Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.Risarcimento per fatto illecito. [I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.] 12.
[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209. [2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. InquadramentoMolteplici e notevolmente diversificate tra loro sono le attività espletabili dal commercialista ed in particolare dalle figure del dottore commercialista, del ragioniere commercialista e dell'esperto contabile. Esse spaziano dall'economia aziendale al diritto di impresa e, comunque, ineriscono materie economiche, finanziarie, tributarie societarie ed amministrative (art. 1 d.lgs. 28 giugno 2005, n. 139). A tali attività se ne aggiungono altre oltre che funzioni previste da altre norme. Il professionista in considerazione può difatti assumere, tra i tanti, anche incarichi giudiziari (curatore fallimentare o consulente tecnico d'ufficio) o cariche societarie (amministratore o sindaco di società di capitali). Sicché, sotto il versante civilistico, la sua responsabilità e le relative regole che la governano, sovente assumono mosse differenti in forza del relativo inquadramento nell'ambito contrattuale o extracontrattuale. Di regola il rapporto tra commercialista e cliente si atteggia a contratto di prestazione d'opera intellettuale (professionale), disciplinato anche dagli artt. 2229 e ss. c.c., potendo però esso coesistere con un rapporto di mandato o, perlomeno, con accessorie obbligazioni di mandato, da assolvere alla stregua del parametro della diligenza qualificata, di cui agli artt. 1176 comma 2 c.c. e 2236 c.c., con conseguente possibile responsabilità (contrattuale) anche per violazione degli obblighi di verifica, informazione, dissuasione e consulenza tecnica, nonché collegata alla dichiarazione dei redditi del cliente. Dall'equiparazione allo schema del mandato, in virtù del quale, il professionista è tenuto a fare tutto quanto è nelle sue disponibilità per la realizzazione del risultato pratico che il cliente si prefigge, ne consegue l'applicazione della disciplina della prescrizione (del diritto al risarcimento del danno) alla luce dei principi che regolano tale rapporto di mandato. Di esso il c.c. tratta negli artt. 2229 e ss. ma le dette disposizioni codicistiche si riferiscono esclusivamente ad un modo (quello contrattuale) di attuarsi dell'attività professionale intellettuale, non esaurendo tutte le possibilità di esplicazioni dell'attività professionale intellettuale, nei limiti delle leggi speciali che regolano ciascuna professione. Ne consegue che accanto alla responsabilità contrattuale, con prescrizione decennale, per far valere l'inadempimento di obbligazioni tipicamente inerenti alle funzioni professionali conferite, può essere anche chiesto il risarcimento del danno provocato da atti di dissipazione del patrimonio, tra i quali quelli cagionati dall'appropriazione di somme di cui si dispone per ragioni di servizio o comunque riferite ad operazioni inesistenti, che integra una violazione da illecito extracontrattuale, con prescrizione quinquennale (Cass. II, n. 6921/2015). Il danno, infine, può rilevare anche in termini di «perdita di chance», come nell'ipotesi di danno da perdita della possibilità di impugnare (ovvero di proporre opposizione o di agire o resistere in giudizio), differente dal danno da mancata impugnazione – del quale non costituisce mero elemento costitutivo –, accertabile, in termini di danno emergente da perdita di chance, con criteri probabilistici (Cass. II, n. 15759/2001). Attività del commercialista: natura e responsabilitàDall'indicazione di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 139/2005, recante norme sulla costituzione del Consiglio dell'ordine dei commercialisti e degli esperti contabili, emerge la diversità delle attività espletabili dal commercialista ed in particolare dalle figure del dottore commercialista, del ragioniere commercialista e dell'esperto contabile (art. 2 del d.lgs. n. 139/2005). Esse spaziano dall'economia aziendale al diritto di impresa e, comunque, ineriscono materie economiche, finanziarie, tributarie societarie ed amministrative. Alla già lunga elencazione delle attività espletabili dal commercialista, di cui al citato art. 1, si aggiungono le attività e le funzioni previste da altre norme. La figura professionale del commercialista, come già evidenziato, può assumere, tra i tanti, anche incarichi giudiziari (curatore fallimentare o consulente tecnico d'ufficio) o cariche societarie. Sicché, sotto il versante civilistico, la sua responsabilità e le relative regole che la governano, sovente assumono mosse differenti in forza del relativo inquadramento nell'ambito contrattuale o extracontrattuale. Quanto appena evidenziato non è ovviamente fine a se stesso, in ragione delle sostanziali differenze tra le due tipologie di responsabilità. Quella extracontrattuale difatti, presuppone, sul piano soggettivo, la capacità di intendere e di volere del danneggiante, mentre tale capacità non è richiesta per configurare la responsabilità da inadempimento (art. 2046 c.c.). Il debitore colposamente inadempiente gode della limitazione del risarcimento al danno prevedibile al tempo in cui è sorta l'obbligazione (art. 1225 c.c.), mentre il danneggiante aquiliano è tenuto a risarcire tutti i danni arrecati nell'ipotesi di illecito doloso ma anche colposo (argomentabile dall'art. 2056 c.c.). L'autore dell'illecito aquiliano gode altresì di un regime di riparto dell'onere probatorio più favorevole rispetto al debitore, dovendo il danneggiato aquiliano provare il fatto illecito e non dovendo il creditore provare l'inadempimento ma solo allegarlo (oltre che provare il titolo). Il creditore non ha l'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, dovendo quest'ultimo provare il diligente (perito e prudente) adempimento ovvero la causa esterna, mentre sul danneggiato aquiliano grave l'onere di provare la colpa dell'autore del fatto illecito (salve ipotesi di responsabilità per colpa presunta od oggettiva). Differente è, infine, il regime della prescrizione, cinque anni nel caso di diritto al risarcimento danni da fatto illecito, ex art. 2947 c.c., e dieci anni per il diritto al risarcimento del danno da inadempimento, ex art. 2946 c.c. Di regola il rapporto tra commercialista e cliente si atteggia a contratto di prestazione d'opera intellettuale (professionale), disciplinato anche dagli artt. 2229 e ss. c.c., potendo però esso coesistere con un rapporto di mandato o, perlomeno, con accessorie obbligazioni di mandato. In tali ultimi termini si esprime Cass. II, n. 119503/2012, ancorché affrontando questioni inerenti il giudicato. Per la Suprema Corte, in particolare, il giudicato per implicazione discendente, regolato dall'art. 2909 c.c., in base al quale l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato «a ogni effetto» tra le parti, riguarda le questioni dipendenti da quella pregiudiziale, oggetto del giudicato stesso, e non quelle concernenti effetti ulteriori o diversi che non contraddicano il medesimo accertamento già compiuto. Ne consegue, per il Giudice di legittimità, che il giudicato formatosi sull'esistenza di un rapporto di prestazione libero professionale fra le parti (nella specie, contratto di prestazione d'opera intellettuale, concluso con un commercialista incaricato della costituzione di una società) non preclude di accertare la sussistenza a carico del medesimo professionista di accessorie obbligazioni di mandato (nella specie, di restituzione delle somme versate al commercialista, in conseguenza dell'abbandono dell'iniziativa imprenditoriale che ne aveva giustificato la consegna), sia in quanto connaturali al rapporto principale, sia in quanto comunque compatibili con le obbligazioni caratteristiche di tale tipo contrattuale (si veda altresì Cass. II, n. 6921/2015, per la quale tra commercialista e cliente intercorre un rapporto professionale che è equiparabile allo schema del mandato, in virtù del quale, il primo è tenuto a fare tutto quanto è nelle sue disponibilità per la realizzazione del risultato pratico che il secondo si prefigge, con la conseguente applicazione della disciplina della prescrizione alla luce dei principi che regolano tale rapporto di mandato). Il rapporto contrattuale tra commercialista e cliente rientra nella disciplina del contratto d'opera intellettuale, di cui agli artt. 2229 e ss. c.c., presupponendo attività implicanti scelte interpretative e modalità concettuali che rimandano ad un tipico sforzo intellettuale, anche ove, come nel caso di operazioni di calcolo, presuppongano operazioni di carattere materiale e meccanico (Benni de Sena). Natura e contenuto della prestazione: erosione della distinzione tra obbligazione di mezzi e quella di risultatoDalla natura contrattuale del rapporto tra il professionista ed il cliente ne discende la natura altrettanto contrattuale della relativa responsabilità, con riferimento all'inadempimento delle nascenti obbligazioni che, normalmente, sono di mezzi e non di risultato. Il professionista, assumendo l'incarico, si impegna ad espletare la sua attività ponendo in essere tutte le condizioni tecnicamente necessarie a consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito ma non il conseguimento effettivo di tale risultato. Nelle obbligazioni di mezzi, difatti, la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell'attività del debitore, il quale, quindi, adempie esattamente ove svolga l'attività richiesta nel modo dovuto (nel caso di prestazioni professionali, non solo prudente e diligente ma anche perita). In tali ipotesi è lo stesso comportamento del debitore ad essere in obbligazione, sicché la diligenza (nella specie, anche la perizia) è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo. Ne consegue altresì che il risultato è caratterizzato dalla aleatorietà in quanto dipendente dal comportamento del debitore ma anche da altri fattori esterni, oggettivi o soggettivi (ex plurimis, proprio con riferimento a responsabilità professionale: Cass. III, n. 8826/2007, ancorché in merito ad attività medica; Cass. S.U., n. 15781/2005, con riferimento alla prestazione d'opera di ingegnere). Per converso, nelle obbligazioni di risultato ciò che rileva è il conseguimento di esso, laddove la diligenza opera quale parametro di valutazione e controllo del comportamento del debitore, sicché è il risultato al quale mira il creditore ad essere dedotto in obbligazione e non il comportamento del debitore (ex plurimis, Cass. S.U., n. 15781/2005, cit.). Con particolare riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale e, quindi, anche a quelle professionali, occorre però tenere conto, come precisa la citata Cass. S.U., n. 15781/2005 (ancorché in tema di responsabilità professionale dell'ingegnere), della frequente commistione delle diverse obbligazioni in capo al professionista (in ipotesi anche in capo a distinti soggetti in vista dello stesso scopo finale), le quali possono caratterizzarsi in termini di obbligazioni di mezzi, talune, e di risultato, altre. Questa considerazione, in aggiunta ad argomentazioni dottrinali contrarie alla detta distinzione, conduce anche la giurisprudenza ad una rivisitazione della struttura del rapporto obbligatorio con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale ed alla conseguente responsabilità professionale (Cass. S.U., n. 15781/2005, cit.). La distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, pur conservando la funzione descrittiva innanzi evidenziata, è difatti superata, in precedenza, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio, già in forza di un arresto delle Sezioni Unite del 2001, che conferma la centralità del principio della vicinanza della prova, senza distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato (Cass. S.U., n. 13533/2001). Successivamente il principio di cui innanzi è ulteriormente applicato, proprio con riferimento alle responsabilità professionali, in virtù di un intervento nomofilattico delle Sezioni Unite del 2008. Esse difatti chiariscono che l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni c.d. di comportamento (o di mezzi) non è qualunque inadempimento bensì solo quella causa (o concausa) efficiente del danno (Cass. S.U., n. 577/2008, in materia di responsabilità medica ed in particolare della struttura sanitaria per danni da emotrasfusioni). L'impostazione tradizionale, fondante sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni. In realtà, precisa La Suprema Corte, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, con la conseguenza che in ciascuna obbligazione assumono rilievo tanto il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo quanto l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità. Operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso, definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio (per un esempio di tale attività giurisprudenziale si veda, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico, Cass. III, n. 9471/2004). Ne consegue che, per valutare l'adempimento da parte del professionista, necessita muovere dal criterio della diligenza esigibile ai sensi degli artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c. che, in quanto rapportata alla natura dell'attività esercitata, è quella del professionista di preparazione tecnica e di attenzione medie con particolare riferimento alla specifica attività espletata (ex plurimis: Cass. III, n. 13007/2016 e Cass. III, n. 11213/2017, entrambe proprio con particolare riferimento alla responsabilità del commercialista; Cass. III, n. 16990/2015, con riferimento alla responsabilità professionale del notaio; Cass. II, n. 16023/2002, con riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato). La dottrina tradizionale riconduce quelle professionali nell'abito della categoria delle obbligazioni di mezzi e non di risultato, facendone discendere la natura di responsabilità di tipo soggettivo fondata sulla colpa (D'Amico, 105). Ne consegue la riconducibilità della mancata realizzazione del risultato a causa non imputabile al debitore, sul quale graverebbe il solo onere probatorio di dimostrare la condotta diligente e perita (in quanto adottata in base a cognizioni tecniche inerenti la qualificazione professionale posseduta), in base alla natura dell'attività intellettuale richiesta ed alle relative regole dell'arte (in termini generali, per l'utilità della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, si veda, diffusamente, Trimarchi). Altra dottrina, che sembra progressivamente informare la giurisprudenza anche in tema di responsabilità professionali, assume invece posizioni critiche sull'utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato (al di là della rilevanza dogmatica e classificatoria). Essa, ancorché operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), origina contrasti sia in ordine all'oggetto o contenuto dell'obbligazione sia in relazione all'onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista. La distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato non si fonderebbe quindi sulla diversità di oggetto delle obbligazioni, assistendosi ad una scissione tra interesse primario del creditore e risultato dovuto dal debitore, concretizzandosi nel comportamento idoneo al raggiungimento del risultato voluto dal creditore, con l'unica effettiva differenza da individuarsi nella sola diversa identificazione dei temi di prova dell'inadempimento (Mengoni, 185-280; Piraino, 2008, 115; Piraino, 2011, 576). In generale, quindi, anche con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale (professionale) ma non solo, autorevole dottrina, ritenendo che non sussistano obbligazioni con riferimento alle quali il debitore debba assicurare il risultato a prescindere dalla diligenza dallo stesso esigibile, essendo la diligenza regola generale del diritto delle obbligazioni, sostiene che la distinzione tra le due obbligazioni rilevi sull'oggetto del giudizio d'impossibilità della prestazione ex art. 1218 c.c.. Nelle obbligazioni di mezzi, in particolare, il debitore sarebbe liberato nel caso di impossibilità della specifica attività dedotta in obbligazione (sempre strumentale al soddisfacimento dell'interesse/risultato creditorio). Per converso, nelle obbligazioni di risultato la liberazione del debitore consegue alla prova dell'impossibilità della realizzazione della finalità dedotta in obbligazione mediante qualunque condotta strumentale ad essa esigibile dal creditore (Bianca, 1993, 74). Argomentando nei detti termini, l'orientamento da ultimo considerato, conclude nel senso che anche nelle obbligazioni nascenti da contratto di prestazione d'opera intellettuale, il fine del creditore, dedotto in obbligazione, non si identifica nella mera conformità della condotta del debitore alle regole di diligenza e di perizia del tecnico di media attenzione e preparazione bensì nelle conseguenze positive per il cliente che dovrebbero derivare dall'opera secondo un nesso di derivazione naturale, nel rispetto delle regole dell'arte ed in assenza di fattori imprevedibili ed inevitabili tali da rendere impossibile il conseguimento del risultato (Castronovo, 1998, 117-121, per il quale è necessaria la valorizzazione del criterio della diligenza, quale regola tecnica del professionista medio; Di Majo, 1998, 40, in generale, sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato; si veda anche, con riferimento all'origine francese della distinzione, Viney, 628; sempre circa la generale distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, si vedano, tra i tanti: De Lorenzi, 397; Mengoni, 185-280, e Sicchiero, 2322, il quale, dopo attenta disamina delle contrapposte tesi dottrinali, anche francesi, circa la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, con particolare riferimento alle attività professionali, propone una ricostruzione alternativa che si fonda sulla diversa distinzione tra obbligazioni governabili ed obbligazioni non governabili; per gli obblighi di informazione caratterizzanti l'attività professionale – in specie del notaio – si veda, per tutti, Celeste, 386; per il dialogo dottrinal-giurisprudenziale circa la natura dell'obbligazione del professionista, tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato, con particolare riferimento alle conseguenze in tema di riparto dell'onere probatorio ed all'attuale diversità dell'elaborazione giurisprudenziale in merito all'atteggiarsi del detto riparto – con particolare riferimento alla responsabilità medica ed a quella dell'avvocato, si veda Scalia-Centofanti, 242). Obblighi di verifica, consiglio, dissuasione e consulenza tecnica. Con particolare riferimento all'attività del commercialista (al pari di quanto ritenuto per gli altri professionisti ed in particolare di quelli legali), è principio consolidato in sede di giurisprudenza di legittimità quello per il quale, il parametro della diligenza qualificata impone al professionista, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., di assolvere nell'espletamento della propria prestazione d'opera intellettuale anche obblighi (c.d. intermedi) di verifica, informazione e dissuasione oltre che di consiglio e di consulenza tecnica, in ipotesi anche fiscale. Egli è difatti tenuto a rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi, oltre che di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso ed a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe sul professionista (anche commercialista) l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta. Sarebbe al riguardo peraltro insufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi, stante la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio (si vedano, ex plurimis: Cass. III, n. 13007/2016 e Cass. III, n. 14639/2015, proprio con specifico riferimento alla responsabilità professionale del commercialista; Cass. II, n. 14597/2004 e Cass. II, n. 16023/2002, con riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato). In applicazione del principio la Suprema Corte ha ritenuto che il dovere di informazione sussista dunque anche in caso di contrasto interpretativo, dovendo il professionista (nella specie commercialista) rendere edotto il cliente delle possibilità di impugnare il provvedimento sfavorevole (nella specie, mediante ricorso per cassazione) allo scopo di sperimentare una possibilità di esito favorevole, fatte ovviamente le opportune valutazioni in concreto in ordine alla possibilità di successo del ricorso anche nel merito delle questioni dedotte in giudizio (nella specie tributarie). Ciò attraverso cioè un ponderato bilanciamento tra il costo del rimedio impugnatorio ulteriore e le possibilità di ricavarne concreta utilità, onde rimettere, in definitiva, la responsabilità della decisione ad una ponderata delibazione del cliente stesso (Cass. III, n. 14639/2015 la quale ha cassato la sentenza impugnata per non aver il giudice di merito verificato se il commercialista, nell'espletamento del suo mandato, fosse stato diligente nell'aver rappresentato al cliente tutte le circostanze necessarie per poter assumere una decisione consapevole finalizzata ad impugnare il provvedimento della Commissione Tributaria Regionale). Dovere di informazione ed incarico di consulenza. La particolare considerazione (anche) del dovere di informazione, qualificante la diligenza del commercialista, emerge, emblematicamente ma non esclusivamente, con riferimento agli incarichi di consulenza, come statuito ed argomentato (di recente) anche da Cass. III, n. 13007/2016. La Suprema Corte difatti chiarisce che qualora si tratti di attività di consulenza richiesta ad un dottore commercialista, il dovere di diligenza impone, tra gli altri, l'obbligo, non solo di fornire tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e che rientrino nell'ambito della competenza del professionista ma, tenuto conto della portata dell'incarico conferito, di individuare anche le questioni che esulino da detto ambito di competenza. Il professionista incaricato dovrà perciò informare il cliente dei limiti della propria competenza e fornire gli elementi ed i dati comunque nella sua conoscenza per consentire al cliente di prendere proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente. La definizione dell'ampiezza di questo dovere di informazione e la valutazione della diligenza richiesta nell'adempimento presuppongono altresì l'esatta individuazione dei termini dell'incarico conferito al professionista. Sicché, conclude il Giudice di legittimità, nel caso di incarico non implicante la proposizione di un'impugnazione (nella specie, in cassazione) ma comunque avente ad oggetto una vera e propria consulenza, sia pure «di carattere tecnico» e «di prima informazione», a seguito dell'esito infausto per il contribuente di un ricorso dinanzi alla commissione tributaria regionale, l'informazione assume carattere peculiare. L'obbligo di diligenza connesso all'incarico di consulenza così conferito implica difatti quello di informare il cliente non solo delle ragioni di natura giuridica o tecnico-contabile che stanno a fondamento della sentenza sfavorevole (indubbiamente rientranti nella competenza del dottore commercialista, in quanto soggetto abilitato al patrocinio dinanzi alle commissioni tributarie) ma anche dei rimedi astrattamente esperibili, pur se non praticabili dallo stesso professionista (in quanto nella specie non abilitato a promuovere ricorso innanzi alla Corte di cassazione). Il commercialista, in particolare, deve rendere edotto il cliente della necessità di rivolgersi ad un avvocato abilitato, nei tempi previsti dall'ordinamento per impugnare la sentenza. Essendo però, come innanzi evidenziato, l'obbligo di informazione strettamente correlato al conferimento di un vero e proprio incarico professionale occorrerà accertare non solo la sussistenza di quest'ultimo ma valutare il tipo e la portata di esso oltre che le modalità di svolgimento del rapporto tra il professionista ed il cliente, che ne è seguito, per tutto il successivo periodo utile alla proposizione dell'impugnazione. Le argomentazioni di cui innanzi evidenziano quanto sia rilevante verificare, al fine di accertare come in concreto si atteggi l'eventuale responsabilità professionale del commercialista, la sussistenza dell'incarico di impugnare la decisione del Giudice tributario in capo al professionista (con onere probatorio in capo al cliente attore). Quanto appena detto rileva maggiormente in forza della circostanza per la quale, in ipotesi, l'esclusione o la mancanza di tale incarico conferiscono ben altra valenza anche al citato «onere professionale di informazione». Quest'ultimo – quale fonte di responsabilità risarcitoria –, alla stregua di corretta valutazione in sede di merito, potrebbe difatti essere del tutto escluso o parzialmente escluso (sotto il profilo della concorrenza) nel caso, da verificare in concreto, di manifestazione ostativa ovvero di mancato conferimento dell'incarico professionale avente ad oggetto l'impugnazione (Cass. II, n. 10189/2014). Il detto incarico avente ad oggetto la proposizione di un ricorso innanzi alla commissione tributaria, non essendo contemplata la forma scritta per il contratto di prestazione d'opera professionale, può però essere conferito in forma orale, indipendentemente dal rilascio di procura, con conseguente esclusione per il cliente dell'onere di controllare che il professionista rispetti i termini di legge (Cass. III, n. 5264/1996). Il commercialista al quale sia affidato un incarico di consulenza, in definitiva ed in termini generali, ha l'obbligo, quale che sia l'oggetto specifico della prestazione, di prospettare al cliente sia le soluzioni praticabili, che quelle non praticabili, così da porlo nelle condizioni di scegliere secondo il migliore interesse. Proprio in applicazione del principio di cui innanzi, Cass. III, n. 14387/2019 ha ritenuto configurabile la responsabilità di un commercialista che, nel rendere un parere sulla modalità fiscalmente più conveniente, per un socio lavoratore, di uscire dalla società, aveva prospettato al cliente la sola ipotesi del recesso, senza informarlo delle eventuali difficoltà legate alla possibilità di cedere le proprie quote. Diligenza, prudenza, perizia e limitazione di responsabilitàIl rigoroso criterio di accertamento della colpa professionale, di cui all'art. 1176 comma 2 c.c., implica che la nozione di professionista medio, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, sottende un professionista «bravo, serio, preparato, zelante ed efficiente», cioè non già il professionista mediocre bensì quello di elevata professionalità (ex plurimis, in tema di responsabilità medica, Cass. III, n. 24213/2015; Cass. III, n. 17143/2012). Per negligenza deve difatti oggi intendersi la violazione di regole sociali (nella specie caratterizzanti anche l'attività del notaio) e non solo la mera disattenzione. L'imprudenza è intesa quale violazione delle modalità imposte delle regole sociali per l'espletamento di certe attività mentre l'imperizia implica violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione (nella specie quelle inerenti le regole tecniche sottese all'attività notarile), non essendo più connessa alla mera insufficiente attitudine all'esercizio di arti e professioni (ex plurimis, Cass. III, n. 9471/2004, in materia di responsabilità professionale – nella specie, medica). Emblematicamente, autorevole dottrina evidenzia che la diligenza ha la funzione di misurare l'obbligo al quale il soggetto è tenuto, riscontrando che in merito alle responsabilità professionali (nella specie, medica) la giurisprudenza si orienta in termini rigorosi circa la valutazione della diligenza (Bianca, 1990, 478); laddove la diligenza del professionista consiste nel rispetto di quel complesso di norme/tecniche che caratterizzano l'esecuzione di una prestazione d'opera intellettuale (in merito si veda, diffusamente, Di Majo, 1988; per il modo di atteggiarsi della diligenza qualificata nelle prestazioni d'opera intellettuale, con particolare riferimento alla responsabilità del notaio, si veda, Celeste, 404). Con particolare riferimento alla responsabilità professionale (anche) del commercialista, in linea con l'orientamento di cui innanzi, la Suprema Corte chiarisce il criterio per la valutazione della diligenza qualificata del professionista, ex artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., ritenendola speciale, rafforzata e di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione richiesta. Essa Precisa altresì che l'art. 2236 c.c. non esonera affatto il professionista-debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di prestazioni complesse ma si limita a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza (ex plurimis: Cass. III, n. 13007/2016 e Cass. III, n. 14639/2015, proprio con specifico riferimento alla responsabilità professionale del commercialista; si vedano altresì, ex plurimis: Cass. III, n. 16990/2015, con riferimento alla responsabilità professionale del notaio; Cass. II, n. 14597/2004 e Cass. II, n. 16023/2002, con riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, nonché, in termini generali circa la diligenza qualificata ex art. 1176 comma 2 c.c. ed i suoi rapporti con l'art. 2236 c.c., ancorché nella specie in materia di contratto di appalto, Cass. III, n. 16254/2012). Al professionista (ancor più se specialista), difatti, è richiesta a una diligenza «particolarmente qualificata» dalla perizia e dell'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare ed allo standard professionale della categoria di appartenenza. L'impegno dovuto dal professionista, pur se superiore a quello del comune debitore, va considerato corrispondente alla diligenza non del buon padre di famiglia bensì a quella normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata, in quanto deve impiegare perizia e mezzi tecnici di cui allo standard di categoria. Sicché, è proprio il detto standard che concorre a determinare il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo di diligenza adeguato per conseguirlo oltre che del relativo grado di responsabilità (ex plurimis, Cass. III, n. 7682/2015 e Cass. III, 11208/2017, in materia di responsabilità professionale – nella specie, medica –). Per una ipotesi di ritenuta corretta valutazione dell'esistenza e del grado della colpa professionale del commercialista si veda Cass. III, n. 10966/2004. Nella specie la Suprema Corte ha ritenuto esente da vizi di motivazione la sentenza di merito che aveva affermato la responsabilità professionale del commercialista che, non avendo compiuto un esame accurato degli atti rimessigli dal cliente, aveva fatto decorrere i tempi per proporre l'opposizione dinanzi al competente giudice tributario, tenuto in considerazione anche il fatto che, all'epoca, il rito tributario non prevedeva la condanna del contribuente al pagamento delle spese processuali e la prevedibilità di un imminente condono. Nel detto concetto di diligenza qualificata rientrerebbero, per giurisprudenza dominante, anche i c.d. obblighi intermedi, tra i quali il già trattato obbligo di informazione, anche se una parte della giurisprudenza non li colloca nell'ambito dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, ritenendoli rilevanti quali obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, in forza di un generale principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) che, se violato, implica il sorgere di responsabilità (contrattuale ma anche, in ipotesi, extracontrattuale). Tali obblighi si concretizzerebbero, per tale ultima tesi, anche nel mantenere un comportamento leale, osservando obblighi di informazione e di avviso nonché di salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine a falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati da terzi (ex plurimis, tra le più recenti, proprio con riferimento alla responsabilità professionale: Cass. III, n. 16990/2015, circa la responsabilità del notaio; Cass. III, n. 7682/2015, con riferimento alla responsabilità professionale del medico, ed in termini generali, Cass. S.U., n. 28056/2008, circa i limiti dell'apprezzabile sacrificio). In tema di responsabilità professionale, in definitiva, la relazione tra gli artt. 1176 e 2236 c.c. è di integrazione per complementarietà e non già per specialità, cosicché vale come regola generale quella della diligenza del buon professionista (art. 1176 comma 2 c.c.), con riguardo alla natura dell'attività prestata. Nel caso in cui la prestazione implichi invece la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà opera la successiva norma dell'art. 2236 c.c., delimitando la responsabilità professionale al dolo o alla colpa grave e non anche alla colpa lieve. Sicché, solo attraverso l'integrazione delle due citate norme potrà operarsi una valutazione complessiva della condotta del professionista. Tale rapporto è tradizionalmente letto dalla Suprema Corte nel senso che la responsabilità del professionista presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra i quali il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata, che comporta anche il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obbiettivamente connesse all'esercizio della professione e ricomprende, pertanto, anche la perizia. La limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. opera quindi solo ove il caso concreto richieda un impegno intellettuale superiore a quello professionale medio, con conseguente presupposizione di preparazione e dispendio di attività anche esse superiori alla media (ex plurimis, proprio con particolare riferimento alla responsabilità professionale, ancorché del notaio, Cass. III, n. 16990/2015). La distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà rileva difatti soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa. Spetta invece al professionista (anche commercialista), che invochi la limitazione di responsabilità in esame, la prova della particolare difficoltà della prestazione, in conformità con il principio di generale «favor» per il creditore danneggiato cui l'ordinamento è informato. Per esso, chi agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione professionale deve difatti provare il contratto (o il contatto sociale qualificato) ed allegare l'inadempimento del professionista, restando a carico dell'obbligato l'onere di provare l'esatto adempimento (sull'onere probatorio si veda: per la responsabilità professionale in generale, tra le più recenti, Cass. III, n. 11213/2017, circa l'incaricato della cura della contabilità fiscale; per il professionista avvocato, Cass. II, n. 5928/2002 e per gli altri professionisti, compreso il commercialista, si vedano i riferimenti di seguito riportati nel presente paragrafo ed in quello specificamente riguardante tale tematica). La giurisprudenza di legittimità chiarisce però che la limitazione della responsabilità alla sola colpa grave (oltre che al dolo), di cui all'art. 2236 c.c., opera con riferimento al solo parametro della perizia. Ciò è affermato, proprio in tema di limitazione della responsabilità professionale del notaio ritenendo che essa, a norma dell'art. 2236 c.c., si applichi nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e che, in ogni caso, attenga esclusivamente all'imperizia e non all'imprudenza o alla negligenza. Ne consegue che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione della sua prestazione, provochi un danno per omissione di diligenza o per comportamento imprudente (ex plurimis, proprio con riferimento alla responsabilità professionale: con riferimento al notaio, Cass. III, n. 22398/2011, Cass. II, n. 4427/2005, Cass. II, n. 1228/2003 e Cass. III, n. 5946/1999; in merito alla responsabilità medica, Cass. III, n. 4797/2007, Cass. III, n. 9085/2006, Cass. III, n. 11440/1997; in ordine all'avvocato, Cass. III, n. 6937/1996). L'operatività della limitazione della responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. alla sola ipotesi dell'imperizia, è avallata anche dalla Consulta (Corte cost. n. 166/1973). Essa, nel non ritenere fondata, in relazione all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 c.p., nella parte in cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il giudice attribuisca rilevanza penale soltanto a gradi di colpa di tipo particolare, precisa che il differente trattamento giuridico riservato al professionista la cui prestazione d'opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione, non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha difatti in sé una sua adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti. La dottrina concorda con la giurisprudenza nel ritenere che la limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., alle sole ipotesi di dolo o colpa grave in caso di prestazione implicante risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, infine, riguardi soltanto la competenza tecnica, applicandosi, di conseguenza, alle sole ipotesi di imperizia e non anche di imprudenza e negligenza (Zana, 1991, 4; Zana, 1987, 162, il quale evidenzia che l'art. 2236 c.c. integra la codificazione di una regola giurisprudenziale consolidatasi nella vigenza del precedente codice, facendo riferimento anche a Cass. S.U., 8 marzo 1937, in Resp. civ. e prev., 1937, 314; Perulli, 592, che evidenzia la necessità, nell'applicazione della norme di cui all'art. 2236 c.c., di considerare l'esistenza di specializzazioni in determinate materie, negli stessi termini, in precedenza ma con particolare riferimento al professionista legale, Pensa, 39). Tale limitazione non opera, peraltro, nel caso di professionista generico che consapevolmente, nella risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, non consulti il professionista specialista, salvo che la stessa difficoltà non sia riconoscibile del professionista medio o nona sia possibile ricorrere allo specialista ovvero che la difficoltà comunque sussista anche per i professionisti di livello superiore a quello medio (Cattaneo, 76). La stessa definizione di speciale difficoltà, riferita ai problemi tecnici di cui al citato art. 2236 c.c., non è definibile in termini generali ed astratti ma solo con riferimento al caso concreto ed in merito alla qualificazione soggettiva del professionista (Giacobbe, 1084). Sicché, il rapporto tra le due norme, gli artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., deve intendersi in termini non di specialità bensì di complementarietà, cioè nel senso che le due norme si integrerebbero). Dichiarazione dei redditi e responsabilitàIn tema di dichiarazione dei redditi, il contribuente non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento ad un commercialista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione alla competente Agenzia delle Entrate, essendo tenuto a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto, quindi ad un'attività di vigilanza e controllo sull'effettiva esecuzione. Sicché la sua responsabilità è esclusa solo in caso di comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento (si vedano, ex plurimis, Cass. V, n. 11832/2016; Cass. V, n. 25580/2015). Questo orientamento è ribadito di recente da Cass. V, n. 6930/2017, in tema di sanzioni per violazione di norme tributarie. La Suprema Corte chiarisce difatti che la prova dell'assenza di colpa grava, secondo le regole generali dell'illecito amministrativo, sul contribuente, il quale, dunque, risponde per l'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del professionista incaricato della relativa trasmissione telematica ove non dimostri di aver vigilato su quest'ultimo (si veda altresì Cass. V, n. 17579/2003). Ferma restando la responsabilità (tributaria ed amministrativa) del cliente-contribuente nelle ipotesi di riscontrata sua colpa, nei rapporti interni tra cliente-contribuente e commercialista la descritta condotta del professionista potrebbe però fondare responsabilità risarcitoria per inadempimento della prestazione d'opera intellettuale su di lui gravante in forza del contratto concluso con il cliente. La detta responsabilità professionale non è altresì esclusa dall'eventuale accordo tra commercialista e cliente, con riferimento alla presentazione di una dichiarazione dei redditi irregolare, essendo altresì configurabile nel caso di non corretta applicazione delle regole che presiedono alla denuncia dei redditi del singolo dichiarante. Sotto il profilo da ultimo evidenziato, difatti, ex artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., il commercialista incaricato della compilazione della dichiarazione dei redditi deve conoscere ed applicare la corretta normativa per andare esente da responsabilità contrattuale verso il cliente. In applicazione del principio la Suprema Corte ha confermato la condanna al risarcimento dei danni per il professionista che aveva sbagliato nell'imputare a reddito d'impresa familiare i proventi di una società di fatto. Nella specie, difatti, il giudizio di merito aveva accertato che nel caso specifico il commercialista non aveva adempiuto nell'assolvimento dell'incarico di predisporre la dichiarazione dei redditi del cliente con la diligenza, espressamente prevista dall'art. 1176, comma 2, c.c. e la perizia che si richiedono al professionista nell'espletamento dell'incarico ricevuto (Cass. III, n. 8860/2011). Il commercialista è altresì chiamato al pagamento di parte delle sanzioni inflitte al contribuente a titolo di risarcimento dei danni subiti da quest'ultimo anche a prescindere dall'esistenza di un patto con il cliente per commettere le violazioni. L'eventuale accordo, infatti, è comunque contrario alla legge e al codice deontologico perché il commercialista ha l'obbligo di espletare l'incarico affidatogli con diligenza e secondo le regole della professione, essendo preciso obbligo di diligenza del professionista non esporre in dichiarazione costi privi di documentazione e non inerenti all'anno della dichiarazione (Cass. III, n. 9916/2010). I principi di cui innanzi, sono stati di recente ribaditi dalla Suprema Corte ed applicati con riferimento ad un'ipotesi di ritenuta responsabilità per la causa della contabilità fiscale. Cass. III, n. 11213/2017, facendo peraltro i consolidati criteri di riparto dell'onere probatorio con riferimento alla responsabilità professionale, ha difatti confermato la sentenza con la quale era stata accolta la pretesa risarcitoria avanzata da un soggetto che, ricevuto un invito a comparire innanzi all'Agenzia delle entrate, aveva trasmesso la relativa documentazione ai soggetti incaricati di curare la contabilità fiscale. Nella specie è stata ritenuta sufficiente, ai fini dell'affermazione della responsabilità di cui innanzi, la prova dell'avvenuta trasmissione dei documenti nonché, della condotta consistita, dapprima, nella negligente assenza all'incontro suddetto nonché, di seguito, nel suggerimento di proporre una domanda di condono fiscale, rivelatasi soluzione non percorribile giuridicamente. Il Giudice di legittimità ha altresì ritenuto priva di pregio la circostanza per la quale il giudizio di merito non si fosse fatto carico della prova che la comparizione del professionista avrebbe raggiunto il risultato positivo, cioè il mancato accertamento tributario, e che la prestazione, trattandosi di obbligazione di mezzi e non di risultato, non avrebbe potuto estendersi ad evitare l'accertamento. La Suprema Corte, in particolare, dopo aver concordato circa la natura di mezzi dell'obbligazione di cui innanzi, ha chiarito che pur non potendosi esigere che l'intervento del consulente evitasse l'accertamento tributario era legittimo pretendere che il professionista partecipasse all'incontro e negoziasse una sanzione inferiore, senza limitarsi a suggerire erroneamente un condono impossibile. La circostanza poi che il giudice di merito avesse correttamente considerato come di mezzi e non di risultato l'obbligazione è stata poi anche argomenta dalla quantificazione del danno, riconosciuta in misura inferiore alla somma richiesta dal contribuente. Predisposizione di schema di bilancio e controllo dei dati fornitiI principi ed i parametri di diligenza per valutare l'eventuale responsabilità professionale del commercialista operano anche con riferimento all'attività inerente allo schema di bilancio. Come di seguito esplicitato, la giurisprudenza (di legittimità e di merito) però conclude in senso negativo circa la responsabilità del commercialista per omessa verifica della corrispondenza alla realtà dei dati contabili forniti dagli amministratori, salvo specifico conferimento di incarico avente ad oggetto il controllo contabile, argomentando da altre norme, specificamente governanti le peculiari materie in oggetto. In tema di responsabilità professionale, non può ritenersi implicitamente incluso, nell'incarico generico dato ad un dottore commercialista di predisporre uno schema di bilancio di una società di capitali, l'obbligo di verificare la corrispondenza alla realtà dei dati contabili forniti dagli amministratori, con conseguente esclusione di responsabilità in capo al commercialista. Gli artt. 2423 e ss. c.c. e 2403 c.c., difatti, individuano nell'organo amministrativo e nel collegio sindacale gli unici soggetti responsabili in relazione alla corretta informativa del bilancio, mentre la voce prevista dall'art. 34 del d.P.R. n. 645/1994 sulla redazione del bilancio «a norma di legge» non include anche gli onorari «per l'accertamento dell'attendibilità dei bilanci», contemplati invece nell'art. 32 del medesimo decreto. In applicazione del principio, Cass. II, n. 15029/2013 ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva argomentato l'esclusione di responsabilità del commercialista evidenziando che: l'art. 2403 c.c. attribuisce al collegio sindacale la delega del controllo della regolare tenuta della contabilità sociale e della corrispondenza ad essa del bilancio; gli artt. 2423 e ss. c.c. individuano nell'organo amministrativo l'esclusivo referente e destinatario della responsabilità per gli obblighi inerenti alla formazione del bilancio e in particolare degli obblighi sostanziali di chiarezza, verità e correttezza, oltre che di prudenza delle singole poste; l'art. 2381 c.c. non permette la delegabilità dei richiamati obblighi sostanziali di redazione del bilancio nemmeno ai singoli componenti del consiglio di amministrazione d che le tariffe professionali dei dottori commercialisti prevedono specifiche voci inerenti il controllo contabile. Parimenti, prosegue la Suprema Corte, il dottore commercialista non può essere ritenuto responsabile della violazione degli obblighi di deontologia professionale nell'ipotesi in cui, incaricato della redazione dello schema di bilancio sulla base dei documenti contabili forniti dall'organo amministrativo, non abbia chiesto a tale organo ulteriori informazioni e non si sia astenuto dall'incarico, allorché egli non fosse in grado di rilevare anomalie od incongruenze particolari nei dati contabili ricevuti. È stata così ritenuta adeguatamente motivata la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità del professionista in quanto le pur ingenti poste debitorie esposte in bilancio trovavano riscontro nei bilanci degli esercizi precedenti e si riferivano a crediti verso una Usl, unico cliente sociale ed il cui adempimento, secondo il notorio, avviene usualmente con un certo ritardo. Danno: nesso causale e riparto dell'onere probatorioPer la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, la responsabilità del prestatore d'opera intellettuale, nei confronti del cliente, per negligente o imperito (ovvero imprudente) svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova, oltre che del titolo (contrattuale o da «contatto sociale»), del danno e del nesso eziologico tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente, con allegazione dell'inadempimento qualificato del creditore (ex plurimis, tra le più recenti, Cass. III, n. 1121372017, in materia di prestazione d'opera professionale avente ad oggetto la cura della contabilità fiscale). In tema di nesso causale oltre che di riparto dell'onere probatorio, con particolare riferimento anche alla responsabilità del commercialista, la giurisprudenza, in attuale continua evoluzione, tende ad applicare le comuni regole caratterizzanti la responsabilità contrattuale, in particolare relativa all'attività professionale, essendo ormai da tempo abbandonato il c.d. criterio della «certezza morale» (nei termini di seguito evidenziati). Riparto dell'onere probatorio. La giurisprudenza di legittimità nell'attualità è giunta a rivisitare la sua impostazione in merito agli effetti, anche in termini di riparto dell'onere probatorio, della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, con particolare riferimento anche alla materia della responsabilità professionale ed in specie a quella del commercialista. Dalla tradizionale distinzione di cui innanzi si argomentava difatti per sostenere che, nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, incombesse sul creditore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da scarsa diligenza (o perizia o prudenza) e che, nelle obbligazioni di risultato, per converso, incombesse sul debitore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da causa a lui non imputabile. La distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, pur conservando la funzione descrittiva innanzi evidenziata, è invece superata, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio, già da Cass. S.U., n. 13533/2001, cit., che sancisce il principio della vicinanza della prova, oltre che a partire dalla già citata Cass. S.U., n. 577/2008, anche se con particolare riferimento alla responsabilità professionale medica (si veda quanto chiarito nei precedenti paragrafi). La Suprema Corte, con la citata sentenza a Sezioni Unite del 2001, afferma difatti che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c., in materia di responsabilità contrattuale, in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell'onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito, è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che si domandi il risarcimento per inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., senza che rilevi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, quindi anche nascente da contratto di prestazione d'opera intellettuale (o da «contatto sociale qualificato»), in virtù del principio da ultimo citato, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte. Graverà invece sul creditore convenuto l'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento. Identico criterio di riparto dell'onere della prova è applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione. Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni, gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento. Nell'affermare il principio di diritto che precede, le Sezioni Unite precisano altresì che esso trova un limite nell'ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell'inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento (Cass. S.U., n. 13533/2001, cit.). Sicché, chiariscono nel 2008 le Sezioni Unite, proprio in applicazione del suddetto principio della vicinanza della prova, che, come detto, prescinde nella sua applicazione dalla dogmatica distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni c.d. di comportamento (o di mezzi) non è qualunque inadempimento bensì solo quello causa (o concausa) efficiente del danno. L'allegazione del creditore non può dunque attenere ad un inadempimento qualunque esso sia ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno (Cass. S.U., n. 577/2008, cit.; si vedano altresì, nel senso che è qualificato l'inadempimento quando è astrattamente idoneo a provocare, quale causa o concausa efficiente, l'evento di danno, ex plurimis, con particolare riferimento alla responsabilità professionale medica, Cass. III, n. 20547/2014, Cass. III, n. 27855/2013). La natura contrattuale della responsabilità del professionista (quindi anche del commercialista), quindi, in forza degli evidenziati principi di cui alle citate Sezioni Unite del 2008, implica, sotto il profilo del riparto dell'onere probatorio, che incombe in capo all'attore che agisca per il risarcimento del danno l'onere di provare il titolo (il contratto o il «contatto sociale qualificato») ed il danno nonché allegare (quindi non provare) l'inadempimento qualificato del professionista (cioè astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato). A carico del debitore (quindi anche del professionista commercialista) resta invece l'onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, perito e prudente e che, quindi, l'inadempimento non vi è stato ovvero che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta, cioè rapportata alla concreta attività posta in essere ex art. 1176 comma 2 c.c. Il debitore potrà altresì provare che, se a lui imputabile, l'inadempimento o l'inesatto adempimento non è stato causalmente rilevante (si vedano ex plurimis: Cass. III, n. 11213/2017 e Cass. III, n. 9917/2010, con particolare riferimento alla responsabilità contrattuale del commercialista; Cass. III, n. 10966/2004, in ordine alla responsabilità contrattuale dell'avvocato). Il detto criterio di riparto non muta neanche in ragione dell'eventuale operare della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., gravando sul professionista debitore la prova della sussistenza dei presupposti per l'operabilità della norma di cui innanzi (ex plurimis: Cass. III, n. 24791/2008; Cass. III, n. 583/2005). La diligenza esigibile dal professionista o dall'imprenditore, nell'adempimento delle obbligazioni assunte nell'esercizio delle loro attività, è una diligenza speciale e rafforzata, di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione a loro richiesta. Nella controversia concernente l'inadempimento contrattuale del professionista, pertanto, questi, per andare esente da un giudizio di condanna, ha l'onere di provare che l'insuccesso è dipeso da causa a lui non imputabile anche quando la prestazione richiestagli richiedeva la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, posto che problemi speciali esigono dal professionista una competenza speciale. Né a tale conclusione osta l'art. 2236 c.c., il quale non esonera affatto il professionista-debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di prestazioni complesse, ma si limita a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza (ex plurimis: Cass. III, n. 16254/2012, con riferimento, in generale, alle prestazioni d'opera professionale e, in particolare, nella materia dell'appalto; più di recente, con particolare riferimento alla responsabilità professionale del notaio, Cass. III, n. 16990/2015). Nonostante rimanga immutato il riparto dell'onere probatorio comunque, acclarata la colpa del professionista, il rilievo che la prestazione eseguita comporta la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà può essere compiuto d'ufficio dal giudice sulla base di risultanze istruttorie ritualmente acquisite, non formando oggetto di un'eccezione in senso stretto (Cass. III, n. 25746/2015). La domanda di risarcimento del danno, basata sulla colpa grave, peraltro, contiene quella per colpa lieve, senza che, pertanto, la pronuncia di condanna fondata su colpa lieve del professionista possa dar luogo a vizio di ultrapetizione (Cass. II, n. 8546/2005). In sintonia con gli evidenziati criteri, Cass. III, n. 14387/2019, chiarisce che nel caso in cui ad un commercialista venga affidato un incarico di consulenza avente ad oggetto la valutazione del costo fiscale di un'operazione, ove il cliente alleghi l'erroneità del calcolo effettuato dal consulente, grava su quest'ultimo l'onere di dimostrare che la maggior somma pagata dal cliente sia dipesa da fatti a lui non imputabili in quanto imprevedibili. Il consulente contabile che, incaricato di assistere le parti in un'operazione di cessione di ramo di azienda, abbia dichiarato il valore dell'avviamento, per la determinazione della base imponibile a fini fiscali, in misura di gran lunga inferiore alla reale capacità di profitto dell'attività produttiva, è invece tenuto quanto meno ad avvertire i clienti delle conseguenze derivanti da tale dichiarazione non veritiera; in mancanza, egli pone in essere un comportamento non conforme alla diligenza qualificata cui è vincolato per l'incarico professionale, essendo tenuto a fornire alle parti una consulenza funzionale, non solo, al raggiungimento dello scopo dell'operazione, ma anche al rispetto dei doveri imposti dalla normativa fiscale; sicché risponde dei danni originati da tale comportamento anche nella sola ipotesi di colpa lieve. In applicazione del principio di cui innanzi Cass. II, n. 13828/2019, ha cassato la sentenza gravata che aveva escluso ogni responsabilità del consulente per i danni subiti dal cliente in conseguenza della rettifica, da parte dell'Agenzia delle Entrate, del dichiarato valore di avviamento del ramo di azienda ceduto, sul presupposto che l'errata valutazione dell'avviamento fosse stata concordata tra il professionista e il cliente). In dottrina si prospetta l'applicazione, anche con riferimento alla responsabilità professionale, del principio della «vicinanza della prova», in forza del quale la dimostrazione di determinati fatti deve essere fornita da chi è più vicino ad essi e, quindi, alla loro prova, che permea di sé la responsabilità anche contrattuale. Trattasi di principio già fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità anche con riferimento alla responsabilità professionale, sul presupposto che essa abbia natura contrattuale (da contratto a da «contatto sociale»), laddove, invece, le regole di riparto muterebbero sensibilmente nel caso di responsabilità extracontrattuale. Sicché, graverebbe in capo al cliente, in quanto creditore della prestazione professionale, l'onere di provare non solo il titolo ma anche il non raggiungimento del risultato ovvero la mancata tenuta della condotta (oltre che il danno ed il nesso eziologico) mentre graverebbe sul professionista, in quanto debitore della prestazione professionale, dimostrare l'esatto adempimento mediante la dimostrazione della diligenza e della perizia impiegate e della causa non imputabile (Fortino, 65, anche con riferimento alla responsabilità del professionista legale). La dottrina pone in evidenza la necessità, sempre più sentita soprattutto dai giudici di merito ma anche dalla Suprema Corte, di adattare alle singole concrete fattispecie oggetto del contendere ai principi della «presunzione di persistenza del diritto insoddisfatto e della «riferibilità o vicinanza o disponibilità della prova», elaborati, in generale, in tema di inadempimento delle obbligazioni, ed in particolare con riferimento alla responsabilità per autolesione dell'alunno, in merito alla tutela reale per il lavoratore ingiustamente licenziato oltre che nella materia della responsabilità professionale. Muovendo dall'articolo 1312 del c.c. previgente ed analizzando l'attuale art. 2967 c.c. (quale disposizione in bianco), in relazione all'art. 24 Cost., si concorda con la circostanza per la quale il riparto dell'onere probatorio tra creditore-attore e debitore-convenuto debba ritenersi non «cristallizzato» sulla rigida posizione che gli stessi occupano nel rapporto giuridico obbligatorio ma, al contrario, debba ancorarsi alla concreta vicenda oggetto del contendere. Solo così argomentando il principio della riferibilità della prova può essere ricondotto, come insegna la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, all'articolo 24 Cost. che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l'esercizio (Antezza, 2006, 6, 29). Rimane però il problema, evidenziato dalla detta dottrina, dell'«ancoraggio» della decisione del giudice in merito all'individuazione del soggetto «più vicino alla prova», a parametri non fissi ma comunque tali da non mettere in crisi un altro importante principio giuridico, quello della certezza del diritto. Esso, difatti, si pone a base del giudizio circa la ipotetica accoglibilità della domanda giudiziale che ogni soggetto deve (rectius: dovrebbe) effettuare prima di agire o resistere in giudizio. Per tale tesi, quindi, ci si deve chiedere se in ogni caso di obbligazioni di mezzi, coincidendo l'inadempimento con il difetto di diligenza e/o di perizia (rapportato allo risultato voluto dal debitore), la prova sia sempre «vicina» a chi debba eseguire la prestazione. Ci si deve quindi domandare se, perlomeno in alcuni casi, vi sia spazio per opinare diversamente sempre muovendo dalle circostanze concrete, ricordando che l'art. 24 Cost., oltre a sancire il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, invocato a giustificazione dell'applicazione dei citati principi in tema di riparto dell'onere probatorio, dispone che la difesa, anche del debitore professionista-convenuto, è diritto inviolabile. Tale diritto potrebbe rischierebbe quindi di divenire di «impossibile o troppo difficile esercizio» qualora si «cristallizzasse» l'onere della prova dell'adempimento in capo al professionista a prescindere da una attenta considerazione del caso concreto (Antezza, 2006, 6, 29; per il riparto dell'onere probatorio nelle prestazioni d'opera professionale, in particolare in merito alla responsabilità medica per «danno da nascita oltre la volontà del genitore» per mancata diagnosi di malattia del feto, si veda anche Antezza, 2006, 7-8, 15). Il nesso eziologico: il danno risarcibile. Oltre alla verifica dei rapporti di causalità materiale tra la condotta colposa del professionista e l'evento di danno, necessita sempre verificare la sussistenza di un nesso eziologico tra l'evento di danno causato dall'inadempimento ed il danno conseguenza di tale evento (c.d. causalità giuridica). Sicché occorre valutare in quale situazione il cliente si sarebbe trovato qualora il professionista avesse diligentemente adempiuto la propria prestazione, alla stregua di una valutazione prognostico-probabilistica. La Suprema Corte, muovendo dall'assunto per il quale la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente, per negligente svolgimento dell'attività professionale, presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente, precisa che nel caso di commercialista incaricato dell'impugnazione di un avviso di accertamento tributario, l'affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole del ricorso alla commissione tributaria, che avrebbe dovuto essere proposto e diligentemente seguito (ex plurimis: Cass. III, n. 13873/2020, la quale, in applicazione del principio, ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto l'evento dannoso non ascrivibile all'omissione di un commercialista, consistita nell'avere mancato di sottoscrivere i ricorsi dinanzi la Commissione tributaria provinciale, ma riconducibile alla decisione, presa in autonomia dagli amministratori e dai soci di una s.a.s., di non impugnare in cassazione l'esito sfavorevole dell'iniziativa giudiziale presso la Commissione tributaria regionale; Cass. III, 9917/2010; con riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, Cass. III, n. 10966/2004). La responsabilità anche del commercialista, in ipotesi, per omessa proposizione di impugnazione, non può difatti affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale. Occorre invece verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del professionista, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il cliente, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone. Il principio da ultimo richiamato, elaborato in tema di responsabilità dell'avvocato (ex plurimis, Cass. III, n. 2638/2013 Cass. III, n. 115/2013), ben si attaglia alla responsabilità professionale del commercialista, come evidenziato anche da Cass. III, n. 13007/2016. Per essa, in particolare, la quale la liquidazione dei danni risarcibili al cliente del commercialista presuppone l'accertamento, rimesso al giudice del merito, in ordine al se, in concreto, l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia effettivamente riconducibile, in tutto o in parte, alla mancata impugnazione (ovvero, come nella specie, alla mancata informazione in merito all'opportunità di proporla). Occorre altresì accertare l'effettiva proponibilità del ricorso e la sussistenza di ragionevoli probabilità di successo. Negli stessi termini si veda, con riferimento alla responsabilità di un ragioniere, Cass. II, n. 22026/2004. Nel caso di specie era stata dedotta la responsabilità del professionista per avere egli impugnato una serie di accertamenti d'imposta, omettendo di formulare i motivi di impugnazione nel ricorso proposto alla Commissione tributaria di secondo grado e proponendo tardivamente l'impugnazione innanzi alla Commissione centrale. La Suprema Corte, in applicazione degli esplicitati principi, ha cassato la sentenza di merito che, pur avendo accertato la responsabilità del professionista, aveva escluso la sussistenza del danno, senza accertare, con valutazione prognostica, se lo svolgimento delle difese avrebbe potuto assicurare il vittorioso esperimento delle impugnazioni. L'attuale giurisprudenza di legittimità mostra dunque di aver definitivamente abbandonato il criterio della «certezza morale», per applicare criteri probabilistici, intraprendendo un percorso di sensibile avvicinamento al più generale criterio del «più probabile che non», governante l'accertamento del nesso eziologico in sede civile. Per il detto superato criterio si veda, per tutte, Cass. III, n. 5264/1996, in materia di risarcimento per la perdita del diritto di ricorrere contro un accertamento fiscale. Secondo questa remota impostazione l'affermazione della responsabilità professionale per condotta omissiva e la determinazione del danno in concreto subito dal cliente presuppongono l'accertamento del sicuro fondamento dell'attività che il professionista avrebbe dovuto compiere e, dunque, la certezza morale che gli effetti di quella sua diversa attività ove svolta sarebbero stati, con ragionevole probabilità, vantaggiosi per il cliente. È rilevante però analizzare la fattispecie sottesa alla citata decisione del 1996 e considerare le relative argomentazioni logico-giuridiche. All'esito sembrerebbe potersi sostenere che con essa la Suprema Corte, nella sostanza, abbia intrapreso il processo di dissociazione dai suoi precedenti in materia, facenti invece applicazione proprio del criterio della certezza morale (si vedano, ex plurimis, ancorché con riferimento alla responsabilità dell'avvocato: Cass. III, n. 4044/1994; Cass. II, n. 1831/1977). La citata sentenza, difatti, ancorché formalmente richiamando ancora il criterio della certezza morale ed evocando il sicuro fondamento dell'attività, evoca criteri probabilistici. Nella specie, un dottore commercialista aveva inutilmente fatto decorrere il termine per l'opposizione avverso ordinanza di irrogazione, a carico del proprio cliente, di sanzione pecuniaria per mancata emissione di bolle di accompagnamento. Il giudice del merito aveva condannato il professionista al risarcimento del danno nei confronti del cliente, ritenendo che il primo, se avesse proposto opposizione, non solo avrebbe potuto ottenere l'applicazione della continuazione fiscale, ma, procrastinando il procedimento nei vari gradi, avrebbe potuto avvalersi del condono (successivamente intervenuto nel 1991). La Suprema Corte, sulla base dell'enunciato principio di diritto, ha cassato l'impugnata sentenza, affermando che costituisce un giudizio ragionevolmente prognostico il prevedere che il cliente avrebbe potuto godere della continuazione, ma non che il professionista avrebbe potuto presagire, ben otto anni prima, l'avvento di una legislazione premiale in quello specifico settore tributario. Così argomentando il Giudice di legittimità ha ritenuto quindi corretta la liquidazione del danno in relazione alla differenza tra la somma ingiunta e quella che sarebbe stata pagata in applicazione della continuazione fiscale ma non in relazione alla differenza tra la somma ingiunta e quella che sarebbe stata pagata in virtù del condono. Il «danno da perdita di chance»La responsabilità professionale in generale è terreno elettivo per l'elaborazione del c.d. danno da perdita di chance, anche con riferimento all'attività del commercialista, anzi, come di seguito esplicitato, proprio in tale contesto la Suprema Corte elabora principi poi applicati con riferimento ad altre ipotesi di responsabilità professionale (ed in precedenza trovanti terreno elettivo in materia di rapporti lavorativi). La teorizzazione in esame risente anche dell'evoluzione giurisprudenziale in tema d'individuazione e prova del nesso di causalità tra inadempimento della prestazione del professionista dedotta in contratto e danno, più in generale tra condotta ed evento, che evidenzia l'approdo del criterio della «preponderanza dell'evidenza» o «del più probabile che non» (anche detto della «probabilità relativa»), ispirato alla regola della «normalità causale». In tema di illecito civile, difatti, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti. Il primo volto ad identificare – in applicazione del criterio del «più probabile che non» – il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno, il secondo essendo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili. Accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica. Come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da «chance» perduta, quindi, l'accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l'applicazione della regola causale «di funzione», cioè probatoria, del «più probabile che non» (Cass. III, n. 21255/2013, la quale però fa riferimento al danno da «chance» perduta da intendersi nella specie come possibilità di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile, concludendo, in applicazione del criterio di cui innanzi, nel senso che la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorché il giudice accerti che quella diversa – e migliore – possibilità si sarebbe verificata «più probabilmente che non»). Come da tempo evidenziato, tanto da autorevole dottrina quanto dalla giurisprudenza di legittimità, la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione. Sicché, la sua perdita, id est la perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura una lesione all'integrità del patrimonio, in termini di danno emergente, la cui risarcibilità è, quindi, conseguenza immediata e diretta del verificarsi d'un danno concreto ed attuale (ex plurimis, proprio in materia di responsabilità professionale del commercialista, Cass. II, n. 15759/2001, oltre che, Cass. II, n. 22026/2004, in materia di responsabilità del ragioniere, e Cass. n. 11548/2013, con riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato; Cass. III, n. 6488/2017, in materia di perdita di chance lavorative future asseritamente subita dall'infortunato in un sinistro stradale che la Suprema Corte però qualifica come danno patrimoniale futuro; in materia di danno da perdita di chance di promozione ad una qualifica superiore nell'ambito di rapporto di lavoro si vedano: Cass. IV, n. 734/2002; Cass. IV, n. 14074/2000; Cass. IV, n. 11340/1998; Cass. IV, n. 2167/1996; Cass. IV, n. 6506/1985). In tema di chance che si determina con la partecipazione ad una controversia in sede giudiziaria basti considerare, ai fini della sussistenza della perdita di essa, come l'agire od il contraddire, anche del tutto indipendentemente dalle maggiori o minori possibilità d'esito favorevole della lite, offrano in ogni caso frequentemente occasione, tra l'altro, di transigere la vertenza o di procrastinarne la soluzione o di giovarsi di situazioni di fatto o di diritto sopravvenute, risultati che indiscutibilmente rappresentano, già di per se stessi, apprezzabili vantaggi sotto il profilo economico. Sicché, il danno da perdita della possibilità di impugnare (ovvero di proporre opposizione o di agire o resistere in giudizio) è differente dal danno da mancata impugnazione, del quale non costituisce mero elemento costitutivo, ed è accertabile, in termini di danno emergente da perdita di chance, con criteri probabilistici (si veda, al riguardo, proprio in materia di responsabilità professionale del commercialista, Cass. II, n. 15759/2001, per la quale il danno da perdita della possibilità di opposizione è differente dal danno da mancata opposizione, del quale non costituisce mero elemento costitutivo, accertabile con criteri probabilistici). La perdita di chance, essendo quest'ultima mera eventualità astratta, non è dunque risarcibile di per sé, salvo che sia verificabile nel caso concreto, in termini di ragionevole probabilità, e sempre che tale perdita sia eziologicamente riconducibile al comportamento del professionista. Ciò in applicazione del principio generale per il quale la lesione di un diritto deve tradursi in un concreto pregiudizio, senza il quale mancherebbe l'oggetto della pretesa risarcitoria. Sicché, l'accoglimento della domanda di risarcimento da perdita di chance (danno emergente), al pari della prova del danno da lucro cessante, esige la prova, anche presuntiva, dell'esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile. In applicazione del principio, per quanto detto applicabile anche al commercialista, la Suprema Corte conferma la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità dell'avocato per aver provocato l'estinzione del giudizio di merito, in base all'assunto che non vi era alcuna certezza del fatto che, se non vi fosse stata l'estinzione, la pretesa del cliente sarebbe stata accolta, e ciò anche in termini di perdita di chance di raggiungimento, nel corso del processo, di soluzioni transattive (Cass. III, n. 22376/2012, in Contratti, 2014, 3, 251, con commento di Attinà, 253; si veda, più di recente ma in materia di appalto di opere pubbliche, Cass. I, n. 19604/2016, che esplicitamente lo inquadra nel danno emergente facendo riferimento ad un pregiudizio certo – anche se non nel suo ammontare – consistente nella perdita di una possibilità attuale che esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza). In ambito contrattuale, dunque, l'inadempimento dell'una delle parti, in ipotesi il commercialista, cui consegua la perdita, per l'altra, della chance d'intraprendere o proseguire una lite in sede giudiziaria, dal lato attivo come da quello passivo, determina un danno per il quale non può, di regola, porsi alcun problema d'accertamento sotto il profilo dell'an, non revocabile in dubbio nell'ipotesi d'accertato inadempimento contrattuale, ma solo, eventualmente, sotto quello del quantum (si vedano: Cass. II, n. 15759/2001, in materia di responsabilità professionale del commercialista; Cass. II, n. 22026/2004, circa la responsabilità del ragioniere, oltre che l'ampia motivazione di Cass. I, n. 11629/1999). Il danno in esame deve difatti essere liquidato in applicazione di un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili, assumendo come parametro di valutazione il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito in base ad un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e deducibile, questo, caso per caso, dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta e, laddove tale criterio risulti di difficile applicazione, mediante il ricorso al criterio equitativo di cui all'art. 1226 c.c. (ex plurimis: Cass. II, n. 15759/2001, circa la responsabilità del commercialista per mancata impugnazione; Cass. IV, n. 11522/1997; Cass. IV, n. 2167/1996; Cass. IV, n. 5026/1993; Cass. IV, n. 2368/1991). Il riferimento alla chance di vittoria in giudizio è poi alla base della possibilità da parte del cliente di opporre l'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., in ossequio al principio di buona fede nell'esercizio di autotutela. Tale eccezione, difatti, può essere opposta dal cliente (all'avvocato come al commercialista) che abbia violato l'obbligo di diligenza professionale, purché la negligenza sia idonea a incidere sugli interessi del primo, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole del giudizio ed essendo contrario a buona fede l'esercizio del potere di autotutela ove la negligenza nell'attività difensiva, secondo un giudizio probabilistico, non abbia pregiudicato la chance di vittoria (si vedano, ex plurimis: Cass. II, n. 25894/2016, che, in applicazione del principio ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inadempiente la condotta dell'avvocato, consistita nella mancata presenza all'udienza di ammissione dei mezzi di prova e nell'omessa produzione di un documento attestante le spese mediche sostenute, in quanto la mera assenza all'udienza di ammissione dei mezzi di prova non implica alcuna rinuncia implicita alle deduzioni istruttorie, formulate negli atti introduttivi o nelle appendici scritte dell'udienza di trattazione; nello stesso senso, ma con riferimento ad un'omessa citazione di testimone, la cui audizione nel caso concreto era comunque avvenuta, Cass. II, n. 11304/2012; in tema di c.d. cause presumibilmente perse ab initio, Cass. III, n. 15717/2010). Con altra recente sentenza, nel 2016 la Suprema Corte ritiene sollevabile l'eccezione di inadempimento dal cliente nei confronti dell'avvocato (con argomentazioni estendibili anche al commercialista), impegnatosi ad impugnare il provvedimento, in forza del suo inadempimento colpevole per non aver svolto i dovuti controlli in ordine al soggetto destinatario della notificazione dell'atto di appello (così rinunciando a tale impugnazione) e proponendo solo tardivamente l'atto di appello nei confronti del soggetto correttamente individuato. La responsabilità contrattuale del professionista, precisa difatti la Suprema Corte, non richiede quale elemento costitutivo la verifica dell'esito finale del giudizio nel quale la condotta colposa è stata realizzata, in quanto la responsabilità ex contractu va accertata in relazione alle obbligazioni assunte con il contratto di patrocinio (tra le quali, nella specie, l'attività necessaria ad interporre gravame avverso la decisione di primo grado, da compiersi con la diligenza di cui all'art. 1176 comma 2 c.c.) e prescinde dall'esito utile o inutile del giudizio per la parte patrocinata (Cass. III, n. 20888/2016). Con particolare riferimento al danno da perdita di chance, in tema di responsabilità professionale dell'avvocato ma estensibile a quella del commercialista per le ragioni innanzi evidenziate, la tesi dominante e che comunque fa breccia nell'attuale giurisprudenza prevalente, lo considera quale danno da perdita della probabilità di conseguire un giudicato favorevole, quindi quale danno emergente incidente sul bene giuridico costituito dalla possibilità di risultato, così da poter applicare la detta categoria non solo alle ipotesi di controversie di agevole soluzione ma anche alle cause che, ab initio, presentano incertezze o, comunque, non di facile soluzione. Sicché, il risarcimento avrebbe ad oggetto un'utilità suscettibile di valutazione economica già esistente nel patrimonio del danneggiato (per tale tesi, oltre che per riferimenti anche giurisprudenziali ad essa, si veda, Fortinguerra, 718, il quale evidenzia che la tecnica della perdita di chance è in grado di evitare che il professionista, in molteplici fattispecie, possa scaricare sul cliente tutte le difficoltà probatorie circa la sorte del giudizio, ipotetico, con riferimento comportamento ipotetico dello stesso professionista). L'opposto orientamento dottrinale è invece teso a ricondurre il danno da perdita di chance al mancato conseguimento delle utilità economiche scaturenti da un giudicato favorevole, quindi quale lucro cessante (De Fazio, 1170, Torresi, 83, nonché, più di recente, Attinà, 251, nonché Scalia-Centofanti, 261-269, ove si evidenziano i passaggi logico-giuridici dell'approdo del danno da perdita di chance nell'ambito della responsabilità professionale, tanto dell'avvocato quanto del commercialista). (alcune) Possibili ipotesi di responsabilità aquilianaLa figura professionale del commercialista, come già evidenziato, può assumere, tra i tanti, anche incarichi giudiziari (curatore fallimentare o consulente tecnico d'ufficio) o cariche societarie. Sicché, sotto il versante civilistico, la sua responsabilità e le relative regole che la governano, sovente assumono mosse differenti in forza del relativo inquadramento nell'ambito contrattuale o extracontrattuale. Con riferimento alle cariche societarie rilevano, in particolare, quelle di amministratore o di sindaco di società di capitali, le cui inerenti responsabilità sono previste, rispettivamente, dagli artt. 2392 e ss. c.c. e 2407 c.c., potendo assumere anche natura extracontrattuale (in ipotesi verso i creditori sociali ed i terzi), le cui discipline evocano sempre il concetto della diligenza qualificata, cioè rapportata alla natura dell'incarico ed alle specifiche competenze. Con particolare riferimento invece all'espletamento di incarichi giudiziari, il commercialista può in particolare svolgere le funzioni di curatore fallimentare, rientrando esse tra quelle previste dalla legge come altre funzioni da lui espletabili. Egli, in quanto professionista intellettuale, non esaurisce la sua attività nell'ambito del contratto di prestazione d'opera intellettuale ma resta professionista privato anche quando espleta un incarico giudiziario in relazione al quale svolge pubblico poteri. Sicché il commercialista potrebbe rispondere di danno ingiusto procurato nell'espletamento della detta attività, ex artt. 2043 c.c. e 38 comma 1 della l. 16 marzo 1942, n. 267 (l.fall.) con la conseguenza che, come precisato dalla Suprema Corte, l'assicuratore della responsabilità civile per la sua attività professionale dovrebbe tenerlo indenne da detta responsabilità, salva espressa esclusione contrattuale (si vedano, ex plurimis, Cass. III, n. 12872/2015 e Cass. III, n. 15030/2005). Il commercialista potrebbe altresì essere nominato consulente tecnico d'ufficio, valendo in tal caso quanto statuito dalla Suprema Corte (con generale riferimento a tale figura di ausiliare del giudice) circa lo svolgimento, nell'interesse della giustizia, funzioni di natura non giurisdizionale, con il conseguente obbligo di risarcire i danni cagionati in violazione dei doveri connessi all'ufficio, senza che peraltro sia ipotizzabile una concorrente responsabilità del Ministero della giustizia (Cass. III, n. 18313/2015). A quanto detto è appena il caso di aggiungere che accanto alla responsabilità contrattuale, per far valere l'inadempimento di obbligazioni tipicamente inerenti alle funzioni professionali conferite dal cliente, può essere anche chiesto il risarcimento del danno provocato da atti di dissipazione del patrimonio, tra i quali quelli cagionati dall'appropriazione di somme di cui si dispone per ragioni di servizio o comunque riferite ad operazioni inesistenti, che integra una violazione da illecito extracontrattuale (Cass. II, 6921/2015). Prescrizione del diritto al risarcimento del danno e dies a quoConcorde è altresì l'orientamento di legittimità in ordine all'individuazione del momento iniziale del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da responsabilità professionale. Determinante ai detti fini non è determinazione dell'evento dannoso ad opera della condotta del professionista bensì la manifestazione all'esterno della produzione del danno, divenendo sono all'esito di essa oggettivamente percepibile e riconoscibile da parte del danneggiato (ex plurimis: proprio in materia di responsabilità del commercialista, Cass. II, n. 6921/2015; in ordine alla responsabilità professionale del notaio, Cass. III, n. 18606/2016, Cass. II, n. 6747/2016, Cass. III, n. 3176/2016; con riferimento alla responsabilità dell'avvocato, Cass. III, n. 16463/2009, Cass. II, n. 16658/2007, Cass. III, n. 10493/2006). L'accertamento (di fatto nonché rimesso al giudice di merito) del momento nel quale il danno diviene oggettivamente percepibile e riconoscibile da parte del danneggiato deve però essere effettuato alla stregua della diligenza da questi esigibile,ex art. 1176 c.c., secondo standards obiettivi ed in relazione alla specifica attività del professionista (Cass. II, n. 6747/2016, cit.). Al pari di quanto già evidenziato in precedenza in merito ad altre circostanze, anche ai fini che qui rilevano (dies a quo della prescrizione) riemerge l'importanza della considerazione per la quale, di regola, il rapporto tra commercialista e cliente si atteggia a contratto di prestazione d'opera intellettuale (professionale), disciplinato anche dagli artt. 2229 e ss. c.c., potendo però esso coesistere con un rapporto di mandato o, perlomeno, con accessorie obbligazioni di mandato. Cass. II, n. 6921/2015 anzi precisa che tra commercialista e cliente intercorre un rapporto professionale, equiparabile allo schema del mandato, in virtù del quale, il primo è tenuto a fare tutto quanto è nelle sue disponibilità per la realizzazione del risultato pratico che il secondo si prefigge. Con la conseguente applicazione della disciplina della prescrizione alla luce dei principi che regolano tale rapporto di mandato. Di esso il c.c. tratta al capo II, titolo III del libro V, artt. 2229 e ss. c.c. ma le dette disposizioni codicistiche si riferiscono esclusivamente ad un modo (quello contrattuale) di attuarsi dell'attività professionale intellettuale, ma non esauriscono tutte le possibilità di esplicazioni dell'attività professionale intellettuale, nei limiti delle leggi speciali che regolano ciascuna professione. Ne consegue, per la Suprema Corte, che accanto alla responsabilità contrattuale (con prescrizione decennale), per far valere l'inadempimento di obbligazioni tipicamente inerenti alle funzioni professionali conferite, può essere anche chiesto il risarcimento del danno provocato da atti di dissipazione del patrimonio, tra i quali quelli cagionati dall'appropriazione di somme di cui si dispone per ragioni di servizio o comunque riferite ad operazioni inesistenti, che integra una violazione da illecito extracontrattuale (con prescrizione quinquennale). Il dies a quo del termine di prescrizione in questione non può decorrere prima della cessazione del rapporto o comunque dell'adempimento da parte del professionista dell'obbligo di rendere il conto. A nulla rilevando peraltro che l'illecito risalga ad un tempo anteriore, per il fondamentale principio che la prescrizione, ex art. 2935 c.c., in nulla differenziandosi a tali fini la responsabilità contrattuale da quella extracontrattuale, comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Sicché Non è conforme a diritto far decorrere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno (nella specie proprio per responsabilità del commercialista) dal fatto illecito lesivo anziché dal manifestarsi all'esterno della produzione del danno, così divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile. 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