsi in aggiunta all'ordine di rimessione in pristino (Cass. n. 4812/1984, concernente azione promossa dal proprietario di un fondo per la rimozione di opere su di esso abusivamente costruite). Nondimeno, poiché l'azione di rivendicazione ha per oggetto la restituzione del medesimo bene che l'attore afferma essere posseduto o detenuto dal convenuto, nel caso in cui questo sia venuto a mancare per distruzione, per alienazione ad altro soggetto o per altra causa, già prima del processo, è esperibile soltanto, qualora ne ricorrano gli estremi, l'azione personale di risarcimento dei danni diretta ad ottenerne il valore pecuniario (Cass. n. 5702/2001; Cass. n. 1207/1992).

Con riguardo all'occupazione senza titolo di un immobile altrui la giurisprudenza è divisa tra i sostenitori della tesi del danno in re ipsa (Cass. n. 20823/2015; Cass. n. 9137/2013; Cass. n. 24100/2011), sul presupposto dell'utilità normalmente conseguibile nell'esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene medesimo, insite nel diritto dominicale, oggetto di una presunzione iuris tantum che non opera solo ove risulti positivamente accertato che il dominus si sia intenzionalmente disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso ogni forma di utilizzazione, e coloro che, movendo da Cass. S.U., n. 26972/2008, ritengono che, anche in ipotesi di occupazione senza titolo di immobile, ai fini del risarcimento, occorre sempre che all'evento consistente nella abusiva utilizzazione del bene faccia comunque seguito un danno-conseguenza, consistente in un'effettiva lesione del patrimonio del danneggiato, bisognoso di prova da parte di quest'ultimo (Cass. n. 15111/2013; Cass. n. 378/2005). Di recente, pur evidenziando la diversità di presupposti tra le due posizioni, è stato osservato che, anche aderendo all'impostazione più rigorosa, la valutazione circa l'esistenza in concreto del pregiudizio può essere effettuata ricorrendo al ragionamento presuntivo (Cass. n. 19655/2015).

Azione negatoria e risarcimento del danno

L'art. 949 c.c., dettato in tema di azione negatoria, contempla come si è visto al comma 1 l'azione diretta a far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, in presenza di un timore di pregiudizio, e, al comma 2, l'azione diretta alla cessazione delle turbative o molestie «oltre la condanna al risarcimento del danno». Secondo la dottrina si tratta di due azioni distinte, negatoria di accertamento e negatoria di danni: la prima è in senso proprio un'azione a tutela della proprietà; la seconda è una ordinaria azione di risarcimento dei danni, disciplinata dalle regole proprie dell'illecito civile (Barbero, 71). Sicché, come è regola in materia di responsabilità aquiliana, la legittimazione attiva spetta a cinque abbia subito un pregiudizio godimento della cosa.

Anche la S.C. distingue tra azione negatoria e azione di danni. Si trova affermato così che l'actio negatoria servitutis non è esercitabile dal proprietario quando, pur verificandosi una molestia o turbamento del possesso o godimento del bene, la turbativa non si sostanzi in una pretesa di diritto sulla cosa, in tal caso essendo apprestati altri rimedi di carattere essenzialmente personale. Per altro verso, non è precluso a colui che abbia ottenuto, con sentenza passata in giudicato, declaratoria di inesistenza sul suo fondo di una servitù di passaggio, di agire in giudizio per far cessare il comportamento del proprietario dell'altrui fondo che ne abbia continuato l'esercizio nonostante il giudicato sfavorevole (Cass. n. 3389/2009; Cass. n. 13710/2011).

La pretesa risarcitoria può talora essere avanzata anche nei confronti di soggetti diversi dal proprietario del fondo dominante. Ed infatti il principio secondo il quale unico legittimato passivo rispetto ad un'actio negatoria servitutis è il proprietario del fondo (asseritamente) dominante trova il suo limite nell'ipotesi in cui il terzo costruttore sia stato chiamato in giudizio per il risarcimento dei danni, essendo legittimamente predicabile la di lui (co)legittimazione passiva in ordine a tale, concorrente azione risarcitoria (Cass. n. 1553/2005).

La proprietà edilizia

Quello del risarcimento del danno da lesione del diritto di proprietà costituisce principio informatore che regola anche i rapporti di vicinato in tema di proprietà immobiliare, al fine di assicurare a ciascun proprietario l'effettivo esercizio del suo diritto. L'esercizio del diritto di proprietà incontra così un limite nella necessità di non menomare la proprietà del vicino che, eventualmente, ha diritto di essere risarcito, ricorrendone i presupposti, ex art. 2043 c.c. (p. es. Cass. n. 1260/2008, in fattispecie avente ad oggetto la caduta di foglie in quantità dall'albero del fondo confinante che avevano intasato la grondaia e i tombini della proprietà contigua). Ciò trova fondamento nella previsione dell'art. 872, comma 2, c.c., secondo cui colui che per effetto della violazione delle norme di edilizia ha subito un danno deve essere risarcito, potendo altresì ottenere la riduzione in pristino nei limiti ivi previsti.

È stato osservato, in proposito, che la previsione dettata dall'art. 2043 c.c. risulta richiamata in tutta una serie di sentenze relative a casi di violazione della proprietà edilizia (Fusaro-Galletto, 78; Galletto, 79, 154).

In detto ambito si manifesta una interferenza fra la disciplina pubblicistica e quella dettata dal codice civile in materia di costruzioni. Al proprietario danneggiato da un immobile eretto in forza di una concessione edilizia illegittima viene, infatti, offerta una «doppia tutela»: il soggetto leso dalla violazione delle norme di edilizia è titolare — ha affermato la S.C. — di una duplice tutela, potendo chiedere sia la riduzione in pristino sia il risarcimento dei danni, senza che ciò implichi necessariamente la proposizione di ambedue le domande, né che una di esse sia subordinata alla preventiva proposizione dell'altra (Cass. n. 1313/73; Cass. n. 6402/1984).

Si afferma, d'altro canto, che la costruzione priva di concessione edilizia non lede, di per sé, alcun diritto soggettivo, e non è pertanto fonte di responsabilità. La rilevanza giuridica della concessione edilizia, difatti, si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati, dato che il conflitto tra proprietari, interessati in senso opposto alla costruzione, va risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell'opera e le norme edilizie che la disciplinano, tra le quali non possono comprendersi quelle di cui agli artt. 31 della l. 17 agosto 1942, n. 1150 e 4 della l. 28 gennaio 1977, n. 10 (illo tempore vigenti), concernenti rispettivamente la licenza e la concessione per costruire, norme, queste, che riguardano solo l'aspetto formale dell'attività costruttiva e non contengono «regole da osservarsi nelle costruzioni», come richiesto dall'art. 871 c.c.. Pertanto, come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l'avere eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento del danno (Cass. n. 4208/1987; Cass. n. 8476/1995; Cass. n. 342/1997; Cass. n. 2777/1997; Cass. n. 7892/1999; Cass. SU n. 24/2000; Cass. n. 12405/2007).

Ove non sia esperibile l'azione reale resta comunque azionabile l'azione risarcitoria. Qualora il proprietario di un fondo, insorgendo avverso la costruzione abusivamente realizzata sul fondo del vicino, agisca, contro il medesimo soggetto, con azione reale per conseguire la demolizione di tale opera, e con azione personale per conseguire il risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di un proprio fabbricato per effetto di quella costruzione, il riscontro del difetto di legittimazione passiva di detto convenuto, in ordine alla azione reale, in quanto non proprietario dell'immobile confinante, non osta a che il convenuto stesso possa essere condannato al ristoro dei predetti danni, a titolo di responsabilità aquiliana ed in qualità di autore dell'indicato fatto lesivo, ancorché non detentore né possessore del predetto fondo confinante (Cass. 2558/80).

La S.C. ha più volte ribadito che con riguardo alle norme dei regolamenti locali edilizi, hanno carattere integrativo degli artt. 873 ss. c.c. quelle dirette a completare, rafforzare, armonizzare con il pubblico interesse di un ordinato assetto urbanistico la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato. Non rivestono invece tale carattere le norme che hanno come scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici, quali la limitazione del volume, dell'altezza e della densità degli edifici, le esigenze dell'igiene, della viabilità, la conservazione dell'ambiente ed altro. In questa seconda ipotesi, la tutela accordata al privato nel caso di violazione della norma rimane limitata al risarcimento del danno eventualmente subito (Cass. n. 5508/1994; Cass. n. 10775/1994; Cass. n. 7154/1995; Cass. n. 7185/1997; Cass. n. 5719/1998; Cass. n. 16094/2005). È stato poi ripetuto che il proprietario del fondo danneggiato da opere eseguite sul fondo del vicino, in violazione delle distanze legali, può esperire, oltre all'azione risarcitoria, di natura obbligatoria, quella ripristinatoria, di natura reale, ex art. 872 c.c.. La prima, mirando al ristoro del pregiudizio patrimoniale conseguente all'edificazione illegittima, è esercitatabile anche nei confronti dell'autore materiale di questa mentre la seconda, volta all'eliminazione fisica delle modifiche apportate sul fondo contiguo, va necessariamente proposta nei confronti del proprietario della costruzione, anche se materialmente realizzata da altri, potendo egli soltanto essere destinatario dell'ordine di demolizione che il ripristino delle distanze legali tende ad attuare (Cass. n. 458/2016; Cass. n. 14351/2000).

Ricorre inoltre responsabilità aquiliana in caso di opere realizzate senza l'osservanza delle comuni regole di diligenza e prudenza, ove esse arrechino pregiudizio a terzi, ivi incluso il proprietario del fondo limitrofo (Cass. n. 3565/1988; Cass. n. 4207/2001). Perciò, colui che fa eseguire sul suo fondo opere o scavi risponde del danno provocato al fondo confinante, anche se l'esecuzione dei lavori sia stata data in appalto (Cass. n. 2988/1989; Cass. n. 6473/1997; Cass. n. 4577/1998; Cass. n. 1954/2003; Cass. n. 6104/2006; Cass. n. 5273/2008).

Anche in materia di condominio il regolamento dei rapporti tra i proprietari di distinte unità immobiliari non si esaurisce con le disposizioni relative ai rapporti di vicinato tra due proprietà finitime (emulazione, immissioni e servitù); detti rapporti sono disciplinati anche dalle regole generali sulla responsabilità civile, essendo obbligato ciascun condomino propter rem a non eseguire nel piano o porzioni di piano di sua proprietà opere che rechino danno alle parti comuni o di proprietà esclusiva di altri condomini (Cass. n. 12152/1993).

La natura personale dell'azione risarcitoria rileva altresì ai fini dell'individuazione del legittimato a pretendere il risarcimento nel caso di alienazione del bene danneggiato: il diritto al risarcimento dei danni spetta a colui che era proprietaria al momento dell'evento dannoso, avendo la pretesa risarcitoria natura autonoma rispetto al diritto di proprietà, così da non seguire il diritto di proprietà in caso di alienazione, salvo che non sia convenuto il contrario (Cass. S.U. n. 2951/2016).

Lesione del diritto di proprietà e danno non patrimoniale

È noto il principio affermato dalle S.U. nel 2008, secondo cui il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi «previsti dalla legge», e cioè, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.: a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (Cass. S.U. n. 26972/2008).

Posto, dunque, che la lesione della proprietà tale da integrare una condotta di reato (si pensi anzitutto al caso del danneggiamento) può senz'altro determinare il sorgere di un danno non patrimoniale risarcibile, occorre chiedersi, più in generale, e lasciando da parte la condivisibilità dell'impostazione seguita dalla S.C., se il diritto di proprietà sia o meno, nel nostro sistema, un diritto inviolabile dalla cui lesione può generarsi danno non patrimoniale risarcibile.

Già nella Dèclaration des droits de l'home et du citoyen il diritto di proprietà è definito «sacro e inviolabile» (art. 17). La proprietà è menzionata quale diritto inviolabile anche nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. L'art. 1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione stabilisce, infatti, che ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni e che nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. In Italia la Costituzione, all'art. 42, comma 2, stabilisce che la proprietà privata «è riconosciuta e garantita dalla legge», che ne determina tra l'altro «i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Il verbo «riconoscere» è secondo alcuni indicativo del carattere inviolabile del diritto di proprietà: diritti riconosciuti sarebbero cioè quelli preesistenti, che l'ordinamento non può creare ma neppure cancellare. Secondo altri «riconoscere» sta soltanto nel senso di «considerare lecito o legittimo» (sul tema, che può qui essere solo sfiorato, varrà ricordare almeno la pronuncia della Cedu Scordino c. Italia del 29 marzo 2006, n. 36813, in Europa e dir. priv., 2007, 2, 541; in Riv. dir. internaz., 2006, 4, 1097, e, all'esito, Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in Giust. civ., 2008, 1, I, 51, con note di Duni e Stella Richter; in Resp. civ. prev., 2008, 1, 52, con nota di Mirate; in Giur. cost., 2007, 5, 3475, con note di Pinelli e Moscarini).

In tale quadro la decisione delle S.U. del 2008 ha affermato che ai diritti contemplati dalla «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo... non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poiché la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, né può essere parificata, a tali fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno» (v. in proposito le ruvide obiezioni di Galgano, 883). Sta di fatto, tuttavia, che oggi bisogna fare riferimento all'articolo 6 della versione consolidata del Trattato sull'Unione Europea, il quale stabilisce che: «L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali» (comma 2, prima parte), e che: «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali». La qual cosa rende difficile negare, ormai, coniugando l'articolo 42 della Costituzione con la Convenzione europea, per il tramite del Trattato, che la proprietà sia un diritto inviolabile, il che induce a dubitare dell'esattezza dell'affermazione secondo cui «il diritto di proprietà privata non costituisce un valore assoluto, un diritto fondamentale inviolabile, ma un diritto che esiste secondo la previsione della legge» (Cass. pen. n. 20636/2014).

Anche parte della giurisprudenza di merito tende ad escludere la risarcibilità dei danni non patrimoniali da lesione del diritto di proprietà (Trib. Napoli, sez. dist. Pozzuoli, 14 febbraio 2011; Tar Toscana n. 950/2011). Sembra tuttavia ampliarsi l'orientamento favorevole al risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del diritto di proprietà.

Si può accennare ad un tema, quello del danno da immissioni eccedenti la soglia della normale tollerabilità, ex art. 844 c.c., che nel corso degli anni è stato un collaudato banco di prova del risarcimento del danno non patrimoniale. La disciplina delle immissioni è indubbiamente posta a tutela della proprietà: essa regola i rapporti tra proprietari in ordine a usi della cosa potenzialmente lesivi. La S.C. ammette l'esercizio cumulativo dell'azione reale di immissioni e di quella aquiliana volta al risarcimento dei danni (Cass. S.U. n. 20571/2013; Cass. S.U. n. 4848/2013). In particolare l'azione, di natura reale, esperita dal proprietario del fondo danneggiato per l'accertamento della illegittimità delle immissioni e l'eliminazione, mediante modifiche strutturali, delle cause originanti le stesse, va proposta nei confronti del proprietario del fondo dal quale tali immissioni provengono e può essere cumulata con la domanda, proponibile verso altro convenuto, per responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., volta a conseguire il risarcimento del pregiudizio di natura personale da quelle cagionato (Cass. n. 23245/2016). Orbene, le immissioni, pur essendo considerate dal codice civile sotto l'aspetto del rapporto tra le proprietà, possono senz'altro arrecare pregiudizi di natura personale a chi le subisce. In un'occasione la S.C. affermato che il danno non patrimoniale determinato dalle emissioni di rumore non è risarcibile perché non esiste un diritto fondamentale alla tranquillità domestica (Cass. n. 5564/2010, Resp. civ. prev., 2010, I, 1519, con nota di Mazzola, Immissioni intollerabili, danno non patrimoniale e lettura costituzionalmente orientata dell'art. 844 c.c.; e già Cass. n. 8420/2006, in Giust. civ., 2007, I, 459, con nota di Costanza, Evoluzioni ed involuzioni giurisprudenziali in tema di immissioni). Viceversa, è stata confermata la condanna a € 10.000 inflitta al proprietario di un bar per le immissioni moleste subite da alcuni condòmini fiorentini, i quali per lungo tempo si erano visti costretti a subire gli effetti fastidiosi e insalubri del fumo passivo di sigarette, e obbligati in particolare a tenere chiuse le finestre, anche in piena estate, per salvaguardare il proprio benessere (Cass. n. 7875/2009; v. pure Cass. n. 9434/2012, che ha confermato la pronuncia di risarcimento del danno non patrimoniale determinato dall'utilizzo di un pianoforte; nella giurisprudenza di merito v. Trib. Bassano del Grappa 20 luglio 2010; Trib. L'Aquila 28 ottobre 2009). Un giudice di merito, in particolare, ha affermato che, in caso di immissioni di rumore, il diritto inviolabile leso c'è, ed è per l'appunto il diritto di proprietà (Trib. Firenze 21 gennaio 2011, n. 147, Resp. civ. prev., 2011, 1296, con nota di Ziviz, La scivolosa soglia dei diritti inviolabili).

Parimenti, attraverso il richiamo degli artt. 2 e 42 Cost. e della normativa e giurisprudenza sovranazionale, la proprietà è stata ricondotta alla categoria dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, con conseguente riconoscimento del risarcimento del danno derivante dai notevoli disagi cagionati dalla presenza di una ditta appaltatrice all'interno di una villa durante l'esecuzione di alcuni lavori (Trib. Palermo,Sez. Distaccata di Monreale, 18 giugno 2010). Il giudice ha valorizzato i rapporti tra l'ordinamento interno ed il diritto sovranazionale che, così come delineati da Corte cost. n. 347/2007 e Corte cost. n. 348/2007. La decisione richiama le ricordate disposizioni normative della Cedu e della Carta Europea dei diritti fondamentali che — non distinguendo «in seno ai diritti fondamentali tra diritti civili, sociali o economici (ma soltanto tra diritti assolutamente incomprimibili, quali il diritto alla vita, il divieto di tortura e di trattamenti disumani, e diritti che possono, nel rispetto delle condizioni previste dalla legge, subire delle limitazioni che non ne scalfiscono la sostanza)» — tutelano il diritto al rispetto dei propri beni come diritto fondamentale e quindi come un diritto umano. Analoghe conclusioni sono state raggiunte in un caso di richiesta di risarcimento per i danni subiti a causa di infiltrazioni d'acqua in appartamenti siti all'interno di un complesso condominiale (Trib. Trieste 9 dicembre 2013, n. 986). Anche in questo caso decisivo è il riferimento alla normativa sovranazionale, che fa rientrare il diritto dominicale nella categoria dei diritti fondamentali. Nello stesso senso di è pronunciato Trib. Vercelli del 12 febbraio 2015 a definizione di un procedimento instaurato al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti sempre a causa di infiltrazioni d'acqua in un'unità immobiliare.

Beni d'affezione

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del diritto di proprietà desta interesse la questione se possa essere attribuito rilievo al valore d'affezione dei beni oggetto della lesione. Per beni di affezione intendiamo invece quelle cose con cui il proprietario abbia un legame squisitamente sentimentale. Come è stato detto, nella vita quotidiana gli oggetti, oltre ad arricchire il patrimonio di una persona, sono fonte di sentimenti, affetti, ricordi, in misura certo inferiore rispetto a quanto non avvenga per il proprio corpo, le persone care, gli amici e gli animali, ma non insignificante. Non può negarsi che la perdita di una vecchia fotografia, la morte di un albero del proprio giardino, il danneggiamento di un'automobile siano fonte di dispiacere più o meno intenso per il proprietario del bene o per altre persone che a quel bene abbiano interesse, in relazione alle modalità con cui è utilizzato, all'occasione in cui è stato acquistato o ricevuto in dono, alla persona che lo ha usato in passato o lo ha lasciato in eredità, insomma un legame affettivo tra la persona e il bene (Armone, 2244).

Secondo la tradizione «pretia rerum non ex affectu, nec ex singolorum utilitate, sed communiter funguntur» (D., 35, 2, 63, ad legem Falcidiam). Una «utilitas» esclusivamente «singolorum», ad esempio, è stata giudicata l'attitudine di un fondo a fungere da pascolo per il bestiame del proprietario: sicché è stata disattesa — con tutta probabilità anche per ragioni di contenimento del risarcimento dettate da puro buon senso — la pretesa risarcitoria spiegata per la perdita della proprietà del fondo in conseguenza della c.d. accessione invertita (Cass. SU n. 762/1998). Sicché, in tal caso, non il valore d'affezione, ma neppure il valore d'uso è stato considerato nella liquidazione del quantum. Sul principio che le cose si valutano al non ex affectu, la lesione del valore affettivo di un bene non può essere dunque oggetto di risarcimento, per «l'irrilevanza dell'atteggiamento psichico soggettivo del danneggiato, relativamente a quel determinato bene» (Ravazzoni, 93). Altri ritengono che il danno arrecato al valore affettivo della cosa abbia natura di danno morale, soggetto alla disciplina relativa (De Cupis, 357).

La giurisprudenza, per parte sua, ha talora riconosciuto il rilievo della natura amatoriale (cosa diversa, però, dal rilievo affettivo) di un bene. È stato affermato che: «Il ristoro del danno risentito nelle ipotesi di mancata consegna al legittimo proprietario di un oggetto antico, costituente un «pezzo unico», va considerato con riguardo non solo a valore oggettivo di detto oggetto (identificabile in quella che si precisa la «perdita subita dal creditore») ma, stante la natura del bene, va altresì considerato con riguardo al valore di amatore, al prezzo cioè che il danneggiato dovrebbe sborsare per acquistare, sul mercato dell'antiquariato, quello stesso oggetto, la cui privazione, attesa la sua specifica natura, assume un rilievo particolare» (Trib. Venezia 30 aprile 1965, Corti Brescia Venezia Trieste, 1965, 475). In tempi meno remoti, il tribunale di Milano ha esaminato il caso del tentato furto di una moto ed ha risarcito il danneggiato, a titolo, testualmente, di «danno morale affettivo», con Lire 1.000.000. La vittima del tentato furto, infatti, «25 anni all'epoca dei fatti, aveva acquistato la moto con i primi guadagni della sua attività lavorativa, realizzando con sacrificio un desiderio a lungo accarezzato. L'aver visto la moto nuova danneggiata dai ladri ha provocato nella psiche dell'attore un trauma certamente non grave per intensità, ma, tuttavia, suscettibile di tutela risarcitoria sotto la voce del danno morale» (Trib. Milano 27 novembre 2000, in Resp. civ. prev., 2001, 669). La pronuncia, in linea di principio, è stata giudicata tutt'altro che eccentrica: «Per quanto attiene ad automobili e motociclette, peraltro, il tema è noto da tempo anche al civil law: già nel 1955 il tribunale francese di Le Mans risarcisce la distruzione della vecchia auto, e se il caso si fosse presentato al tribunale di Modena ci si sarebbe potuti attendere una soluzione analoga» (Monateri, 22). Va ricordato quindi il caso di uno scultore che aveva subito, durante un trasporto di merci, il furto di alcune sue sculture. Il giudice ha risarcito non soltanto il danno patrimoniale commisurato al valore delle opere, ma anche la perdita esistenziale prodotta dalla sopravvenuta impossibilità, per lo scultore, di documentare una parte del suo percorso artistico, di cui le opere erano testimonianza. Secondo il Tribunale di Venezia, infatti, la sottrazione delle sculture impediva definitivamente una completa conoscenza e ricostruzione storico-critica del lavoro, incidendo così «sulla più intima sfera personale, finendo per distruggere un tratto della sua esistenza» (Trib. Venezia 7 aprile 2003, Danno e resp., 2004, 79). Un altro caso un cui viene in questione il valore di affezione è quello, anch'esso peculiare, dello smarrimento delle ceneri dei genitori di un uomo, morti all'estero in un sinistro, le quali erano state perdute durante le operazioni di scarico dei bagagli, privando così il figlio della «corrispondenza d'amorosi sensi» con i cari estinti (Trib. Busto Arsizio 28 gennaio 2005, Il Merito-Il Sole24Ore, 2005, 9, 9).

L'occupazione appropriativa

Un cenno finale va fatto all'occupazione c.d. appropriativa, figura come vedremo ormai giunta al tramonto, creata da una giurisprudenza pretoria che ha avuto nella materia un enorme impatto protrattosi per quasi un trentennio. La S.C. ha affermato che qualora la pubblica amministrazione (od un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica, e tale occupazione sia illegittima, per la mancanza di un provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configuri legittima, la radicale trasformazione del fondo medesimo, con irreversibile destinazione nella realizzazione di detta opera, comporta l'estinzione del diritto dominicale del privato, e la sua contestuale acquisizione a titolo originario in capo all'ente costruttore (con le ulteriori conseguenze del diritto del privato al risarcimento del danno e dell'irrilevanza di un provvedimento di espropriazione successivamente intervenuto), tenuto conto che l'indicata vicenda, implicando la perdita da parte del privato di ogni facoltà di godimento e di disposizione del bene, in via permanente o comunque a tempo indeterminato, non è compatibile con la permanenza del suo diritto di proprietà, e che, inoltre, l'esecuzione dell'opera dà vita ad un nuovo bene immobile (demaniale o patrimoniale indisponibile), di natura pubblicistica, il quale non può non sottrarsi, nel suo complesso (inclusa l'area), alla disciplina privatistica di cui agli artt. 934 e segg. c.c., per ragioni di prevalenza degli interessi generali su quelli individuali (Cass. S.U. n. 3940/1988).

La figura in questione, sottoposta a censure dalla Cedu (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo 30 maggio 2000, rich. n. 24638/94, Carbonara e Ventura, e Corte Europea dei Diritti dell'Uomo 30 maggio 2000, rich. n. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera, secondo cui un comportamento illecito, nel cui ambito rientrano sia l'occupazione appropriativi che quella usurpativa, non può mai fondare l'acquisto di un diritto in quanto una tale conseguenza sarebbe in palese contrasto con il principio di legalità), è stata regolata dall'art. 43 d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, attribuendo all'amministrazione la facoltà di acquistare il diritto di proprietà del bene irreversibilmente trasformato e destinato ad opera pubblica sulla base di una valutazione della pubblica utilità. La norma è stata poi dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte cost. n. 293/2010) ma in seguito sostanzialmente reintrodotta all'art. 42-bis dello stesso testo normativo.

La norma, nuovamente sottoposta al giudizio di costituzionalità (Cass. S.U. n. 442/2014) va letta oggi alla luce della radicale svolta della giurisprudenza di legittimità secondo cui: a) in materia di espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui l'espropriazione deve sempre avvenire in «buona e debita forma», comporta che l'illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto dell'area da parte dell'Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente; b) l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte della P.A., allorché il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, integra un illecito di natura permanente che dà luogo ad una pretesa risarcitoria avente sempre ad oggetto i danni per il periodo, non coperto dall'eventuale occupazione legittima, durante il quale il privato ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal bene sino al momento della restituzione, ovvero della domanda di risarcimento per equivalente che egli può esperire, in alternativa, abdicando alla proprietà del bene stesso. Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento del bene, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente (Cass. S.U. n. 735/2015).

Bibliografia

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