Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.

Fabio Antezza

Risarcimento per fatto illecito.

[I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.]  12.

 

[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209.

[2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24

Inquadramento

La tutela aquiliana delle aspettative patrimoniali presuppone che esse siano non di mero fatto bensì giuridicamente rilevanti, cioè considerate degne di tutela da parte dell'ordinamento giuridico. Ciò in applicazione del più generale principio per il quale la normativa sulla responsabilità ex art. 2043 c.c. ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, cioè inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale ed in particolare senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo.

Peraltro, avuto riguardo al carattere atipico del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela. Spetta, pertanto, al giudice, attraverso un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensità, l'ordinamento appresta tutela risarcitoria all'interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una esigenza di protezione (ex plurimis Cass. S.U., n. 500/1999).

La tematica in esame involge la risarcibilità della lesione di aspettative patrimoniali da perdita o lesione di familiare, frutto di risalente elaborazione giurisprudenziale che, a data condizioni, riconosce legittimazione attiva – sostanziale – anche ai nipoti.

La lesione delle aspettative patrimoniali è terreno elettivo anche per l'elaborazione del c.d. danno da perdita di chance (patrimoniali). La teorizzazione in esame risente anche dell'evoluzione giurisprudenziale in tema d'individuazione e prova del nesso di causalità che evidenzia l'approdo del criterio della «preponderanza dell'evidenza» o «del più probabile che non» (anche detto della «probabilità relativa»), ispirato alla regola della «normalità causale».

Aspettative patrimoniali da perdita o lesione di familiare

La risarcibilità della lesione di aspettative patrimoniali da perdita o lesione di familiare è frutto di risalente elaborazione giurisprudenziale. Emblematica è sul punto una risalente sentenza di legittimità, riferita a fattispecie anteriore alla riforma del diritto di famiglia, inerente il danno da «perdita del capo famiglia».

Essa difatti statuisce che «il danno patrimoniale subito da una famiglia a seguito della morte del suo capo» è costituito dalla perdita di quella parte di reddito economico che, prodotto dalla attività lavorativa del defunto, sarebbe stato destinato alla famiglia stessa. Correlativamente, la liquidazione di tale danno richiede due calcoli distinti, l'uno, preventivo, volto alla determinazione del reddito economico presumibilmente conseguibile nel corso della vita lavorativa dalla vittima, l'altro, successivo, volto alla determinazione della parte di questo reddito che sarebbe stata destinata alla famiglia. Nella determinazione della parte di reddito destinata ai bisogni della propria famiglia va tenuto conto della entità e natura di tali bisogni e, fra l'altro, delle rispettive componenti di età, salute fisica, capacita psico- intellettive ed attitudine al lavoro dei familiari. Il raggiungimento da parte dei figli della maggiore età o della idoneità al lavoro produttivo non segna un limite invalicabile della risarcibilità del danno derivato dalla morte del genitore, stante l'aspettativa dei superstiti di poter beneficiare degli eventuali risparmi che il defunto avrebbe costituito con la parte di reddito non destinata a se stesso ed alla sua famiglia.

In questi termini di esprime Cass. III, n. 1920/1970 la quale precisa altresì che affinché possa operare la compensatio lucri cum damno è necessario che il pregiudizio e l'incremento patrimoniale dipendano dallo stesso fatto illecito, che si presentino, cioè, come effetto del medesimo fatto avente in sé l'idoneità a determinarli entrambi. Tale situazione non si verifica quando, a seguito della morte della persona offesa, ai congiunti superstiti, aventi diritto al risarcimento del danno, sia stata concessa una pensione da un ente di previdenza o di assistenza. Tale pensione trae difatti la sua fonte e la sua ragione giuridica da un titolo diverso e indipendente dal fatto illecito, rappresentando l'evento morte soltanto la condizione perché quel titolo spieghi la sua efficacia. Di conseguenza, in tale ipotesi l'ammontare della pensione non può essere detratto dalla somma dovuta a titolo di risarcimento danni ai congiunti superstiti della parte lesa.

In materia l'elaborazione giurisprudenziale è fervida con riferimento a molteplici fattispecie che vanno dalla perdita o lesione personale di un figlio a quella di un genitore o del coniuge e con riferimento a molteplici tipologie di aspettative patrimoniali assunte come lese.

A norma dell'art. 2043 c.c., ai prossimi congiunti di un soggetto, deceduto in conseguenza del fatto illecito addebitabile ad un terzo, compete il risarcimento del danno anche patrimoniale, purché sia accertato in concreto che i medesimi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a beneficiare in futuro.

In particolare, Cass. III, n. 3549/2004 ha ritenuto che la sentenza di merito avesse fatto corretta applicazione di questo principio, escludendo la risarcibilità del danno patrimoniale da morte del figlio in capo ai genitori conviventi, avendo accertato che il figlio convivente, ventitreenne, già percepiva un reddito da attività lavorativa e non versava ai parenti una somma superiore a quella occorrente al suo mantenimento, né vi erano elementi per ritenere che tanto avrebbe potuto verificarsi in futuro.

Sempre in tema di danno per lesione di aspettative patrimoniali ricollegato alla perdita (o lesione grave) di un figlio, la successiva Cass. III, n. 8002/2005 chiarisce che tra le aspettative che la morte di un figlio fa venire meno per i genitori, alle quali deve essere commisurato l'ammontare del risarcimento a carico del responsabile dell'evento, vi è anche quella di un apporto del figlio all'attività economica del padre (o della famiglia) nel campo dell'industria, del commercio, dei mestieri, delle professioni. Sempre che tale apporto non si fondi su semplici speranze o su ipotetiche eventualità ma su una ragionevole previsione, affidata ad un criterio di ponderata probabilità, alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni e ai dati ricavabili dalla comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto. Ne consegue che, nel quadro dei pregiudizi attuali o futuri arrecati ai prossimi congiunti, può essere valutato come risarcibile anche il venire meno del contributo personale di capacità tecnica, di esperienza, di personale interesse che la vittima apportava o, con tutta probabilità, avrebbe apportato alla gestione tecnica o amministrativa di un'azienda di tipo esclusivamente o prevalentemente familiare. Quanto detto è suscettibile di concretizzarsi soprattutto in funzione di quel particolare vantaggio che allo sviluppo economico dell'impresa sarebbe derivato dalla particolare qualità, inerente alla vittima, di appartenente al nucleo familiare, che non permette, in termini di orari di lavoro e di costi, una sua completa parificazione a un qualsiasi dipendente esterno.

In applicazione dei principi di cui innanzi, Cass. IV, n. 4980/2006 ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto raggiunta la prova che la ricorrente non fosse a carico del figlio deceduto a seguito dell'infortunio sul lavoro. Pertanto, in difetto del riscontro che ella fosse stata privata di utilità economiche di cui già beneficiava, non poteva presumersi che in futuro la stessa ricorrente avrebbe ricevuto dal figlio, ove questi fosse rimasto in vita, una somma superiore a quella occorrente al proprio mantenimento, né tale presunzione si sarebbe potuta fondare sul mero dato della convivenza.

Sotto il profilo eziologico, Cass. III, n. 4791/2007 fa esplicito riferimento alla necessità che il danno patrimoniale futuro (per perdita di familiare), sulla scorta di oggettivi e ragionevoli criteri rapportati alle circostanze del caso concreto, si prospetti come effettivamente probabile sulla scorta di parametri di regolarità causale.

La citata Suprema Corte ritiene ricorrenti i detti parametri nel caso in cui il giovane deceduto, anche alla luce del tipo di studi intrapreso, avrebbe presumibilmente trovato un utile impiego, la cui retribuzione, al di là della sua ipotetica entità, sarebbe senz'altro stata devoluta, almeno in parte, ai bisogni familiari, e, perciò, dei prossimi congiunti istanti. Nella specie, è stata cassata la sentenza impugnata che non si era conformata al principio enunciato ed ai criteri presuntivi individuati. Era stato in particolare negato il riconoscimento del suddetto danno patrimoniale futuro in favore della madre di un giovane, figlio unico convivente, deceduto in conseguenza di un incidente stradale, sul presupposto che non svolgeva, al momento della scomparsa, alcuna attività lavorativa, né aveva acquisito alcuna qualifica professionale, frequentando soltanto un corso di elettronica ed esercitando una mera attività amatoriale, sicché non era presumibile che egli avrebbe trovato in breve tempo lavoro, né che la sua retribuzione avrebbe permesso di versare un contributo alla madre, vedova e pensionata.

Affinché i genitori di una persona di giovane età, deceduta per colpa altrui, possano ottenere il risarcimento del danno patrimoniale per la perdita degli emolumenti che il figlio avrebbe loro verosimilmente elargito una volta divenuto economicamente autosufficiente, non è però sufficiente dimostrare né la convivenza tra vittima ed aventi diritto né la titolarità di un reddito da parte della prima, essendo necessario dimostrare o che la vittima contribuiva stabilmente ai bisogni dei genitori, ovvero che questi, in futuro, avrebbero verosimilmente e probabilmente avuto bisogno delle sovvenzioni del figlio (Cass. III, n. 7272/2012).

A tale ultimo specifico riguardo, Cass. III, n. 8333/2004 precisa che l'attore deve provare che, sulla base dell'insieme delle circostanze attuali, sia pronosticabile che in futuro egli si possa trovare in uno stato di indigenza tale da aver bisogno della corresponsione di alimenti senza che nessun altro possa prestarli. Per le stesse ragioni, per dar prova della frustrazione dell'aspettativa ad un contributo economico da parte del familiare prematuramente scomparso, il congiunto ha l'onere di allegare e provare che il figlio deceduto avrebbe verosimilmente contribuito ai bisogni della famiglia. A tal fine la previsione va operata sulla base di criteri ragionevolmente probabilistici, non già in via astrattamente ipotetica, ma alla luce delle circostanze del caso concreto, conferendo rilievo alla condizione economica dei genitori sopravvissuti, alla età loro e del defunto, alla prevedibile entità del reddito di costui, dovendosi escludere che sia sufficiente la sola circostanza che il figlio deceduto avrebbe goduto di un reddito proprio.

In merito si vedano altresì, ex plurimis: Cass. III, n. 15641/2002, per la quale i prossimi congiunti possono assolvere al predetto onere probatorio anche facendo ricorso a presunzioni semplici, ma non possono limitarsi a far riferimento all'id quod plerumque accidit; Cass. III, n. 2962/2002 la quale fa riferimento al venir meno di aspettative di un contributo economico secondo un criterio di normalità ma ritenendo a tal fine non rilevante che i genitori stessi dispongano, al momento dell'evento, di fonti di reddito tali da rendere inutile qualsiasi contributo del figlio, salvo che la valutazione complessiva non consenta di presumere, al riguardo, l'assenza di mutamenti del quadro nel corso degli anni.

Nello stesso senso anche Cass. III, n. 11236/1997 che fa esplicito riferimento all'id quod interest. Essa in particolare, al pari delle sentenze innanzi evidenziate, ritiene irrilevante la circostanza per la quale i genitori della vittima abbiano, al momento dell'evento, adeguate fonti di reddito, dovendo ritenersi, all'uopo, sufficiente che la complessiva valutazione degli elementi del caso concreto (con il ricorso a dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza), evidenzi il suddetto pregiudizio in termini di verosimiglianza e possibilità, secondo un criterio di «normalità causale» in relazione ai futuri, presumibili bisogni. Pertanto, conclude la Suprema Corte, versandosi in tema di danno patrimoniale regolato dal principio dell'id quod interest (e, cioè, di una valutazione soggettiva del danno delineata dall'emergere di un interesse del creditore-danneggiato dotato di una veste costituzionalmente garantita), del tutto legittimo appare, nella specie, il ricorso a criteri ispirati a prudente apprezzamento equitativo, secondo una equità «circostanziata» che assicuri la reintegrazione anche patrimoniale del danno gravissimo subito dai genitori.

Ai fini dell'individuazione delle poste risarcibili, Cass. III, n. 10480/1996 fa riferimento anche alla perdita o diminuzione di quelle utilità economiche che, sia in relazione a precetti normativi (artt. 315 c.c., 433 c.c. e 230-bis c.c.) che per la pratica di vita improntata a regole etico sociali di solidarietà familiare e di costume, presumibilmente e secondo un criterio di normalità il soggetto venuto meno prematuramente avrebbe apportato. Ciò alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni e ai dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (si veda sul punto anche Cass. III, n. 3351/1988, per la quale il danno risarcibile che deve essere determinato prendendo come base il guadagno del defunto al momento del sinistro mortale non trova limite con riguardo alla quota di reddito della vittima che, in futuro, non configurando più un'aspettativa per il familiare – nella specie figlio divenuto maggiorenne – sarebbe rimasta nel patrimonio del defunto).

Il risarcimento spetta altresì anche nel caso in cui il deceduto per l'altrui fatto illecito avesse al momento dell'infortunio appena intrapreso una attività professionale remunerata.

In questo caso, ai suoi familiari spetta difatti il risarcimento del danno patrimoniale futuro, sulla base di una valutazione equitativa circostanziata ed a carattere satisfattivo che tenga conto della rilevanza del legame di solidarietà familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale.

In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la risarcibilità del danno patrimoniale futuro subito dai prossimi congiunti, non ritenendo emergessero elementi sufficienti per una valutazione equitativa a fronte della morte in un incidente stradale di un giovane medico, celibe e non convivente con la famiglia, che aveva da poco aperto un laboratorio dentistico (Cass. III, n. 14845/2007).

È sul punto conforme anche Cass. III, n. 3966/2012. Nella specie la decisione di merito aveva negato ad una giovane il risarcimento del danno patrimoniale futuro, con l'argomento che il padre naturale, deceduto in un sinistro stradale, non le versava, in vita, l'assegno di mantenimento. La Suprema Corte ha però cassato la sentenza in applicazione dell'enunciato principio ed osservando che l'uomo avrebbe potuto adempiere in futuro gli obblighi economici verso la figlia.

Con ulteriore riferimento all'onere probatorio, Cass. III, n. 759/2014 ribadisce che ai fini della liquidazione del danno patrimoniale futuro, patito dai genitori per la morte del figlio in conseguenza del fatto illecito altrui, è necessaria la prova, sulla base di circostanze attuali e secondo criteri non ipotetici ma ragionevolmente probabilistici, che essi avrebbero avuto bisogno della prestazione alimentare del figlio, nonché del verosimile contributo che il figlio avrebbe versato per le necessità della famiglia. In applicazione del medesimo principio Cass. III, n. 18177/2007 ha confermato la sentenza d'appello che aveva rigettato sul punto il proposito gravame, rilevando che il giovane solo occasionalmente coadiuvava i genitori nell'attività aziendale e che «nessun elemento lasciava presumere che il defunto avrebbe continuato a lavorare nell'azienda familiare».

Cass. III, n. 24435/2009 e Cass. III, n. 8546/2008, in fattispecie di lesioni gravemente invalidanti sulla futura capacità lavorativa in conseguenza di fatto illecito altrui, evidenzia che il risarcimento del danno patrimoniale futuro ai prossimi congiunti (nella specie di figlio di giovane età), da effettuarsi in base a parametri di regolarità causale, deve tenere conto della condizione economica dei genitori, della loro età e di quella del minore gravemente invalido, della prevedibile entità del reddito di costui, escludendo che sia sufficiente la sola circostanza che la vittima delle lesioni avrebbe goduto di un reddito proprio.

Cass. III, n. 4253/2012 estende anche ai nipoti la risarcibilità del danno patrimoniale per morte del congiunto ricollegato al pregiudizio subito per effetto del venir meno di prestazioni aggiuntive, in denaro o in altre forme comportanti un'utilità economica, erogate in vita dal deceduto, spontaneamente e in assenza di obbligo giuridico. Essa pone però quale condizione la persistenza di una situazione di convivenza ovvero di una concreta pratica di vita, in cui rientri l'erogazione di provvidenze all'interno della famiglia allargata, in mancanza della quale, non essendo altrimenti prevedibile con elevato grado di certezza un beneficio durevole nel tempo, non può sussistere perdita che si risolva in un danno patrimoniale.

I principi ed i criteri elaborati dalla giurisprudenza con riferimento al danno derivante dalla morte o dal grave infortunio del figlio, come già evidenziato, trovano applicazione anche con riferimento alla «famiglia allargata» ed a fortiori alla perdita del coniuge. Pertanto, per Cass. III, n. 2318/2007, quello subito dal marito per il decesso della moglie, costituisce, anche nel caso in cui quest'ultima fosse stata priva di un effettivo reddito personale, danno patrimoniale risarcibile, concretantesi nella perdita, da parte dei familiari, di una serie di prestazioni economicamente valutabili, attinenti alla cura, all'educazione ed all'assistenza, cui il marito aveva «diritto» nei confronti della moglie nell'ambito del rapporto familiare. (Cass. III, n. 2318/2007).

Per una ipotesi di riconoscimento in sede di merito del danno patrimoniale da mancato apporto in futuro dell'attività di casalinga si veda, ex plurimis e tra le più recenti, Trib. Milano X, n. 1845/2016. Nella specie il giudice ritiene sussistente il pregiudizio in relazione all'apporto della figura della defunta madre e moglie nel compendio familiare, senza svilimento di tale figura e con riferimento alle incombenze di natura prettamente materiale, tra le quali la cura e la pulizia della casa che debbono essere svolte con l'impiego di una colf (con limitazione nel tempo del pregiudizio, nel caso concreto, in virtù del prevedibile raggiungimento di autonomia dei figli in corrispondenza della fine del periodo di studi).

Aspettative economiche per recesso ingiustificato

Il recesso ingiustificato dal contratto di una delle parti (nel caso di specie, del professionista mandatario incaricato di svolgere una perizia contrattuale) giustifica la condanna generica di questa al risarcimento del danno, indipendentemente dal concreto accertamento di uno specifico pregiudizio patrimoniale.

L'anticipato scioglimento del rapporto, difatti, è di per sé un evento potenzialmente generatore di danno, avendo turbato e compromesso le aspettative economiche della parte adempiente, anche se fatti specifici di violazione contrattuale non abbiano, in ipotesi, prodotto direttamente alcun pregiudizio patrimoniale al contraente incolpevole (Cass. III, n. 9996/2004; in senso conforme, con particolare riferimento alla risoluzione del contratto per inadempimento di una delle parti e condanna generica di quest'ultima, Cass. III, n. 10482/2001 e Cass. III, n. 5917/2001, oltre che Cass. III, n. 495/2000, in materia di recesso ingiustificato dalle trattative e risarcibilità del c.d. interesse negativo consistente non solo nelle spese sopportate in vista della conclusione del contratto ma anche nella perdita di occasioni per concluderne con altri un contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso).

Credito eventuale ed azione revocatoria

L'art. 2901 c.c. accoglie una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità. Sicché, anche il credito eventuale, nella veste di credito litigioso, è idoneo a determinare, sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione in separato giudizio sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito, l'insorgere della qualità di creditore che abilita all'esperimento dell'azione revocatoria ordinaria avverso l'atto di disposizione compiuto dal debitore (ex plurimis: Cass. III, n, 5619/2016; Cass. III, n. 1893/2012 con particolare riferimento, quale atto di disposizione compiuto dal debitore, ad atto di concessione di ipoteca volontaria).

Con particolare riferimento alla garanzia del futuro credito nelle vendite immobiliari, la Suprema Corte i rapporti tra risarcimento e revocatoria. Nell'ipotesi in cui un immobile venga venduto in tempi successivi a due diversi acquirenti, dei quali solo il secondo trascriva il proprio acquisto, rendendolo così opponibile al primo, quest'ultimo ha diritto al risarcimento del danno e, per conservare la garanzia relativa al proprio credito, può esercitare l'azione revocatoria della seconda alienazione. Tuttavia, poiché la seconda alienazione è anteriore al credito da tutelare (che nasce solo con la trascrizione), ai fini dell'accoglimento della revocatoria non è sufficiente la mera consapevolezza della precedente vendita da parte del secondo acquirente, ma è necessaria la prova della sua partecipazione alla dolosa preordinazione dell'alienante, consistente nella specifica intenzione di pregiudicare la garanzia del futuro credito (ex plurimis: Cass. II, n. 20118/2013; Cass. II, n. 1131/2000).

Il «danno da perdita di chance» patrimoniali

La lesione delle aspettative patrimoniali è terreno elettivo per l'elaborazione del c.d. danno da perdita di chance (patrimoniali). La teorizzazione in esame risente anche dell'evoluzione giurisprudenziale in tema d'individuazione e prova del nesso di causalità che evidenzia l'approdo del criterio della «preponderanza dell'evidenza» o «del più probabile che non» (anche detto della «probabilità relativa»), ispirato alla regola della «normalità causale».

In tema di illecito civile, difatti, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti. Il primo volto ad identificare – in applicazione del criterio del «più probabile che non» – il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno. Il secondo è invece diretto ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili. Accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c. che pone essa stessa una regola eziologica. Come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da chance perduta, quindi, l'accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l'applicazione della regola causale «di funzione», cioè probatoria, del «più probabile che non» (Cass. III, n. 21255/2013, la quale però fa riferimento al danno da chance perduta da intendersi nella specie come possibilità di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile, concludendo, in applicazione del criterio di cui innanzi, nel senso che la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorché il giudice accerti che quella diversa – e migliore – possibilità si sarebbe verificata «più probabilmente che non»).

Come da tempo evidenziato, tanto da autorevole dottrina quanto dalla giurisprudenza di legittimità, la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione. Sicché, la sua perdita, id est la perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura una lesione all'integrità del patrimonio, in termini di danno emergente, la cui risarcibilità è, quindi, conseguenza immediata e diretta del verificarsi d'un danno concreto ed attuale (ex plurimis: Cass. III, n. 6488/2017, in materia di perdita di chance lavorative future asseritamente subita dall'infortunato in un sinistro stradale che la Suprema Corte però qualifica come danno patrimoniale futuro; Cass. n. 11548/2013, con riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato; Cass. IV, n. 21544/2008; Cass. II, n. 22026/2004, in materia di responsabilità del ragioniere; Cass. II, n. 15759/2001, in materia di responsabilità professionale del commercialista; Cass. IV, n. 18207/2014, in fattispecie di perdita di chance per illegittimo atto di avviamento al lavoro; in materia di danno da perdita di chance di promozione ad una qualifica superiore nell'ambito di rapporto di lavoro si vedano: Cass. IV, n. 734/2002; Cass. IV, n. 14074/2000; Cass. IV, n. 11340/1998; Cass. IV, n. 2167/1996; Cass. IV, n. 6506/1985).

Configurando la perdita di chance un'autonoma voce di danno emergente, che va commisurato alla perdita della possibilità di conseguire un risultato positivo e non alla mera perdita del risultato stesso, la relativa domanda è diversa rispetto a quella di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, con quanto ne consegue anche in termini processuali (ex plurimis: in termini generali, Cass. III, n. 4400/2004; Cass. II, n. 15759/2001 la quale evidenzia la differenza tra il danno da perdita della possibilità di impugnare ovvero di proporre opposizione o di agire o resistere in giudizio ed il danno da mancata impugnazione, del quale il primo non è mero elemento costitutivo essendo accertabile, in termini di danno emergente da perdita di chance, con criteri probabilistici).

Il danno da perdita di chance è inteso quale danno emergente anche con riferimento alla responsabilità della P.A., essendo la chance autonomo bene giuridico già presente nella sfera giuridica del soggetto nonché suscettibile di autonoma valutazione economica è risarcibile ove sussista la lesione di un interesse giuridicamente tutelato (ex plurimis: Cons. St., n. 247/2003 nel caso di lamentata esclusione da una gara; Cons. St. n. 1180/2009, nel caso di illegittimità di gara d'appalto con pregiudizio delle possibilità di aggiudicazione).

Cass. III, n. 25778/2019 è intervenuta nella detta materia, ancorché con specifico riferimento alla responsabilità risarcitoria dell'avvocato, evidenziando le possibili ripercussioni di una non corretta commistione tra nesso causale (e suo accertamento) e ragionamento condotto sulla chance.

In particolare la Suprema Corte muove dalla premessa per la quale secondo una costante regola giurisprudenziale, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo un'indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici (si vedano, ex plurimis: Cass. II, n. 7309/2017; Cass. II, n. 25347/2010; Cass. IV, n. 6967/2006). La regola di cui innanzi però, precisa la detta decisione, se male intesa, rischia di trasformare, contro le sue stesse premesse, la responsabilità del professionista da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato. Se la negligenza dell'avvocato è causalmente rilevante quando ha fatto perdere la causa, o non ha fatto conseguire al cliente il risultato sperato (che sostanzialmente è la stessa cosa), si rischia quella trasformazione, posto che provare che la causa sarebbe andata vinta equivale a provare che il difensore ha mancato un risultato per sua colpa. Normalmente l'avvocato non deve difendersi dall'accusa di aver fatto perdere la causa; corre questo rischio se oggetto del giudizio diventa la perdita della probabilità che il cliente aveva di vincere. Come spesso accade alla giurisprudenza sulla chance, si sostituisce il danno effettivo (la perdita della causa) con un sostituto astratto (la probabilità di vincerla).

La situazione di cui innanzi non è innocua, incidendo sull'accertamento del nesso di causa e sull'esito del giudizio.

In realtà, prosegue Cass. III, n. 25778/2019, il sistema del “processo nel processo” obbliga il giudice a giudizi ipotetici di tipo controfattuale (quale sarebbe stato l'esito della causa se non ci fosse stata negligenza difensiva) ed a rifare fittiziamente il processo mancato, o quello in cui si è manifestata la negligenza del difensore. Fare un “processo al processo” ovviamente non è la stessa cosa che fare il processo direttamente (ad esempio, è solo fittiziamente che si può dire che le prove sarebbero state ammesse se fossero state richieste, o che se fossero state ammesse avrebbero determinato un risultato diverso). Tanto fittizio è il controfattuale che occorrerebbe dare per scontato anche l'esito concreto della prova testimoniale, come favorevole alla parte richiedente. Questo rischio è dovuto, tra l'altro, all'adozione, in questo ambito, del modello conoscitivo della chance, che consente di sostituire un evento di cui si pretende la certezza con altro di cui è sufficiente la probabilità. Sicché, la valutazione del giudice di merito deve evitare di attribuire al nesso causale la probabilità che è propria della chance: avere il 20% di vincere una causa è cosa diversa dal fatto che il difensore ha contribuito al 20% a far perdere la causa. Altra è la probabilità dell'evento, altra quella del nesso causale tra questo e la condotta del difensore.

Dal ragionamento di cui innanzi la Suprema Corte deduce che l'indagine prognostica va effettuata sul tipo di domanda proposta dalla parte nel giudizio iniziale

Per stabilire se l'omissione dell'avvocato ha avuto una certa incidenza sul risultato, quindi, occorre necessariamente riferirsi, per l'appunto, al risultato sperato nel giudizio in cui è ipotizzata la colpa del difensore, che altro non è se non la domanda fatta in giudizio, ossia il bene della vita preteso dalla parte. Ciò implica ulteriormente che, ai fini della sufficienza del ricorso la parte deve indicare che domanda ha proposto nel giudizio in cui si sarebbe verificata la negligenza del difensore, indicazione del tutto omessa nella fattispecie, ma necessaria per poter verificare se la valutazione prognostica circa l'incidenza della omissione del difensore sull'esito, è corretta o meno. Va da sé che la verifica della incidenza della negligenza del difensore nell'altro giudizio va verificata in relazione alla domanda in quel giudizio proposta, e dunque al risultato sostanziale che la parte si era prefisso, per verificare se la condotta del legale ha probabilmente precluso il conseguimento di quel risultato. Non è invece ammissibile che il giudizio di probabile incidenza sull'esito della lite venga effettuato in base ad una domanda diversa da quella effettivamente fatta valere nel giudizio iniziale.

La decisione in argomento, tuttavia, pone a suo fondamento anche altre ragioni specificatamente inerenti il controfattuale.

Tale giudizio controfattuale (se il convenuto avesse agito nella maniera dovuta, il danno non si sarebbe verificato) è un giudizio sul nesso di causalità di tipo condizionalistico, poiché mira a stabilire se, eliminata mentalmente l'azione compiuta (o l'omissione) e sostituita con quella doverosa, l'evento si sarebbe verificato o se ne sarebbe verificato un altro. Per tale verifica può seguirsi la logica probabilistica, nel senso di ritenere sufficientemente provata l'efficienza causale se è probabile che, sostituita l'azione compiuta con quella doverosa, l'evento non si sarebbe verificato. Ciò, però, non cambia la natura del giudizio. Il giudizio controfattuale, infatti, conduce a comparare il caso reale (l'avvocato ha dimenticato di far assumere la prova) con quello ipotetico (cosa sarebbe successo se invece l'avesse fatta assumere), nel quale le circostanze, senza il fattore considerato, conducono al risultato il più probabile vicino al corso normale delle cose. Se questo risultato è analogo all'effetto reale, il fatto considerato (la negligenza del difensore) non ha alcuna incidenza causale. Se invece diverge (assumendo le prove si sarebbe avuto un esito diverso) si potrà ritenere l'efficacia causale del fatto considerato (l'omissione da parte del difensore) nella misura della differenza tra il risultato controfattuale e il risultato reale.

Questa differenza, chiarisce la Suprema Corte in esame, è impropriamente definita da alcuni come chance, e a volte dalla stessa giurisprudenza, ma in realtà è la misura del nesso causale. Il controfattuale, è intuitivo, non mira a stabilire la percentuale di probabilità di vincere la causa da parte del cliente (chance), ma mira a stabilire il corso ipotetico degli eventi in presenza della condotta doverosa, e dunque il nesso di causa tra la condotta alternativa lecita e l'evento (sul punto si veda Cass. III, n. 5641/2018).

Il ragionamento controfattuale, infatti,  permette, nello stesso tempo in cui stabilisce una linea causale, di determinare gli effetti corrispondenti alla condizione considerata (l'assunzione delle prove).

Nella specie, la Suprema Corte ha considerato rispettato lo schema di cui innanzi da parte della Corte territoriale, avendo quest'ultima ritenuto ininfluente la testimonianza nel giudizio iniziale, sul presupposto che il giudice di quel giudizio avesse basato la sua decisione esclusivamente sui documenti depositati in atti, cioè che quei documenti fossero sufficienti a fondare la decisione di rigetto (e dunque non ha considerato ai fini del decidere neanche le prove orali effettivamente assunte). La Corte di appello ha dunque nella specie escluso che la condotta alternativa lecita (ossia far assumere le prove – il controfattuale –), avrebbe consentito un esito favorevole.

In ordine al nesso eziologico nella materia del risarcimento del danno da perdita di chance è di recente intervenuta Cass. VI-III, n. 2261 del 2022 per la quale l'accertamento del nesso di causalità tra il fatto illecito e l'evento di danno (rappresentato, in quella fattispecie, dalla perdita non del bene della vita in sé ma della mera possibilità di conseguirlo) non è sottoposto a un regime diverso da quello ordinario, sicché sullo stesso non influisce, in linea di principio, la misura percentuale della suddetta possibilità, della quale, invece, dev'essere provata la serietà ed apprezzabilità ai fini della risarcibilità del conseguente pregiudizio. Nella specie, in cui l'attore non era stato ammesso a partecipare alla prova scritta di un concorso indetto da un'azienda ospedaliera, a causa del ritardo con cui gli era stata recapitata la raccomandata contenente la relativa convocazione, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance , sulla base della mera allegazione, da parte del candidato, del titolo di studio che lo abilitava a partecipare alla selezione, in mancanza della prova della sussistenza, nella propria sfera giuridica, di una seria e apprezzabile possibilità di conseguire il risultato atteso. 

Ne consegue che, in materia di di responsabilità professionale dell'avvocato, in caso di inadempimento dell'incarico avente ad oggetto la partecipazione ad un incanto per l'aggiudicazione di un immobile, da cui derivi la perdita della possibilità di partecipare alla gara, è configurabile un danno da perdita di chances, ai fini del cui accertamento il danneggiato ha l'onere di provare non la perdita del risultato, cioè che avrebbe ottenuto certamente l'aggiudicazione del bene, bensì soltanto la perdita della possibilità di conseguirlo (Cass. III, n. 3824/2024).

La dottrina prevalente, che permea l'attuale giurisprudenza anche di legittimità, ritiene la chance essere un bene giuridico autonomo già presente nella sfera giuridica del soggetto come posta attiva e, quindi, in quanto tale, suscettibile di un'autonoma valutazione in quanto il suo venir meno determina un danno emergente concreto ed attuale (Bianca, 178; Franzoni, 83).

Contrapposta rispetto alla tesi di cui innanzi (c.d. teoria ontologica) è la c.d. teoria eziologica per la quale la perdita d chance integrerebbe lucro cessante in ragione della mancata realizzazione del risultato utile quale conseguenza dell'evento lesivo. Sicché l'utilità perduta non sarebbe un bene autonomo bensì un vantaggio non ancora acquisito sempre che il relativo conseguimento (impedito dall'illecito) possa astrattamente verificarsi con un grado di probabilità vicino alla certezza (sul punto si veda, diffusamente, Mastropaolo; per una disamina delle contrapposte teorie in merito al danno da perdita di chance –patrimoniali e non patrimoniali – e per le conseguenze in tema di nesso eziologico e di quantum di danno liquidabile, si veda Mancini).

Entrambe le tesi di cui innanzi comunque non condividono quelle per le quali la chance coinciderebbe con un mero interesse di fatto e, quindi, in quanto tale, non suscettibile di autonoma tutela (per tale ultima tesi si veda Busnelli, 47), ovvero con un interesse di fatto che però riceve tutela in forza delle figura del «danno meramente patrimoniale» (Castronovo, 545).

La chance è invece intesa come aspettativa di diritto la cui lesione integra danno ingiusto (De Cupis, 1181).

La perdita di chance e l'onere probatorio.

In tema di risarcimento del danno, il creditore che voglia ottenere, oltre il rimborso delle spese sostenute, anche i danni derivanti dalla perdita di chance – che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione – ha l'onere di provare, benché solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta.

In applicazione del consolidato principio di cui innanzi Cass. III, n. 6488/2017, in fattispecie relativa alla perdita di chance lavorative future asseritamente subite da un'infortunata in un sinistro stradale, ha precisato che, configurandosi un danno patrimoniale futuro, come tale diverso ed ulteriore rispetto al danno alla salute, a carattere, invece, non patrimoniale, la perdita di futuri guadagni non può essere desunta in via presuntiva dalla mera esistenza di postumi invalidanti, spettando al danneggiato l'onere di provare, anche presuntivamente, che il danno alla salute gli ha precluso l'accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiori guadagni.

Come detto in merito all'onere probatorio la giurisprudenza di legittimità concordemente applica il principio di cui innanzi.

Cass. IV, n. 21544/2008 ha cassato con rinvio la sentenza impugnata avendo il giudice di merito omesso di vagliare il nesso tra l'inabilità temporanea conseguente ad un infortunio riguardante una dipendente ed il mancato rinnovo alla stessa del contratto di lavoro, rinnovato, invece, a tutti gli altri dipendenti (conforme Cass. III, n. 1752/2005 che ha ritenuto priva di motivazione oltre che viziata da extrapetizione la liquidazione del danno relativa alla perdita di chance lavorative subite da una infortunata in un sinistro stradale).

Negli stessi termini Cass. III, n. 18945/2003 ha ritenuto non provata la perdita di chance lavorative subite da una infortunata in un sinistro stradale, la quale si era limitata ad allegare che, se non coinvolta nel sinistro, avrebbe potuto “lavorare per le poste” prima a tempo determinato e poi rientrare nella riserva dei posti a tempo indeterminato senza precisare di aver prodotto al giudice di merito le proposte lavorative effettuatele da Poste Italiane e senza riportarne il contenuto.

Con le stesse argomentazioni, Cass. II, n. 399/2003 ha confermato la sentenza impugnata che non aveva riconosciuto, in quanto non provato, il danno derivante alla parte creditrice per la perdita delle asserite «occasioni» che il mercato le avrebbe offerto per incrementare il proprio patrimonio e non sfruttate a causa dell'inadempimento dell'altra parte, ritenuta responsabile di non aver adempiuto agli obblighi scaturenti da una transazione avente ad oggetto la divisione giudiziale di beni ereditari.

Si veda altresì, in materia di appalto di opere pubbliche, Cass. I, n. 19604/2016, che esplicitamente inquadra quello in oggetto nel danno emergente facendo riferimento ad un pregiudizio certo – anche se non nel suo ammontare – consistente nella perdita di una possibilità attuale che esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza.

Perdita di chance e lavoro.

In tema di procedure concorsuali di selezione del personale, il datore di lavoro che intende procedere alla copertura di posti di qualifica superiore mediante una selezione del personale di tipo concorsuale interno assume un obbligo contrattuale, nei confronti di ciascun dipendente partecipante, all'osservanza delle regole procedurali e delle norme di selezione con le quali ha autodisciplinato la propria discrezionalità, secondo i principi di correttezza e buona fede. La violazione di tali criteri comporta il risarcimento del danno che al lavoratore può derivare per perdita di «chance», e tale danno va risarcito sulla base del tasso di probabilità che egli aveva di risultare vincitore, qualora la selezione tra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto e trasparente (Cass. IV, n. 16233/2012). Non avendo egli, diversamente, nessun interesse processuale ad una dichiarazione di illegittimità di una procedura concorsuale alla quale sia indifferente (Cass. IV, n. 2581/2009).

In applicazione del principio la Suprema Corte ha confermato la sentenza con la quale la corte territoriale, nel qualificare la procedura bandita dal datore come procedura concorsuale e non come selezione avente mera finalità orientativa, aveva ritenuto illegittimo il comportamento del datore che non si era poi attenuto alla graduatoria nella promozione dei dipendenti e lo aveva condannato lo stesso al risarcimento dei danni in favore del dipendente vincitore pretermesso (Cass. IV, n. 16233/2012).

Spetta quindi al giudice il concreto apprezzamento di ogni elemento di valutazione e di prova ritualmente introdotto nel processo che, per inerire alla necessità e correttezza della valutazione comparativa dei titoli del lavoratore escluso e di quelli utilmente selezionati, appaia a tale fine funzionale e coerente. Come chiarisce Cass. IV, n. 5119/2010 che, nella specie, ha ritenuto inadeguato il criterio meramente statistico della proporzione tra il numero dei posti messi a concorso e il numero dei concorrenti che precedevano il ricorrente in graduatoria, adottato dalla corte territoriale per determinare il danno da perdita di chance, in assenza di ogni riferimento alla valutazione comparativa dei titoli dei candidati.

Da quanto argomentato discendono oneri motivazionali in capo al datore di lavoro. Nel caso in cui egli sia tenuto ad effettuare, nel rispetto di criteri determinati e non escludenti apprezzamenti discrezionali, una selezione tra i lavoratori a fini di promozione o conferimento di altro beneficio, per dimostrare il rispetto dei suddetti criteri e dei principi di correttezza e buona fede, deve operare in modo trasparente e motivare adeguatamente la scelta effettuata. In difetto, il lavoratore ha pertanto diritto al risarcimento del danno da perdita di «chance», non condizionato alla prova, da parte sua, che la scelta, ove correttamente eseguita, si sarebbe certamente risolta in suo favore.

Nei termini suddetti si esprime Cass. IV, n. 3415/2012 la quale chiarisce che il conseguente danno deve essere liquidato con valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., tenendo presente, ai fini del giudizio probabilistico e comparativo necessario, ogni elemento di prova ritualmente introdotto nel processo. Ne consegue che il giudice dovrà rigettare la domanda risarcitoria quando gli elementi probatori acquisiti permettano di escludere, con adeguata sicurezza, che il lavoratore potesse avere concrete possibilità di successo. Per converso, in mancanza di risultanze sul possibile esito della selezione ove correttamente eseguita, potrà ricorrere al criterio residuale del rapporto tra il numero dei soggetti da selezionare e quello dei lavoratori che avrebbero dovuto formare oggetto di selezione. In ipotesi traendo argomenti di convincimento, circa il grado di probabilità favorevole, anche dal comportamento processuale delle parti e, in particolare, dalle carenze di allegazione e prova dei fatti rilevanti e rientranti nell'ambito delle rispettive conoscenze e possibilità di attestazione.

In tema di riparto dell'onere della prova con particolare riferimento al danno da perdita di chance di promozione in materia di rapporti di lavoro intervengono nel 2013 le Sezioni Unite della Suprema Corte. Esse confermano che incombe sul singolo dipendente l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo, il nesso di causalità tra l'inadempimento datoriale e il danno, ossia la concreta sussistenza della probabilità di ottenere la qualifica superiore (Cass. S.U., n. 21678/2013, con riferimento a danno prospettato come conseguenza dell'inadempimento da parte del datore di lavoro pubblico dell'obbligo, contrattualmente previsto, di organizzare procedure selettive per progressioni verticali).

Coerente si mostra anche la successiva giurisprudenza di legittimità ritenendo che in tema di procedure di selezione del personale per l'accesso a qualifica superiore, nel caso in cui il datore di lavoro privato non rispetti i principi di correttezza e buona fede, incombe sul lavoratore, che agisca per il risarcimento del danno da perdita di chance, l'onere di provare, seppure in via presuntiva e probabilistica, il nesso causale tra l'inadempimento e l'evento dannoso. Incombe quindi su di lui l'onere della prova della sua concreta e non ipotetica possibilità di conseguire la promozione, qualora la comparazione tra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto e trasparente.

In applicazione del principio Cass. IV, n. 4014/2016 ha confermato la sentenza di merito in cui la prova che il ricorrente avesse il novanta per cento di probabilità di essere promosso era stata desunta dalla disamina della graduatoria dei partecipanti e dei criteri di attribuzione dei punteggi.

Nello stesso senso Cass. IV, 495/2016 la quale però chiarisce che la prova di tale possibilità non può derivare dal calcolo matematico tra numero dei concorrenti e funzioni da assegnare, dovendo essere comparati titoli e requisiti posseduti dai candidati. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di rigetto della domanda risarcitoria per perdita di «chance» di un docente, al quale era stata negata l'assegnazione della «funzione obiettivo» di cui all'art. 28 del c.c.n.l. comparto scuola del 26 maggio 1999, che a detto fine prevede la valutazione comparativa delle esperienze professionali e culturali e la frequenza di corsi di formazione. Il ricorrente difatti non aveva allegato elementi, neppure di carattere presuntivo, idonei ad avvalorare l'ipotesi di sua prevalenza sugli altri concorrenti.

La tematica del danno da perdita di chance, sempre in ordine a rapporti lavorativi, interessa la giurisprudenza anche con riferimento all'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, in termini di perdita di chance di occupazione alternativa migliore, oltre che di illegittimo atto di avviamento al lavoro.

Sotto tale ultimo profilo la Suprema Corte ribadisce che al fine della liquidazione del danno patrimoniale da perdita di «chance» la concreta ed effettiva occasione perduta di conseguire un determinato bene non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione autonoma, che deve tenere conto della proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto.

In applicazione del principio Cass. IV, n. 18207/2014 ha cassato la sentenza di appello che, nel liquidare il danno conseguente ad un illegittimo atto di avviamento al lavoro, aveva esplicitamente escluso di prendere in considerazione le retribuzioni che il riservatario avrebbe percepito ove avesse potuto beneficiare effettivamente dell'atto illegittimo.

Con particolare riferimento invece all'abusiva reiterazione di contratti a termine, in materia di pubblico impiego privatizzato, Cass. S.U., n. 5072/2016, chiarisce che la misura risarcitoria prevista dall'art. 36 comma 5 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13). Sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32 comma 5 della l. 4 novembre 2010, n. 183, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come «danno comunitario», determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto. Senza che da ciò derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito. La Suprema Corte precisa però che il danno risarcibile ai sensi del citato art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c.

La liquidazione del danno da perdita di chance.

Come innanzi detto, la chance, quale concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene e non mera aspettativa di fatto, è un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione. La sua perdita, id est la perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura una lesione all'integrità del patrimonio, in termini di danno emergente, la cui risarcibilità è, quindi, conseguenza immediata e diretta del verificarsi d'un danno concreto ed attuale. Ne consegue che la sua provata perdita determina un danno per il quale non può, di regola, porsi alcun problema d'accertamento sotto il profilo dell'an ma solo, eventualmente, sotto quello del quantum (si vedano: Cass. II, n. 15759/2001, in materia di responsabilità professionale del commercialista; Cass. II, n. 22026/2004, circa la responsabilità del ragioniere, oltre che l'ampia motivazione di Cass. I, n. 11629/1999).

Il danno in esame deve difatti essere liquidato in applicazione di un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili, assumendo come parametro di valutazione il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito in base ad un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e deducibile, questo, caso per caso, dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta e, laddove tale criterio risulti di difficile applicazione, mediante il ricorso al criterio equitativo di cui all'art. 1226 c.c. (ex plurimis: Cass. II, n. 15759/2001, circa la responsabilità del commercialista per mancata impugnazione; Cass. IV, n. 11522/1997; Cass. IV, n. 2167/1996; Cass. IV, n. 5026/1993; Cass. IV, n. 2368/1991; si veda, con particolare riferimento ai rapporti di lavoro, Cass. IV, n. 3415/2012).

Di recente la Suprema Corte ha chiarito che il danno patrimoniale da perdita di «chance» è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione «ex ante» da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale. L'accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati.

In applicazione del principio, Cass. III, n. 2737/2015 ha confermato la sentenza del giudice di merito, che, inquadrata la responsabilità per tardiva trasposizione legislativa delle direttive Cee, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari, nell'ambito della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato, aveva identificato la chance perduta nella possibilità di godere dei benefici effettivi sullo sviluppo professionale derivanti da una tempestiva attuazione delle direttive ed aveva liquidato il danno in ragione di un criterio prognostico, basato sulle concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili. In senso conforme si veda Cass. III, n. 10111/2008 che ha confermato, correggendone parzialmente la motivazione, la sentenza del giudice di merito che aveva liquidato un importo pari ad una annualità di stipendio in favore della vedova di una vittima della criminalità organizzata, la quale si era vista riconoscere con un anno di ritardo il beneficio dell'assunzione in una P.A., riconosciutole dalla l. 20 ottobre 1990, n. 302.

Si veda altresì, in materia di appalto di opere pubbliche, Cass. I, n. 19604/2016, che esplicitamente inquadra quello in oggetto nel danno emergente facendo riferimento ad un pregiudizio certo – anche se non nel suo ammontare – consistente nella perdita di una possibilità attuale che esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza.

Danno da perdita di chance patrimoniali nella responsabilità professionale: rinvio

La responsabilità professionale in generale è terreno elettivo per l'elaborazione del c.d. danno da perdita di chance, dovendosi sul punto fare rinvio infra ed in particolare ai capitoli ad essa dedicati.

(alcune) Ipotesi di mere aspettative di fatto

In caso di risoluzione, per inadempimento del mutuatario, di un contratto di mutuo, cui acceda una clausola in forza della quale costui si era impegnato, per la durata del rapporto negoziale, a preferire il mutuante nel caso di sottoscrizione di polizze assicurative, l'agente del mutuante non può agire ai sensi dell'art. 2043 c.c. nei confronti del mutuatario a tutela del proprio credito, non vantando egli alcun interesse giuridicamente rilevante ma una semplice aspettativa di fatto a maturare ulteriori provvigioni, come tale inidonea a costituire in capo allo stesso un'entità di natura patrimoniale tutelabile erga omnes, neppure sotto il profilo di danno da perdita di chance (Cass. III, n. 13283/2016).

Cass. III, n. 26359/2013 ritiene invece l'interesse di un'associazione di culto al ristoro del pregiudizio economico conseguente alla morte di un proprio associato provocata da terzi (a seguito di sinistro stradale) una mera aspettativa di fatto, non integrante quindi una situazione soggettiva giuridicamente protetta suscettibile di dar luogo a risarcimento del danno.

Le due sentenze di cui innanzi mostrano di fare applicazione del più generale principio sancito da Cass. S.U., n. 500/1999per il quale la normativa sulla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, cioè inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale ed in particolare senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. Peraltro, avuto riguardo al carattere atipico del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela: spetta, pertanto, al giudice, attraverso un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensità, l'ordinamento appresta tutela risarcitoria all'interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una esigenza di protezione.

Bibliografia

Bianca, Diritto civile, 5. La responsabilità, Milano, 2012; Busnelli, Perdita di una «chance» e risarcimento del danno, in Foro it. 1965, 4; Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006; De Cupis, Il risarcimento della perdita di una «chance», in Giur. it. 1986, 1; Franzoni, Trattato della responsabilità civile. L'illecito, Milano, 2010; Mancini, Il danno da perdita di chance, in Ridare.it., 2 maggio 2017; Mastropaolo, Risarcimento, in Enc. giur., X, 1988.

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