Codice Civile art. 1337 - Trattative e responsabilità precontrattuale.

Paola D'Ovidio

Trattative e responsabilità precontrattuale.

[I]. Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede [1218, 1440, 1578, 1812, 1821, 2043].

Inquadramento

La responsabilità da contatto sociale non è espressamente contemplata da alcuna norma del nostro ordinamento, essendo una categoria elaborata dalla giurisprudenza sulla scorta di un formante dottrinario di matrice tedesca, ripreso e variamente sviluppato, anche in chiave critica, dalla letteratura scientifica italiana.

Si tratta di una forma particolare di responsabilità contrattuale, che nasce non da un contratto, bensì da un contatto sociale, ovverosia da una relazione che si instaura tra soggetti determinati, sottraendoli dal mero rapporto di reciproca estraneità (proprio della responsabilità aquiliana) e collocandoli in un rapporto qualificato, in quanto caratterizzato dall'affidamento di una parte nei confronti dell'altra in ragione della professionalità di quest'ultima.

Tale definizione costituisce la sintesi dei tratti aggreganti e dei profili comuni rintracciabili nella pluralità e diversità della casistica offerta dal diritto vivente, pur non sempre armoniosa da un punto di vista sistematico ma protesa a riconoscere, in determinate peculiari situazioni, una maggiore e più soddisfacente tutela rispetto a quella aquiliana che, nell'assetto tradizionale, già presidiava la posizione del singolo.

Recependo taluni mutamenti del sentire comune, la giurisprudenza ha infatti ricondotto nell'ambito di tale forma di responsabilità alcune fattispecie in cui il particolare atteggiarsi del contatto tra i soggetti coinvolti è tale da collocarsi in quella «terra di nessuno» (Busnelli, 539) posta «ai confini tra contratto e torto» (Castronovo, 1995, 147 e ss.), che si caratterizza per generare, pur in assenza di un contratto, un affidamento che è fonte di obbligazioni e, di conseguenza, rende inadeguata la disciplina della responsabilità extracontrattuale, reclamando la più forte tutela contrattuale.

Sul piano applicativo, invero, quest'ultima garantisce un più lungo termine di prescrizione (decennale) ed un regime probatorio più favorevole al danneggiato (art. 1218 c.c.); meno significativo, se non deteriore, è invece il vantaggio in relazione alla estensione del danno risarcibile, posto che nel caso della responsabilità contrattuale, salvo il dolo, saranno risarcibili solo i danni prevedibili (art. 1225 c.c.), mentre nel caso della responsabilità aquiliana la risarcibilità si estende anche ai danni imprevedibili.

Presupposto teorico dell'evoluzione giurisprudenziale in tema di responsabilità da contatto sociale è l'accoglimento dell'idea tedesca della responsabilità per violazione dell'affidamento, enucleabile nel nostro ordinamento dalle clausole generali di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1337 c.c.), per il cui tramite la dottrina ha forgiato gli obblighi di protezione, i quali, a loro volta, hanno consentito di declinare l'esistenza della c.d. obbligazione senza obbligo primario di prestazione.

Anche la dottrina italiana, nonostante il dibattito non ancora sopito, è infatti giunta a riconoscere cittadinanza autonoma agli obblighi di protezione nel nostro ordinamento, valorizzando le norme costituzionali di cui agli artt. 2, 4, 36, 37 e 41 Cost., così accogliendo la concezione del rapporto obbligatorio come rapporto complesso e, quale passo ulteriore, la figura dell'obbligazione senza prestazione di matrice tedesca, che postula il definitivo distacco dell'obbligo di protezione, derivante dall'affidamento, rispetto all'obbligo di prestazione.

Quanto al sistema delle fonti dell'obbligazione, sia la dottrina che la giurisprudenza valorizzano la flessibilità ed omnicomprensività dell'art. 1173 c.c., nella cui formulazione possono ricondursi non solo il contratto ed il fatto illecito, ma anche fonti diverse e atipiche (i.e. «ogni altro atto o fatto»), purché idonee a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico.

Obblighi di protezione, obbligazione senza prestazione e rapporti contrattuali di fatto

Le basi dogmatiche della responsabilità da contatto sociale nascono in Germania e risalgono alla teorizzazione degli Schutzpflichten, ossia degli obblighi di protezione (Stoll, 1932, 288 ss., e 1936, 27 ss., il quale ha utilizzato una terminologia suggerita da Kress, 578 ss.; importante il contributo di Canaris, 27 ss., trad. it., 297 ss.), in virtù della quale è stata superata la concezione romanistica della obbligazione come rapporto semplice, cioè fondato sul mero interesse alla prestazione, per approdare ad una concezione della medesima obbligazione come rapporto complesso, cioè tale da comprendere, accanto all'interesse alla prestazione primaria, un serie di doveri ad essa paralleli ed accessori finalizzati a proteggere l'interesse delle parti a non subire lesioni alla propria persona e alle proprie cose, la cui violazione determina una responsabilità alla stregua dei principi contrattuali (Rossi, 348 e 350, nota 15). In tal modo, i beni della vita, dell'integrità, della proprietà, tutelati primariamente sul piano della responsabilità aquiliana, vengono attratti al diritto dei contratti allorché l'esigenza di proteggerli è sorta a causa del rapporto obbligatorio (Lambo, 41). La dottrina che per prima ha individuato la categoria degli obblighi di protezione si è a sua volta ispirata a due fondamentali modelli, entrambi frutto di precedenti riflessioni della dottrina tedesca, costituiti dalla figura delle violazioni positive del contratto (Staub), nelle quali venivano ricondotte sia le ipotesi di inesatto adempimento che l'inadempimento dei c.d. doveri accessori alla prestazione, e dalla teorica della culpa in contraendo (Von Jhering), che attribuiva rilevanza all'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede nella fase delle trattative precontrattuali, riconoscendo natura contrattuale alla responsabilità derivante dalla violazione di tale obbligo.

Partendo da tali teorie, al fine di isolare i c.d. obblighi di protezione, da un lato si è estesa l'analisi del tema dell'inadempimento contrattuale sino a ricomprendervi il più ampio concetto dell'inadempimento del rapporto obbligatorio e a distinguere tra interesse alla prestazione ed interesse alla protezione, e, dall'altro, si è elaborata una categoria generale entro cui ricondurre fattispecie in grado di far sorgere obblighi di protezione simili a quelli già isolati nella fattispecie delle trattative precontrattuali. In proposito si è efficacemente osservato che la culpa in contraendo e la violazione degli obblighi di protezione nell'esecuzione del contratto sono indicative di lesioni uguali sul piano formale e solo diverse dal punto di vista temporale (Castronovo, 1990, 2).

Nella loro originaria configurazione gli obblighi di protezione, in quanto accessori alla prestazione, erano a quest'ultima strettamente connessi e non avevano alcuna autonomia strutturale, con la conseguenza che restava preclusa la configurabilità sia di obblighi di protezione verso terzi estranei al rapporto contrattuale che di obblighi di protezione senza prestazione derivanti non già da contratto ma da contatto sociale.

La tematica ha avuto ulteriore impulso con l'estensione della configurabilità di tali obblighi anche nei confronti di quei terzi che, seppure estranei al rapporto obbligatorio, subiscano un danno alla propria persona o ai propri beni in occasione dell'esecuzione della prestazione da parte di uno o di entrambe le parti contraenti, pervenendo così ad elaborare la figura del Vertrag mit Schutzwirkung für Dritte, ossia del contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi (Larenz, 182 ss.). Il fondamento di tale nuova figura veniva ravvisato dalla dottrina maggioritaria nella buona fede come norma integrativa generale del rapporto obbligatorio (Canaris, 1965, 475 ss), postulando, quindi, un'origine legale degli obblighi di protezione pur quando siano inerenti ad un rapporto nato da contratto (per una approfondita analisi sulla genesi e sull'evoluzione del contratto protettivo nell'ordinamento tedesco, francese ed italiano cfr. Moscati, 357 e ss).

Su tali basi, quale passo successivo, la riflessione dottrinaria tedesca in Germania è quindi approdata all'elaborazione della figura dell'obbligazione senza obbligo primario di prestazione (Schuldverhältnis ohne primäre Leistungspflicht) che, valorizzando la teoria della culpa in contrahendo, ha posto in luce come gli obblighi di protezione possano sorgere anche avulsi da un precedente contratto e derivare dal particolare legame che si instaura tra i soggetti coinvolti nelle trattative precontrattuali, dando luogo ad un rapporto obbligatorio privo di prestazione principale (Larenz, 140 ss.).

La proposta di espandere la responsabilità contrattuale anche ad obblighi di protezione ravvisabili in ipotesi diverse dalla fase delle trattative era stata già avanzata da una dottrina tedesca degli anni ‘40, alla quale si deve altresì la prima elaborazione della nozione di contatto sociale, utilizzata proprio per individuare le ipotesi caratterizzate dalla assenza di un contratto o di una trattativa precontrattuale ma idonee a generare un affidamento tra i soggetti in contatto (Doll, 67 ss.).

Negli stessi anni in Germania il concetto di contatto sociale è stato da altra dottrina (Haupt, 23) inquadrato nel diverso ambito dell'analisi dei rapporti contrattuali di fatto, ed inserito nella terza delle seguenti tre categorie in cui tali rapporti venivano suddivisi: 1) rapporti derivanti dall'offerta al pubblico di una prestazione o di un servizio di pubblico interesse; 2) rapporti derivanti dalla inserzione, non preceduta da valido contratto, in una organizzazione comunitaria, quale ad esempio una società di fatto; 3) rapporti derivanti da contatto sociale tra soggetti in assenza di un valido vincolo contrattuale.

Ciò spiega una certa tendenza, emersa sia nella dottrina che nella giurisprudenza italiana che tali teorie hanno recepito, a sovrapporre la figura della obbligazione senza prestazione ai rapporti contrattuali di fatto sulla base del presupposto comune del contatto sociale tra determinati soggetti, da cui origina l'affidamento fonte di obbligazione. Tuttavia la migliore dottrina ha rilevato come i due istituti, pur accomunati nella fase genetica dal contatto, debbano essere per il resto tenuti separati, definendo «spuria» la loro contaminazione (Castronovo, 2006, 487 ss.). Il contatto sociale, invero, secondo una parte della dottrina, può essere idoneo a generare un contratto di fatto, ed allora dovrebbe ritenersi esistente un vero e proprio obbligo di prestazione, soggetto alle normali regole che presiedono alla esecuzione di un contratto la cui peculiarità si esaurisce nel momento della formazione (in tal senso, tra gli altri, Faillace, 40 ss. e Di Majo, 451); al contrario, ove si ritenga che il contatto sociale possa creare, sì un affidamento tra i soggetti, ma l'obbligazione che ne deriva ha ad oggetto la sola protezione della sfera giuridica altrui (cioè lo status quo) e non già una vera e propria prestazione, si versa nell'ipotesi della obbligazione senza prestazione, la cui violazione genera responsabilità (di tipo contrattuale, secondo i fautori di tale teoria, tra i quali Castronovo, 2006, 487 ss).

Il concetto di obbligazione senza prestazione, sviluppatosi in Germania essenzialmente sul terreno della culpa in contraendo, è stato approfondito nel nostro ordinamento da autorevole dottrina al fine di valutare la ipotizzabilità, anche con riferimento a vicende diverse da quella della trattativa precontrattuale, di obblighi di protezione ab origine avulsi da un obbligo di prestazione e ciononostante in grado di dar vita, in caso di danno, a responsabilità contrattuale come conseguenza tipica della violazione di obblighi (Castronovo, 1995, 448). Tale dottrina è così giunta ad individuare una serie di situazioni in cui, al pari di quanto avviene nelle trattative precontrattuali, pur in assenza di un obbligo di prestazione, ugualmente devono dirsi presenti obblighi di protezione perché tra danneggiante e danneggiato si è instaurata previamente una situazione relazionale, il cd. contatto sociale, nella quale questi stanno l'uno di fronte all'altro alla maniera di un debitore e un creditore, uscendo dall'estraneità che è presupposto della responsabilità aquiliana, intesa quale «responsabilità del passante». In tali casi, l'obbligazione sorge dall'affidamento che uno dei soggetti della relazione pone nella professionalità dell'altro (Castronovo, 2006, 467; contra: Di Majo, 27, il quale evidenzia la difficoltà di configurare un'obbligazione priva del contenuto suo proprio, qual è la prestazione; in senso critico anche Roppo, 185 e Bianca, 1993, 93 e 94).

La medesima dottrina (Castronovo, 2006, 481) ha suggerito di utilizzare la categoria dell'obbligazione senza obbligo primario di prestazione anche in riferimento alla questione concernente la tutela del terzo danneggiato dal contratto, abbandonando così la incerta figura del contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo. In tale nuova prospettiva, come si è opportunamente osservato, la responsabilità del danneggiante non è collegata al regolamento negoziale di cui esso è parte, ma alla violazione di un autonomo obbligo di buona fede nato in funzione dell'affidamento (Lambo, 336).

Nell'ordinamento tedesco, a seguito della modernizzazione del diritto delle obbligazioni del 2002, è stata introdotta una norma ad hoc che contempla gli obblighi di protezione, la quale ha così conferito una veste formale alle teorie della culpa in contraendo e degli obblighi di protezione, frutto di un lungo percorso di riflessioni dottrinarie e giurisprudenziali (sulla riforma del Bgb, cfr., tra gli altri, Memmo, p. 797 e ss.).

Nell'ordinamento italiano, invece, tale figura non ha ancora trovato un riconoscimento normativo, ad eccezione di alcune ipotesi particolari per le quali il legislatore ha espressamente previsto un obbligo di protezione in capo ad una delle parti di un rapporto obbligatorio già in essere: casi codificati di obblighi di protezione, tutti inseriti nell'ambito di singoli rapporti contrattuali, si ritrovano in tema di locazione (art. 1586, comma 1, c.c.), di appalto (1663 c.c.), di trasporto (art. 1681 c.c.) di comodato (art. 1805 c.c.), di lavoro (art. 2087 c.c.).

Finora, dunque, sono state essenzialmente la dottrina e la giurisprudenza a dare spazio alle influenze provenienti dalla Germania, rielaborando la teoria degli obblighi di protezione in termini di compatibilità con i principi del nostro ordinamento ed individuando di volta in volta singole fattispecie di insorgenza di tali obblighi, anche in assenza di contratto.

Ne sono derivate alcune incongruenze nelle diverse applicazioni giurisprudenziali che, secondo un attento studioso, sarebbero riconducibili ad errori della dottrina, alla quale rimprovera di non aver chiarito il legame tra obblighi di protezione, contratto con effetti protettivi verso terzi e rapporto obbligatorio senza prestazione, nonché di aver proposto quest'ultimo come un modello che ha una vita propria, quasi che fosse distinto dalla categoria degli obblighi di protezione e, inoltre, di aver dato molto peso alla qualificazione professionale e al contatto sociale, i quali sono elementi in cui si sostanzia anche la teorica dei rapporti contrattuali di fatto; in tale confuso panorama concettuale è stata costruita una responsabilità da contatto sociale che, secondo il medesimo studioso, sarebbe foriera di equivoci e squilibri nel sistema giuridico perché porta a sovrapporre la categoria dei cd. rapporti contrattuali di fatto alla teoria degli obblighi di prestazione, e inoltre ad estendere il regime della responsabilità contrattuale a fattispecie di danno che sono e rimangono decisamente di natura extracontrattuale (Lambo, 357).

Effetti protettivi verso terzi del contratto concluso tra gestante e struttura sanitaria o medico

In Italia, la giurisprudenza ha esplicitamente applicato la nozione del contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi in sporadiche occasioni e senza tuttavia offrirne una compiuta definizione, limitandosi a recepire la categoria, individuata dalla dottrina, in relazione a contratti conclusi nel settore sanitario tra la gestante e la struttura sanitaria.

La prima sentenza della Corte di Cassazione in materia ha riguardato il caso di lesioni gravi provocate al nascituro ed addebitabili al comportamento dei sanitari. In proposito la S.C. ha affermato che il contratto di ricovero ospedaliero della gestante obbliga l'ente ospedaliero non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita evitandogli, nei limiti consentiti dalla scienza, qualsiasi possibile danno. Tale contratto, intercorso tra la partoriente e l'ente ospedaliero, si atteggia come contratto con effetti protettivi a favore di terzo nei confronti del nato, alla cui tutela tende quell'obbligazione accessoria in forza della quale il soggetto che, con la nascita, acquista la capacità giuridica, può agire per far valere la responsabilità contrattuale per l'inadempimento, pur senza aver stipulato alcun contratto (Cass. n. 11503/1993, in Giur. it., 1994, I, 550, con nota di Carusi e in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 690, con nota di Zeno Zencovich).

Tale principio è stato successivamente confermato ed esteso anche al padre del nascituro, precisando che gli effetti del contratto debbono essere individuati avendo riguardo anche alla sua funzione sociale, e tenendo conto che la Costituzione antepone, anche in materia contrattuale, gli interessi della persona a quelli patrimoniali: pertanto, il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio anche del concepito e del di lui padre (Cass. n. 10741/2009, interessante anche per il profilo relativo alla soggettività giuridica del nascituro).

Il richiamo giurisprudenziale ai principi della nostra Costituzione riecheggia la dottrina che per prima in Italia si è occupata degli obblighi di protezione, la quale, distinguendo le obbligazioni da contratto da quelle derivanti da altre fonti, ha osservato che, in relazione alle prime, la configurabilità di obblighi di protezione del terzo deve superare l'ostacolo costituito dal principio di relatività del contratto, quale corollario del principio di autonomia privata, che non consentirebbe di ipotizzare obblighi di protezione di origine legale pur quando ineriscano ad un rapporto nato da contratto: ha quindi suggerito una rilettura dei doveri di protezione del terzo alla luce dei superiori principi costituzionali, ed in particolare del principio di solidarietà ex art. 2 Cost. (Castronovo, 1976, 174 ss. e 2006, 673 ss.), così discostandosi dall'impostazione tedesca che aveva ricondotto la protezione del terzo al principio di buona fede, quale fonte legale dei correlativi obblighi (Larenz, 182).

In relazione al problema dell'individuazione dei terzi protetti in occasione dell'esecuzione del contratto, la dottrina tedesca ha fatto riferimento a diversi criteri al fine di evitare una eccessiva dilatazione degli effetti protettivi, con il rischio di esautorare il principio di relatività degli effetti del contratto: si è così suggerito di ricorrere al criterio della prossimità del terzo alla prestazione dovuta ovvero a quello dell'interesse del creditore alla protezione del terzo (Di Majo, 2000, 16 ss.; Moscati, 370).

La giurisprudenza che sinora ha applicato la figura del contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi ha esteso la tutela contrattuale solo in favore dei prossimi congiunti del contraente, adottando quindi un criterio restrittivo rispetto a quelli, ben più indeterminati ed incerti, della prossimità o dell'interesse alla protezione indicati dalla dottrina.

Nel suo approdo più avanzato, l'effetto protettivo è stato dilatato sino ad includere i fratelli e le sorelle del neonato, osservando che questi ultimi rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta.

Pertanto, alla stregua dello stesso principio posto a presidio del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre, anche ai germani del neonato è stato riconosciuto il risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata, scaturente dall'errore del medico che, non rilevando malformazioni congenite del concepito, abbia impedito alla madre l'esercizio del diritto di interruzione della gravidanza. In relazione a tali soggetti, la Suprema Corte ha affermato che non può non presumersi l'attitudine a subire un serio danno non patrimoniale, consistente, tra l'altro nella inevitabile minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità (Cass. n. 16754/2012).

Il caso di omessa diagnosi di malformazione del feto e di conseguente nascita indesiderata è stato oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali, le quali hanno tutte ritenuto meritevole di tutela non solo la madre, ma anche il padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l'ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all'interruzione della gravidanza, giacché la sottrazione alla madre di tale scelta a causa dell'inesatta prestazione del medico riverbera i suoi effetti anche sul padre, che deve perciò ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento (Cass. n. 2354/2010; Cass. n. 13/2010; Cass. n. 20320/2005; Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 6735/2002).

Con riferimento alle summenzionate ipotesi di cd. nascita indesiderata, un contrasto giurisprudenziale è invece sorto in relazione alla possibilità di riconoscere il diritto al risarcimento in favore del soggetto nato disabile, cioè proprio di colui che reca in sé il male non diagnosticato. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno risolto tale contrasto affermando che il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l'ordinamento non conosce il «diritto a non nascere se non sano», né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico (Cass. S.U. n. 25767/2015; conf. Cass. n. 14488/2004; contra Cass. n. 16754/2012).

Tale pronuncia, dunque, non ha negato la legittimazione del nato sulla base dell'esclusione del nascituro dall'area dei terzi contrattualmente protetti (che anzi, resta confermata con riferimento al diverso caso di danni provocati da malpractice medica), ma sulla base dell'oggetto della Schutzpflicht, nel senso che il dovere medico di protezione verso il concepito attiene alla nascita dello stesso e non alla «non nascita», se malformato: nelle ipotesi di cd. nascita indesiderata difetta in radice, secondo siffatta interpretazione, un diritto di protezione del nascituro, dovendosi escludere la configurabilità nel nostro ordinamento del c.d. aborto eugenetico, salvo il caso in cui dalle malformazioni fetali possa derivare un pericolo per la salute della madre.

L'applicazione solo episodica e limitata alle fattispecie sopradescritte della categoria del contratto con effetti protettivi verso i terzi riflette le incertezze e le perplessità della dottrina, per lo più incline a vedere nella legge, ed in particolare nella buona fede, la fonte degli obblighi di protezione, i quali sorgerebbero dunque anche a prescindere dalla presenza di un contratto, ciò che priverebbe la figura del contratto con effetti protettivi della sua stessa ragion d'essere (Canaris, in Riv. crit. dir. priv., 1983, 822 ss.), relegandola al ruolo di una discutibile sovrastruttura concettuale, della quale non vi sarebbe bisogno (Maggiolo, 16 e 209 ss.). Inoltre, l'esperienza italiana, fondata su un sistema elastico della responsabilità civile (Moscati, 386 e 387), tende a risentire della concezione che ritiene già coperta dall'illecito civile l'area da assegnare propriamente agli obblighi di protezione e vede una dottrina divisa tra i fautori di una autonomia strutturale di tali obblighi e coloro che invece tendono a ridurli al ruolo di tipiche specificazioni della prestazione principale, inducendo la giurisprudenza a trascurare il contesto teorico-formale al quale ricondurre il comportamento negligente del convenuto ed a porre a fondamento della decisone direttamente i risultati di una concezione della responsabilità contrattuale estesa a tutelare interessi altri che non hanno formato oggetto del contratto (Lambo, 252).

La teoria del contratto protettivo nei confronti dei terzi ha tuttavia costituito una prima apertura della giurisprudenza alla teoria degli obblighi di protezione e, quale passo successivo, a quella dell'obbligazione senza obbligo primario di prestazione (Castronovo, 1976, 177 e 2006, 481) e, tramite questa, alla responsabilità (contrattuale) da contatto sociale, ormai affermatasi nel diritto vivente non solo nel settore della responsabilità sanitaria, ma anche in altre fattispecie tra loro eterogenee, come descritte nei paragrafi che seguono.

Responsabilità del medico dipendente di una struttura sanitaria

Si è osservato in dottrina che il contratto con effetti protettivi nei confronti di terzi non consente di estendere in favore del terzo un obbligo di protezione che non sia dovuto alla controparte: sono tutelati infatti quei terzi la cui posizione non possa essere apprezzata diversamente, sotto il profilo dell'interesse di protezione, da quella dell'una o dell'altra parte del rapporto. In particolare, con riferimento al rapporto trilatero tra struttura medica, medico dipendente dalla stessa e paziente, non potrebbe sostenersi che il paziente è terzo protetto dal contratto di lavoro intervenuto tra la struttura sanitaria ed il medico; in tale ipotesi la responsabilità contrattuale del medico deriva direttamente dal contatto sociale tra medico e paziente, secondo lo schema dell'obbligazione senza prestazione (Castronovo, 2006, 481).

La prima applicazione giurisprudenziale della nozione del contatto sociale risale al 1999, quando la terza sezione della Cassazione ha affermato che il rapporto tra il medico del pronto soccorso, dipendente di un ente ospedaliero, e il paziente, ancorché non fondato su un contratto, ha natura contrattuale in virtù del contatto sociale che si instaura per effetto della presa in carico del paziente da parte del sanitario, con la conseguenza che i regimi della ripartizione dell'onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale (Cass. n. 589/1999 in Foro it., 1999, I, 3332, con note di Di Ciommo e Lanotte; in Corr. giur., 1999, 446, con nota di Di Majo; in Nuova giur. civ. comm., 2000, 343, con nota di Thiene; in Danno e resp., 1999, 294 con nota di Carbone; in Resp. civ. e prev., 1999, I, 661, con nota di Forziati; conf. Cass. n. 9085/2006; Cass. n. 1698/2006; Cass. n. 19564/2004; Cass. 13066/2004; Cass. n. 11316/2003).

In particolare, la Suprema Corte ha affermato che, mentre con la struttura ospedaliera il paziente instaura sicuramente un rapporto obbligatorio che trova la sua fonte in un atipico contratto di spedalità, tra il medesimo paziente e il medico (che di quel rapporto contrattuale non è partecipe, ma provvede allo svolgimento dell'attività diagnostica o terapeutica quale organo dell'ente ospedaliero) ricorre, altresì, un rapporto giuridico particolare, il quale non può essere semplicisticamente ricondotto all'art. 2043 c.c. Quest'ultima norma, infatti, disciplina i casi in cui tra il soggetto danneggiante e danneggiato non esiste alcun rapporto, se non un generico dovere di neminem laedere, laddove invece il medico e il paziente non possono essere trattati come due sconosciuti, in quanto il medico non è un quisque de populo tenuto all'obbligo di non danneggiare l'altro, al pari di qualsiasi altro soggetto dell'ordinamento; al contrario, costui è obbligato in virtù di precise disposizioni di legge, nonché in virtù del contratto stipulato con l'azienda ospedaliera, a tutelare la salute del paziente e ad operare affinché avvenga la guarigione.

A tali conclusioni la Corte è pervenuta osservando che all'operatore di una professione cd. protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, art. 348 c.p.), in particolare se detta professione abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti, come avviene per la professione medica, che incide sul bene della salute, tutelato dall'art. 32 Cost., la coscienza sociale, prima ancora che l'ordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non facere e cioè il puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua professionalità, ma giustappunto quel facere nel quale si manifesta la perizia che ne deve contrassegnare l'attività in ogni momento.

L'esistenza di un contratto, precisa la Corte, potrà essere rilevante solo al fine di stabilire se il medico sia obbligato alla prestazione della sua attività sanitaria (salve le ipotesi in cui detta attività è obbligatoria per legge), altrimenti il paziente non potrà pretendere la prestazione, ma se il medico in ogni caso interviene (ad esempio perché a tanto tenuto nei confronti dell'ente ospedaliero) l'esercizio della sua attività sanitaria non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico.

La Corte, dunque, dopo aver affermato di condividere quell'orientamento dottrinario secondo il quale nei confronti del medico, dipendente ospedaliero, si configurerebbe pur sempre una responsabilità contrattuale nascente da un'obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, recepisce, esplicitamente e a pieno titolo, la figura del rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale, precisando che tale espressione ben mette in luce la duplice prospettiva in cui deve osservarsi il fenomeno del contatto sociale: fonte dell'obbligazione (quale «fatto idoneo» a produrla «in conformità dell'ordinamento», ex art. 1173 c.c.) e rapporto che ne scaturisce (che si atteggia, ed è conseguentemente disciplinato, secondo lo schema dell'obbligazione da contratto).

Tale sentenza è stata criticata in dottrina laddove sembra sovrapporre la teoria del contatto sociale, inteso quale fonte di obbligazioni senza prestazione (cioè di mera protezione) derivanti dall'affidamento ingenerato dalla professionalità del soggetto agente, alla teoria dei rapporti contrattuali di fatto, per la quale un contratto comunque viene ad esistenza e produce veri e propri obblighi di prestazione (Castronovo, 2006, 485 ss.): la distinzione, invero, è di non poco momento, in quanto, essendo diverso nelle due ipotesi il contenuto dell'obbligazione, differente sarà anche l'area della relativa responsabilità in caso di inadempimento.

Secondo altra autorevole dottrina non sarebbe configurabile un'obbligazione medica senza prestazione, dovendo invece ravvisarsi in capo al medico una vera e propria obbligazione di prestazione (Di Majo, in Corr. giur., 1999, 446).

Uno studioso ha acutamente evidenziato come, al di là delle espressioni utilizzate e del riferimento nominalistico (anche) alla teoria dell'obbligazione senza prestazione, la Cassazione del 1999 ha concepito il dovere del medico come un vero e proprio obbligo di prestazione e non di mera protezione e, quindi, come un dovere di cura del paziente e non già un mero obbligo di non arrecargli danno (Gazzara, 92 ss.).

La giurisprudenza successiva, nel recepire l'orientamento inaugurato nel 1999, sembra aver dissipato ogni dubbio circa la apparente sovrapposizione tra contatto sociale e obbligazione senza prestazione, precisando che il contenuto dell'obbligazione derivante dall'affidamento indotto dal contatto sociale con il medico va individuato non già nella mera protezione del paziente bensì in una vera e propria prestazione che si modella su quella del contratto d'opera professionale. Su tali basi, la Cassazione, espressamente abbandonando il concetto di obbligazione senza prestazione, ha offerto una tutela piena al paziente ed ha riconosciuto allo stesso la possibilità di agire nei confronti del medico (oltre che della struttura sanitaria) anche nel caso in cui la sua condizione clinica non abbia conseguito i miglioramenti sperati all'esito delle cure praticate (laddove il contenuto dell'obbligazione del medico, ove intesa come obbligazione senza prestazione, avrebbe potuto riguardare esclusivamente i casi in cui la cura si fosse rivelata dannosa per la salute del paziente): il risultato anomalo o anormale dell'intervento medico-chirurgico, fonte di responsabilità, è quindi da ravvisarsi non solo in presenza di aggravamento dello stato morboso, o in caso di insorgenza di una nuova patologia, ma anche quando l'esito non abbia prodotto il miglioramento costituente oggetto della prestazione cui il medico-specialista è tenuto, producendo invece, conseguenze di carattere fisico e psicologico (Cass. n. 8826/2007 in Resp. civ., 2007, 967 e 1028, con note di Faccioli e Partisani; in Danno e resp., 10, 2007, 980 con nota di Scalisi).

Così fissati natura e confini della responsabilità da contatto sociale qualificato del medico operante in una struttura sanitaria, i relativi principi si sono nel tempo consolidati nel diritto vivente.

La natura contrattuale della responsabilità del medico, costruita sulla teoria del contatto sociale, è stata infatti definitivamente suggellata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione che, nel fissare anche altri principi cardine in materia di responsabilità sanitaria secondo orientamenti già presenti ma discussi, ha fatto specifica applicazione di tale forma di responsabilità ai fini del riparto dell'onere probatorio. In proposito, la Suprema Corte ha infatti affermato che il paziente danneggiato deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto con la struttura sanitaria, o del contatto sociale con il medico, e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia, allegando l'inadempimento del debitore astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (Cass. S.U. n. 577/2008, in Danno e resp., 2008, 871, con nota di Nicolussi, 788 con nota di Vinciguerra e 1002, con nota di Gazzara; in Resp. civ. prev., 2008, 77, con nota di Gorgoni.; conf. Cass. n. 21177/2015; Cass. n. 27855/2013; Cass. n. 20904/2013; Cass. n. 1538/2010; Cass. n. 20101/2009). Ne consegue che qualora, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore (Cass. n. 20547/2014).

Il dibattito sulla natura della responsabilità ascrivibile a quanti esercitano una professione sanitaria, in caso di danni riportati dai pazienti in cura, ha ripreso vigore a seguito dell'emanazione della l. n. 189 dell'8 novembre 2012 (c.d. legge Balduzzi, che ha convertito, con modificazioni, il d.l. 13 settembre 2012 n. 158) in conseguenza di un dubbio ermeneutico in ordine alla portata del rinvio all'art. 2043 c.c. contenuto nell'articolo 3, comma 1 della citata legge (oggi abrogato dall'art. 6, comma 2, della l. n. 24/2017): tale norma infatti, dopo aver coniato una regola concernente i profili penalistici della materia, sancendo l'impunità dell'esercente professione sanitaria che, sebbene versi in colpa lieve, si attenga nello svolgimento della propria attività a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ha aggiunto che in tali situazioni «resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile».

A seguito dell'introduzione di detta norma si è registrata, infatti, una spaccatura nella giurisprudenza di merito, parte della quale, basandosi sul dato letterale, ha ritenuto di dover ricondurre nuovamente nell'area della responsabilità aquiliana il regime di responsabilità del professionista che eroga le proprie prestazioni terapeutiche in una struttura sanitaria, in assenza di un contratto d'opera stipulato con il paziente su cui interviene (Cfr. Trib. Milano, 31 gennaio 2015,; Trib. Milano 23 luglio 2014, n. 9693; Trib. Torino, 26 febbraio 2013; Trib. Varese, 26 novembre 2012, n. 1406; contra: Trib. Arezzo 11 luglio 2016 n. 845; Trib. L'Aquila, 21 gennaio 2016, n. 37; Trib. Bari 7 luglio 2015, n. 3114, Trib. Milano, 20/02/2015, n. 2336; Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013; Trib. Cremona, 1 ottobre 2013).

La Cassazione, tuttavia, si è espressa nel senso che dalla citata norma non è dato rinvenire alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, dal momento che il ricordato inciso di cui all'art. 3, comma 1, si presta a essere spiegato con l'intento di escludere, nell'ambito aquiliano, l'irrilevanza della colpa lieve. Per la Suprema Corte, dunque, la norma non induceva il superamento dell'orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni, pur dovendosi rilevare che tale posizione è frutto di obiter dicta, posto che negli unici tre casi esaminati la legge Balduzzi non era direttamente applicabile ratione temporis (Cass. n. 4040/2013; Cass. n. 8940/2014 Cass. n. 27391/2014).

La responsabilità da contatto sociale, in ogni caso, presuppone che la relazione tra medico e paziente si sia effettivamente concretizzata, sicché il primario ospedaliero, in ferie al momento del contatto sociale, del ricovero e dell'intervento, non può essere chiamato a rispondere delle lesioni subite da un paziente della struttura ospedaliera solo per il suo ruolo di dirigente, non essendo configurabile una sua responsabilità oggettiva (Cass. n. 6438/2015).

In tale quadro giurisprudenziale, ormai consolidato, è intervenuta la recentissima l. n. 24/2017 (c.d. legge Gelli), la quale, tra l'altro, all'art. 7, contiene significative novità in tema di «responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria». In particolare, la norma citata, da un lato, lascia immutata la responsabilità contrattuale della struttura ospedaliera, come da tempo inquadrata dalla giurisprudenza, e, dall'altro, afferma testualmente che «l'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'art. 2043 del codice civile», aggiungendo, peraltro, che tale generale disciplina viene tuttavia meno nel caso che il medico «abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente».

Questo nuovo assetto normativo sembrerebbe porre le basi per un superamento del modello della responsabilità da contatto sociale, quantomeno nell'ambito della responsabilità medica (e nei limiti delle ipotesi descritte dalla norma), ossia proprio là dove tale forma di responsabilità è stata elaborata per la prima volta dalla giurisprudenza di legittimità.

Tuttavia, allo stato, ancora in assenza di pronunce giurisprudenziali sulla materia, i primi commenti sulla disciplina introdotta dalla legge Gelli non hanno mancato di evidenziare alcune perplessità e dubbi interpretativi, non molto diversi da quelli che seguirono all'emanazione dell'art. 3 della l. n. 189/2012 (sui quali v. infra).

Responsabilità del medico che interviene in assenza di contratto d'opera professionale.

Il principio, consolidatosi nel diritto vivente con riferimento al medico dipendente di una struttura, in forza del quale l'esercizio dell'attività sanitaria, ogni volta che il medico interviene, non può avere un contenuto diverso da quello avente come fonte un comune contratto d'opera professionale, ha consentito alla Suprema Corte di affermare che anche il contatto sociale meramente fortuito ed informale intercorso tra medico e paziente è idoneo a far scattare i presidi della responsabilità contrattuale. In particolare, è stato ricondotto nell'area di tale responsabilità il rapporto instauratosi a seguito del comportamento di un medico di base che, nel corso di un incontro occasionale con un suo assistito in procinto di partire per il Kenia, gli aveva suggerito una profilassi antimalarica, poi rivelatasi inefficace: nella specie, la responsabilità del sanitario per la morte dell'assistito causata dalla malaria, è stata esclusa in considerazione della aderenza della profilassi consigliata ai principi della buona pratica medica (Cass. n. 19670/2016).

Art. 7 l. n. 24/2017: la nuova disciplina della responsabilità del medico dipendente di una struttura sanitaria

Si è osservato che il Legislatore del 2017, mediante quel riferimento espresso all'art. 2043 c.c. contenuto nell'art. 7, comma 3 della legge Gelli, ha qualificato espressamente e per la prima volta come extracontrattuale la responsabilità dell'esercente che svolga la sua attività in una struttura sanitaria ed esegua alcuna tra le cinque tipiche prestazioni sanitarie previste dal comma 2 del medesimo articolo (i.e., in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina), purché ricorrano due presupposti: — che non abbia assunto alcuna obbligazione contrattuale con il paziente; — che abbia prestato la propria attività quale dipendente o collaboratore della struttura sanitaria e sociosanitaria, pubblica e privata.

Si è anche ricordato che lo stesso Legislatore, per la verità, un tentativo goffo e maldestro lo aveva fatto già con l'art. 3, comma 1, d.l. n. 158/2012 (decreto Balduzzi), oggi abrogato dall'art. 6, comma 2, della l. n. 24/2017, ove in sede di conversione (l. 8 novembre 2012, n. 189) aveva inserito la disposizione che prevedeva che carico dell'esercente «resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.». Il tentativo, però, non era riuscito, e la dottrina prevalente e la giurisprudenza di legittimità avevano concordemente ritenuto che la norma nulla avesse mutato circa la natura della responsabilità della struttura e dell'esercente dipendente della struttura: responsabilità contrattuale o soggetta alle norme contrattuali era prima e responsabilità contrattuale o soggetta alle norme contrattuali era rimasta.

Si è altresì aggiunto che, con l'odierna riformulazione, più accorta e precisa di quella del 2012, stavolta il Legislatore ha indicato espressamente la norma applicabile (art. 2043 c.c.) in tema di risarcimento per fatto illecito commesso dall'esercente che svolge la sua attività nella struttura e/o esegue le cinque tipiche prestazioni sanitarie previste dal secondo comma. Il Legislatore, con tale nuova espressa previsione, sembrerebbe aver bocciato l'orientamento pietrificato della giurisprudenza di legittimità e di merito consolidatosi fin dalla fine del secolo scorso in tema di responsabilità da «contatto sociale», atteso che ha qualificato come extracontrattuale la responsabilità dell'esercente.

Tuttavia, ad avviso di tale dottrina, anche in questo caso la norma, però, seppur è speciale, non ha abrogato l'altra norma generale relativa alle fonti delle obbligazioni, di cui all'art. 1173 c.c., secondo cui l'obbligazione deriva (oltre che da contratto e da fatto illecito, anche) da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico. Tale elencazione delle fonti delle obbligazioni ha carattere elastico e non tassativo e, quindi, è rimessa all'ordinamento la formulazione del giudizio in ordine all'idoneità in concreto del singolo atto o fatto a costituire fonte produttiva di un'obbligazione.

Lo stesso Autore, aggiunge altresì che una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all'art. 7, comma 3, prima parte, l. 8 marzo 2017 n. 24, alla luce dei principi di uguaglianza e non discriminazione (art. 3 Cost.) e di effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), deve portare a ritenere ancora applicabile al rapporto paziente-esercente non solo il principio del contatto sociale, come inteso dal diritto vivente ed applicato dalla giurisprudenza di legittimità, oltre che in ambito sanitario anche nei casi su esposti, ma anche tutti gli altri principi desumibili dall'ordinamento a tutela del danneggiato. Ciò, in particolare, alla luce della minor tutela del paziente-danneggiato prevista dalla normativa speciale.

Consentire, quindi, al danneggiato da trattamento sanitario di conservare, analogamente a tutti gli altri danneggiati e senza limitazioni di sorta, tutte le garanzie offerte dall'ordinamento — sia per l'accertamento dell'an debeatur, con i relativi oneri probatori, sia per il quantum debeaturnei confronti di tutti i condebitori solidali, ex artt. 1292, 1294 e 2055 c.c. e, quindi, non solo della struttura, ma anche dell'esercente, appare la scelta interpretativa della norma in commento che meglio rispetta i principi di rango superiore su richiamati. Deve ritenersi, pertanto, che in caso di danno al paziente la (pur espressamente prevista) responsabilità extracontrattuale dell'esercente, di cui all'art. 7, comma 3, l. 8 marzo 2017 n. 24, che richiama l'art. 2043 c.c., concorre sempre con la responsabilità da «contatto sociale qualificato» e con la responsabilità del professionista nei confronti dell'utente-consumatore, di cui al d.lgs. 29 luglio 2005 n. 206, e può altresì concorrere, ove ne ricorrano i presupposti, con la responsabilità extracontrattuale per attività pericolosa, di cui all'art. 2050 c.c. e la responsabilità extracontrattuale da cose in custodia, di cui all'art. 2051 c.c. (Liguori).

Altro Autore, osserva che l'art. 7 contiene una discrasia nel prevedere una diversa natura della responsabilità a seconda del soggetto nei cui confronti viene fatta valere, con le prevedibili conseguenze – per i diversi oneri di natura probatoria gravanti sulle parti e per i diversi termini di prescrizione delle azioni contrattuale ed extracontrattuale — nel caso di azione congiunta nei confronti dei vari soggetti (struttura pubblica o privata ed esercente la professione sanitaria).

In proposito, il medesimo Autore ricorda che la giurisprudenza di legittimità ritiene astrattamente configurabile la coesistenza della responsabilità contrattuale e di quella extracontrattuale in relazione al medesimo fatto produttivo di danno (in particolare, sono richiamati i casi esaminati da Cass. n. 22344/2014, in Danno e resp., 2015, 357 con nota di Izzo e Cass. n. 4018/2013,in Resp. civ. e prev., 2013, 1930, con nota di Vernizzi), per cui non è da escludere che possano crearsi situazioni di questo genere (Brusco).

Altri, alla luce delle disposizioni di cui all'art. 7 della l. n. 24 del 2017, si sono interrogati su quale sia lo spazio residuato di responsabilità contrattuale da «contatto sociale», se la stessa possa dirsi ancora permanente e se, in particolare, come sembrerebbe emergere da una prima lettura della norma, l'onere di provare l'esistenza di un rapporto qualificato di matrice contrattuale gravi in capo al paziente, perché configurato siccome derogatorio rispetto alla regola generale della responsabilità extracontrattuale.

In altri termini, i dubbi interpretativi attengono a tutti i casi di interventi, cure o terapie somministrate dai medici ospedalieri o dipendenti di case di cure ovvero in libera convenzione con la struttura sanitaria con i quali i pazienti non hanno preventivamente instaurato rapporti significativi se non al momento del ricovero, per i quali la norma sembrerebbe riconoscere solo una forma di responsabilità di tipo extracontrattuale.

Certamente il diverso inquadramento postula una differenza netta in termini sia di oneri probatori, più gravosi per il danneggiato nel caso di responsabilità aquiliana, sia di prescrizione dei diritti, quinquennale in un caso e decennale nell'altro (Ruvolo e Ciardo, 2017).

Secondo autorevole dottrina, la critica principale, e radicale, che si può muovere alla scelta dell'art. 7 in materia di responsabilità del medico si può cogliere già sul piano del metodo o, se si preferisce, della tecnica legislativa: è invero obiettivamente a dir poco anomala la scelta del legislatore di qualificare esso stesso nel segno, appunto, della sussumibilità nello schema dell'illecito aquiliano una categoria di ipotesi della realtà concreta, e cioè quelle nelle quali venga dedotta dal paziente la responsabilità del medico, inserito nella struttura sanitaria alla quale il paziente si sia rivolto, e che gli abbia in concreto prestato le cure. Costituisce un'osservazione addirittura banale che al legislatore non spetta la qualificazione della fattispecie concreta, ma semplicemente la predisposizione della disciplina della medesima, che compete, poi, all'interprete, ed in particolare al giudice, interpretare. In altre parole, prosegue tale dottrina, un testo normativo che avesse voluto stroncare l'indirizzo giurisprudenziale, il quale aveva accreditato la responsabilità del medico operante nell'ambito della struttura sanitaria all'interno della quale il paziente era stato curato, ben avrebbe potuto farlo semplicemente introducendo una disciplina di diritto speciale della responsabilità del medico, caratterizzata da sue peculiari regole in materia di riparto dell'onere della prova, di durata del termine prescrizionale, di ambito del danno risarcibile, in ipotesi modellate su quelle proprie della responsabilità aquiliana. La scelta di tecnica legislativa in questa occasione adottata rappresenta invece una modalità inappropriata di sancire, come è stato affermato dal primo commentatore (il riferimento è a Travaglino, 2017) del testo definitivamente approvato ed in attesa di pubblicazione, «la fine dell'impero del diritto giurisprudenziale, il ritorno alla Repubblica della disciplina positiva» (Scognamiglio, 2017).

Sotto altro profilo, si è posto il problema dell'efficacia nel tempo della norma sopravvenuta.

La l. n. 24/2017, entrata in vigore il 1 aprile 2017 è infatti priva di norme transitorie, dirette a regolare i rapporti giuridici che sono sottoposti al trapasso di legislazione.

Richiamando quindi i principi generali di irretroattività della legge (art. 11, comma 1, disp. prel. c.c.) e della non applicabilità delle leggi speciali oltre i casi ed i tempi in esse considerate (art. 14 disp. prel. c.c.), si è osservato che l'art. 7 della l. n. 24/2017 è senz'altro una norma speciale perché disciplina non l'accertamento della responsabilità, l'accertamento del danno e la liquidazione del danno causato da qualsiasi fatto illecito, ma solo di quello derivante da attività medica e sanitaria. La disposizione relativa all'accertamento della responsabilità, con l'espressa indicazione delle norme applicabili e dei diversi regimi di responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, pertanto, non è retroattiva (Liguori).

In ordine a tale questione, accorta dottrina ha rimarcato i problemi che si delineano con riferimento alle domande risarcitorie già proposte da pazienti, i quali, confidando sul diritto vivente, avevano impostato il proprio sistema difensivo sulla premessa che gli oneri di allegazione e di prova da cui erano gravati fossero quelli propri della materia della responsabilità da contatto sociale. Secondo tale Autore, la nuova disciplina, non configurandosi tecnicamente come di interpretazione autentica, ma appunto di (anomala) qualificazione di fattispecie, ed avendo la stessa un contenuto indubbiamente innovativo, anche rispetto alla l. n. 189/2012, dovrebbe trovare applicazione solo alle ipotesi di responsabilità sorte nel periodo della propria vigenza; e questa conclusione si imporrebbe probabilmente anche alla luce della necessità di proteggere il ragionevole affidamento sul contenuto del diritto vivente, così come consolidatosi in circa diciotto anni di elaborazione giurisprudenziale.

La stessa dottrina, tuttavia, avverte che non si può escludere totalmente che l'inedita scelta del legislatore di qualificare egli stesso la fattispecie di responsabilità possa accreditare interpretazioni di segno contrario tali da porre fuori gioco il diritto vivente con un effetto retroattivo, la cui gravità sulle controversie impostate nel vigore del precedente assetto di diritto giurisprudenziale sarebbe di tutta evidenza (Scognamiglio, 2017).

Per ulteriori approfondimenti sulla portata e le questioni interpretative poste dalla l. n. 24/2017, v. infra (Responsabilità medica).

Responsabilità del notaio e dell'avvocato

Il panorama dei casi di configurabilità di una responsabilità da contatto sociale, qualificato dalla professione protetta svolta da uno dei soggetti della relazione, è stato ulteriormente esteso dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, sia pure con pronunce allo stato isolate (ma neppure superate da successivi contrari orientamenti), ha preso in considerazione anche le professioni legali.

Con riferimento al notaio, la Corte di cassazione ha avuto modo di affermare (sebbene solo in termini astratti, non ricorrendo nei casi esaminati i presupposti per un'applicazione alla fattispecie concreta) la configurabilità a carico di tale professionista, in un caso di omessa cancellazione di ipoteca, della responsabilità da contatto sociale nei confronti della parte diversa dal cliente. Secondo tale sentenza, infatti, non vi è dubbio che l'attività professionale del notaio rientri tra quelle protette e crei un alto affidamento nel soggetto che riceve la prestazione, per cui se il notaio svolge la propria attività professionale in favore di un soggetto, essa deve sempre avere le stesse caratteristiche e qualità previste dalle norme di varia natura che a tale attività presiedono, e ciò anche nei casi in cui la prestazione non sia effettuata sulla base di un contratto di prestazione d'opera, sussistendo in ogni caso una sua responsabilità (Cass. n. 14934/2002).

In altra occasione, la configurabilità di una responsabilità da contatto sociale in capo al notaio è stata riconosciuta con riferimento ad un caso in cui un soggetto interessato a stipulare un mutuo ipotecario con una banca aveva incaricato un notaio di effettuare le necessarie visure: la Suprema Corte ha infatti affermato che gli obblighi conseguenti debbano ritenersi assunti dal notaio non soltanto nei confronti del mutuatario, ma pure nei confronti della banca mutuante, e ciò sia che si intenda l'istituto bancario quale terzo ex art. 1411 c.c., che beneficia del rapporto contrattuale di prestazione professionale concluso dal cliente mutuatario, sia che si individui un'ipotesi di responsabilità da contatto sociale fondata sull'affidamento che la banca mutuante ripone nel notaio in quanto esercente una professione protetta (Cass. n. 9320/2016).

Con riferimento all'avvocato, i giudici di legittimità hanno avuto modo di affermare, in un giudizio di responsabilità disciplinare per fatti commessi in assenza di un rapporto professionale, che appare coerente con le esigenze di tutela del prestigio dell'ordine professionale che siano osservate le norme di deontologia nei rapporti in genere, anche da contatto sociale, nei quali l'avvocato, in ragione della spendita di tale sua qualità, ottenga fiducia ed ingeneri affidamento nel terzo (Cass. n. 6216/2005).

Responsabilità del mediatore senza mandato (c.d. mediazione tipica)

Il codice civile non definisce la mediazione come fattispecie contrattuale, preferendo disegnare la relativa disciplina, pur inserita nella sezione dedicata ai contratti nominati, con riferimento alla figura del mediatore (art. 1754 c.c.), senza indicare obblighi a carico delle parti, salvo il diritto alla provvigione ad affare concluso (art. 1755 c.c.).

Ciò ha dato adito ad un ampio dibattito dottrinale sulla natura contrattuale o meno di tale istituto, alimentato tra l'altro dal rilievo che il rapporto può instaurarsi anche per iniziativa spontanea del mediatore, senza che vi sia stato alcun incarico.

La tesi prevalente ravvisa nella mediazione un contratto (Marini, 65; Barbero, 343; Stolfi, 16 ss.), ponendo variamente in luce i diversi elementi che militano in tal senso: oltre alla collocazione sistematica dell'istituto tra i contratti tipici, alcuni Autori hanno valorizzato il disposto dell'art. 1756 c.c. che, stabilendo il rimborso delle spese sostenute dall'intermediario, presuppone un preesistente accordo tra chi ha conferito l'incarico e il mediatore che lo ha accettato, anche se l'affare non si è concluso (Minasi, 35); altri hanno tratto ulteriore argomento a conforto della tesi contrattualistica da alcuni riferimenti testuali contenuti nella l. n. 39/1989 (in particolare negli artt. 5 e 8), la quale ha limitato l'esercizio dell'attività mediatoria solo a coloro che abbiano determinati requisiti di idoneità professionale, stabilendo allo scopo l'iscrizione ad un apposito ruolo per gli agenti di mediazione, quale condizione necessaria per ottenere la provvigione (Di Chio, 384 ss.).

La tesi che ravvisa nella mediazione un contratto è quella prevalente in giurisprudenza.

Si è così affermato che il rapporto che si instaura tra chi mette in contatto due o più parti per la conclusione di un affare senza essere legato da vincoli di rappresentanza, collaborazione o dipendenza, ha natura contrattuale, mentre la conclusione dell'affare costituisce soltanto la condicio iuris idonea a far sorgere il diritto alla provvigione (Cass. n. 58514/2009; contra, Cass. n. 11384/1991) e che, conseguentemente, il relativo contratto non può ritenersi concluso senza il consenso espresso o tacito delle parti del contratto principale, consenso che, per quanto riguarda la parte rimasta estranea all'originario incarico di mediazione, può essere manifestata anche per facta concludentia, mediante l'utilizzazione dell'attività del mediatore, allorquando essa, poi, si avvalga, in maniera consapevole dell'opera del mediatore ai fini della conclusione dell'affare (Cass. n. 6963/2001; Cass. n. 1989/2750; Cass. n. 7985/1990; Cass. n. 1626/1983).

Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, il rapporto di mediazione, inteso come interposizione neutrale tra due o più persone per agevolare la conclusione di un determinato affare, non postula necessariamente un preventivo accordo delle parti sulla persona del mediatore, ma è configurabile pure in relazione ad una materiale attività intermediatrice che i contraenti accettano anche soltanto tacitamente, utilizzandone i risultati ai fini della stipula del contratto (Cass. n. 21737/2010).

Dunque, anche quella parte della giurisprudenza di legittimità orientata ad affermare la natura contrattuale della mediazione, riscontra in tale tipo di contratto una peculiarità rispetto al normale procedimento di formazione dei contratti previsto dagli artt. 1322 e ss. c.c., atteso che l'accordo può nascere in conseguenza dell'utile messa in contatto delle parti dello stipulando contratto, ciò che attribuisce alla mediazione il carattere della atipicità (Cass. n. 7251/2005).

Altra parte della dottrina nega la natura contrattuale della mediazione, individuandone la fonte in un atto giuridico in senso stretto, consistente nel mero intervento che pone in relazione le parti, sicché la qualità di mediatore verrebbe ad acquisirsi ex art. 1754 c.c. per lo svolgimento di un'attività materiale, piuttosto che per l'affidamento contrattuale di un incarico. Tra i sostenitori della tesi anegoziale, alcuni hanno ritenuto di inquadrare l'istituto nella categoria dei rapporti contrattuali di fatto, i quali originano da quegli atti o fatti ritenuti dall'ordinamento idonei a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. (Carraro, 55 e ss.; Perfetti, 250).

Un diverso e più recente indirizzo si colloca in una posizione intermedia tra le teorie contrattualistiche e quelle acontrattualistiche, ritenendo che la mediazione possa alternativamente configurarsi in alcuni casi come un contratto ed in altri come un rapporto contrattuale di fatto, ricorrendo il primo caso quando il mediatore e uno o entrambi i possibili contraenti dell'affare sia intervenuto un accordo che regoli i rispettivi diritti e obblighi, mentre, quando ciò non avvenga, si verificherebbe la seconda ipotesi e l'obbligo di corrispondere la provvigione sorgerebbe a carico del soggetto o dei soggetti che utilizzano l'opera del mediatore in forza della messa in relazione delle future parti al fine della conclusione dell'affare e della ricorrenza degli altri requisiti richiesti dalla legge (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnella, Natoli; Sesti).

Secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità, in linea con la tesi dottrinaria della natura variabile della mediazione, è possibile rendere atipica la mediazione, dando al rapporto una regolamentazione diversa da quella legale, in particolare stabilendo il diritto del mediatore al compenso anche nel caso di revoca anticipata dell'incarico, oltre che, come per legge, al verificarsi della conclusione dell'affare (Cass. n. 8374/2009; Cass. n. 1630/1998; Cass. n. 6384/1983, Cass. n. 2631/1982).

Parte della giurisprudenza più recente, nell'ottica pragmatica di fornire soluzione concreta alle singole vicende, sembra aver rinunziato alla rigida categorizzazione contrattuale/non contrattuale dell'istituto, tendendo piuttosto ad enucleare gli elementi essenziali perché possa configurarsi un'attività di mediazione dalla quale discenda il diritto alla provvigione. Tale orientamento, esplicitamente prescindendo dall'attribuire natura contrattuale o meno alla fattispecie disciplinata dagli artt. 1754 e ss. c.c., configura l'attività di mediazione, utile a far sorgere il diritto alla provvigione, ogni qualvolta le parti abbiano avuto adeguata cognizione che nell'affare è coinvolto un mediatore e l'affare stesso si sia concluso per effetto della sua opera; la prova della menzionata conoscenza incombe, ai sensi dell'art. 2697 c.c., al mediatore che voglia far valere in giudizio il diritto alla provvigione (Cass. n. 6004/2007; conf. Cass. n. 12390/2011; vedi anche Cass. n. 7251/2005 che, pur giungendo sostanzialmente a configurare la mediazione in termini negoziali, quale incontro delle volontà delle parti interessate alla stipulando contratto, in motivazione afferma l'irrilevanza della qualificazione in termini contrattuali o meno).

La mediazione tipica, per come definita dalla dottrina dominante, si caratterizza per la spontaneità dell'attività svolta dal mediatore, il quale non è legato da alcun rapporto di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza con le parti interessate, per la libertà di queste ultime di accettare le proposte reperite dal mediatore, e quindi di concludere o no l'affare, nonché per la libertà di recesso della parte che ha conferito l'incarico al mediatore e per la stretta interdipendenza del diritto alla provvigione dalla conclusione dell'affare (Catricalà, 94 ss.; Luminoso, 31 ss.).

Tra i sostenitori della natura non contrattuale della mediazione tipica, si è osservato che può ragionevolmente affermarsi che tale istituto sia un rapporto obbligatorio tipico derivante da contatto sociale. Ciò non esclude che la mediazione possa derivare anche dal contratto: l'accordo contrattuale, peraltro, non è indispensabile, ben potendo obblighi e diritti trovare fonte nello specifico fatto o atto ritenuto dalla legge idoneo a produrli. È quanto del resto accade per altri rapporti obbligatori nascenti da contatto sociale, figura in origine elaborata dalla dottrina tedesca, ma ormai accolta anche dalla nostra giurisprudenza (Catricalà, 99 ss).

In senso critico altra dottrina, la quale, nel ritenere il ricorso al concetto di contatto sociale una sorta di panacea di tutti i mali, ha osservato che la mediazione atipica è una mera etichetta di comodo che riunisce sinteticamente in sé una serie abbastanza nutrita di derivazioni pattizie di certi contenuti del rapporto di mediazione: accumulare tutte queste deviazioni, le quali sono estremamente variegate e differenziate quanto a portata, risulterebbe pertanto rischioso e fuorviante (Toschi Vespasiani in I contratti, 2009, 12, 1085, nota a Cass. n. 16382/2009).

Sulla linea della dottrina da ultimo richiamata si colloca una importante sentenza che, per la prima volta, applica la responsabilità da contatto sociale qualificato a proposito della responsabilità del mediatore nella mediazione cd. tipica.

In una controversia in cui era stata prospettata la responsabilità del mediatore non mandatario per omessa informazione in ordine alla proprietà di un bene immobile, la Corte di cassazione non solo ha ritenuto sussistente tale responsabilità in ragione della violazione del dovere di informare del mediatore, indicato nell'art. 1759 c.c., (in contrasto con un principio consolidato secondo il quale il mediatore professionale ha, sì, l'obbligo di comunicare alle parti le circostanze a lui note, ovvero quelle conoscibili con l'uso della diligenza richiesta ad un operatore professionale, ma tale diligenza non comprende il preciso dovere di verificare la liberà dell'immobile da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli: Cass. n. 8374/2009; Cass. n. 16009/2003; Cass. n. 4126/2001; Cass. n. 6389/2001), ma è giunta a riconoscerle natura contrattuale. Secondo tale pronuncia, la mediazione tipica, intesa quale fattispecie in cui il mediatore agisce senza vincoli contrattuali con le parti che mette in relazione, va tenuta distinta dalla mediazione atipica la quale, basandosi su un incarico attribuito da una parte al mediatore, va propriamente ricondotta al mandato. Partendo da tale premessa, la Suprema Corte osserva quindi che la mediazione tipica, in quanto svolta dal mediatore in modo autonomo, senza alcun vincolo di mandato o di altro tipo con le parti, non costituisce un negozio giuridico, ma un'attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il diritto alla provvigione (in ciò evidenziandosi un ulteriore profilo di contrasto con quelle decisioni, sia precedenti che successive, per la quali la mediazione ha natura contrattuale: ex plurimis Cass. n. 58514/2009; Cass. n. 7985/1990; Cass. n. 6963/2001; Cass. n. 1989/2750; Cass. n. 1626/1983); tuttavia, in virtù del contatto sociale che si crea tra il mediatore professionale e le parti, nella controversia tra essi pendente trovano applicazione le norme sui contratti, con la conseguenza che il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile nell'adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai sensi dell'art. 1176, comma 2 c.c. (Cass. n. 16382/2009, in Corr. giur. 2009, 1, 1339, con nota di Carbone; in I contratti, 2009, 12, 1085, con nota di Toschi Vespasiani).

Si è dunque in presenza di un ulteriore tassello nel percorso euristico seguito dalla giurisprudenza e teso ad ampliare le ipotesi riconducibili nell'area della contrattualità in ragione del contatto sociale qualificato, come significativamente emerge dalla stessa motivazione della sentenza citata, laddove, nel ricollegarsi ai precedenti in tema di responsabilità del medico non legato al paziente da un vincolo contrattuale, viene precisato che, se prima facie la responsabilità del mediatore non mandatario appare di natura extracontrattuale, risulta preferibile, riguardando la stessa una figura professionale, applicare la più recente previsione giurisprudenziale di legittimità della responsabilità da contatto sociale; infatti, tale situazione è riscontrabile nei confronti dell'operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali ed abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista l'iscrizione ad un apposito ruolo, ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche (si pensi, ad esempio, alle c.d. agenzie immobiliari dalle particolari connotazioni professionali ed imprenditoriali).

Responsabilità della Pubblica Amministrazione per violazione delle regole procedimentali ex l. n. 241/1990

Importanti applicazioni della responsabilità da contatto sociale qualificato si rinvengono, sia nella giurisprudenza dei giudici ordinari che di quelli amministrativi, in materia di responsabilità procedimentale della P.A.

In particolare, si è affermato che il rapporto amministrativo costituisce un'ipotesi qualificata di contatto sociale tra i soggetti interessati e l'amministrazione e che il dovere di comportamento del soggetto pubblico (e quindi la misura della colpa) si definisce non solo in funzione delle specifiche regole che disciplinano il potere, ma anche, e soprattutto, sulla base di criteri diretti a valorizzare il concreto atteggiarsi di tale contatto, ed alla progressiva emersione dell'affidamento del privato in ordine alla positiva conclusione del procedimento (Cons. Stato, n. 4239/2001 e T.A.R. Puglia, n. 1761/2001, in Foro it., 2002, III, 1 e 3, con note di Molaschi e CasettaFracchia).

A sua volta la Cassazione, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo e della conseguente nuova concezione dei rapporti tra cittadino e amministrazione, ha rilevato che il privato è divenuto destinatario di veri e propri obblighi gravanti sull'amministrazione e riconducibili ai canoni contrattuali di correttezza e buona fede (Cass. n. 157/2003, in Foro it., 2003, I, 78 con nota di Fracchia).

Emerge, dunque, accanto all'interesse «sostanziale» (che dà luogo a responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. e va inteso come interesse al bene della vita, concetto risalente alla storica sentenza di Cass. S.U., n. 500/1999), l'interesse procedimentale, cioè l'interesse al rispetto delle regole del procedimento. La violazione di tali regole si risolve nell'inadempimento imposto dalla normativa che regola il comportamento della P.A. e, pertanto, assume un carattere del tutto autonomo rispetto al pregiudizio costituito dalla perdita sostanziale del bene della vita al quale il privato aspira: per tale via, la Suprema Corte è giunta ad inquadrare la lesione dell'interesse procedimentale nella fattispecie della responsabilità di tipo contrattuale ex art. 1218 c.c., stante il contatto qualificato che viene ad instaurarsi tra il privato e l'amministrazione nel procedimento (Cass. n. 2010/24382, in motivazione).

Con riferimento a tale orientamento giurisprudenziale, ed in particolare ai principi affermati dalla Cassazione nella citata sentenza n. 157 del 2003, si è sottolineato in dottrina che in tal modo il bene della vita viene valorizzato e ad una dimensione sostanziale se ne affianca una processuale, vale a dire che le stesse figure dell'imparzialità, della buona amministrazione e della correttezza, le quali si esplicano anche nel rispetto dei diritti incardinati nel procedimento, assurgono al ruolo di autonomi beni della vita (Durante).

Un'attenta dottrina si è inoltre interrogata sulla possibilità che i vizi non invalidanti di cui all'art. 21-octies della l. n. 241/1990, pur se inidonei a fondare un'azione vittoriosa d'annullamento del provvedimento, possano legittimare l'esperimento di un'azione risarcitoria per violazione degli obblighi nascenti dal contatto amministrativo qualificato, così superando i dubbi di costituzionalità che la suddetta norma potrebbe altrimenti sollevare (Caringella, 104).

Responsabilità della banca negoziatrice di assegno non trasferibile

Ulteriore applicazione giurisprudenziale della teoria del contatto sociale ha riguardato il caso della responsabilità della banca che, in violazione dell'art. 43 del R.d. 21 dicembre 1933, n. 1736 (c.d. legge assegni), abbia negoziato in favore di soggetto non legittimato un assegno munito di clausola di non trasferibilità.

Sulla natura di tale responsabilità si fronteggiavano diversi orientamenti giurisprudenziali, che riconducevano di volta in volta la responsabilità della banca all'illecito aquiliano (Cass. S.U. 12388/1992, Cass. n. 1087/1999; Cass. n. 9902/2000; Cass. n. 12425/2000; Cass. n. 8005/2005; Cass. S.U. n. 12388/1992) ovvero all'illecito contrattuale (Cass. n. 18543/2006; Cass. n. 6377/2000; Cass. n. 4187/1987), o, ancora, alla violazione di un'obbligazione ex lege (Cass. n. 18543/2006; Cass. n. 19512/2005).

Infine, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ricondotto tale fattispecie nell'alveo della responsabilità contrattuale (con conseguente applicabilità della prescrizione decennale) nei confronti di tutti i soggetti nell'interesse dei quali sono dettate le regole poste dalla legge assegni, ove detti soggetti abbiano sofferto un danno a causa della violazione di siffatte regole. Ciò in quanto, precisa la Corte, grava sulla banca un obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, che si concretizza nel far sì che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso.

A tale conclusione le Sezioni Unite giungono riprendendo ed ulteriormente sviluppando gli approdi giurisprudenziali in tema di responsabilità medica o dell'insegnante per le autolesioni dell'alunno, dando altresì atto che tali precedenti sono maturati, pur non senza qualche incertezza, in un quadro sistematico peraltro connotato da un graduale avvicinamento dei due tradizionali tipi di responsabilità. Ed allora, precisa la sentenza di cui si discorre, la responsabilità nella quale incorre il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta (art. 1218 c.c.) può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l'obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, nell'accezione che ne dà il successivo art. 1321 c.c., ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall'inesatto adempimento di un'obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte. (Cass. S.U. n. 14712/2007, in Corr. giur., 2007, 1706, con nota di Di Majo, e in Danno e resp., 2008, 165, con nota di Benedetti; tale arresto delle Sezioni Unite ha successivamente trovato stabile e conforme applicazione: Cass. n. 7618/2010; Cass. n. 10534/2015).

Responsabilità dell'insegnante per i danni che l'alunno si è auto-inflitto

Un altro settore in cui la responsabilità da contatto sociale ha avuto significativa applicazione si rinviene nelle ipotesi di responsabilità dell'insegnante per il danno cagionato dall'alunno a se stesso. La prima decisione in materia risale al 2002, quando le Sezioni Unite della Suprema Corte, dopo aver escluso l'applicabilità in tali casi della presunzione di cui all'art. 2048, comma 2, c.c. (ritenuta applicabile esclusivamente al caso di danno cagionato dall'allievo al terzo, spesso a un altro allievo, ma non nell'ipotesi di autolesioni: Cass. n. 5268/1995 in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, 239, con nota di Zaccaria), anziché ricondurre tale ipotesi nell'ambito già percorso dell'illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., ha qualificato siccome contrattuale sia la responsabilità dell'istituto che la responsabilità dell'insegnante: con riferimento all'istituto scolastico ha infatti osservato che l'accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell'allievo alla scuola, determina l'instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell'istituto l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l'allievo procuri danno a se stesso; con riferimento all'insegnante, ha invece valorizzato la relazione qualificata derivante dal contatto sociale con l'allievo, la quale farebbe sorgere, accanto all'obbligo di istruire ed educare, anche un obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l'allievo procuri a se stesso lesioni, la cui violazione viene pertanto ad essere sanzionata dalla responsabilità di natura contrattuale ex art. 1218 c.c. (Cass. S.U., n. 9346/2002, in Foro it., 2002, I, 2635, con nota di Di Ciommo; in Resp. civ. e prev., 2002, 1022, con nota di Facci; in Corr. giur., 2002, 1293, con nota di Morozzo Della Rocca; in Danno e resp., 2003, 51 ss., con nota di Lanotte; in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 273, con nota di Barbanera).

Tale orientamento si è consolidato nel diritto vivente (Cass. n. 8397/2003; Cass. n. 11245/2003, in Nuova giur. civ., 2004, 491, con nota di Carassale; Cass. n. 12966/2005; Cass. n. 24456/2005; Cass. n. 10030/2006; Cass. n. 8067/2007; Cass. n. 5067/2010, in Giust, civ. 2011, 12, 2932, con nota di Cocuccio; Cass. n. 2413/2014, in Giur. it., 2014, 266, con nota di Scarantino; Cass. n. 3695/2016).

Sulla stessa scia si colloca un'altra recente pronuncia di legittimità che, dopo aver ribadito la natura contrattuale della responsabilità ascrivibile all'istituto scolastico ed al singolo insegnante, la quale deriva, rispettivamente, dall'iscrizione scolastica e dal contatto sociale qualificato ed implica l'assunzione dei c.d. doveri di protezione, enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c., precisa ulteriormente che questi ultimi devono essere individuati e commisurati all'interesse del creditore del rapporto obbligatorio, con la conseguenza che, nel caso di minore affidato dalla famiglia per la formazione scolastica, i summenzionati doveri impongono il controllo e la vigilanza del minore fino a quando non intervenga un altro soggetto responsabile, chiamato a succedere nell'assunzione dei doveri connessi alla relativa posizione di garanzia. In applicazione di tale principio la S.C. ha quindi ritenuto sussistente la responsabilità contrattuale dell'amministrazione scolastica e dell'insegnante per aver quest'ultimo, accompagnando spontaneamente gli allievi allo scuolabus fermo nelle vicinanze della scuola, come da consuetudine invalsa da tempo e non contrastata dal dirigente scolastico, omesso di verificare che tutti gli scolari fossero saliti a bordo ed indotto, poi, il conducente ad avviare la marcia, in tal modo causando la morte di uno di loro, rimasto incastrato nella porta del pullman e quindi travolto dallo stesso mezzo (Cass. n. 10516/2017).

L'impostazione giurisprudenziale inaugurata dalle Sezioni Unite del 2002, si è acutamente osservato in dottrina, consente di riconoscere una tutela più adeguata all'allievo, senza alterare né forzare le fondamenta del sistema della responsabilità civile in generale e dell'art. 2048 c.c. in particolare. Infatti, la qualificazione della responsabilità dell'insegnante come contrattuale da contatto sociale comporta de plano l'applicazione del regime probatorio previsto per tale tipologia di responsabilità dall'art. 1218 c.c., in virtù del quale il danneggiato deve provare esclusivamente che l'evento dannoso si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre la scuola ha l'onere di dimostrare che l'evento è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all'insegnante: a ben vedere, un regime probatorio del tutto simile a quello contemplato per i danni cagionati a terzi dall'art. 2048 c.c., il quale, prevedendo una presunzione di colpa in capo al precettore, superabile da quest'ultimo solo provando di non aver potuto impedire il fatto, comporta l'inversione dell'onere probatorio a favore del danneggiato (Faillace, 54 ss.). La stessa dottrina, peraltro, ha criticato l'utilizzazione della teoria del contatto sociale in una fattispecie (autolesioni dell'alunno) ritenuta non assimilabile a quella del medico dipendente della struttura ospedaliera, in relazione alla quale quella teoria era stata in principio elaborata: appare dubbio, infatti, che la figura dell'insegnante possa ricondursi al concetto di professionista, in presenza del quale è possibile individuare una responsabilità da contatto sociale, in quanto la professionalità del docente si manifesta piuttosto nell'insegnare che nel tutelare la salute dell'allievo (Faillace, 64).

Secondo altra autorevole opinione, in dissenso dall'orientamento giurisprudenziale affermatosi nel diritto vivente, l'art. 2048 c.c. sarebbe suscettibile di applicazione estensiva anche ai casi di autolesione dell'alunno, con la conseguente configurabilità anche in tali ipotesi di una colpa presunta degli insegnanti, in quanto l'obbligo di vigilanza è imposto in primo luogo a tutela dei minori loro affidati (Bianca, 1994, 701).

Responsabilità dell'ex datore di lavoro per inesatte informazioni sulla posizione previdenziale

L'ambito di applicazione della responsabilità da contatto sociale è stato ulteriormente ampliato, ricomprendevi anche la responsabilità dell'ex datore di lavoro per informazioni inesatte fornite ad un suo exlavoratore e rilevanti per la posizione previdenziale di quest''ultimo. Tali informazioni, ad avviso della Cassazione, debbono essere fornite al lavoratore in modo corretto anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro; ove ciò non accada ed il lavoratore, in conseguenza dell'errore del datore di lavoro, patisca un pregiudizio alla propria posizione previdenziale, la responsabilità del secondo va qualificata come responsabilità da contatto sociale, in funzione da un lato della posizione qualificata rivestita dall'ex datore di lavoro, quale detentore delle informazioni relative ad un rapporto contrattuale ormai concluso, e, dall'altro, della tutela costituzionale del lavoratore, garantita dall'art. 35 Cost., con la conseguenza che a tale responsabilità debbono essere applicate le regole dettate, quanto al regime probatorio, dall'art 1218 c.c.. in tema di inadempimento contrattuale. In motivazione, la sentenza si premura di evidenziare i tratti sintomatici della riconducibilità di una simile fattispecie nell'alveo della responsabilità da contatto sociale e, a tal fine, esamina la fonte dell'obbligazione, le modalità del contatto e la sua configurabilità siccome qualificato. Quanto alla fonte dell'obbligazione risarcitoria, la Corte rileva che essa, nelle obbligazioni derivanti da contatto sociale, non è né la violazione del principio del neminem ledere, né l'inadempimento della prestazione contrattualmente assunta, ma la lesione di obblighi di protezione, di comportamento, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. Il rapporto che scaturisce dal contatto è ricondotto allo schema della obbligazione da contratto.

Tale descrizione ben si attaglia al caso in esame, dove è assente un vincolo contrattuale attuale tra le parti ma è però ravvisabile un contatto tra le parti stesse, che è anche qualificato, in quanto trova il proprio fondamento nel pregresso rapporto contrattuale ed è a tutela dell'affidamento che l'ex dipendente ripone nell'ex datore di lavoro, quale detentore qualificato delle informazioni relative ad un rapporto contrattuale ormai concluso, in un contesto che ha sullo sfondo la tutela costituzionale apprestata al lavoro dall'art. 35 Cost. (Cass. n. 15992/2011, in Nuova giur. civ. comm., 2012, e, 1, 169, con nota di Montani). In occasione di tale sentenza la Cassazione, per la prima volta, affianca l'aggettivo qualificato non già al contatto con un soggetto esercente una professione protetta (per la quale, cioè, è necessaria una particolare abilitazione, come indicato dalla prima e storica sentenza in tema di contatto sociale del medico dipendente, la citata Cass. n. 589/1999), bensì su un contratto ormai estinto: ne deriva che l'affidamento tutelato non si fonda in questo caso sulla garanzia di professionalità offerta dall'abilitazione professionale conseguita, ma sulla mera esistenza di un pregresso rapporto contrattuale.

Responsabilità precontrattuale

La natura della responsabilità precontrattuale è questione dibattuta da sempre, fronteggiandosi in dottrina gli opposti schieramenti di coloro che sostengono la natura aquiliana di tale tipo di responsabilità (Bianca, 2000, 157 ss.; Carresi, 734; Roppo, 184 ss.; Sacco, 233 ss.) e di coloro che, invece, sono a favore della natura contrattuale (Benatti, 126; Castronovo, 1995, 458; Scognamiglio, 213).

In giurisprudenza l'orientamento assolutamente maggioritario ha per lungo tempo ricondotto la responsabilità per culpa in contraendo, derivante dalla violazione dei doveri ex art. 1337 c.c., nell'alveo della responsabilità extracontrattuale, configurandola quale estrinsecazione del più generale principio del neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c. (Cass. n. 2013/477; Cass. n. 16735/2011; Cass.n. 1504/2004).

In alcune sporadiche occasioni la giurisprudenza di legittimità ha tuttavia mostrato una apertura verso un orientamento difforme, teso a recepire la teoria del contatto sociale anche in riferimento alla responsabilità precontrattuale.

In particolare, in una fattispecie concernente l'erronea scelta del contraente di un contratto di appalto, divenuto inefficace e tamquam non esset per effetto dell'annullamento dell'aggiudicazione, ha avuto modo di affermare che tale situazione espone la P.A. al risarcimento dei danni per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario, precisando che tale responsabilità non è qualificabile né come aquiliana, né come contrattuale in senso proprio, sebbene a questa si avvicini poiché consegue al contatto tra le parti nella fase procedimentale anteriore alla stipula del contratto, ed ha origine nella violazione del dovere di buona fede e correttezza, per avere l'Amministrazione indetto la gara e dato esecuzione ad un'aggiudicazione apparentemente legittima che ha provocato la lesione dell'interesse del privato, non qualificabile come interesse legittimo, ma assimilabile a un diritto soggettivo, avente ad oggetto l'affidamento incolpevole nella regolarità e legittimità dell'aggiudicazione (Cass. n. 24438/2011).

Ancora più incisivamente, un'altra pronuncia, nell'affermare che la parte che agisce in giudizio per il risarcimento del danno subito nella fase che precede la stipula del contratto non ha l'onere di provare l'elemento soggettivo dell'autore dell'illecito, ha fondato tale conclusione sul rilievo che in tal caso si versa in una delle ipotesi previste dall'art. 1173 c.c., come nel caso di responsabilità da contatto sociale, di cui la responsabilità precontrattuale costituisce una figura normativamente qualificata (Cass. n. 27648/2011). Peculiare e significativa sul tema è inoltre una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione la quale, in tema di contratto preliminare di preliminare (ossia di un accordo in virtù del quale le parti si obblighino a concludere un successivo contratto che preveda anche solamente effetti obbligatori), ha precisato che la violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, è idonea a fondare, per la mancata conclusione del contratto stipulando, una responsabilità contrattuale da inadempimento di una obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale (Cass S.U. n. 4628/2015).

I principi già timidamente espressi dalla Corte di cassazione circa la configurabilità della responsabilità precontrattuale come responsabilità da contatto sociale qualificato sono stati ulteriormente sviluppati e portati a compimento con una pronuncia che ha profondamente mutato l'orientamento dominante, giungendo ad affermare, in tema di contratti conclusi con la P.A., che l'eventuale responsabilità di quest'ultima, in pendenza dell'approvazione ministeriale, deve qualificarsi come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., ed è inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale da contatto sociale qualificato, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall'art. 2946 c.c. (Cass. n. 14188/2016, in Danno e resp., 2016, 11, 1051, con nota di Carbone; in Foro it. 2016, 9, 1, 2695, con nota di Palmieri; in Corr. giur., 2016, 12, 1510, con nota di Cicero; in Dir. civ. contem., 2016, 4, con nota di Zambotto).

Più specificamente, la vicenda concerneva un contratto di appalto stipulato con la P.A., in relazione al quale non era però intervenuta l'approvazione ministeriale ai sensi dell'art. 19 del R.d. 18 novembre 1923, n. 2440: la Suprema Corte, premesso che il perfezionamento del vincolo contrattuale doveva ritenersi subordinato a detta approvazione ministeriale, non essendo all'uopo sufficiente né la mera aggiudicazione né la formale stipula del contratto ad evidenza pubblica, affermava che in tale situazione l'eventuale responsabilità della P.A. poteva essere configurata solo come responsabilità precontrattuale. In ordine poi alla riconducibilità di tale tipo di responsabilità nell'ambito dell'illecito o del contratto, la sentenza, all'esito di una attenta analisi storica e giurisprudenziale, rileva che elemento qualificante della culpa in contraendo, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede, la quale, sulla base dell'affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti; da tale rilievo ne trae la conclusione che tale responsabilità, in quanto ha la sua derivazione nella violazione di specifici obblighi (buona fede, protezione, informazione) precedenti quelli che deriveranno dal contratto, se ed allorquando verrà concluso, e non nel generico dovere del neminem laedere, non può che essere qualificata come responsabilità contrattuale.

Una responsabilità, specifica la Corte, da contatto sociale qualificato, ossia connotato da uno scopo che le parti intendono perseguire, nonché tale da instaurare un rapporto caratterizzato da obblighi preesistenti alla lesione, ancorché non si tratti di obblighi di prestazione, bensì di obblighi di protezione correlati all'obbligo di buona fede (laddove, invece, nella responsabilità aquiliana, la rilevanza giuridica del contatto semplice, ossia non-qualificato, viene alla luce solo nel momento della lesione, generando l'obbligo risarcitorio).

Bibliografia

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