Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.

Rosaria Giordano

Risarcimento per fatto illecito.

[I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.]  12.

 

[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209.

[2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24

Inquadramento

L'art. 2043 c.c. è dedicato alla la c.d. responsabilità extracontrattuale che si contrappone alla responsabilità contrattuale in quanto si correla al danno subito da un soggetto per effetto della condotta illecita di un altro in assenza di un pregresso rapporto obbligatorio tra gli stessi.

La difficoltà, in alcune ipotesi, di distinguere nettamente tra responsabilità aquiliana e responsabilità contrattuale ha condotto dottrina e giurisprudenza ad elaborare una ulteriore forma, c.d. da contatto sociale. Tenendo conto dell'elaborazione della dottrina tedesca (v., di recente, Canaris, n. 1, 1 ss.), si è sviluppato anche nel nostro ordinamento un dibattito volto all'affermazione di una responsabilità da «contatto sociale qualificato» anche in settori diversi da quello del contratto (cfr., tra i molti, Di Majo, 2000, 1 ss.).

Si è quindi formata, nella giurisprudenza di legittimità, una linea evolutiva della responsabilità civile, orientata verso un favor — laddove vi sia un contatto tra le parti che genera obblighi di informazione e di protezione, anche se non ancora di prestazione — per la più incisiva forma di tutela rappresentata dalla responsabilità contrattuale. Parte della dottrina e della giurisprudenza, pertanto, hanno annoverato il contatto sociale qualificato tra gli atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico ex art. 1173 c.c. Ne deriva che, secondo tale orientamento, in virtù del principio dell'atipicità delle fonti delle obbligazioni di cui all'art. 1173 c.c., anche la violazione di obbligazioni specifiche che trovano la loro fonte (non già in un contratto ma) nel «contatto sociale qualificato» determina una responsabilità di tipo contrattuale (cfr. Cass. I, n. 14188/2016).

L'art. 2043 c.c. fonda un sistema di responsabilità aquiliana incentrato, piuttosto che in termini soggettivi sulla figura del responsabile, sul fatto illecito (De Cupis, 1 ss.).

Peraltro, in una prima fase, l'art. 2043 c.c. era prevalentemente inteso, come già l'art. 1151 del codice previgente, in linea con la tradizione romanistica, in una prospettiva sanzionatoria che poneva al centro l'elemento soggettivo del dolo o della colpa del responsabile, e non, come avvenuto in seguito, per importanti aperture giurisprudenziali, il danno ingiusto arrecato a soggetti terzi per effetto della lesione non soltanto di diritti assoluti ma anche di diritti di credito, aspettative giuridicamente tutelate, e persino interessi di mero fatto (cfr. Castronovo, 315).

Il danno ingiusto costituisce, invero, uno degli elementi costitutivi dell'illecito civile e consiste nella lesione di un interesse protetto nella vita di relazione (Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012, 584). Secondo la regola generale sancita dall'art. 2043 c.c. l'obbligazione risarcitoria in cui si sostanzia la responsabilità civile sorge, dunque, dal fatto illecito produttivo di danno, ossia da un fatto compiuto in violazione di interessi e diritti comunque protetti (contra legem), il quale assume rilevanza giuridica solo se sia al contempo produttivo di un danno, ovvero della lesione di un interesse riconosciuto dall'ordinamento giuridico (Di Majo, 2009).

La nozione di danno ingiusto affermata attualmente all'interno della giurisprudenza di legittimità coincide con quella di danno arrecato non iure, cioè, inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo.

Facendo leva sul carattere atipico del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., la Suprema Corte non reputa possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela, ritenendo spetti al giudice accertare, all'esito di un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, se e con quale intensità, l'ordinamento appresti tutela risarcitoria all'interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prenda in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, un'esigenza di protezione (Cass. S.U., n. 500/1999).

In sostanza, è prevalsa, almeno sinora, una concezione riparatoria dell'illecito civile che si incardina sulla persona del danneggiato e sul carattere dannoso del pregiudizio subito dallo stesso nella prospettiva di garantire alla vittima un risarcimento che la ponga nello status quo ante rispetto alla verificazione del fatto contra jus (v., da ultimo, Di Majo, 2016, 1859).

L'esclusività della funzione riparatoria della responsabilità civile è stata peraltro messa in crisi dalla recentissima decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sul risarcimento dei danni punitivi: invero, è stato sancito che nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Pertanto, il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico (Cass. S.U., n. 16601/2017).

Nesso di causalità

Tra il fatto e l'evento dannoso deve sussistere un nesso di causalità: tale nozione, nell'ambito della responsabilità civile, va ricostruita in coerenza con la funzione normativa dell'illecito extracontrattuale, che è quella di consentire l'imputazione ad un soggetto di un fatto produttivo di un danno ingiusto. In particolare, in mancanza di una definizione normativa, essa deve desunta dalla lettura sistematica delle disposizioni del titolo IX del libro IV del codice civile e, tra queste, dalla formulazione letterale dell'art. 2043 c.c., in cui l'impiego dell'espressione «cagiona ad altri un danno ingiusto» attesta la collocazione del nesso di causalità tra gli elementi strutturali del fatto illecito.

La dottrina dominante ritiene che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. interpretati alla luce della teoria della regolarità causale (Alpa, T. dir. priv., VI, 14).

Tuttavia, nel delineare la nozione di nesso causale quale elemento strutturale dell'illecito aquiliano, la giurisprudenza di legittimità nega l'automatica trasponibilità in sede civile dell'elaborazione della dottrina e della giurisprudenza penalistiche, evidenziando come la responsabilità penale si incentri sull'esigenza dell'imputazione soggettiva ed oggettiva al reo del fatto — reato, così che assume rilevanza l'accertamento dell'elemento materiale costituito da condotta, evento e nesso di causalità — mentre la responsabilità civile si incentra sul danno ingiusto e non sul fatto illecito, il quale assume il ruolo mediato di presupposto per l'imputazione del danno all'autore. In altri termini, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito non essere coincidente con il più rigoroso accertamento richiesto dall'art. 40 c.p., cui pure la teoria della c.d. causalità adeguata è ispirata (in arg. Crivelli, n. 5, 695).

In particolare, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che in tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione «ex ante» — del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del «più probabile che non», mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio» (Cass. S.U., n. 576/2008).

Viene pertanto accolta una nozione della causalità per la quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni in forza del quale l'efficienza causale va riconosciuta ad ogni antecedente che abbia contribuito anche in maniera indiretta e remota alla produzione dell'evento, salvo il temperamento desumibile dall'art. 41 c.p., secondo cui l'idoneità interruttiva del nesso eziologico deve essere attribuita soltanto alla sopravvenienza di un fattore da solo sufficiente a produrre l'evento, tale quindi da degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (Scognamiglio, 651).

Invero, per l'affermazione di responsabilità di un soggetto è indispensabile che si accerti un nesso di causalità tra l'attività e il danno evento e a tal fine, deve ricorrere la duplice condizione che il fatto costituisca un antecedente necessario dell'evento, nel senso che quest'ultimo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto, e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento, sicché la causa efficiente sopravvenuta che abbia i requisiti del caso fortuito – cioè l'eccezionalità e l'oggettiva imprevedibilità — e sia idonea, da sola, a causare l'evento, recide il nesso eziologico tra quest'ultimo e l'attività pericolosa, producendo effetti liberatori, e ciò anche quando sia attribuibile al fatto del danneggiato stesso o di un terzo (Cass. n. 15113/2016).

Nel codice civile non si rinviene una disciplina della causalità omissiva e quindi, anche in questo caso, il paradigma normativo di riferimento è costituito dall'art. 40 c.p. che al secondo comma stabilisce un'equivalenza tra il non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di evitare e il cagionarlo.

In accordo con i fautori dell'orientamento dominante in dottrina (c.d. teoria normativa), tra l'omissione e l'evento non sussiste, appunto, un nesso eziologico in senso naturalistico, ma un legame giuridico (Antolisei, Il rapporto di causalità in diritto penale, Torino, 1960, 156; Fiandaca Musco, Diritto penale, Bologna, 2011, 441).

Per sua parte, la giurisprudenza di legittimità reputa l'omissione causalmente rilevante soltanto quando si concretizzi nell'omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), e sempre che la condotta omissiva non sia essa stessa considerata fonte di danno dall'ordinamento (come in ambito penalistico per i reati omissivi propri), ovvero nell'omissione di obblighi di generica prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento (cfr., tra le molte, Cass. n. 12401/2013).

Nella responsabilità civile la causalità assume rilevanza tanto nell'ipotesi di lesione di un bene interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, quanto nell'ipotesi in cui dall'illecito derivi la privazione definitiva o la diminuzione delle possibilità, da parte di un soggetto, di conseguire di una certa utilità. Quando la possibilità dell'ottenimento di tale risultato favorevole viene meno a causa della condotta colposa di un soggetto si configura la fattispecie del danno da perdita di chance. In particolare, tale danno costituisce una voce di creazione giurisprudenziale mediante la quale viene riconosciuto il risarcimento alla compromissione che la vittima di un illecito ovvero di un adempimento subisce in quanto abbia visto svanire la possibilità di conseguire un certo risultato utile (cfr., il leading case, Cass., Sez. III, n. 4004/2004). Il pregiudizio, quindi, non corrisponde al mancato conseguimento di tale vantaggio, bensì alla compromissione delle opportunità che la vittima aveva di conseguire lo stesso (Bona, 1085 ss.).

L'art. 2055 c.c. disciplina l'ipotesi nella quale un fatto dannoso sia imputabile a più soggetti La solidarietà presuppone che il fatto dannoso sia imputabile a più persone: occorre che serie causali logicamente autonome abbiano tutte necessariamente contribuito a produrre l'evento, dal quale occorre muovere per determinare il danno (Franzoni, Dei fatti illeciti, in Comm. S.B., sub artt. 2043-2059, suppl. 2004, 720). È invece irrilevante, diversamente da quanto accade nel campo penale per la determinazione del concorso nel reato, che difetti un collegamento tra le diverse condotte umane sotto il profilo psicologico (Alpa, 331; De Cupis, 275): sicché si esclude che l'applicazione dell'art. 2055 sia dipendente dalla circostanza che i coautori del danno abbiano anche la consapevolezza di cooperare nel fatto altrui, o che addirittura sia necessario che tra esse si sia formato un accordo per cagionare il danno (Cossu, 8).

In giurisprudenza si ritiene che, affinché sorga la responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055, comma 1, richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate (Cass. n. 27713/2005).

La solidarietà comporta che il danneggiato possa pretendere l'adempimento della totalità dell'obbligazione risarcitoria nei confronti di uno solo dei coobbligati, salva rimanendo a quest'ultimo l'azione di regresso verso i condebitori per la parte da ciascuno di essi dovuta in base alla gravità delle rispettive colpe e alle conseguenze che ne sono derivate (Monateri, 193).

La disciplina del regresso nei rapporti interni fra condebitori solidali muta a seconda che si tratti di obbligazioni contrattuali o di obbligazioni per fatto illecito. Infatti, mentre nelle obbligazioni nascenti da contratto si applica il principio di cui agli artt. 1298 e 1299, secondo cui la ripartizione del debito fra i coobbligati avviene per quote che si presumono eguali, salvo che non risulti diversamente, nelle obbligazioni ex delicto, invece, l'onere sopportato da ciascun corresponsabile nei confronti degli altri obbligati è commisurato all'esistenza ed alla gravità delle rispettive colpe e nonché all'entità delle conseguenze che ne sono derivate (Cass. n. 491/1975; Cass. n. 1204/1973; Cass. n. 1970/1969); solo nel dubbio le colpe si presumono uguali (Cass. n. 993/1965).

Il danno ingiusto e la liquidazione dello stesso

Tuttavia, occorre distinguere tra danno ingiusto c.d. evento, che si identifica con la violazione di una situazione giuridica soggettiva, e c.d. danno conseguenza che indica quali siano le conseguenze dannose, economicamente valutabili che, derivando dalla lesione del bene, attribuiscono il diritto al risarcimento. Sulla questione, la S.C. ha più volte ribadito l'assunto per il quale, perché sorga l'obbligazione risarcitoria occorre non soltanto un fatto lesivo, retto dalla causalità materiale, ma anche un danno conseguenza di questo, fondato sulla causalità giuridica, la cui imputazione presuppone il riscontro di alcuna delle fattispecie normative ex artt. 2043 c.c. (Cass. n. 4043/2013).

In particolare, quanto al danno patrimoniale, secondo la concezione attualmente più accreditata, ovvero la teoria c.d. patrimoniale, poiché l'obiettivo perseguito attraverso l'obbligazione risarcitoria è quello di tutelare l'interesse del soggetto danneggiato – da intendersi come tensione di un soggetto verso un bene e, più precisamente, come l'esigenza di conservare i beni che già ha o di conseguirne altri —, la riparazione del danno deve consistere nell'eliminazione delle conseguenze dannose determinatesi sul patrimonio del creditore-danneggiato (Franzoni, 111 ss.).

La giurisprudenza di legittimità, enunciando il principio per il quale l'obbligo di risarcimento del danno da fatto illecito contrattuale o extracontrattuale ha per oggetto l'integrale reintegrazione del patrimonio del danneggiato (Cass. 10263/2000; Cass. n. 25775/2013; Cass. n. 13666/2003) sembra accedere alla teoria del danno c.d. patrimoniale appena richiamata.

La dottrina ha enucleato due diversi criteri di liquidazione del danno, il primo dei quali soggettivo o dell'id quod interest e l'altro oggettivo o dell'aestimatio rei (Franzoni, Il danno risarcibile, in Trattato della responsabilità civile, Milano, 2010, 111 e ss.).

Il criterio soggettivo ha ottenuto l'adesione della dottrina dominante, la quale ha valorizzato il dato testuale della formulazione dell'art. 1223 c.c., a mente del quale il danno patrimoniale consiste nella «perdita subita dal creditore» per affermare che il legislatore ha inteso privilegiare l'interesse del creditore, piuttosto che il valore oggettivo del bene leso: pertanto, si è evidenziato che il danno patrimoniale è il pregiudizio arrecato a tutte le componenti del patrimonio della vittima tra cui è dato individuare, oltre ai diritti ed ai beni che ne costituiscono oggetto, anche l'interesse del medesimo danneggiato su di essi (Franzoni, Op. cit., 112; Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1972, 631).

Per sua parte, la stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che, in tema di liquidazione del quantum risarcibile, la misura del danno non deve essere necessariamente contenuta nei limiti di valore del bene danneggiato, ma deve avere per oggetto l'intero pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, essendo il risarcimento diretto alla completa restitutio in integrum, per equivalente od in forma specifica, del patrimonio leso (v., da ultimo, Cass. n. 12284/2016).

Con riferimento al danno futuro la giurisprudenza di legittimità evidenzia la necessità della dimostrazione, da parte del danneggiato, non solo della potenziale lesività del fatto altrui, ma che tale fatto è stato causa di un danno concreto. Ai fini della risarcibilità del danno futuro è, quindi, necessario un elevato grado di probabilità che esso si verifichi in base ad un criterio di regolarità (id quod plerumque accidit) così che, per ottenere il riconoscimento del diritto risarcitorio corrispondente al lucro cessante futuro, non è sufficiente la prova dei postumi permanenti derivati dalle lesioni subite dal danneggiato, ma occorre che egli provi che dalle stesse è derivata la riduzione della capacità lavorativa specifica, non originandosi dall'invalidità personale permanente automaticamente la presunzione di danno da lucro cessante futuro (Cass. n. 15676/2005).

Il sistema aquiliano delineato dal legislatore del 1942 prevede, accanto alla norma di portata generale che sancisce la risarcibilità del danno ingiusto derivante da un fatto illecito (art. 2043 c.c.), una disposizione speciale in virtù della quale il risarcimento del danno non patrimoniale è ammesso nei soli casi previsti dalla legge (art. 2059 c.c.). All'epoca dell'emanazione del codice civile l'unica previsione espressa in via generale circa la risarcibilità del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 c.p. del 1930, riferita alle ipotesi di danni derivanti da reato.

Nella prima fase di applicazione dell'art. 2059 c.c., la giurisprudenza si consolidò nel senso di ritenere risarcibile tale danno solo in presenza di reato e ne individuò il contenuto nel c.d. danno morale soggettivo (pretium doloris), inteso come sofferenza contingente, patema d'animo o stato d'angoscia transeunte generato dall'illecito (in arg. Scognamiglio, 273, ss.).

Una prima svolta significativa è stata impressa alla materia da una notissima sentenza della Corte costituzionale (Corte cost. n. 184/1986) che, in tema di risarcimento del danno alla persona, è giunta ad affermare che «l'ingiustizia del danno biologico e la conseguente sua risarcibilità discendono direttamente dal collegamento tra gli artt. 32, primo comma, Cost. e 2043 c.c.; più precisamente dall'integrazione di quest'ultima disposizione con la prima». A seguito di tale pronuncia del giudice delle leggi, il danno non patrimoniale non è più limitato a quello morale, ma comprende anche quello biologico, inteso come lesione all'integrità psico-fisica della persona come tale, a prescindere dagli effetti economici negativi che tale lesione abbia arrecato al patrimonio del danneggiato. Veniva quindi in rilievo una concezione «tripartita» del danno alla persona, distinto tra danno patrimoniale, danno alla salute risarcibile mediante l'art. 32 Cost. e danno non patrimoniale risarcibile nei soli casi previsti dalla legge e, di qui, in presenza di un fatto di reato.

Sin dal 2003, tuttavia, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione iniziano a delineare una concezione bipolare del risarcimento del danno alla persona, nell'ambito della quale il risarcimento del danno non patrimoniale si correla alla lesione anche di diritti costituzionali inviolabili, stante l'art. 2 Cost.

Il suggello a tale concezione si rinviene nelle pronunce gemelle delle Sezioni Unite del 2008 le quali hanno sancito che tutti i danni non patrimoniali sono da ricondursi nell'ambito della previsione dell'art. 2059 c.c., con la precisazione che, al di fuori dei casi determinati dalla legge, la tutela è estesa solo ai danni non patrimoniali prodotti dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, sempre che si sia in presenza di una lesione grave e di un danno serio, con esclusione quindi della risarcibilità dei danni «bagatellari (Cass. S.U., n. 26972/2008).

Peculiare rilevanza assume, nell'ambito del danno non patrimoniale, il danno biologico, ossia, secondo la definizione normativa contenuta negli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209/2005 (c.d. codice delle assicurazioni), la «lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito». L'art. 32, comma 3-ter, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, ha precisato che «in ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente».

Il danno biologico è temporaneo e/o permanente. Quello temporaneo incide sull'integrità psico-fisica del soggetto per un limitato arco di tempo, ed a fini di liquidazione è di regola misurato in giorni. Il danno biologico temporaneo (talora qualificato come invalidità permanente, talora come inabilità permanente, con sfumature che non mette conto illustrare) può essere totale o assoluto, laddove pregiudichi integralmente il danneggiato nello svolgimento delle sue attività, oppure può essere parziale, ed in tal caso viene valutato in percentuale. Il danno biologico permanente è quello che residua dopo lo stabilizzarsi degli esiti delle lesioni, ossia il danno biologico non suscettibile di miglioramenti. Osserva in proposito la S.C. che è riscontrabile un'invalidità permanente solo allorquando la malattia abbia compiuto il suo decorso ed il leso non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità; il consolidarsi di postumi permanenti può mancare, pertanto, o nelle ipotesi in cui la patologia sia cessata (ed il leso sia del tutto guarito) oppure quando la malattia abbia avuto un esito letale (Cass. n. 3766/2005).

La S.C. conferma stabilmente l'utilizzabilità delle c.d. «tabelle» ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, sia nella voce del danno biologico che in quella del danno morale. Con la precisazione che il giudice non può mai venir meno al proprio dovere di dar conto delle specifiche circostanze di fatto considerate ai fini della liquidazione e di «personalizzare» adeguatamente la medesima (v. p. es. Cass. n. 394/2007). In particolare, le tabelle milanesi costituiscono strumento applicabile su tutto il territorio nazionale nei casi in cui non sia obbligatoria l'applicazione delle tabelle di legge di cui al codice delle assicurazioni (Cass. n. 12408/2011).

L'elemento soggettivo.

Il dolo e la colpa costituiscono gli elementi soggettivi dell'illecito civile: l'evoluzione della nozione di colpevolezza quale elemento soggettivo del fatto illecito è legata allo sviluppo concettuale della stessa nozione di responsabilità civile.

Infatti, in accordo con la teoria tradizionale, nota come concezione etica (De Cupis, 1979, 115; Cian, Antigiuridicità e colpevolezza. Saggio per una teoria dell'illecito civile, Padova, 1966, 391; Chironi, La colpa nel diritto civile odierno, Colpa extra-contrattuale, Torino, 1903, 35), la responsabilità è la sanzione che colpisce la trasgressione volontaria e consapevole di un comando, che è al tempo stesso giuridico e morale, e la colpa e il dolo, quali modi in cui si manifesta la volontà del soggetto, sono elementi indefettibili dell'illecito e costituiscono il fondamento della funzione sanzionatoria della responsabilità in ossequio al principio jheringhiano «nessuna responsabilità senza colpa» (Von Jhering, Das Shuldmoment in romischen Privatrecht, Lipsia, 1867, 155).

Intorno alla fine del 1800, in concomitanza con le trasformazioni economico-sociali portate dallo sviluppo industriale, la concezione della responsabilità per colpa, fatta propria dall'ideologia liberale borghese, è stata sottoposta a critica da parte dei sostenitori della teoria c.d. tecnicistica che considera, piuttosto, la responsabilità extracontrattuale una tecnica di allocazione dei danni e, quindi, uno strumento di riequilibrio patrimoniale, disconoscendo all'elemento soggettivo il ruolo di perno del sistema della responsabilità civile (cfr. Calabresi, Costo degli incidenti e responsabilità civile. Analisi economico giuridica, Milano, 1975).

Secondo la teoria eclettica, nel sistema della responsabilità civile coesistono due diversi criteri di imputazione, la colpa e la responsabilità oggettiva, in rapporto non di gerarchia, ma di parità. I due principi cardine su cui si fonda la responsabilità civile sono, in particolare, la colpa e il rischio di impresa (Trimarchi).

Per sua parte, la S.C., pur nel rispetto delle istanze soggettivistiche ritraibili dalla relazione al codice civile, ha elaborato da lungo tempo, nell'intento di fornire la più ampia tutela al danneggiato, una nozione oggettiva di colpa ancorata al modello comportamentale del buon padre di famiglia, secondo la quale il comportamento colposo è quello che si pone in contrasto con norme positive e di comune prudenza (Cass. S.U., n. 351/1964).

Questa impostazione risente della posizione, espressa anche dalla più recente dottrina, per la quale, nell'ambito di una sempre più evidente emancipazione della responsabilità civile da quella penale, deve effettuarsi una necessaria distinzione anche in relazione alla colpa, anche in considerazione della prevalenza, in ambito civilistico, della sua accezione oggettiva a fronte della connotazione soggettivistica, imposta dalla natura personale della responsabilità, assunta nel sistema penale (Monateri, Arnone, Calcagno, 150).

In ambito civile la colpa finisce quindi per configurarsi quale violazione da parte del trasgressore di un parametro comportamentale risultante da una somma di doveri di comportamento, riconducibili a due fondamentali categorie, ossia un dovere di comportamento e un dovere di previsione.

La nozione di dolo può essere enucleata dall'art. 43 c.p. per il quale il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione o dell'omissione da cui la legge fa dipendere l'esistenza del diritto è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione.

La distinzione tra colpa e dolo è evidente nell'elaborazione della giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che l'elemento soggettivo dell'illecito — sia contrattuale che extracontrattuale — si articola nei due concetti, del tutto eterogenei, di dolo e di colpa, essendo il primo un atteggiamento psicologico intenzionalmente diretto alla lesione dell'altrui diritto e la seconda viceversa, una condizione soggettiva caratterizzata, al di là delle possibili variazioni di intensità, dalla non volontarietà del fatto dannoso, sicché i due stati soggettivi rilevano, di norma, in modo diverso, e che la relativa, piena equiparazione, lungi dal rispondere ad un principio generale dell'ordinamento, è eccezionale, e come tale necessita di una previsione espressa in tal senso e non è suscettibile di estensione analogica (Cass., n. 5449/2006).

In ogni caso, per l'affermazione della responsabilità extracontrattuale (a differenza di quella contrattuale, stante il disposto dell'art. 1218 c.c.) e salve le fattispecie normativamente previste di responsabilità c.d. presunta, è necessaria la prova dell'elemento soggettivo, ossia del dolo o almeno della colpa, dell'autore dell'illecito (v., tra le molte, Cass. II, n. 4279/2011).

Bibliografia

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