Codice Civile art. 2059 - Danni non patrimoniali.

Mauro Di Marzio

Danni non patrimoniali.

[I]. Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge [185 ss., 598 c.p.; 89 2, 120 c.p.c.].

Inquadramento

Nel discorrere di diritto alla salute occorre muovere dall'art. 32 Cost., il quale, nei suoi due commi, stabilisce per un verso che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti e, per altro verso, che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, aggiungendo che neppure la legge può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. La norma si occupa dunque simultaneamente di una pluralità di aspetti: si riferisce, infatti, tanto al diritto all'integrità psicofisica, quanto al diritto alle prestazioni sanitarie, alle cure gratuite per gli indigenti, e a non ricevere trattamenti sanitari non voluti se non quelli di carattere obbligatorio.

Questa disposizione, poi, è espressione dei principi fondamentali racchiusi degli artt. 2 e 3 Cost., l'uno posto a presidio dei diritti inviolabili dell'uomo, l'altro concernente il principio di uguaglianza sostanziale. Ricollegandosi a quest'ultimo, l'art. 32 Cost., collocato nel titolo dei rapporti etico-sociali, pone, nel tutelare la salute, un diritto sociale, ossia una pretesa positiva nei confronti del potere pubblico ad ottenere prestazioni sanitarie, ed è perciò espressione della concezione sociale dello Stato che anima la Costituzione della Repubblica.

Fra i vari diritti sociali che la Costituzione riconosce, il diritto alla salute merita una particolare attenzione, sia perché tutela un bene di rilievo primario, sia perché è stato oggetto di un sistema complesso ed organizzato di attuazione, del quale le prestazioni sanitarie costituiscono soltanto una parte: si pensi, infatti, al rilievo che possiedono, ai fini della tutela della salute, le disposizioni in tema di inquinamento ovvero di divieti o imposizione di vincoli concernenti la commercializzazione di determinati prodotti. Tuttavia, non v'è dubbio che, dal punto di vista pubblicistico, il concetto di diritto alla salute debba essere riguardato anzitutto come diritto alle prestazioni sanitarie: diritto che si riflette nell'obbligo per le istituzioni di assicurare adeguate prestazioni sanitarie, assistenziali e di prevenzione, coerentemente al mandato sociale caratterizzante il nostro ordinamento. È agevole rammentare, con riguardo alla norma costituzionale, come, da un'impostazione che riconosceva ad essa natura meramente programmatica si è passati a qualificare il diritto alla salute come diritto incondizionatamente assoluto (Corte cost. n. 202/1991; Corte cost. n. 559/1987) In seguito si è detto che il diritto alla salute (inteso come diritto alle prestazioni sanitarie) è finanziariamente condizionato, nel senso che esso, per quanto attiene al funzionamento del servizio sanitario, deve essere oggetto di bilanciamento con altri interessi (segnatamente quello al contenimento della spesa pubblica desumibile dall'art. 97 Cost.) dotati pure essi di protezione costituzionale (Corte cost. n. 304/1994; Corte cost. n. 218/1994; Corte cost. n. 247/1992; Corte cost. n. 455/1990; Corte cost. n. 432/2005). E tuttavia la Corte costituzionale, in controtendenza rispetto a quest'ultimo indirizzo, ha anche affermato che la selezione e il contemperamento degli interessi rilevanti non deve pregiudicare il «nucleo irrinunciabile» del diritto alla salute: il che sta a significare che, se non tutte le prestazioni possono essere erogate a tutti dal Servizio sanitario nazionale, vi è nondimeno una soglia minima di prestazioni che occorre garantire indipendentemente dai costi poiché, altrimenti, lo stesso bene salute costituzionalmente garantito, inteso nel senso che si è detto, ne verrebbe compromesso (Corte cost. n. 432/2005; Corte cost. n. 233/2003; Corte cost. n. 252/2001; Corte cost. n. 509/2000; Corte cost. n. 309/1999; Corte cost. n. 267/1998). Il riconoscimento pieno del diritto alla tutela della salute, come diritto ad adeguate prestazioni sanitarie, si è in particolare realizzato attraverso la l. n. 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, legge che mirava a garantire globalmente l'effettuazione delle prestazioni sanitarie senza limiti di spesa. Prima di tale legge l'intervento sanitario era affidato ad un sistema di assicurazione obbligatoria gestito da enti pubblici, le mutue, sottoposte alla vigilanza del Ministero del lavoro. Tale sistema costituiva attuazione non già dell'art. 32 Cost., ma dell'art. 38. La svolta nella materia, si avuta per l'appunto con la l. 23 dicembre 1978, n. 833, recante la istituzione del Servizio sanitario nazionale, la quale, nel dare attuazione all'art. 32 Cost., ha posto fine ad un sistema divenuto frammentario, diseguale ed insufficiente.

Con l'istituzione del Servizio sanitario nazionale il sistema sanitario, disegnato sul modello del National Health Service del Regno Unito, si è fondato in misura essenziale e prevalente su strutture pubbliche erogatrici di prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione interamente finanziate dalla collettività sia mediante contributi, sia mediante ricorso alla fiscalità generale. Con il che si è posto rimedio alla disparità di trattamento e alla limitatezza degli interventi propri del sistema delle mutue, per dar vita ad un servizio pubblico sanitario, caratterizzato dai principi dell'universalità, dell'uguaglianza e della globalità degli interventi. La l. n. 833/1978, nella sua primigenia versione, ha definito il sistema sanitario come «il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività, destinate alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione» (art. 1), ne ha fissato gli obiettivi (art. 2), ha ripartito i compiti tra i diversi livelli istituzionali (artt. 3 e segg.), ha individuato le «unità sanitarie locali» quali strutture territoriali di base dell'intero sistema, identificando le prestazioni (artt. 19 e segg.) da erogare.

Non mette conto, in questa sede, approfondire ulteriormente i complessi sviluppi nell'organizzazione del Servizio sanitario nazionale, dal momento che lo sguardo dovrà essere qui rivolto al diritto alla salute dall'angolo visuale, non già del funzionamento di quel servizio, bensì dei rimedi civilistici contemplati in generale dall'ordinamento per l'ipotesi che il diritto alla salute di ciascuno venga leso dalla condotta altrui, il che può accadere tanto nel quadro di una condotta aquiliana, quanto a seguito di un inadempimento contrattuale, come avrà modo di vedersi più avanti nell'accennare al tema della responsabilità medica.

Ciò detto, conviene allora muovere dalla citazione di un classico. Un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più a fare che una scarpa; voi gli dovete il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi». Così scriveva Melchiorre Gioia verso la metà del XIX secolo. E questa impostazione è rimasta sostanzialmente ferma, nella giurisprudenza della S.C., fino alla metà degli anni 70 del secolo scorso: nel quadro del sistema bipolare accolto dalla codificazione (da un lato, sotto l'art. 2043 c.c. il danno patrimoniale; dall'altro lato, sotto l'art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale, risarcibile pressoché esclusivamente in caso di condotte lesive criminose): non si risarciva cioè la lesione della salute, ma le perdite patrimoniali secondarie alla compromissione della valetudine psicofisica, il che, come è intuitivo, determinava plurime criticità, massimamente nel caso di soggetti non percettori di reddito.

Qui si innesta, sulla spinta della Costituzione repubblicana, ed in particolare dell'art. 32 citato, che, come detto, tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo, la nascita della figura del danno biologico, introdotto dalla giurisprudenza di merito a partire da Trib. Genova 25 maggio 1974, in Giur. it., 1975, I, 2, 54, mossa da un'evidente finalità egualitaria: risarcire la medesima lesione della salute, indipendentemente dalla capacità reddituale della vittima, con l'attribuzione della medesima somma. In questa fase il danno alla salute, che, reciso il collegamento con la capacità reddituale, assume ben presto la connotazione del danno non patrimoniale, è nondimeno risarcito ai sensi dell'art. 2043 c.c.: il ragionamento si avvale degli apporti della dottrina (Scognamiglio, 277), la quale aveva svuotato di contenuto l'art. 2059 c.c. con un'operazione semplice, ossia predicandone la riferibilità al solo c.d. «danno morale soggettivo», e cioè, nell'accezione del tempo, alla sofferenza interiore transeunte determinata dall'aver subito l'illecito aquiliano. Sicché, il sistema bipolare era trasformato in un sistema tripolare, in cui avevano cittadinanza non solo il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale, ridotto al rango di mero danno morale soggettivo, ma anche un tertium genus, il danno biologico, danno non patrimoniale diverso dal danno morale soggettivo, dal semplice pretium doloris, e quindi risarcibile non attraverso l'art. 2059 c.c., ma in applicazione della regola generale dettata dall'art. 2043 c.c. Il passaggio decisivo, in tale prospettiva, è rappresentato dalla c.d. sentenza Dell'Andro (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184, dal nome dell'estensore), con cui la Corte costituzionale, dopo aver accolto la ormai tradizionale equiparazione tra danno morale soggettivo (transeunte sofferenza interiore per la lesione patita) e danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., optando così per un'interpretazione drasticamente limitativa del suo campo di applicazione, ha per converso potenziato l'art. 2043 il quale — ha affermato — «va posto soprattutto in correlazione con gli articoli della Carta fondamentale... e, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell'illecito». Trattando del danno biologico, dunque, il giudice delle leggi ha affermato che «l'art. 2043, correlato all'art. 32 Cost., va necessariamente esteso fino a comprendere... tutti i danni che... ostacolano le attività realizzatrici della persona». Con il riconoscimento della risarcibilità del danno biologico sulla base della regola c.d. del «combinato disposto» (ossia della lettura dell'art. 2043 c.c. in relazione con la norma costituzionale), l'ordinamento ha dunque ammesso il risarcimento di un danno non patrimoniale, quale il danno biologico, al di fuori, come si diceva, delle maglie dell'art. 2059: e — merita aggiungere — configurando tale danno come danno-evento, ossia come danno che si verifica in conseguenza della semplice lesione dell'interesse protetto dalla norma, la salute, indipendentemente dalle sue ricadute.

La situazione si è modificata radicalmente nel 2003, nel quadro di un ripensamento che nel complesso è stato determinato dall'esigenza di ricollocazione posta all'ordine dalla nuova figura del danno esistenziale, di cui più avanti si dirà. Una sorta di «gioco di squadra» attuato dalla S.C. e dalla Corte costituzionale (Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 8827/2003; Corte cost. n. 233/2003) ha dato luogo alla reintroduzione del sistema bipolare, ma secondo un'articolazione profondamente diversa da quella di cui si è parlato. Viene cioè percorsa la strada della c.d. interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., che — si osserva — sarebbe incostituzionale se precludesse il risarcimento di quei danni che attingono «valori della persona costituzionalmente garantiti», sicché la norma viene forzata in modo tale da accogliere il risarcimento non solo del danno morale, ma anche del danno biologico e del danno «derivante da lesione di altri interessi della persona (diversi dalla salute)», ossia del danno esistenziale. Spiega la S.C. che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona»: va perciò ricondotta a quell'area, ex art. 2059 c.c., la figura del danno biologico, unitamente a quella del danno morale e del danno derivante dalla lesione di ulteriori interessi della persona dotati di protezione costituzionale.

L'impostazione «eventista» accolta dalla sentenza Dell'Andro — già contraddetta da Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372/1994, secondo cui il risarcimento del danno discende dalla dimostrazione che «la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato» — è anch'essa consegnata al passato dalla svolta del 2003, con le due sentenze della S.C. le quali, riferendosi al danno non patrimoniale, hanno espressamente affermato che: «Volendo far riferimento alla nota distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza si tratta di danno-conseguenza».

L'indirizzo inaugurato nel 2003 ha infine trovato sostanziale conferma nel 2008 da parte delle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 26972/2008), le quali hanno precisato, come si vedrà più avanti, che le espressioni «danno biologico», «danno morale» e «danno esistenziale» posseggono una valenza soltanto descrittiva, mentre il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. costituisce categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie, spettando al giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio patito, nell'ottica della riparazione integrale, a prescindere dal nome attribuitogli, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore-uomo effettivamente verificatisi: passaggio motivazionale, quest'ultimo, mosso dall'intento di arginare il rischio di «duplicazioni risarcitorie», e cioè di evitare, in buona sostanza, che le medesime conseguenze cagionate dalla lesione della salute possano essere reiteratamente risarcite sia sotto specie di danno biologico, sia sotto specie di danno esistenziale. In seguito non sono mancate su questo punto prese di posizione eterodosse, come nella pronuncia secondo cui il danno biologico, quello morale e quello esistenziale costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili, il che contrasta con il principio di unitarietà del danno non patrimoniale giacché detto principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti (Cass. n. 20292/2012; nonché Cass. n. 22585/2013, concernente la liquidazione del danno morale unitamente al biologico; Cass. n. 23147/2013).

La definizione normativa e l'attitudine onnicomprensiva del danno biologico

Il danno biologico è stato definito dalla legge con gli artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (c.d. codice delle assicurazioni), ove è detto che esso consiste nella «lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito». L'art. 32, comma 3-ter, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, ha precisato che «in ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente».

Alla luce del dato normativo, all'interno del danno biologico si individuano una componente «statica» (e cioè la lesione psicofisica presa in considerazione da un punto di vista strettamente medico-legale) ed una componente «dinamica» (e cioè la ricaduta della lesione psicofisica «sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato»). Volendo ricorrere ad un esempio, il danno biologico subito da colui che abbia subito la frattura di un arto per responsabilità altrui non consiste soltanto nella frattura, ma anche nell'impedimento allo svolgimento di tutte quelle attività «sociali», «realizzatrici», comunque non reddituali, che la frattura preclude, com'è per le attività sportive e in genere ludiche. L'importo che il danneggiato riceve a titolo di risarcimento, generalmente in applicazione di criteri predeterminati (tabelle), va quindi a risarcire anche simili perdite. In tale prospettiva il danno biologico possiede ormai, almeno tendenzialmente, una connotazione totalmente onnicomprensiva, che ha condotto all'assorbimento di altre figure in precedenza utilizzate ed oggi prive di qualunque giustificazione o necessità, quali il danno alla vita di relazione (ossia il pregiudizio alla conservazione, a causa della lesione, dei rapporti sociali e di relazione stretti in precedenza), il danno estetico (ossia la compromissione dell'aspetto fisico, indipendentemente dalle ricadute reddituali) e del danno alla sfera sessuale.

In tal senso si trova affermato che il pregiudizio di tipo estetico viene abitualmente risarcito all'interno del danno biologico, inclusivo di ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito, ivi compresi il danno estetico e alla vita di relazione, a meno che esso abbia provocato ripercussioni negative non soltanto su un'attività lavorativa già svolta ma anche su un'attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all'età, al sesso del danneggiato e ad ogni altra utile circostanza particolare, nel quale caso può essere riconosciuto per esso un danno patrimoniale purché venga fornita una prova rigorosa di una concreta riduzione del reddito conseguente alle menomazioni subite (Cass. n. 13391/2007; Cass. n. 702/2010). Insomma, poiché il danno biologico ha natura non patrimoniale, ed il danno non patrimoniale ha natura unitaria, è corretto l'operato del giudice di merito che liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili (Cass. n. 11950/2013; Cass. n. 21716/2013; Cass. n. 336/2016).

Il danno psichico

Il danno psichico è una specie del genere danno biologico: esso consiste cioè nell'insorgenza di una malattia psichica eziologicamente riconducibile all'illecito, sicché esso non ha nulla a che vedere con il danno morale soggettivo, ossia con la sofferenza interiore determinata dallo stesso illecito. Il tema (sul quale non può mancarsi di ricordare Cendon, 1984) deve la sua complessità per l'appunto alla difficoltà di scrutinare la relazione causale e l'addebitabilità del danno all'autore della condotta.

In giurisprudenza, ad esempio, è stata cassata con rinvio la pronuncia di merito che aveva negato il collegamento eziologico nel caso di atti di libidine continuati su una bimba di nove anni che aveva patito un disturbo psichico in conseguenza delle violenze subite (Cass. n. 13530/2009, in Resp. civ. prev., 2009, 9, 1779, con nota di Ziviz, La «questione morale»). Per il danno psichico conseguente alla morte di un parente od un congiunto v. Cass. n. 24745/2007).

Vale tuttavia osservare che, con riguardo alla nozione di danno psichico, si incontrano sovente fraintendimenti. La S.C., ad esempio, ha adoperato il concetto per definire il danno patito da colui che abbia subito una lesione dell'integrità fisica che lo abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, nel qual caso è stato giudicato configurabile «un danno biologico di natura psichica subito dalla vittima che abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte» (p. es. Cass. n. 1072/2011). La confusione concettuale si acuisce altresì dinanzi a massime secondo cui costituirebbe «danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c., integrando una sofferenza di particolare gravità e idonea a compromettere lo svolgimento della relazione affettiva, il danno psichico subìto in via riflessa dagli stretti congiunti di una paziente che abbia sviluppato uno stato depressivo a causa di un'erronea diagnosi di malattia mortale con breve aspettativa di vita» (Cass. n. 14040/2013). Viceversa, deve tenersi per fermo che per danno psichico si intende una sottospecie del danno biologico, dipendente da una lesione della salute tale da cagionare una malattia psichica.

Un importante banco di prova per testare la funzionalità della figura del danno psichico, nella sua peculiarità, è, ad esempio, quello della sottoposizione a contenzione di malati psichici. Il quesito di fondo, anzitutto, riguarda la stessa liceità della contenzione, la quale rinvia al problema di ordine generalissimo della liceità dell'atto medico e del divieto, previsto dalla norma costituzionale ricordata, di sottoposizione a trattamenti sanitari coatti al di fuori dei ristretti limiti consentiti. Tuttavia, che il medico possa intervenire sul paziente perché adempie un dovere, esercita un diritto, opera in stato di necessità, pone in essere una condotta alla quale è generalmente riconosciuto un alto valore sociale (queste in estrema sintesi le opinioni manifestate dalla dottrina), od altro, non ha interesse preminente: sta di fatto che egli può — a determinate condizioni — certamente intervenire. Anche l'astratto problema della liceità giuridica della contenzione possiede un interesso circoscritto: certo è, difatti, che, proprio per la sua interferenza con l'art. 32 Cost. il suo spazio è limitatissimo, sicché — questo il punto — se la contenzione è illecita, può determinarsi un danno alla salute, per lo più in veste di danno psichico, ma non solo, che va risarcito. Dell'assoluta eccezionalità del ricorso alla contenzione era in teoria già consapevole il legislatore del 1909, il quale, nel regolamento sui manicomi e sugli alienati, stabiliva che: «Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l'autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell'istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura e la durata del mezzo di coercizione» (art. 60 r.d. 16 agosto 1909, n. 615). È superfluo dire che lo scarto tra i buoni propositi della legge e la realtà dei manicomi era in passato manifesto.

Oggi, con l'art. 32, comma 2, Cost. — il quale non solo stabilisce che: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», ma aggiunge che neppure la legge «può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana», il riconoscimento della liceità della contenzione diviene come si diceva ancor più problematico.

Non v'è dubbio, tuttavia, che il dibattito giuridico sulla liceità della contenzione — al di fuori dei casi di TSO di cui agli artt. 34-35 l. 23 dicembre 1978, n. 833, nella quale ipotesi il problema è risolto a monte — debba confrontarsi con il dibattito in ambito psichiatrico sulla possibile eliminazione del ricorso alla contenzione: nel senso che, laddove è possibile non ricorrere alla contenzione, diviene pressoché automaticamente illecito ricorrervi. La contenzione può cioè essere ammessa se indispensabile al fine di tutelare l'integrità psicofisica del malato. Ogni volta che sia possibile, secondo lo stato dell'arte, effettuare un trattamento terapeutico più «dolce», la bilancia — tenuto conto dei valori costituzionali in gioco di libertà, dignità, salute del paziente — non potrà mai pendere a favore della contenzione.

Il problema della liceità della contenzione, ancora, si va a combinare con quello del consenso informato, tema esaminato più avanti, che in ambito psichiatrico presenta intuitivamente rilevanti peculiarità. Nessun atto medico, come si dirà in seguito, è in linea di principio lecito senza il consenso informato del paziente. E tuttavia, il paziente può non essere in grado di manifestare la propria volontà, nel qual caso — a parte i citati casi di trattamento sanitario obbligatorio — vale in linea di massima il principio dello stato di necessità di cui all'art. 51 c.p. Naturalmente è alquanto difficile pensare ad un consenso informato alla contenzione.

Il tema di maggiore interesse diviene allora quello della applicazione alla contenzione delle regole della responsabilità civile. Da un lato, adottando la lente della responsabilità civile, si ottiene una visuale complessiva del fenomeno, attraverso la quale vengono in questione i ruoli di tutti gli attori della vicenda: lo psichiatra e la struttura sanitaria, il paziente, talora danneggiato e talora danneggiante, gli eventuali terzi danneggiati. Dall'altro lato, l'applicazione di tali regole conduce a risultati pratici effettivi e cospicui, dal momento che porta alla dislocazione delle conseguenze delle condotte poste in essere sulla scena della contenzione effettuata o — per ipotesi — anche non effettuata.

Occorre in argomento soffermarsi su alcuni casi sottoposti all'esame della giurisprudenza utili a suggerire quanto alta possa essere la posta in gioco nell'impiego della contenzione. Di circa trent'anni fa è la vicenda che si svolge nel manicomio di Pozzuoli (narrata in Trib. Napoli 17 giugno 1977, in Quale giustizia, 1977, 701). È il periodo natalizio. Una paziente legata al letto di contenzione dà fuoco al materasso e muore bruciata. Ne nasce un processo penale dal quale emergerà che la donna, nel passato, aveva subito numerosi internamenti e, al momento, era in attesa di giudizio per oltraggio e lesioni a pubblico ufficiale. Una precisa diagnosi nei suoi confronti non era stata mai formulata, e, dalle testimonianze raccolte, risulta che si trattava, in generale, di una «persona tranquilla». Dalle indagini emerge che la donna era legata al letto di contenzione, come tutti gli altri pazienti, non per motivi in qualche modo legati alla terapia, ma per consentire ai sanitari e alle sorveglianti di dormire tranquillamente. E per di più, dato il periodo festivo, uno dei medici aveva sottoscritto in bianco i fogli del registro delle contenzioni relativi al periodo in cui sarebbe recato in ferie. In simile frangente, nessun margine di dubbio può residuare né sull'illiceità della contenzione né sul conseguente obbligo risarcitorio.

Ecco però che basta spostare qualche particolare per arrivare ad esiti in parte diversi (Trib. Milano 4 aprile 1979, in Riv. it. med. leg., 1979, 571). Siamo nuovamente al cospetto di una paziente morta a causa dell'incendio del materasso del letto al quale era legata. In questo caso si tratta di un ricovero su base volontaria e vi è una diagnosi di schizofrenia. L'incendio si è generato a causa di un mozzicone di sigaretta che la paziente ha lasciato cadere. Lo psichiatra responsabile giustifica la contenzione con la crisi acuta che al momento aveva la paziente. Il tribunale accerta che, in realtà, l'impiego del letto di contenzione dipendeva più alla scarsità di personale, che non a concrete esigenze terapeutiche, tanto più che la clinica possedeva lo status di istituto manicomiale privato e, dunque, non era neppure abilitata all'utilizzo di trattamenti coercitivi. Nondimeno la sentenza di condanna — che riguarda il direttore sanitario, il medico curante e l'infermiere di turno — si basa non già sul riconoscimento di un errore professionale nell'uso del letto di contenzione, ma nella colpa consistita nell'omettere il controllo sulla circostanza che la paziente avesse sigarette e fiammiferi.

Passando dagli esempi alla ricerca delle regole generali da applicare, occorre naturalmente fare delle distinzioni. Per un verso si tratta di esaminare il profilo degli eventuali danni che il paziente abbia subito per effetto della contenzione: il che, con riguardo alla posizione del danneggiante, involge, con diverse modalità, sia il ruolo dello psichiatra e dell'infermiere che quello dell'équipe e della struttura sanitaria. Per altro verso occorre chiedersi se è possibile che taluno avanzi domande risarcitorie nei confronti dello psichiatra perché non ha adottato strumenti di contenzione, optando per trattamenti più «dolci».

Con riguardo ai danni al paziente, emerge la peculiarità del danno psichico suscettibile di verificarsi nelle condizioni date: basterà porre in relazione la contenzione con i postumi di un qualunque intervento chirurgico, perfettamente riuscito, al quale è residuata la cicatrice dovuta all'uso del bisturi. Quella cicatrice — che pure ha un qualche contenuto rilievo di danno biologico — non è evidentemente un danno risarcibile. Così è anche per la contenzione: poniamo il caso che la contenzione sia lecita perché, operata per il tempo strettamente necessario e nelle forme meno cruente, appaia sicuramente indispensabile per sottrarre il paziente a rischi (ad esempio di autolesionismo) altamente probabili. In questo caso non potrebbe essere considerato come danno risarcibile la privazione della libertà personale protrattasi per il tempo della contenzione, poiché la privazione della libertà personale assumerebbe lo stesso rilievo della cicatrice provocata dall'intervento chirurgico. Viceversa, ove si possa ipotizzare un intervento terapeutico alternativo alla contenzione, deve pervenirsi ad un risultato opposto. Come si diceva prima, se la contenzione può essere talora ipoteticamente lecita, la liceità viene sempre e comunque meno quando non è necessitata: nell'attuale quadro costituzionale, infatti, non è altrimenti pensabile il sacrifico dei diritti fondamentali (libertà, dignità, salute) che la contenzione lede. In questo caso l'esito risarcitorio sarà ineluttabile.

Nell'assetto giurisprudenziale rimasto fermo fino alla recente l. 8 marzo 2017, n. 24, c.d. Gelli-Bianco la relazione medico-paziente, come si vedrà successivamente, così come la relazione struttura sanitaria-paziente, si pone sempre in termini di responsabilità contrattuale, sia pure fondata sul solo contatto sociale. Sicché, sulla base della regola fondamentale dell'art. 1218 c.c. il paziente ha l'onere di allegare l'inesattezza dell'inadempimento, non la colpa né, tanto meno, la gravità di essa, dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all'art. 2236 c.c.) essere allegata e provata dal medico (p. es. Cass. n. 12362/2006).

Lo psichiatra, e così pure l'infermiere, si difenderanno in genere col sostenere di essere esenti da colpa. Del che dovranno dare dimostrazione. La quale dovrà consistere non soltanto nella prova che quello della contenzione era il solo intervento praticabile nel caso di specie, essendo la situazione incompatibile con un trattamento più «dolce», ma anche nella prova che, in concreto, il trattamento è stato correttamente eseguito, senza deviazioni dallo standard di diligenza esigibile. Quale che sarà, sul piano interpretativo, la sorte della detta legge, rimane inalterata la posizione della struttura sanitaria alla quale lo psichiatra o l'infermiere appartengano. Non sarà raro, nella pratica, il caso in cui lo psichiatra ammetta che la contenzione, in astratto, non era né l'unica scelta disponibile, né la migliore. Ma lo era nella pratica, giacché ogni soluzione altra più morbida avrebbe richiesto un controllo da effettuarsi con personale invece mancante. Ipotesi simili, se si esamina il dato giurisprudenziale, non mancano. In tali casi potrà andare esente da responsabilità il sanitario il quale abbia rivolto le sue doglianze alla struttura sanitaria (non invece il sanitario che abbia taciuto), ma la struttura sanitaria risponderà.

Quanto alla gamma dei possibili danni essi potranno comprendere tutte le voci del danno alla persona, pur nella non sempre facile distinzione di esse, particolarmente in questo specifico settore. Potrà essere riscontrato, dunque, un danno biologico, sia in veste di lesione corpori provocata dalla contenzione, sia in veste di danno psichico determinato dall'aggravamento delle condizioni del paziente, dal mancato miglioramento ovvero dall'insorgenza di nuove patologie; un danno morale, ossia la sofferenza interiore determinata dalla contenzione; un danno esistenziale, commisurato al peggioramento della qualità della vita che la contenzione abbia determinato.

La difficoltà della situazione si apprezza ulteriormente dinanzi all'interrogativo se una responsabilità per danno alla salute, ed in particolare per danno psichico, possa sorgere non solo a seguito dell'imposizione della contenzione, ma anche perché, in vista del migliore protocollo terapeutico, il medico ha lasciato al paziente uno spazio di libertà per effetto del quale quest'ultimo ha arrecato danni a se stesso ovvero a terzi.

Sotto il primo profilo — quello dei danni che il paziente possa recare a se medesimo — la questione si è posta frequentemente con riguardo al suicidio. La Corte di cassazione (Cass. pen. 6 novembre 2003, in Foro it., 2004, II, 566), ha confermato la sentenza di un tribunale (Trib. Como 13 novembre 2000, in Riv. it. med. leg., 2002, 907) che aveva riconosciuto la responsabilità colposa di un medico psichiatra direttore di una casa di cura per il suicidio di una paziente affetta da sindrome depressiva psicotica sul rilievo che egli aveva consentito alla medesima di uscire in compagnia di una accompagnatrice volontaria priva di adeguata informazione sullo stato mentale dell'ammalata e di competenze medico-infermieristiche. In realtà, appare problematico ritenere negligente la scelta di autorizzare l'uscita della paziente accompagnata — nonostante avesse più volte tentato il suicidio —, dal momento quella uscita si inseriva in un protocollo terapeutico deliberatamente scelto dallo psichiatra: ed infatti non sembra lecito nello stesso tempo pretendere che lo psichiatra si affranchi da un atteggiamento che guardi al malato psichiatrico in termini di semplice custodia/esclusione e nello stesso tempo esigere che, nel controllo, nessun allargamento delle maglie abbia luogo. Lo scrutinio di simili vicende va condotto con la massima prudenza. Si tratta di questioni in cui il livello di opinabilità è elevatissimo, ed in tale frangente, se non si configuri un effettivo profilo colposo nel comportamento dello psichiatra, la responsabilità di questi sembra in generale da escludere. In questa prospettiva sembra potersi leggere la vicenda in un primo tempo esaminata da una corte di merito (App. Perugia 9 novembre 1984, in Foro it., 1988, II, 108) secondo cui doveva rispondere di omicidio colposo lo psichiatra responsabile di un servizio psichiatrico toscano che aveva omesso il TSO e si era astenuto dall'adottare idonee misure terapeutiche nei confronti di una persona affetta da schizofrenia, sicché quest'ultima due giorni dopo aveva ucciso la madre e ferito gravemente il padre: in tal caso, infatti, la Cassazione (Cass. pen. 5 maggio 1987, in Foro it., 1988, II, 107) ha annullato senza rinvio la condanna della corte d'appello. Ed analogamente può rammentarsi un'altra decisione secondo cui non rispondono di omicidio colposo i due medici responsabili di una struttura psichiatrica per aver concesso il permesso di uscire da solo a un giovane ricoverato affetto da gravi disturbi depressivo-psicotici, il quale attuava il suicidio all'esterno, essendo nel caso di specie da escludere sia la colpa dei medici per omessa sorveglianza stante che il rischio di suicidio era insito e tollerabile nel tipo di trattamento non custodialistico adottato, sia il nesso causale con l'evento, posto che, anche ipotizzando la sospensione del permesso di uscire, il giovane avrebbe potuto comunque togliersi la vita con modalità diverse (Trib. Ravenna 29 settembre 2003, in Foro it., 2004, II, 566; v. pure App. Cagliari 9 aprile 1991, in Riv. giur. sarda, 1992, 158, in riforma di Trib. Cagliari 21 novembre 1989, in Riv. giur. sarda, 1992, 158; difficilmente condivisibile, invece, l'affermazione che non fa capo al medico, sia esso uno specialista psichiatra o meno, l'obbligo, e neppure il diritto, di impedire al paziente di assumere la deliberazione di uccidersi in quanto questi compie, anche se in forma estrema, un gesto di libertà: così Pret. Busto Arsizio, sez. dist. Saronno, ud. 27 maggio 1999, Sent. n. 164/99, leggibile all'indirizzo: www.gulottavarischipino.it/massime/indicegene, in un caso in cui, riguardo ad un paziente che aveva ingerito una quantità incongrua di farmaci nel tentativo di suicidarsi, era stato disposto il ricovero in una stanza situata al quarto piano della struttura ospedaliera senza predisporre alcuna forma di sorveglianza specifica o trattamento farmacologico, sicché il paziente stesso, nel corso della nottata, si era gettato dalla finestra dell'ospedale decedendo sul colpo).

Poniamo, ora, che il rifiuto di ricorrere a strumenti costrittivi faccia sì che il paziente arrechi danni a terzi. Merita rammentare due vicende giudiziarie pervenute a soluzioni di segno contrapposto. La prima delle due vicende riguarda il caso di un pluriomicida, il quale aveva altresì violentato la figlia ed intrattenuto con essa un rapporto incestuoso. Cessato l'internamento viene affidato a servizio psichiatrico della Usl di Trieste. Ad un dato momento riprende i rapporti incestuosi con la figlia che infine uccide con 90 coltellate. Il tribunale di Trieste (Trib. Trieste 23 novembre 1990, in Nuova giur. civ. comm., 1993, 986) stabilisce — ma la decisione è poi capovolta — che la Usl fosse tenuta, nei confronti degli eredi, al risarcimento dei danni patrimoniali e morali, avendo omesso di svolgere una seria e meditata azione preventiva di cura e sorveglianza nei confronti di un infermo psichico per evitare il compimento di un illecito da parte di un soggetto la cui pericolosità era ampiamente dimostrata. L'altra vicenda riguarda il caso di un giovane affetto dai gravi turbe psichiche, per questo stabilmente affidato alle cure della Usl di Reggio Emilia. Egli, essendosi macchiato di precedenti gesti di violenza, si introduce in una casa, rapisce una bambina di tre anni che viene rinvenuta annegata nel Po. I genitori della bambina, in questo caso, agiscono senza successo per il risarcimento del danno nei confronti della Usl. In tal caso il Tribunale (Trib. Reggio Emilia 18 novembre 1989, in Nuova giur. civ. comm., 1990, 549) ritiene che essa non avesse alcun obbligo di sorvegliare continuativamente il giovane, che non era né minore, né interdetto.

In linea generale, guardando alla questione dei possibili danni cagionati dal paziente che, non essendo stato assoggettato a misure restrittive, non sia stato per questo lasciata in balia di se stesso, ma sia stato oggetto di interventi più morbidi, sembrerebbe proporzionato un atteggiamento misurato nei confronti dello psichiatra. Se la scelta terapeutica giusta è quella di non contenere, e se, dunque, non vi sia colpa della condotta dello psichiatra il quale abbia optato per tale soluzione, non potrà esservi responsabilità.

Residua la questione dei danni a terzi cagionati da un paziente che non sia stato contenuto quando avrebbe dovuto esserlo. Qui vieni questione un limite del sistema, che, ad oggi, mostra taluni aspetti problematici. Se prendiamo la norma fondamentale in tema di responsabilità dell'incapace di intendere e di volere, l'art. 2046 c.c., troviamo che la regola generale è quella dell'irresponsabilità. Si tratta di una impostazione coerente con quella che, all'epoca della stesura del codice civile, ruotava intorno agli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione. Dopo la legge sull'amministrazione di sostegno, che ha profondamente mutato lo sguardo del legislatore sulla capacità — la quale è tendenzialmente conservata, ovvero l'incapacitazione è minimizzata —, sembra esserci in palese scarto tra l'atteggiamento che anima quest'ultima legge e l'atteggiamento che permane in vigore in materia di responsabilità. In questo contesto, non può che trovare conferma quella lettura dell'art. 2046 c.c. la quale fa leva sulla necessità di verificare in concreto, in relazione alle peculiarità oggettive e soggettive del caso la sussistenza della capacità richiesta dalla norma per l'attribuzione di responsabilità. Ma, anche nel caso in cui ricorrano i presupposti dell'irresponsabilità, non potrà scattare automaticamente l'obbligazione risarcitoria prevista dal successivo art. 2047, comma 1, c.c., dal momento che l'impiego di trattamenti terapeutici sempre meno costrittivi e l'assegnazione di corrispondenti margini di autodeterminazione al sofferente psichico rende tendenzialmente difficoltoso — sebbene non certo impossibile, secondo il particolare atteggiarsi delle circostanze — riconoscere il dovere di sorveglianza su cui la norma si fonda. Ecco, allora, che in tal caso troverà applicazione il secondo comma della disposizione, il quale pone a carico dell'autore del danno un'equa indennità determinata dal giudice.

Danno alla salute e paura di ammalarsi

Ai confini tra il danno alla salute, il danno psichico ed il danno morale, di cui si parlerà più avanti, al fine di individuare l'area propria del danno alla salute, si colloca una questione ancora poco discussa in Italia, sulla quale si è misurata in un'occasione la corte d'appello di Roma: quella della risarcibilità del danno non patrimoniale subito da un soggetto (si trattava di un lavoratore esposto all'amianto) per il sentimento di paura di contrarre una malattia (App. Roma 11 dicembre 2008, n. 7131, inedita).

Un lavoratore addetto agli impianti termici e di condizionamento di un noto stabilimento cinematografico lamenta di essere stato esposto a polveri di amianto. Agisce in giudizio contro il datore di lavoro e chiede il risarcimento del danno biologico subito. Egli si duole non già del concretizzarsi di uno dei tipici rischi da esposizione all'amianto, tra i quali il più grave è quello di contrarre il mesotelioma. Denuncia invece di aver sviluppato una patologia ansioso-depressiva determinata dalla consapevolezza di aver prestato attività di lavoro in luogo a rischio amianto: allega, cioè, un danno biologico, sotto forma di danno psichico, scaturito dalla paura di ammalarsi. La domanda è respinta in primo grado e la pronuncia è confermata dall'appello capitolino. Quanto alla patologia ansioso-depressiva, la conferma del rigetto poggia essenzialmente sulla considerazione che essa preesisteva alla consapevolezza, nel lavoratore, dell'esposizione, del resto modestissima, al rischio amianto. Dopo di che la pronuncia si sofferma sulla «paura di ammalarsi» patita dal lavoratore — sul che non risultano specifici precedenti — ed ammette, in astratto, la sua risarcibilità, ma sottolinea come debba trattarsi di paura fondata su basi oggettive, nel caso di specie mancanti, e non di irragionevoli ubbie maturate in menti inclini all'ipocondria: «La semplice “paura” di ammalarsi, sebbene comprensibile sotto un profilo strettamente sociale, e con rilievo in una analisi sociologica ed ambientale, non assume valenza ed interesse giuridico se non accompagnata da concrete condizioni che la qualifichino rispetto ad una mera sensibilità personale».

Con l'espressione «danno da pericolo» si indica un danno attuale — distinto, così, dal pericolo di danno, che è solo un ipotetico danno futuro — determinato dal pericolo che un determinato accadimento abbia luogo. Il danno in questione può assumere le vesti del danno patrimoniale o non patrimoniale, secondo che vada a colpire il patrimonio o la persona.

Dal primo versante, è agevole immaginare, ad esempio, la costruzione di un inceneritore che faccia precipitare il valore degli immobili circostanti in ragione della pericolosità, vera o presunta, delle immissioni da esso prodotte per la salute della collettività. Dall'altro versante è pertinente il caso esaminato nella pronuncia già citata: il lavoratore esposto al rischio amianto non ha contratto una delle possibili malattie professionali correlate, ma vive nella paura di ammalarsi, tanto più che si tratta sovente di malattie lungolatenti, paura che può tradursi in una sindrome ansioso-depressiva, ma può anche non varcare la soglia della patologia. Su quest'ultimo esempio possiamo innestare anche un possibile danno patrimoniale, costituito dalle spese mediche sostenute per gli esami ai quali il lavoratore non si sarebbe altrimenti sottoposto. Occorre chiedersi se in una simile ipotesi siamo dinanzi ad un danno risarcibile.

Molti approfondimenti vi sono, sul tema, nella giurisprudenza statunitense, che più volte si è pronunciata sul danno da pericolo, e così sul fear of contracting disease, sotto forma di fear of cancer, fear of Aids e così via. I responsi non sono sempre omogenei. A volte il danno viene riconosciuto e risarcito, con diversi gradi di severità, sia nel suo aspetto patrimoniale (expenses for medical monitoring), sia in quello non patrimoniale, generalmente come emotional distress (slegato da una lesione fisica), ma anche talora come pain and suffering (dipendente da una lesione fisica) o come lost quality of life. A volte prevalgono considerazioni di natura tecnica (la mancanza di un physical impact) o, soprattutto, di policy: il danno da pericolo è sfuggente, è difficile da accertare nella sua oggettività, si presta a strumentalizzazioni, rischia di spostare risorse a favore di soggetti non particolarmente colpiti e di sottrarne a chi si ammala davvero.

Per l'affinità alla vicenda esaminata dalla corte romana è il caso di rammentare il caso Norfolk & Western Railway Co. v. Ayers, deciso nel 2003 dalla Supreme Court of the United States. Un gruppo di lavoratori esposti all'asbesto contrae l'asbestosi, e chiede il risarcimento non solo per la malattia contratta, ma anche per fear of cancer, assumendo che l'asbestosi aumenti il rischio di contrarre in cancro. La Supreme Court conferma la sentenza d'appello che aveva a propria volta confermato la decisione di accoglimento della domanda — e ritiene inapplicabile il proprio precedente del 1997 Metro-North Commuter Railroad Co. v. Buckley, con il quale aveva escluso la risarcibilità in un caso in cui il soggetto esposto all'amianto non aveva contratto alcuna malattia — stabilendo che il danno è risarcibile «upon demonstrating a reasonable fear of cancer stemming from his present disease». Dunque, almeno se c'è una malattia dalla quale si genera la paura, basta che questa sia reasonable.

In Italia il danno da paura di ammalarsi è legato essenzialmente al caso Seveso. Nel luglio del 1976 una nube tossica contenente diossina si sprigiona da un impianto chimico della società Icmesa nei pressi di Milano. Nell'area colpita si registrano numerosi episodi di intossicazione e circa 200 casi di cloracne. L'area viene suddivisa in tre zone, secondo il grado di inquinamento ambientale, e la popolazione, subito evacuata, viene successivamente chiamata a sottoporsi a reiterati controlli sanitari ed invitata, tra l'altro, ad astenersi dalla procreazione fino al completamento delle opere di bonifica. La vicenda dà vita ad una pluralità di cause civili. Una di queste si conclude con la condanna delle società responsabili al risarcimento di un danno morale quantificato nell'importo, ai limiti del simbolico, di £ 2.000.000 per ciascun danneggiato. Secondo il tribunale «l'esposizione a quantità imprecisate di diossina, le prescrizioni e le limitazioni alla libertà di azione e di vita (contatti con le cose contaminate), i controlli sanitari sostanzialmente coattivi ed il timore per il futuro costituiscono sicuramente ragioni di disturbo e di danno morale» (Trib. Milano 11 luglio 1991, in Resp. civ. prev., 1995, 136). Il giudizio ha cioè ad oggetto, come rilevato dal giudice del gravame, le conseguenze morali della «sindrome di paura che ha umiliato e comunque condizionato gli abitanti della stessa zona in quanto soggetti sanitariamente a rischio» (App. Milano 12 ottobre 1993, in Arch. civ., 1994, 1269). Giunto in cassazione, il giudizio viene in un primo tempo capovolto, e la S.C. afferma che non può esservi danno morale, quale danno-conseguenza, in mancanza di un danno-evento che abbia leso l'integrità psicofisica o il patrimonio del soggetto (Cass. n. 4631/1997; Cass. n. 5530/1997). Tale soluzione viene però sconfessata dalla stessa S.C., questa volta a Sezioni Unite, la quale ammette la risarcibilità del danno morale anche in assenza della mediazione di un danno alla sfera psicofisica o patrimoniale (Cass. S.U., n. 2515/2002). Intervenendo nuovamente sulla vicenda, a seguito di quest'ultima decisione, il tribunale ambrosiano ritiene che i timori per la salute siano risarcibili, sotto specie di danno morale, liquidando il pregiudizio nella misura di € 5.000,00 (Trib. Milano 9 giugno 2003, in Danno e resp., 2004, 73).

Di danno da pericolo si discorre inoltre nel più ampio contesto dei danni da fumo e con particolare riguardo al fumo di sigarette c.d. light, sul presupposto che tale espressione sia ingannevole e spinga — ormai abbia spinto, dato che tale dicitura è interdetta — a fumare, salvo poi ad avvedersi che il rischio è sempre lo stesso. Su tali premesse sono state accolte, da più di un giudice di pace, molte richieste risarcitorie. Una di queste è giunta all'esame delle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 794/2009), le quali, nell'accennare al danno da pericolo, hanno evidenziato una distinzione tra il caso Seveso e il caso «sigarette light», dal momento che solo nel primo viene in questione un reato, quello di disastro colposo, con conseguente applicazione dell'art. 185 c.p. E la considerazione è svolta richiamando la pronuncia delle stesse Sezioni Unite in tema di danno non patrimoniale (Cass. S.U., n. 26972/2008), la quale ha affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile, oltre che in caso di reato, solo in caso di lesione dei diritti inviolabili protetti dalla Costituzione.

Con riguardo al danno da esposizione all'amianto, è da credere che la corte d'appello di Roma, oculatamente, non lo abbia risarcito, nello specifico caso esaminato, giacché la paura non era ragionevolmente giustificata dall'esposizione al rischio: non si trattava, per dirlo con le parole della Supreme Court, di reasonable fear of cancer. Danno che, però, è apparso esattamente alla corte in linea di principio risarcibile — e sarà secondo i casi danno biologico, ovvero morale o esistenziale —, quando si tengano uniti tutti gli anelli della catena della responsabilità.

Danno alla salute ed altri danni non patrimoniali

Come si è visto, e come si vedrà meglio tra breve, il risarcimento del danno biologico va a «coprire» anche le conseguenze relazionali della lesione. A tal riguardo il giudice non ha soltanto un generico potere, ma un vero e proprio dovere di personalizzare la liquidazione del danno, la quale ben può discostarsi, e se del caso deve discostarsi, dalle tabelle, o dagli altri criteri predeterminati, comunemente in uso (sul punto della personalizzazione della liquidazione v., tra le molte, Cass. n. 4852/1999; Cass. n. 10996/2003; Cass. n. 11704/2004; Cass. n. 20323/2005). Va da sé che la liquidazione del danno biologico non può di regola cumularsi la liquidazione del pregiudizio esistenziale. Ed infatti, ogni duplicazione risarcitoria è sempre da respingere, ed ancora una volta il risarcimento del danno biologico già ricomprende il ristoro di quei pregiudizi che, altrimenti, ricadrebbero nella sfera di applicazione del danno esistenziale. Sicché, ciò che è risarcito una volta a titolo di danno biologico non può essere risarcito una seconda volta a titolo di danno esistenziale o morale. In questo senso è stato affermato: «Qualora in relazione ad una lesione del bene della salute, sia stato liquidato il danno biologico che include ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito... non v'è luogo per una duplicazione liquidatoria della stessa voce di danno, sotto la categoria generica del danno esistenziale» (Cass. n. 9510/2007; nello stesso senso Cass. n. 23918/2006; Cass. n. 11761/2006). Peraltro si trova anche stabilito che non si riscontra alcuna duplicazione laddove le voci risarcitorie hanno distintamente riguardato il danno biologico, inteso come mera lesione dell'integrità psicofisica, il danno morale, inteso come sofferenza interiore, ed il danno esistenziale, inteso come umiliazione delle capacità ed attitudini lavorative con pregiudizio all'immagine del dipendente sul luogo di lavoro (Cass. n. 16413/2013).

Quanto al danno morale si è già fatto cenno alla pronuncia secondo cui il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto espressamente stabilito, sul piano normativo, dall'art. 5, lett. c), del d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, ma soprattutto in ragione della differenza ontologica esistente tra di essi, corrispondendo, infatti, tali danni a due momenti essenziali della sofferenza dell'individuo, il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana (Cass. n. 22585/2013). Ed è stato ribadito che nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, al di fuori dell'ambito applicativo delle lesioni cd. micro permanenti di cui all'art. 139 d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in considerazione dall'art. 138 del menzionato d.lgs. n. 209/2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria (Cass. n. 11851/2015).

Danno alla salute e danno morale

Le possibili interferenze tra la liquidazione del risarcimento del danno alla salute e di altre voci di danno non patrimoniale rende necessario soffermarsi singolarmente su ciascuna di esse, sebbene vi si sia già fatto cenno, al fine di stabilire fin dove possa giungere il risarcimento del primo, senza dar luogo a duplicazione risarcitoria.

La S.C. ha stabilito ormai da molti anni che, in tema di quantificazione del danno non patrimoniale subito dalla vittima di un illecito, da cui siano scaturite lesioni fisiche, è arbitraria la automatica liquidazione del danno morale in misura percentuale del danno biologico, essendo in tal modo violato il principio informatore del risarcimento integrale del danno subito dal danneggiato, il quale ha diritto ad un'equità circostanziata e ponderata, attenta alle sue effettive condizioni umane post-sinistro (Cass. n. 5987/2007).

Per comprendere il rilievo di tale affermazione occorre riassumere per grandi linee il quadro complessivo in cui essa si colloca. Ancora dopo la pronuncia delle c.d. «sentenze gemelle» (Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 8827/2003), fatte proprie poco dopo dal giudice delle leggi (Corte cost. n. 233/2003), il danno morale occupava, nel contesto del danno non patrimoniale, una posizione assai marginale ed eccentrica, che può essere così brevemente riassunta. Nel vigore del codice civile del 1865, la norma fondamentale in tema di responsabilità aquiliana, l'art. 1151, non conteneva alcuna limitazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale. Di fronte al dilatarsi delle domande risarcitorie collocate da quel versante, tuttavia, la dottrina prima (Gabba, Pacchioni) e la giurisprudenza poi (Cass. 20 ottobre 1924, in Giur. it., 1924, I, 1, 952) furono indotte a negare in radice l'autonoma risarcibilità di quel pregiudizio, finendo per ammettere che esso potesse trovare ristoro soltanto nelle ipotesi di reato (Cass. 8 maggio 1935, in Foro it., 1935, I, 998). Il legislatore del 1942, dunque, nell'affiancare all'art. 2043 l'art. 2059 c.c. — secondo cui il danno non patrimoniale è risarcito solo nei casi determinati dalla legge, tra i quali anzitutto il caso del rilievo penale dell'illecito civile —, intese recepire l'insegnamento del diritto vivente, trasformandolo in diritto vigente. Ma l'equilibrio del disegno entrò presto in crisi per effetto dell'avvento della Costituzione, la quale esigeva che alla lesione dei diritti fondamentali da essa riconosciuti e garantiti seguisse quantomeno l'applicazione della tutela minima, che è quella risarcitoria.

Fu così che alcuni autori (tra i quali Scognamiglio già in precedenza citato) suggerirono di interpretare l'art. 2059 c.c. in chiave riduttiva, identificando il danno non patrimoniale con il solo danno morale, ossia con la sofferenza interiore, con il «turbamento dell'animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato», come ancora si esprimevano, sulla scia di numerosissime conformi, le citate «sentenze gemelle». Questa impostazione, recepita in pieno dalla giurisprudenza, ha goduto dell'avallo della Consulta, la quale, nella anch'essa ricordata sentenza «Dell'Andro» (Corte cost. n. 184/1986), ha collocato la figura del danno biologico, nonostante la sua natura non patrimoniale, sotto l'egida dell'art. 2043 c.c. e non dell'art. 2059 c.c.

Ecco, quindi, che il danno morale, a seguito dell'incontro del codice civile con la Costituzione, ha finito per rimanere schiacciato — salvo che in ipotesi marginali qui non rilevanti — dall'identificazione con l'illecito penale. Ed in tal modo esso ha acquistato una significativa caratura sanzionatoria, che ha finito per marginalizzare quella compensativa, senz'altro prevalente nel sistema della responsabilità civile. Il danno morale, insomma, è stato addossato al danneggiante più per punire quest'ultimo che per risarcire il danneggiato. Ciò spiega perché l'entità del danno morale è stata sovente ancorata — non tanto all'entità del pregiudizio per la vittima — ma alla «gravità del reato» (Cass. n. 15568/2004; Cass. n. 14752/2000; Cass. n. 11741/1998; Cass. n. 2272/1998; Cass. n. 5944/1997; Cass. n. 5387/1980; Cass. n. 3114/1978; Cass. n. 3856/1977).

In tal modo il vero contenuto del danno morale è passato ineluttabilmente in secondo piano, confuso nell'opaca, sfumata, generica definizione corrente di «turbamento dell'animo transeunte». Nessun riflettore, insomma, puntato sul mondo della vittima, sulle effettive ripercussioni determinate dall'illecito, sui cambiamenti indotti nella vita del danneggiato. In che cosa concretamente consistesse quel turbamento, in altri termini, la giurisprudenza non usava chiedersi. E dunque nella medesima definizione finivano per confluire, senza distinzioni ed approfondimenti, episodi intuitivamente eterogenei: il dolore del proprietario che veda abusivamente occupato il proprio immobile (dolore in cui prevale il tono della rabbia), il dolore per la perdita del congiunto (dolore in cui emergono i tratti del lutto, del ripiegamento); il dolore per la falsa notizia del coinvolgimento in una scabrosa vicenda penale (dolore che si compone di rabbia, ma soprattutto di vergogna, di possibili derive suicide). E gli esempi potrebbero proseguire a lungo.

Per questa via, il danno morale, anche nelle controversie in tema di sinistri stradali, ha finito per essere liquidato — indipendentemente da ogni effettivo scrutinio del caso concreto e con tendenziale svuotamento del concetto — in percentuale del danno biologico: presso molti tribunali in misura compresa tra una quarto e la metà.

Nel 2003, con le «sentenze gemelle», tutto il sistema è stato profondamente scosso. La S.C. ha ricollocato l'intero danno non patrimoniale, ivi compreso il danno biologico, sotto l'art. 2059 c.c., il quale è stato però reinterpretato in chiave costituzionale, nel senso che il risarcimento può trovare ingresso ogni qual volta la lesione vada a pregiudicare un interesse dotato di protezione costituzionale. In particolare Cass. n. 8828/2007 si è soffermata su un caso di uccisione di un congiunto. Ed ha anzitutto osservato che la tradizionale identificazione — cui si è prima accennato — del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. con il danno morale, «non può essere ulteriormente condivisa». Viceversa — ecco il passaggio che ha determinato lo spostamento dei pezzi sulla scacchiera — «il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona». Ma la regola stabilita dall'art. 2059 c.c. secondo cui il danno non patrimoniale, inteso nella menzionata ampia accezione, è risarcibile soltanto nei casi previsti dalla legge — ecco l'altro passaggio decisivo — non può operare qualora vengano in considerazione posizioni di rilievo costituzionale: «una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti». E ciò perché, altrimenti, quei valori rimarrebbero privi di tutela risarcitoria, che costituisce la forma di tutela minima, incomprimibile.

In particolare, colui il quale — come nel caso sottoposto all'esame della Corte — lamenti la perdita del rapporto parentale non si duole né di un pregiudizio arrecato alla salute (dunque di un danno biologico), né alla sua integrità morale (dunque di un danno morale): l'interesse fatto valere nel caso di danno da uccisione di congiunto, invece, «è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana».

Emerge, allora, che l'art. 2059 c.c. regola tre diverse voci «ontologicamente» distinte: non più il solo danno morale, nella consueta accezione di lesione del foro interno, ma anche il danno biologico ed un ulteriore danno — che la S.C. non definisce, ma che è senz'altro da identificare ormai con il danno esistenziale — derivante da lesione di altri interessi della persona (diversi dalla salute) costituzionalmente protetti.

Fondamentale rilievo nella nuova costruzione è la sottolineatura consequenzialista. Se scomponiamo l'illecito aquiliano nei suoi diversi segmenti, possiamo, tra gli altri, isolarne due: da un lato l'interesse protetto, leso dalla condotta del danneggiante, dall'altro lato il danno da risarcire. Quando la condotta attinge l'interesse protetto, si realizza quello che con una nota formula si definisce come danno-evento. Ma la lesione dell'interesse, il danno-evento, non è ancora danno da risarcire. Quest'ultimo, invece, secondo la regola generale stabilita dall'art. 1223 c.c., è la perdita patrimoniale o non patrimoniale, ed inoltre il mancato guadagno, che la lesione dell'interesse determina: è la conseguenza di questa. Si sa che il giudice delle leggi, con la ricordata sentenza «Dell'Andro», ha ad un dato momento utilizzato la nozione di danno-evento per riconoscere la risarcibilità del danno biologico. Ma di quella finzione, ha opportunamente chiarito Cass. n. 8828/2003 riferendosi al danno non patrimoniale, non vi è ormai più bisogno: «Volendo far riferimento alla nota distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza si tratta di danno-conseguenza».

Ebbene, il taglio consequenzialista, applicato dal versante del danno non patrimoniale, ivi compreso quello morale, consente di porre la vittima al centro dell'attenzione, di guardare alle concrete ricadute dell'illecito sulla persona. Ed in tale contesto — si legge ad esempio nella citata Cass. n. 5987/2007 — la liquidazione effettuata «in automatico» non rispondeva alle osservazioni in proposito svolte dal danneggiato, il quale aveva «ampiamente dedotto le sue traversie, la discriminazione da parte del datore di lavoro ... le sofferenze patite». Il danneggiato, insomma, aveva fornito elementi circostanziati e significativi ai fini della dimostrazione della sofferenza subita, ed aveva dunque ragione di attendersi che il danno morale gli fosse liquidato in proporzione ad essi, e non in base ad un criterio fittizio.

Sulla nozione di danno morale, in particolare, la pronuncia ha confermato che esso «ha una sua propria autonomia, inerendo alla integrità morale della persona umana ed al valore universale della dignità, che comprende l'integrità morale». Il riferimento alla dignità, sottolineato dal giudice di legittimità, chiama in causa l'art. 61 della (futura) Costituzione europea, il quale stabilisce appunto che: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». Principio, quest'ultimo, facile a coordinarsi — prosegue la decisione — con gli artt. 2 e 3 Cost.

Nel collocarsi sulla scia di Cass. n. 15760/2006, la S.C. è pervenuta a stabilire che, pur potendo avvalersi delle tabelle del danno biologico per la liquidazione del danno morale, non può in nessun caso sottrarsi al dovere di personalizzare la liquidazione, necessariamente equitativa. E ciò perché la mancanza di personalizzazione escluderebbe il carattere equitativo della liquidazione in favore di un automatismo non previsto dalla legge (Cass. n. 20323/2005; Cass. n. 13445/2004; Cass. n. 4186/2004; Cass. n. 11704/2003; Cass. n. 10996/2003; Cass. n. 11376/2002; Cass. n. 4852/1999).

La S.C., infatti, ha ormai sottolineato la incongruità della determinazione tabellare, incongruità che deriva «dalla pretesa ... di considerare il valore della salute e della sua perdita, come valore doppio rispetto alla integrità morale ed alla sua perdita, sia pure contestuale ad un fatto lesivo della salute». Le tabelle, allora, «possono avere un valore sussidiario, ma la vittima ha il pieno diritto di richiedere una equità circostanziata e ponderata, con un miglior sforzo di attenzione alle condizioni umane della vittima e dei suoi stretti congiunti» (Cass. n. 5987/2007). Insomma, una relazione tra le tabelle del danno biologico e la liquidazione del morale c'è, giacché è ragionevole ritenere che a maggior danno biologico corrisponda maggior danno morale. Ma nessun automatismo può essere più tollerato, mentre occorre commisurare la liquidazione alla reale natura ed entità del dolore patito dalla vittima. Su tale scia si è definitivamente inserita la S.C., la quale ha nello stesso senso di recente ribadito che ai fini della quantificazione equitativa del danno morale, l'utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico individuato nelle tabelle in uso, prima di Cass. S.U., n. 26972/2008, non comporta che, provato il primo, il secondo non necessiti di accertamento, perché altrimenti si incorre nella duplicazione del risarcimento; invece deve prima accertarsi, con metodo presuntivo, il pregiudizio morale subito, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo, allegando i fatti dai quali emerge la sofferenza morale di chi ne chiede il ristoro, e successivamente, se provato, può ricorrersi al suddetto metodo percentuale come parametro equitativo (Cass. n. 3260/2016).

Danno alla salute e danno esistenziale

Nel corso egli anni '90 del secolo scorso hanno iniziato a presentarsi, in ordine sparso, pronunce concernenti lesioni di interessi personali diversi dalla salute, ma che talora col diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, hanno significativi punti di contatto: il risarcimento riconosciuto al marito in conseguenza dell'errore medico che aveva reso la moglie incapace di rapporti sessuali (Cass. n. 6607/1987, con cui è stata accolta la domanda proposta dal coniuge che aveva lamentato la compromissione della comune vita sessuale); il risarcimento per le conseguenze personali patite dal pubblico dipendente colpito da licenziamento illegittimo (Pret. L'Aquila, 10 maggio 1991, in Foro it., 1993, I, 317: prima pronuncia contenente l'espressione «danno esistenziale»); quello riconosciuto ai genitori per la morte del figlio (Trib. Torino 8 agosto 1995, in Resp. civ. prev., 1996, 282); per immissioni sonore intollerabili (Trib. Milano 21 ottobre 1999, in Resp. civ. prev., 1999, 1335); per lesione dell'identità personale (Trib. Verona 26 febbraio 1996, in Foro it, 1996, I, 3529); da vacanza rovinata (GdP Siracusa 26 marzo 1999, in Giust. civ., 2000, I, 1205; GdP Bari 21 aprile 1999, in Arch. civ., 1999, 876); per la perdita del feto (GdP Casamassima 10 giugno 1999, in Arch. giur. circ. sin. strad., 1999, 724). In questi, come in altri casi, la dottrina ha riconosciuto un tratto unificante, consistente nel pregiudizio arrecato, al di fuori della lesione biologica, alle «attività realizzatrici della persona» di cui già alla sentenza Dell'Andro. Il danno esistenziale è sorto, così, quale ripercussione negativa su attività rilevanti per la realizzazione della personalità della vittima: e ciò sotto il duplice aspetto del non poter più fare ciò che l'illecito ha impedito, e del dover fare ciò che l'illecito ha necessitato.

Nel 2000 il danno esistenziale approda in Cassazione, con una sentenza in cui si afferma che il ritardato versamento da parte del padre dell'assegno di mantenimento al figlio lede un diritto fondamentale di quest'ultimo, determinando un danno-evento (un danno che si produce per la semplice lesione dell'interesse protetto), risarcibile, in base alla tecnica del «combinato disposto», ai sensi dell'art. 2043 in relazione all'art. 2 Cost. (Cass. n. 7713/2000). In una successiva pronuncia la S.C. riconosce, sia pure in obiter dictum, che la lesione del rapporto parentale può costituire fonte di danno esistenziale (Cass. n. 1516/2001). Ed ancora si sofferma sulle conseguenze personali dell'illegittima levata di protesto (Cass. n. 4881/2001) e della comunicazione al datore di lavoro di notizie lesive della reputazione personale del prestatore (Cass. n. 6507/2001). E riconosce, in astratto, che il danno esistenziale del lavoratore per mancato riposo settimanale non può non essere risarcito (Cass. n. 9009/2001). E prende in esame il rilievo del danno esistenziale da violazione del termine di ragionevole durata del processo (Cass. n. 15449/2002). E le sezioni riunite della Corte dei conti — restando alle giurisdizioni superiori — affermano che il pregiudizio all'immagine della p.a. per il versamento di tangenti a funzionari pubblici costituisce danno esistenziale (Corte conti, sezioni riunite, 23 aprile 2003, n. 10/QM). Nella giurisprudenza di merito, guardando alle sentenze meno recenti, si trova risarcito il danno esistenziale, tra gli altri, in questi casi: i) morte del congiunto per l'illecito di un terzo (Trib. Lodi 2 ottobre 2001); ii) lesioni al congiunto, con obbligo di assisterlo (Trib. Bergamo 24 febbraio 2003, in Danno e resp., 2003, 547; Trib. Lecce 5 ottobre 2001, in Resp. civ. prev., 2002, 1146; Trib. Ancona 18 marzo 2002); iii) violenza sessuale al congiunto (Trib. Agrigento 4 giugno 2001, in Giur. it., 2002, I, 2, 952); iv) interruzione forzosa della gravidanza provocata dall'illecito (Trib. Torre Annunziata 25 marzo 2002, in Fam. dir., 2002, 509); v) nascita indesiderata per errato intervento di vasectomia (Trib. Busto Arsizio 17 luglio 2001, in Resp. civ. prev., 2002, 441); vi) tardiva diagnosi di malformazione del feto (Trib. Locri 6 ottobre 2000, in Giur. it., 2001, I, 2, 735); vii) errata diagnosi con ritardo nelle cure (Trib. Genova 29 novembre 2002, in Nuova giur. civ. comm., 2003, 786); illegittima levata di protesto (Trib. Milano 8 giugno 2000, in Resp. civ. prev., 2000, 923); viii) illegittimo sfruttamento dell'immagine del prestatore di lavoro (Trib. Forlì 9 ottobre 2002, in Riv. crit. dir. lav., 2002, 915); ix) trasfusione di sangue contro la volontà del paziente, per ragioni religiose (Trib. Pordenone 11 gennaio 2002, in Nuova giur. civ. comm., 2002, 663); x) violazione dell'obbligo di mantenimento (Trib. Rovereto 19 dicembre 2002, in Dir. fam. pers., 2003, 99); xi) mancanza di assistenza da parte del marito che aveva costretto la moglie malata di mente in condizioni degradate (Trib. Firenze 13 giugno 2000, in Danno e resp., 2001, 741); xii) violazione dei doveri coniugali nel periodo della gravidanza (Trib. Milano 7 marzo 2002, in Giur. it., 2003, I, 2, 927; Trib. Milano 4 giugno 2002, in Resp. civ. prev., 2002, 1440); xiii) minacce e molestie a una donna dall'ex convivente (Trib. Milano 15 marzo 2001, in Giur. it., 2001, I, 2, 78); xiv) crollo di un'abitazione, con alterazione delle attività degli abitanti (Trib. Milano 15 giugno 2000, in Resp. civ. prev., 2001, 461); xv) immissioni intollerabili (Trib. Venezia 27 settembre 2000, in Danno e resp., 2001, 524; Trib. Gorizia 24 settembre 2001, in Cassano, La prima giurisprudenza del danno esistenziale, Piacenza, 691; GdP Frosinone 11 ottobre 2001, in Danno e resp., 2003, 206; App. Milano 6 dicembre 2001, in Cassano, cit., 793; App. Milano 14 febbraio 2003, in Giust. civ., 2004, I, 227); xvi) ridotta godibilità dell'abitazione (Trib. Roma 10 ottobre 2001; App. L'Aquila 27 febbraio 2001; Trib. Roma 18 maggio 2003); xvii) mobbing (Trib. Pisa 6 ottobre 2001; Trib. Milano 28 febbraio 2003, in Or. giur. lav., 2003, 91; Trib. Pinerolo 6 febbraio 2003, in Giur. it., 2003, I, 2, 2295; Trib. Forlì 15 marzo 2001, in Giust. civ., 2002, I, 208); xviii) demansionamento (App. Milano 6 ottobre 2003, in Or. giur. lav., 2003, 507; Trib. Pinerolo 6 febbraio 2003; Trib. Forlì 8 novembre 2001); xix) infortunio sul lavoro (Trib. Parma 17 aprile 2003, in Riv. crit. dir. lav., 2003, 668); xx) violenza sessuale ad una lavoratrice (Trib. Milano 9 maggio 2003, in Riv. crit. dir. lav.; 2003, 649); xxi) ritardo di un volo aereo (GdP Milano 23 luglio 2002, in Danno e resp., 2003, 301; GdP Milano 18 dicembre 2000, in Giur. it., 2001, I, 2, 1159); xxii) inadempimento del contratto di trasporto, con perdita di opere rappresentative della produzione di un'artista (Trib. Venezia 7 aprile 2003); xxiii) scadente qualità di un corso di istruzione (Trib. Roma 24 febbraio 2003); xxiv) ritardata attivazione del servizio telefonico (GdP Verona 16 marzo 2000, in Giur. it., 2001, I, 2, 1159; GdP Roma 11 luglio 2003); xxv) morte dell'animale d'affezione (Trib Roma 17 aprile 2002, in Giur. rom., 2002, 6, 251); xxvi) eccessiva durata del processo (App. L'Aquila 12 marzo 2002, in PQM, 2002, 69); xxvii) riconoscimento di un voto di laurea inferiore a quello meritato (Trib. Bologna 23 gennaio 2003, in Resp. civ. prev., 2003, 445); xxviii) ingiustificato rifiuto di annullare l'illegittima contravvenzioni al codice della strada (GdP Bologna 8 febbraio 2001, in Giur. it., 2002, I, 2, 537; GdP Perugia 26 aprile 2000, n. 115, confermata da Cass. n. 2698/2004).

Tali eterogenee pronunce vengono ricondotte dalla dottrina ad un'unitaria categoria, quella del danno esistenziale, il cui tratto caratterizzante si rinviene dal versante del pregiudizio arrecato all'esercizio di attività realizzatrici della persona per il tramite della legione di un interesse diverso dalla salute. La figura del danno esistenziale solleva numerose obiezioni. Vi è chi evidenzia la pretesa genericità della nozione. Chi difende la tesi della sua superfluità. Chi afferma che il danno esistenziale altro non è che un tentativo di aggirare l'art. 2059. Chi intende dimostrare che esso è solo un riflesso della sofferenza ingenerata dalla perdita. Ma la critica più diffusa sostiene che il risarcimento del danno esistenziale, ignoto agli altri ordinamenti europei, comporterebbe un eccessiva dilatazione del danno risarcibile, che giungerebbe a ricomprendere anche i c.d. danni «bagattellari», ossia pregiudizi di rilievo particolarmente modesto, ai limiti del capriccio: danno da vacanza rovinata, mancata attivazione del telefonino, morte dell'animale d'affezione, mal riuscita ripresa della cerimonia nuziale (Pret. Salerno 17 febbraio 1997, in Giust. civ., 1998, I, 2037) e — al culmine — errato taglio di capelli risarcito da un giudice di pace (GdP Catania, 25 aprile 1999).

Nel 2002 il tribunale di Roma rimette nuovamente alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità dell'art. 2059 nella parte in cui limita la risarcibilità del danno morale derivante dalla morte del congiunto (Trib. Roma 20 maggio 2002, in Foro it., 2002, I, 2882). rima che il giudice delle leggi decida, però, la S.C. dà dell'art. 2059 una lettura del tutto nuova. Proprio in un caso di perdita del legame parentale (morte di un congiunto per incidente stradale) afferma che l'identificazione del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. con il danno morale soggettivo, ossia con la interiore sofferenza transeunte, «non può essere ulteriormente condivisa» (Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 8827/2003), sicché viene a cadere il nucleo centrale dell'argomento che restringeva l'ambito di applicazione della norma. Spiega la Corte che, come si è visto, «il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona»: va perciò ricondotta a quell'area, ex art. 2059, la figura del danno biologico, con la conseguenza che l'orientamento che ne riconosceva la risarcibilità ex art. 2043 «non appena ne sarà fornita l'occasione, merita di essere rimeditato».

La regola stabilita dall'art. 2059, secondo cui il danno non patrimoniale (inteso nella nuova ampia accezione) è risarcibile soltanto nei casi previsti dalla legge — aggiunge quindi la S.C. — non può operare qualora siano lese posizioni di rilievo costituzionale: «una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti». E ciò perché, altrimenti, quei valori rimarrebbero privi di tutela risarcitoria, ossia della tutela minima. In ogni caso — soggiunge la S.C., con un argomento di rinforzo — il rinvio ai casi previsti dalla legge ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, alle previsioni di questa. La S.C. passa quindi alla questione del risarcimento del danno da uccisione del congiunto, danno definito come perdita del rapporto parentale con espressione mutuata da una «cospicua giurisprudenza di merito, che lo inserisce nell'ambito del c.d. danno esistenziale». Chi lamenta la perdita del rapporto parentale — osserva la pronuncia — non si duole né di un pregiudizio alla salute (danno biologico), né all'integrità morale (danno morale soggettivo): l'interesse fatto valere è invece «quello all'intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana». Emerge, così, che l'art. 2059 regola ormai tre diverse voci: non più il solo danno morale soggettivo, ma anche il danno biologico ed un ulteriore danno — cui la Corte non attribuisce un nome — derivante da lesione di altri interessi della persona (diversi dalla salute) costituzionalmente protetti. E le tre voci — si dice — sono «ontologicamente» distinte, sicché la riparazione di ciascuna di esse ben può essere cumulata all'altra «senza che possa ravvisarsi una duplicazione di risarcimento», duplicazione che va comunque costantemente evitata prestando attenzione a che le varie componenti del danno (inteso d'ora in poi come danno-conseguenza e non più come danno-evento) non vadano a sovrapporsi. Occorre ancora ricordare un ultimo passo della sentenza, laddove essa chiarisce che «l'art. 2059 non delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge, anche la riparazione di danni non patrimoniali»: insomma — se è lecita la semplificazione — l'art. 2059, nella nuova lettura, funziona come una sorta di art. 2043 bis, nel quale lo scrutinio dell'ingiustizia deve misurarsi con la protezione costituzionale apprestata all'interesse leso.

Ecco, allora, che l'eccezione di incostituzionalità sollevata dal tribunale di Roma, già ricordata, giunge ad essere esaminata (Corte cost. n. 233/2003). Ed il Giudice delle leggi, dopo la «svolta» di cui si è discorso, ha facile gioco nell'obiettare che l'interpretazione dell'art. 2059 c.c. da cui muove il giudice rimettente non corrisponde al diritto vivente. La Corte costituzionale, allora, richiama la nuova lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., intesa a ricondurre all'ambito di applicazione della norma tutti i danni non patrimoniali derivanti da lesione di valori personali, danni che così elenca: «sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona ...; sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona».

Dopo l'intervento della Corte costituzionale, che ha recepito l'inquadramento della S.C., si può dunque dire che l'art. 2059 c.c., destinato a funzionare come clone dell'art. 2043 c.c., disciplina la riparazione dell'intera gamma dei danni non patrimoniali, da ricondursi alle tre voci: [a] danno morale soggettivo, quale transeunte turbamento dell'animo della vittima; [b] danno biologico, quale lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile; [c] danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale (diversi dall'integrità psico-fisica) inerenti alla persona.

Ora, non sembra dubitabile che quest'ultima voce di danno — «spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale» — si identifichi proprio con il danno esistenziale (per questa ricostruzione si veda la decisione sul caso Barillà, vittima di ingiusta detenzione, risarcito con un milione di euro: Cass. pen. n. 2050/2004), che si risolve nell'impedimento, non determinato da una lesione dell'integrità psico-fisica, allo svolgimento di «attività realizzatrici della persona» dotate di protezione costituzionale. In tal modo, attraverso l'opera dei giudici della legittimità e delle leggi, sembra volersi perseguire l'intento di realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze di ampliamento della tutela della persona e quelle di non proliferazione dei danni bagattellari. Il rilievo costituzionale delle «attività realizzatrici della persona» meritevoli di protezione, in tale prospettiva, diviene il selettore degli interessi non patrimoniali tutelati, in vista dell'esclusione dall'ambito della risarcibilità di quei danni di rilievo scarso o nullo che — questo sembra essere il punto — ciascuno deve pazientemente sopportare.

Dopo alterne decisioni, si giunge ad un decalogo delle Sezioni Unite sul danno esistenziale con Cass. S.U., n. 6572/2006. Ecco le indicazioni salienti (in realtà otto) dettate sul tema. i) Definizione di danno esistenziale. Affermano le Sezioni Unite che «per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito ... provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità». ii) Danno esistenziale e danno morale. Viene chiarito che «il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso». Danno morale e danno esistenziale, dunque, si distinguono nettamente: l'uno si colloca nel foro interno (il dentro), l'altro nel momento delle relazioni del soggetto con il mondo esterno (il fuori). iii) Danno esistenziale come danno conseguenza. Il danno esistenziale non si identifica con la lesione dell'interesse protetto, ma è costituito dalle conseguenze sfavorevoli, di ordine relazionale, della lesione. Le Sezioni Unite, nell'esaminare la vicenda di una vittima di demansionamento, osservano: «Non è ... sufficiente la prova della dequalificazione ... questi elementi integrano l'inadempimento del datore ma ... è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l'equilibrio e le abitudini di vita». iv) Il danno esistenziale può derivare da un inadempimento contrattuale. Le Sezioni Unite qualificano espressamente l'atto illecito del datore di lavoro come inadempimento. E non dubitano che da esso possa sorgere danno esistenziale. v) Il danno esistenziale non dipende necessariamente dalla Costituzione. Quest'aspetto è rilevante e originale: «L'ampia locuzione usata dall'art. 2087 c.c. ... assicura il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per superare le limitazioni imposte dall'art. 2059c.c.... verificare se l'interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale». Una certa retorica costituzionale — la quale dopo la svolta del 2003 era apparsa incontenibile, tanto da far sembrare zoppo il diritto civile, giacché incapace, senza la Costituzione, di individuare gli interessi la cui lesione genera danno aquiliano — segni segna in tal modo una battuta d'arresto. vi) Il danno esistenziale va allegato. «Non è ... sufficiente prospettare l'esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice ... non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto». vii) Il danno esistenziale va provato. Le Sezioni Unite ricordano che: «Mentre il danno biologico non può prescindere dall'accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato». Eguale ragionamento viene svolto sul rapporto tra morale ed esistenziale. viii) Il danno esistenziale va liquidato equitativamente. Non sono decisive le tabelle: «Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare ... necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita».

Anche dopo la pronuncia delle Sezioni Unite appena citata, taluni contrasti sul danno esistenziale permangono. Ecco allora che con un'accurata ordinanza la terza sezione civile della Corte di cassazione (Cass. n. 4712/2008) chiede nuovamente alle Sezioni Unite di stendere vere e proprie linee guida in tema di danno esistenziale con riguardo alla tavola di valori/interessi costituzionalmente garantiti, agli oneri di allegazione e probatori, ai criteri risarcitori. Nessuno del resto avrebbe potuto dubitare, dopo che le «sentenze gemelle» della primavera del 2003 (Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 8827/2003) avevano divelto l'art. 2059 c.c., facendone un clone dell'art. 2043 c.c., che il dibattito sull'argomento, lungi dal concludersi, si sarebbe invece intensificato, introducendo ineluttabilmente una fase di turbolenza. Gli antiesistenzialisti — così li chiama l'ordinanza menzionata — hanno seguito diverse strade: qualcuno ha sostenuto che il danno non patrimoniale avrebbe una configurazione unitaria (come lo Schmerzensgeld tedesco) entro la quale non sarebbero possibili sub-divisioni; qualcuno ha sostenuto sic et simpliciter che «non esiste il danno esistenziale» (Cass. n. 23918/2006) ma «un danno da lesione di quello specifico valore di cui al referente costituzionale» (Cass. n. 15022/2005); qualcuno ha fatto leva sulla configurazione consequenzialista del danno esistenziale, richiedendone prove iper-rigorose.

Si arriva così alle quattro sentenza del novembre 2008 (Cass. S.U., n. 26972-3-4-5/2008). Questi, in breve, i punti che le Sezioni Unite hanno fissato o ribadito:

— quella del danno non patrimoniale è categoria unica e onnicomprensiva, non suddividibile in sottocategorie, quali non possono considerarsi né il danno esistenziale, né il danno morale; anche del danno biologico le Sezioni Unite dicono, che l'espressione potrebbe essere utilizzata solo a fini descrittivi;

— il danno non patrimoniale, in ambito aquiliano, scaturisce: a) da condotte dannose costituenti reato le quali incidano qualunque diritto («vecchio» art. 2059 c.c. in relazione all'art. 185 c.p.); b) da condotte dannose non costituenti reato le quali incidano diritti inviolabili della persona costituzionalmente tutelati («nuovo» art. 2059 c.c. nella lettura costituzionalmente orientata); c) da ulteriori condotte dannose considerate da specifiche disposizioni di legge (per tutte: la legge «Pinto» sulla ragionevole durata del processo);

— il danno non patrimoniale è altresì risarcibile anche se derivante da inadempimento contrattuale, ma a condizione, ancora una volta, che l'inadempimento vada ad incidere diritti inviolabili della persona costituzionalmente tutelati;

— in ogni caso il diritto al risarcimento del danno è condizionato alla sussistenza degli ulteriori requisiti della gravità della lesione e della serietà del danno medesimo, sicché sono irrisarcibili i danni c.d. bagattellari;

— in sede liquidativa, il risarcimento di un pregiudizio morale va riconosciuto solo se a sé stante (come in caso di persona diffamata o lesa nella identità personale), mentre è da escludere, sempre e comunque, il cumulo della posta dei pregiudizi morali col danno biologico, essendo quest'ultimo onnicomprensivo, con il solo obbligo, per il giudice, della personalizzazione;

— tra gli altri pregiudizi, la perdita della vita, in sé considerata, non è risarcibile, mentre è risarcibile quale pregiudizio morale il c.d. danno da agonia, o danno catastrofico, il pregiudizio morale, insomma, determinato dalla sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia (in caso di coma nulla è dovuto) in consapevole attesa della fine;

— il danno non patrimoniale è un danno-conseguenza, non è mai in re ipsa, ma va allegato e provato, e la prova può essere data anche esclusivamente per presunzioni.

La sentenza ha dato luogo a numerosissimi commenti, talvolta assai critici, altre volte adesivi, soprattutto nella parte in cui essa è sembrata uno stop al diffondersi del risarcimento del danno esistenziale. Dal punto di vista operativo, tuttavia, l'impatto è stato assai più ridotto di quanto potesse supporsi. Per il danno biologico nulla è cambiato per effetto della sentenza. Per il danno esistenziale sono intervenuti cambiamenti sostanzialmente di facciata, tanto più che dicono testualmente le Sezioni Unite che «pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona». Non si parla più di danno esistenziale bensì di pregiudizio esistenziale, ma il risarcimento — basti pensare per tutti al danno da perdita del rapporto parentale — non è in discussione. Anche il risarcimento del danno morale non ha subito radicali cambiamenti: ad esempio, nelle tabelle milanesi — cui Cass. n. 12408/2011 ha riconosciuto dignità di generale parametro risarcitorio per il danno non patrimoniale — il danno morale è risarcito sotto forma di incremento del biologico.

Viceversa, in una successiva sentenza della terza sezione si rinviene una puntigliosa ricostruzione del tema in generale ed una schietta difesa dell'autonomia concettuale delle tre componenti del danno non patrimoniale ed in particolare del danno esistenziale (Cass. n. 20292/2012). Tale decisione propone un'applicazione dei principi dettati dalle sentenze delle Sezioni Unite del 2008 effettuata attraverso un procedimento di tipo induttivo che, dopo aver identificato l'indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (il rapporto familiare e parentale, l'onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all'ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno esistenziale).

In quest'ultima decisione la S.C. pone l'accento sull'art. 612-bis c.p., di recente introduzione, nel quale viene ravvisato un riconoscimento normativo delle due categorie, distinte, del danno morale e del danno esistenziale. La norma, difatti, sotto la rubrica «Atti persecutori», punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare: i) un perdurante e grave stato di ansia o di paura oppure un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; ii) una costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita. In tal modo — viene osservato — la norma individua i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore inferiore da un lato, l'alterazione della vita quotidiana all'altro. Quasi polemicamente, infine, l'estensore della pronuncia ammette che la categoria del danno esistenziale possa risultare «indefinita e atipica»; ma, aggiunge, «ciò è la probabile conseguenza dell'essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, "indefinita e atipica"». Se, viceversa, un effettivo impatto è stato prodotto dalle sentenze delle sezioni unite del 2008, esso ha riguardato i c.d. danni bagattellari, la cui proliferazione pare essersi fortemente contratta.

Nondimeno, alcune ulteriori considerazioni su detta pronuncia sono opportune. Volendo ordinare i principali argomenti esaminati dalle Sezioni Unite secondo una graduatoria di importanza ed innovatività, l'attenzione deve essere riservata all'ampio capitolo dedicato al danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale. In proposito le S.U. osservano:

(i) l'esclusione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale, lungamente riconosciuta dalla prevalente dottrina e giurisprudenza, sarebbe costruita sulla «mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all'art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti»;

(ii) l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., nel rendere manifesto che la lesione dei diritti inviolabili della persona da cui sia scaturito un danno non patrimoniale comporta l'obbligo risarcitorio, consentirebbe viceversa di affermare, ora, che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali;

(iii) la conclusione che precede si accorderebbe col rilievo, tratto dall'art. 1174 c.c., che, nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, possono assumere consistenza anche interessi non patrimoniali, come accade per i c.d. contratti di protezione (contratti del settore sanitario, contratti tra allievo e istituto scolastico) ed i contratti implicanti già sul piano legislativo il riconoscimento di interessi non patrimoniali (contratto di lavoro). Nessuna delle affermazioni delle S.U. sembra però cogliere nel segno.

È incontestabile, innanzitutto, che l'art. 185 c.p. non lascia alcuno spazio all'opinione che sia irrisarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale costituente reato (frode in commercio, insolvenza fraudolenta, truffa, appropriazione indebita, ecc.). Con la precisazione che il danno non patrimoniale da reato è risarcibile anche se il reato abbia colpito non la persona, ma, come negli esempi fatti, soltanto il patrimonio. Un diverso indirizzo non può certo trarsi da qualche affermazione isolata ed assolutamente priva di argomenti, come quella secondo cui il risarcimento del danno non patrimoniale «presuppone l'esistenza di una responsabilità extracontrattuale» (Cass. n. 19769/2003). È senz'altro vero, invece, che, pur senza eccessivo approfondimento, la dottrina un tempo prevalente ha escluso, ma solo al di fuori dell'ipotesi di inadempimento costituente reato, la risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento. E tuttavia una simile opinione non risulta essere stata mai fondata sulla mancanza, nel settore contrattuale, «di una norma analoga all'art. 2059 c.c.».

Al contrario, l'indirizzo dottrinale in passato più diffuso ha tratto l'affermazione della non risarcibilità proprio dall'assunto opposto, sostenendo, cioè, che l'art. 2059 c.c. si applica anche alla responsabilità contrattuale: «È vero che questo articolo è scritto sotto il Titolo IX “Dei fatti illeciti” del Libro Quarto “Delle obbligazioni”; ma nondimeno noi riteniamo che la sua portata non debba restringersi alla sfera extracontrattuale» (De Cupis, 1954, 59; sulla stessa linea Russo, 1950, 971; Asquini, 1952, 9; Barassi, 1964, 467; Bianca, 1995, 170).

E parimenti la giurisprudenza, nelle poche pronunce in argomento, ha sempre ammesso, fino alla «svolta» del 2003, la risarcibilità del danno non patrimoniale contrattuale nel solo caso del reato (Cass. n. 473/1989; Cass. n. 472/1985; Cass. n. 2252/1964; App. Perugia 8 giugno 1998, in Rass. giur. umbra, 1999, 2; Trib. Lucca 18 gennaio 1992, in Foro it., I, 264; Trib. Bologna 17 aprile 1975, in Giur. it., 1976, I, 2, 360; App. Catanzaro, 30 gennaio 1953, in Rep. Foro it., 1954, voce «Responsabilità civile», n. 32). Dopo la svolta, invece, la S.C. ha iniziato a riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento dando ancora una volta per scontata l'applicabilità al campo contrattuale dell'art. 2059 c.c., ma ritenendo ampliati alla lesione dei diritti della persona costituzionalmente protetti i casi di risarcibilità previsti dalla legge (v. con riguardo al settore lavoro, tra le prime successive alle «sentenze gemelle», Cass. n. 7980/2004; Cass. n. 10157/2004). Altra parte della dottrina, diversamente, esclude l'applicabilità dell'art. 2059 c.c. alla responsabilità contrattuale per due ragioni così sintetizzabili: da un lato per una elementare considerazione tecnica, quale la collocazione della norma nel comparto aquiliano, in assenza di una disposizione di rinvio simmetrica, per così dire, all'art. 2056 c.c.; dall'altro lato perché è evidentemente disagevole attribuire il valore di principio generale (che, in tal caso avrebbe dovuto essere naturalmente collocato con gli artt. 1218 ss. c.c.) ad una formula che ha nel «non» il suo termine di maggiore importanza.

Nondimeno, coloro i quali negano l'applicabilità dell'art. 2059 c.c. alla responsabilità contrattuale pervengono poi a conseguenze radicalmente opposte.

Alcuni escludono la risarcibilità del danno non patrimoniale contrattuale movendo proprio dall'art. 1174 c.c., il quale pone il principio della patrimonialità della prestazione, letto unitamente all'art. 1223 c.c. (i termini della questione sono riassunti da Barcellona, 2008, 87). In sostanza, si osserva che il combinato disposto degli artt. 1174 e 1223 c.c., «ponendo il limite della “patrimonialità” della prestazione ed indicando il secondo come risarcibili la “perdita” e il “mancato guadagno”, sembrano voler dare rilevanza solo alla dimensione propriamente economica» (Barcellona, 2008, 87). Altri, esclusa la pertinenza dell'art. 2059 c.c., pervengono all'opposta soluzione movendo dall'affermazione secondo cui l'art. 1218 c.c., il quale «pone a carico del debitore, che non esegue esattamente la prestazione dovuta, il generico obbligo di risarcire il danno», va inteso in senso ampio comprensivo sia del danno patrimoniale che di quello non patrimoniale (Bonilini, 1983, 231; Busnelli, 1996, 15).

Questo essendo il quadro sintetico delle opinioni, è agevole replicare che né l'art. 2059 c.c. né la Costituzione hanno nulla a che vedere con il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale.

Con riguardo all'art. 2059 c.c. può aggiungersi alle osservazioni già rammentate, da sole risolutive, che la inconferenza della regola da esso posta è resa palese dalla osservazione che nulla impedisce alle parti, ricorra o meno uno dei casi previsti dall'art. 2059 medesimo, di pattuire una penale contrattuale per il caso del verificarsi di danni non patrimoniali: e ciò — è subito il caso di aggiungere — non solo quando il contratto rispecchi un interesse non patrimoniale del creditore, ex art. 1174 c.c., bensì anche nell'ipotesi di conclamata patrimonialità. Così, dinanzi al preliminare di compravendita immobiliare, bene possono i contraenti stipulare una penale volta a coprire anche o soltanto il disappunto eventualmente patito dall'acquirente per la mancata stipulazione del definitivo (l'esempio è di Cricenti, 2008, 19; sull'ammissibilità di una penale contrattuale per il danno non patrimoniale da inadempimento, che per la verità nessuno sembra aver mai messo in discussione, v. pure Zeno-Zencovich, 1987, 87; Costanza, 1987, 127). Val quanto dire, allora, che la regola del danno non patrimoniale da inadempimento è in linea di principio nelle mani dei contraenti. Insomma, contrariamente a quanto affermato dalle S.U., l'art. 2059 c.c. è inapplicabile alla responsabilità contrattuale.

Con riguardo poi al rilievo della Carta costituzionale, sempre più impiegata a fini interpretativi, tanto che l'interpretazione c.d. costituzionalmente orientata sembra talora straripare verso esiti di vera e propria produzione normativa, ad essa è stata assegnata dalle S.U. la finalità di contenimento della volontà dei contraenti, volontà che lo stesso legislatore giudica invece libera di dispiegarsi, ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c., sia pure entro i limiti della meritevolezza. Si pensi al noto esempio (prospettato dal Windscheid, 1904, 5) della pattuizione, conclusa da un uomo col proprio vicino di casa, affinché quest'ultimo non suoni il pianoforte: secondo le S.U, con la pronuncia citata, il vicino potrebbe impunemente sciogliersi dal contratto, giacché la Costituzione non tutela il diritto al silenzio e alla tranquillità, e dunque in un simile frangente, in caso di inadempimento, non potrebbe ricorrere un danno non patrimoniale risarcibile. La Costituzione, in realtà, potrebbe interferire con la questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale solo se potesse stabilirsi una relazione di stretta corrispondenza tra natura dell'interesse creditorio dedotto in contratto, ipoteticamente di rilevanza costituzionale, e natura (non patrimoniale) del danno scaturito dalla sua lesione e suscettibile di risarcimento. In proposito le S.U. manifestano un'opinione non persuasiva. Da un lato ribadiscono più volte che anche il danno non patrimoniale risarcibile, come quello patrimoniale, è un «danno-conseguenza», e si identifica cioè non ancora con la lesione dell'interesse protetto, bensì con le conseguenze di essa. Dall'altro lato sostengono — senza avvedersi di negare la nozione stessa di danno-conseguenza — che «il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica».

Ora, non manca in dottrina l'opinione di chi ravvisa un rapporto di necessaria implicazione tra natura dell'interesse e natura del danno (v., in tal senso, De Cupis, 1954, 59; Bianca, 1995, 177; Burdese, 1974, 594). È proprio tale opinione, anzi, che sta alla base dell'esclusione della risarcibilità costruita a partire dalla nozione di patrimonialità. La tesi però non tiene conto del duplice significato del lemma «danno», con cui si suole indicare sia la lesione in sé che le conseguenze dannose — il danno cui è parametrato il risarcimento — che ne scaturiscono. Chiarito l'equivoco, è allora evidente che un rapporto di interlocuzione tra interesse e danno risarcibile è solo eventuale. E cioè dalla lesione di un interesse non patrimoniale può derivare un danno patrimoniale (p. es. l'operazione di dermoabrasione di una pagatissima fotomodella lascia profonde cicatrici sulle sue guance, sicché i suoi redditi si contraggono), ovvero che dalla lesione di un interesse patrimoniale possa derivare un danno non patrimoniale (il locatore omette di riparare l'impianto di riscaldamento dell'immobile locato ed il conduttore subisce in conseguenza di ciò un danno alla salute). Una volta chiarito che non c'è una relazione necessitata tra interesse e danno (sul che v. Barcellona, 2008, 76; Gazzara, 2003, 24; Cricenti, 1999, 83; Franzoni, 1995, 595; Salvi, 1985, 73), diviene ineluttabile ritenere che il rilievo costituzionale dell'interesse creditorio cui l'obbligazione ipoteticamente risponda non conti ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale. L'accento, allora, va spostato tutto sull'art. 1223 c.c., laddove esso stabilisce che: «Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno». Il danno non patrimoniale, come danno-conseguenza, è costituito anch'esso, come il danno patrimoniale, proprio da quella perdita e mancato guadagno. E tale danno è interamente il medesimo — tranne talune differenze disciplinari non trascurabili, ma certo non decisive, tra le quali in primo luogo il rilievo della prevedibilità di cui all'art. 1225 c.c. — sia dal versante contrattuale che da quello extracontrattuale. Ma allora, se la «perdita» menzionata nell'art. 1223 c.c., è da intendersi nel comparto aquiliano, per il tramite dell'art. 2056 c.c., quale perdita patrimoniale o non patrimoniale, non v'è modo di attribuire alla stessa espressione un diverso significato in ambito contrattuale. Ciò vuol dire, in definitiva, che il danno non patrimoniale, sotto specie di danno-conseguenza, una volta che sia stato consumato l'inadempimento (ossia l'elemento strutturalmente corrispondente alla lesione del diritto/interesse protetto in ambito extracontrattuale) è sempre risarcibile: lo è perché (e se) esso costituisce una «perdita», per usare il vocabolo impiegato dall'art. 1223 c.c.. Insomma, come è stato detto, l'identificazione della perdita menzionata dalla norma con la perdita economica è solo il frutto di un'argomentazione che si tramanda e che è indicativa di una mentalità patrimonialistica ormai superata (Bonilini, 232).

Questa conclusione, infine, non può certo trovare un ostacolo nella circostanza che la perdita dell'art. 1223 c.c. sia accoppiata al mancato guadagno, in cui pare percepirsi più direttamente ilo riferimento alla patrimonialità. Sarà anzi il mancato guadagno ad acquisire ormai una coloritura eventualmente anche non patrimoniale, quale ostacolo al «pieno sviluppo della persona umana».

Resta da chiedersi perché le S.U. facciano leva sulla costituzionalizzazione del danno non patrimoniale da inadempimento: è da credere che esse intendano porre un argine al dilagare delle pretese risarcitorie. Se, tuttavia, è vero che molti studiosi della responsabilità civile paventano un'eccessiva dilatazione dell'orizzonte risarcitorio e fanno così appello al c.d. floodgate argument, è altrettanto vero che vi sono aree europee ove il risarcimento del danno non patrimoniale non incontra limiti (la Francia, per esempio) e che sulla medesima strada parrebbe incamminarsi l'Europa, giacché l'art. 9:501 dei Principi di diritti Europeo dei contratti riconosce che: «Il danno di cui può essere domandato il risarcimento comprende a) il danno non patrimoniale, e b) il danno futuro che è ragionevolmente prevedibile», mentre l'art. 7.4.2 dei Principi Unidroit afferma che: «il danno può essere di natura non pecuniaria e comprende per esempio, la sofferenza fisica e morale».

Sulle altre questioni esaminate dalle Sezioni Unite. a) La tipicità del danno non patrimoniale. Dopo aver evidenziato che il danno non patrimoniale può generarsi senza limiti dall'inadempimento di un contratto, il problema della tipicità di esso perde rilievo. Per le S.U. il danno patrimoniale è atipico, il danno non patrimoniale è tipico, e cioè ricorre, secondo l'art. 2059 c.c., nei soli «casi determinati dalla legge», ivi compreso il caso della lesione di un diritto inviolabile: si intende così realizzare un ampliamento controllato dei diritti dalla cui lesione può generarsi danno non patrimoniale. Si concretizza così il floodgate argument, ossia la diga da frapporre al dilagare delle pretese risarcitorie. Ma è destinato a rimanere frustrato l'intento di conservare il carattere della tipicità del risarcimento del danno non patrimoniale accoppiando l'art. 2059 c.c. alla Carta, che il carattere della tipicità non ha (per tutti, da ultimo, Barcellona, 2008, 73). Tanto più che è la stessa S.C. a riconoscere l'esistenza di un diritto generale della personalità, conforme alla c.d. dottrina «monista» (Cass. n. 25157/2008). La tesi della tipicità del danno non patrimoniale del resto non è una novità. Anche del danno patrimoniale la S.C., ha tenuto ferma la tesi della tipicità: il danno aquiliano come lesione di un diritto assoluto (non iure e contra ius) è rimasto fermo almeno fino al caso Meroni, del 1971. Dopodiché l'ulteriore apertura è del 1999, con l'ammissione della risarcibilità della lesione di interessi legittimi (Cass. S.U., n. 500/1999).

b) Il danno esistenziale. Esito imprevisto, dopo Cass. S.U., n. 6572/2006, che del danno esistenziale aveva costituito un riconoscimento ampio. Le S.U. sostengono che il danno esistenziale «finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità». L'affermazione si specifica in ciò, che la dottrina del danno esistenziale non sarebbe «accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito». Il che non sembra rispondere al vero. Così Cendon: «Dovrà essere stata colpita una situazione “meritevole di tutela” (secondo le chiavi proprie dell'ordinamento). Nessuna udienza aquiliana per l'interesse a una giornata costellata, dunque, di negozianti cortesi, autostrade libere, neve in montagna, film divertenti, amanti fedeli e disinteressate, oppure di vicini di casa profumati, applausi ai propri discorsi, recensioni favorevoli, vittorie elettorali, oggetti smarriti e ritrovati, pesci ingenui e golosi (sì, invece, alla tutela esistenziale — ancora una volta — per chi si trovi ad essere sequestrato, reso orfano, violentato, truffato, ammorbato, assordato, maltrattato, spiato, disonorato, licenziato ingiustamente, bocciato con leggerezza, imprigionato senza motivo, discriminato per la sua pelle, e così di seguito)» (Cendon, 2001, 84). Del resto, nessuna delle sentenze della S.C. citate dalle S.U., favorevoli al risarcimento del danno esistenziale, omette di soffermarsi sul requisito dell'ingiustizia «costituzionale».

c) Il danno morale soggettivo. Qui spiccano tre cose: i) l'affermazione secondo cui il danno morale è risarcibile solo in caso di reato anche in presenza di una lesione di diritti inviolabili; ii) l'affermazione secondo cui il danno morale può non essere transeunte ma duraturo; iii) l'assunto secondo cui il risarcimento del danno morale non si potrebbe cumulare al biologico.

d) I danni c.d. bagattellari. Qui la S.U. mettono assieme casi che hanno tra loro ben poco a che vedere. I danni c.d. bagattellari sono stati in prevalenza risarciti in ambito contrattuale, dove i termini della questione, come si è visto, sono del tutto peculiari. I requisiti «della gravità della lesione e della serietà del danno», creati ex novo dalle S.U., suscitano poi seri interrogativi di compatibilità costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., almeno fintanto che rimarrà ferma la risarcibilità dei piccoli danni patrimoniali a fronte di quelli non patrimoniali.

Danno alla salute e danno estetico

In generale il danno estetico, e cioè una modificazione peggiorativa dell'aspetto esteriore della persona, è una componente del danno non patrimoniale, ed in particolare un aspetto che rileva sotto il profilo della quantificazione del danno alla salute. In tal senso vale citare per tutte la pronuncia delle Sezioni Unite secondo cui il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale (Cass. S.U. n. 26972/2008).

Ha in un'occasione affermato la S.C. che un danno estetico, quantunque la lesione sia localizzata nel viso, non può ricevere un autonomo e aggiuntivo trattamento risarcitorio di natura patrimoniale quando l'alterazione estetica sia di modesta entità e, senza procurare alcuna deturpazione o sfiguramento del viso, risulti percepibile solo in particolari dinamiche mimiche del volto e con attento esame da distanza ravvicinata (Cass. n. 10848/2007, concernente un caso in cui la danneggiata da un sinistro stradale aveva lamentato di non aver riconosciuto alcuna maggiorazione del risarcimento, sotto il profilo patrimoniale, per il danno estetico subito in dipendenza del sinistro). La S.C. ha disatteso le doglianze della ricorrente valorizzando l'osservazione svolta dalla corte di merito secondo cui: «La modesta alterazione estetica è percepibile solo in particolari dinamiche mimiche del volto e solo con attento esame da distanza ravvicinata» e «non vi è nessuna deturpazione o sfiguramento del viso». In effetti, non sono mancate le occasioni in cui la S.C. ha affermato con adeguata chiarezza che, in tema di risarcimento del danno alla persona, i postumi di carattere estetico, in quanto incidenti in modo negativo sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l'aspetto patrimoniale, allorché, pur determinando una così detta «micropermanente» sul piano strettamente biologico, eventualmente provochino negative ripercussioni non soltanto su un'attività lavorativa già svolta, ma anche su un'attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all'età, al sesso del danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza particolare. A tal fine il riconoscimento di un danno patrimoniale non può però mai basarsi su semplici presunzioni, occorrendo invece la prova rigorosa di una concreta riduzione del reddito conseguente alle menomazioni subite (Cass. n. 12423/2006, concernente un pregiudizio complessivamente valutato come danno biologico permanente del 5 per cento; Cass. n. 6895/2001, concernente un caso in cui la S.C. ha ha confermato la sentenza di un giudice di merito che pareva aver ritenuto astrattamente irrilevante il pregiudizio estetico connesso a lievi cicatrici sul viso (Cass. n. 755/1995). Il responso di Cass. n. 10848/2007 ha allora da essere correttamente inteso nel senso che il lieve difetto fisionomico nella specie residuato non aveva concretamente attitudine ad incidere sulla capacità lavorativa della danneggiata: non già nel senso che un difetto fisionomico lieve, sempre e comunque, non è suscettibile di risarcimento.

Il problema delle c.d. duplicazioni risarcitorie

Il regolamento di confini che si è fino ad ora compiuto, nel discorrere di danno alla salute a fronte delle altre voci del danno non patrimoniale, è reso necessario da un preminente scopo pratico, che è quello di evitare che, in sede di determinazione del quantum, il giudice possa liquidare più di una volta, sussumendolo sotto diverse definizioni, un medesimo pregiudizio.

È così ribadito, nella giurisprudenza della S.C., il principio secondo cui, il grado di invalidità permanente espresso da un baréme medico legale fissa la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana della vittima. Pertanto, una volta liquidato il danno biologico convertendo in denaro il grado di invalidità permanente, una liquidazione separata del danno estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale, è possibile soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età. Tali circostanze debbono essere tempestivamente allegate dal danneggiato, ed analiticamente indicate nella motivazione, senza rifugiarsi in formule di stile o stereotipe del tipo «tenuto conto della gravità delle lesioni» (Cass. n. 23778/2014).

La pronuncia esamina la questione se la liquidazione del danno biologico si possa cumulare con quella del danno alla vita di relazione, estetico, sessuale, esistenziale. Una volta stabilito che il danno alla salute, o danno biologico è per l'appunto una lesione dell'interesse «salute» che provoca, a valle, una serie di conseguenze, talune che, secondo l'id quod plerumque accidit, toccano più o meno tutti, altre che toccano in maniera particolare qualcuno, è agevole osservare, a titolo di esempio, che chi subisce una frattura di tibia e perone (lesione della salute, danno-evento), rimarrà per un certo tempo allettato (invalidità temporanea assoluta: e cioè non potrà svolgere le sue normali attività), per un altro periodo di tempo sarà fortemente limitato (invalidità temporanea parziale), poi i postumi si stabilizzeranno: camminerà peggio di come camminava in precedenza, sarà impedito nello svolgimento delle attività sportive, avrà dei dolori ricorrenti nel punto in cui la frattura si è saldata, eccetera eccetera (invalidità permanente, danno-conseguenza). Queste conseguenze normali sono fotografate dai baréme medico-legali posti a base delle tabelle per la liquidazione del danno biologico: quando si dice che alla frattura della tibia e del perone corrisponde il grado di invalidità permanente di x, al quale secondo la tabella da applicare corrisponde la somma y, si sta risarcendo il danneggiato per l'appunto per il fatto che camminerà peggio, che non potrà svolgere attività sportive, che patirà dolori ricorrenti, ecc..

Il singolo danneggiato non è però identificabile in una media statistica: le ricadute della lesione medico-legale possono variare in funzione del variare del soggetto. Esempio tradizionale è quello della frattura di un mignolo: sul piano dei baréme medico-legali ha un rilievo scarso, ma se il danneggiato è un violinista o un pianista dilettante, le cose ovviamente cambiano. Ecco allora, che il risarcimento del danno biologico non può consistere nella meccanica assegnazione al danneggiato di quanto previsto dalle tabelle, in base ai baréme medico-legali: è per questo che la liquidazione deve essere oggetto di personalizzazione, tenuto conto di quanto l'interessato ha allegato e provato. Per questa via il risarcimento del danno biologico copre l'intera gamma delle ripercussioni «dinamiche» della lesione psicofisica, in ossequio al principio del risarcimento integrale.

Ma, se a questo punto il giudice dice che «il non poter più fare» in cui consiste l'impedimento, causato dalla frattura di tibia e perone, al gioco del tennis, della pallacanestro o del football americano costituisce altresì danno esistenziale, commette un evidente errore. Identico ragionamento, naturalmente, vale per il danno estetico, per il danno alla sfera sessuale, per il danno alla vita di relazione. Tale soluzione, in cui si riassume l'indirizzo giurisprudenziale ricordato, non può che essere condivisa, ed è stata anche di recente ribadita da Cass. n. 20630/2016).

Resta in ogni caso fermo che, come avverte la S.C., «ben può accadere che nel singolo caso i postumi permanenti causati dalla lesione fisica provochino una più incisiva compromissione della vita di relazione della vittima, rispetto ai casi analoghi: ma tale circostanza deve da un lato entrare nel processo con le debite forme (e cioè essere tempestivamente allegata da chi la invoca); e dall'altro, se ritenuta esistente dal giudice, deve essere esposta nella sentenza e sorretta da una adeguata motivazione» (Cass. n. 23778/2014). Rimane tuttavia da chiedersi se possano esserci casi particolari in cui il risarcimento del pregiudizio biologico e di quello esistenziale possono cumularsi, il che può forse accadere qualora la condotta del danneggiante abbia leso più di un interesse.

Merita rammentare una peculiare fattispecie a fronte della quale la S.C. ha affermato che, in presenza di una lesione dell'integrità psicofisica della persona, il danno alla vita di relazione costituisce una componente del danno biologico, perché si risolve nell'impossibilità o nella difficoltà di reinserirsi nei rapporti sociali a causa degli effetti di tale lesione. Perciò il menzionato danno relazionale non è suscettibile di autonoma valutazione rispetto al danno biologico, ancorché costituisca un fattore di cui il giudice deve tenere conto per accertare in concreto la misura del pregiudizio e personalizzarlo alla peculiarità del caso (Cass. n. 9514/2007). Il caso è quello di una donna che cade da un ciclomotore a causa di un avvallamento del manto stradale, batte violentemente la testa, ammalandosi di una «encefalopatia fronto-basale post-contusiva»: di qui turbe comportamentali assai serie: la malattia, infatti, fa impennare il suo desiderio sessuale, unito ad un totale abbattimento dei freni inibitori, tanto che ella — ci informa la sentenza — «si spogliava in pubblico e si concedeva a chiunque». Secondo la S.C. la donna vittima del sinistro subisce una lesione psicofisica e vede la sua vita quotidiana sconvolta, i suoi assetti relazionali profondamente modificati dall'irrefrenabile manifestarsi di comportamenti sessuali censurabili secondo il costume comune. Sicché occorre chiedersi se abbia ragione di domandare un doppio risarcimento, da un lato per la malattia insorta, dall'altro lato per la vita di relazione pregiudicata. Ma il responso per la S.C. è anche in tal caso negativo.

In effetti, quello definito dalla S.C. come danno alla vita di relazione menzionato dalla pronuncia avrebbe potuto essere meglio definito proprio come danno biologico dinamico: quella di danno alla vita di relazione, come accennato, è figura vecchia e sorpassata, elaborata in passato al fine di aggirare, attraverso una venatura di patrimonialità, i limiti al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato al di fuori dell'ambito disegnato dall'art. 2059 c.c. nella sua ormai desueta e retrograda lettura. Sicché anche nel caso considerato può dirsi alla liquidazione del danno biologico (comprensivo della componente dinamica) non può cumularsi la liquidazione del danno esistenziale. Ed invero, ogni duplicazione risarcitoria è sempre da respingere, ed ancora una volta il risarcimento del danno biologico già ricomprende il ristoro di quei pregiudizi che, altrimenti, ricadrebbero nella sfera di applicazione del danno esistenziale. Sicché, ciò che è risarcito una volta a titolo di danno biologico non può essere risarcito una seconda volta a titolo di danno esistenziale. In questo senso, in un'altra pronuncia, è stato affermato che: «Qualora in relazione ad una lesione del bene della salute, sia stato liquidato il "danno biologico" che include ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito ... non v'è luogo per una duplicazione liquidatoria della stessa voce di danno, sotto la categoria generica del "danno esistenziale"» (Cass. n. 9510/2007; nello stesso senso, Cass n. 23918/2006; Cass. n. 11761/2006; tutte sulla scia di Cass. n. 15022/2005).

Nella stessa prospettiva mal si collocano, tuttavia, pronunce secondo cui, in caso di risarcimento del danno biologico derivante da mastectomia, costituisce duplicazione risarcitoria quella concernente le perdite dinamico-relazionali della lesione (Cass. n. 7639/2015), concernente una donna rimasta vittima di una erronea diagnosi di tumore al seno sinistro. La donna agisce in giudizio ed ottiene un risarcimento del danno quantificato in € 38.000 a titolo di danno biologico già incrementato del 25% per il danno morale. La danneggiata ricorrere per cassazione contro la sentenza di appello che ha liquidato la somma indicata, chiedendo il riconoscimento di un importo più elevato sotto due distinti profili: per un verso lamentando che la corte d'appello, così come il tribunale, non abbia dato corso alla richiesta di consulenza tecnica psichiatrica, volta all'accertamento del danno psichico conseguito all'errore diagnostico, quantificato in € 300.000; per altro verso sostenendo il proprio diritto, in ogni caso, al riconoscimento di un ulteriore importo di € 60.000, in parte per le perdite c.d. dinamico-relazionali, in parte per la compromissione della capacità lavorativa generica, intesa quale danno patrimoniale. Sorge in proposito la questione se il tema delle duplicazioni risarcitorie venga richiamato a proposito con riguardo ad una donna che abbia subito una mastectomia ed abbia avuto perciò risarcito il danno biologico, e tuttavia domandi un ulteriore risarcimento per le perdite dinamico-relazionali subite. In tale frangente la Corte di cassazione: i) disattende la doglianza concernente la mancata ammissione della consulenza tecnica volta all'accertamento del danno psichico condividendo il responso del giudice di merito che l'aveva reputata esplorativa, in mancanza della produzione di documentazione medica comprovante l'insorgenza della malattia; ii) disattende la doglianza concernente la mancata liquidazione di una somma a titolo di risarcimento delle perdite dinamico-relazionali, poiché detta liquidazione darebbe luogo a duplicazione risarcitoria in mancanza della specifica deduzione delle perdite subite; e qui il riferimento alla nota Cass. S.U., n. 26972/2008 è evidente; iii) disattende la doglianza concernente la mancata liquidazione del danno per la compromissione della capacità lavorativa generica, inteso quale danno patrimoniale, osservando che detta perdita altro non è che un aspetto del danno biologico già liquidato. A ciò è agevole replicare che le donne che subiscono l'asportazione del seno subiscono normalmente, alla luce della scienza medico-legale, reazioni d'ansia, senso di vuoto disturbi del sonno, diminuzione dell'attività sessuale per il senso di vergogna, brusco calo dell'autostima, tendenza all'isolamento e depressione. Nel caso in esame la S.C. dice che, «in mancanza di specifici motivi di sofferenza allegati — tale riconoscimento [il riconoscimento, cioè, di un risarcimento delle perdite c.d. dinamico-relazionali: n.d.r.] si risolverebbe nella duplicazione della tutela risarcitoria». Questa affermazione rinvia alla questione dell'onere di allegazione cui è sottoposta la vittima di una lesione della salute. Per il che vale accennare alla distinzione tra conseguenze generalmente determinate dalla lesione e conseguenze specificamente legate al vissuto individuale di ciascuno. Questa distinzione corrisponde pressappoco a quella propria del diritto anglosassone tra general damages e specific damages: per questi ultimi può tornarsi all'esempio della frattura di un mignolo, che generalmente rileva ben poco, ma può assumere un peso significativo se il danneggiato è un pianista dilettante. Nell'un caso siamo dinanzi ad un danno che normalmente si produce, ma in particolari casi potrebbe anche non prodursi. Nel secondo caso, al contrario, siamo dinanzi ad un danno che normalmente non si produce, ma in determinati casi può prodursi (specific damage). Ebbene, questa distinzione è senz'altro rilevante sul terreno dell'allegazione e, cioè, dell'individuazione dei fatti posti a fondamento della domanda e, così, del thema decidendum e del thema probandum. Sicché nessun giudice chiederebbe al danneggiato che abbia subito la frattura di tibia e perone e sia rimasto zoppo di allegare che non non può camminare come prima e che non può fare tutte quelle normali attività che sono impedita dalla zoppia. Sicché è parimenti un errore negare il risarcimento del danno biologico dinamico derivante dall'asportazione del seno per mancata allegazione delle normali conseguenze di detta lesione.

Il c.d. danno terminale

In caso di lesioni fisiche che abbiano condotto a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla vittima, la quale abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte, un danno biologico di natura psichica la cui entità non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata dalla vittima dell'illecito, il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi (p. es. Cass. n. 3260/2007). Occorre, in proposito, tenere anzitutto presente la distinzione tra i danni che i congiunti possono reclamare iure proprio e quelli spettanti invece iure hereditario.

Le regole da applicarsi, stando alla tradizionale opinione della S.C., mutano secondo che la morte abbia luogo istantaneamente ovvero si verifichi dopo un «apprezzabile lasso di tempo» dalle lesioni. In questo secondo caso, in particolare, la vittima subisce un pregiudizio risarcibile — i cui contorni sono andati progressivamente delineandosi — sicché il diritto al corrispondente risarcimento entra a far parte del suo patrimonio e, quindi, una volta sopravvenuta la morte, si trasmette iure hereditario.

Fino ad un dato momento la S.C. ha però ritenuto che poche ore di agonia non dessero luogo ad un danno biologico risarcibile e, così, trasmissibile. Si trova in tal senso affermato che la lesione dell'integrità fisica con esito letale a breve distanza dall'evento lesivo non è configurabile quale danno biologico (Cass. n. 6404/1998). Lo stesso principio è stato applicato in caso di intervallo di tre giorni tra lesioni e morte (Cass. n. 9470/1997), mentre si è ritenuto costituisse «apprezzabile lasso di tempo» il decorso di trenta giorni (Cass. n. 1704/1997).

L'atteggiamento della giurisprudenza si è tuttavia in seguito modificato grazie ad una pronuncia intervenuta in un caso in cui la morte aveva avuto luogo quattro ore dopo il sinistro (Cass. n. 4783/2001). In tale occasione stato osservato che l'attesa consapevole della morte determina un danno psichico non riducibile all'estensione temporale dalla residua durata della vita. Secondo la S.C., in particolare, ha in tal caso luogo «un danno "catastrofico", per intensità, a carico della psiche del soggetto che attende lucidamente l'estinzione della propria vita». Sicché, secondo la pronuncia, occorre porre l'accento «sulla diversa natura del danno fisico, del soma e delle funzioni vitali, dove l'apprezzamento della durata attiene alla stessa esistenza del danno (come quantum apprezzabile) e del danno psichico, pur esso prodotto da lesioni mortali, come danno catastrofico, la cui intensità può essere apprezzata dalla vittima, pur nel breve intervallo delle residue speranze di vita». Nel danno psichico, cioè, «non è solo il fatto durata a determinare la patologia, ma è la stessa intensità della sofferenza e della disperazione».

Su tale linea ha quindi preso piede l'individuazione di una specifica figura di «danno terminale» (Cass. n. 7632/2003), la cui particolarità sta in ciò, che «esso è di tale entità ed intensità da condurre a morte un soggetto in un limitato, sia pure apprezzabile, lasso di tempo». Secondo quest'ultima decisione, «ciò che fa la differenza è che il danno biologico terminale è più intenso perché l'aggressione subita dalla salute dell'individuo incide anche sulla possibilità di essa di recuperare (in tutto o in parte) le funzionalità perdute o quanto mai di stabilizzarsi sulla perdita funzionale già subita». In tal caso, dunque, «la salute danneggiata non solo non recupera (cioè non “migliora”) né si stabilizza, ma degrada verso la morte». Nel caso di danno biologico terminale, quindi, il «minus esistenziale» che accompagna la vittima all'exitus è caratterizzato da un coefficiente di gravità senz'altro intensissimo.

Da ciò discende l'esigenza di adottare adeguate e specifiche regole di quantificazione. Perciò «il limitare la liquidazione del danno biologico terminale alla mera applicazione dei valori liquidatori tabellari a punti per ogni giorno di invalidità, da una parte comporta la violazione del principio ... di necessaria “personalizzazione” di detti criteri, conformandoli alla peculiarità del caso concreto (e nella fattispecie la peculiarità consiste nel fatto che la lesione alla salute non solo è stata massima, ma anche così intensa da dar luogo alla morte), e dall'altra finisce per porsi in contrasto logico-argomentativo, con quanto ormai ammesso in sede di liquidazione del danno morale», ossia con la riconosciuta necessità di procedere ad una liquidazione che tenga in considerazione l'effettiva sostanza ed intensità del pregiudizio.

Lo stesso indirizzo, che si è stabilizzato, ha trovato conferma della giurisprudenza successiva (Cass. n. 9959/2006, concernente un intervallo tra lesione morte di 33 giorni; Cass. n. 1877/2006; Cass. n. 3549/2004; Cass. n. 11003/2003).

Come si diceva, la giurisprudenza esclude invece la sussistenza di un danno risarcibile iure hereditario in caso di morte istantanea. Vi è, a tal proposito, un ampio indirizzo della S.C. secondo cui non è risarcibile il danno da «perdita del diritto alla vita», o danno tanatologico, o danno da «loss of life», richiesto iure hereditatis, in quanto la perdita del bene-vita in capo al soggetto non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi. E ciò in ragione della funzione non sanzionatoria ma reintegratoria-riparatoria di concreti pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, con la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare, detto risarcimento operi quando la persona abbia cessato di esistere, non essendo possibile un risarcimento per equivalente che operi quando la persona più non esiste (Cass. n. 7632/2003; nello stesso senso, tra le altre Cass. n. 887/2002; Cass. n. 4783/2001; Cass. n. 2134/2000; Cass. n. 1633/2000; Cass. n. 10773/1999; Cass. n. 1131/1999; Cass. n. 491/1999; Cass. n. 10896/1998; Cass. n. 10629/1998).

In sintesi, si può dire che, secondo il menzionato indirizzo: a) il «danno tanatologico» non è trasmissibile, giacché «incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi»; b) è irrilevante la «mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita», giacché, come accennato, il risarcimento del danno non svolge funzioni sanzionatorie, ma di reintegrazione e riparazione; c) non è possibile nel caso di specie un risarcimento anche per il fatto che «per il bene della vita è inconcepibile una forma di risarcimento anche solo per equivalente» (le citazioni tra virgolette sono tratte da Cass. n. 7632/2003).

A fronte dell'indirizzo della S.C., non manca però una diversa opinione numerose volte ripetuta dalla giurisprudenza di merito, la quale trae argomento dalla sostanziale ingiustizia insita nel trattare in modo differente situazioni sostanzialmente analoghe quali quella della morte intervenuta in prossimità delle lesioni ovvero soltanto qualche ora dopo di esse (Trib. Lodi 13 gennaio 2005, in Il merito-Il Sole 24 Ore, 2005, 58; Trib. Venezia 15 marzo 2004, n. 489, in Arch. giur. circ. sin., 2004, 1013; Trib. S. Maria Capua Vetere 14 gennaio 2003, in Giur. it., 2004, I, 2, 495; Trib. Brindisi 5 agosto 2002, in Foro it., 2002, I, 3494; Trib. Foggia 28 giugno 2002, in Foro it., I, 3494; Trib. Milano, 22 ottobre 2001, in Arch. giur. circ. sin., 2002, 580; Trib. Vibo Valentia 28 maggio 2001, in Danno e resp., 2001, 1095; Trib. Cagliari, 17 maggio 2001, in Riv. giur. sarda, 2002, 79; App. Milano, 1° febbraio 2000, in Giur. milanese, 2000, 326; Trib. Cassino 8 aprile 1999, in Giur. it., 2000, I, 2, 1200; Trib. Firenze, 8 aprile 1998, in Giur. it., 1999, 1864; Trib. Massa Carrara 16 dicembre 1997, n. 670, in Arch. giur. circ. sin., 1998, 165; Trib. Monza, 28 ottobre 1997, in Resp. civ. prev., 1998, 1102; Trib. Viterbo 24 gennaio 1997, in Giur. romana, 1997, 421; Trib. Massa Carrara, 19 dicembre 1996, in Danno e resp., 1997, 354; Trib. Civitavecchia 26 febbraio 1996, in Riv. giur. circ. trasp., 1996, 958; App. Roma 4 giugno 1992, in Resp. civ. prev., 1992, 597; Trib. Firenze 18 novembre 1991, in Arch. giur. circ. sin., 1992, 39; Trib. Massa Carrara 20 gennaio 1990, in Resp. civ. prev., 1990, 613; Trib. Roma 24 maggio 1988, in Foro it., 1989, I, 892).

Nella stessa prospettiva volta a pervenire al risarcimento della perdita della vita, un giudice di merito ha affermato che, nel caso di morte conseguita dopo 83 giorni alle lesioni riportate dalla vittima di un sinistro stradale, al fine di evitare la disparità di trattamento che altrimenti si verificherebbe nei confronti di chi, dopo aver riportato un danno permanente, sopravviva, si deve riconoscere agli eredi del defunto il danno biologico permanente da quest'ultimo patito, parametro però non alla vita media bensì all'effettivo periodo di vita che la vittima ha vissuto dopo il sinistro. Il giudice ritiene che il sinistro abbia avuto luogo per concorrente responsabilità dei conducenti d un'autovettura rimasta sconosciuta e della motocicletta condotta dal defunto nella rispettiva misura del 90% del 10%. Nel passare alla liquidazione del danno non patrimoniale il giudice riconosce infine agli eredi della vittima il danno biologico per le lesioni da essa vittima sofferte, mediante l'applicazione delle tabelle milanesi, personalizzandolo in ragione della sofferenza morale protrattasi per 83 giorni dal sinistro fino alla morte; e — questo il punto — liquida il danno biologico (€ 600.000) in relazione all'importo tabellarmente previsto per l'invalidità permanente nella somma complessiva di € 847.613. Orbene, posto che il risarcimento del danno biologico, sotto forma di c.d. invalidità permanente, si calcola rapportando il pregiudizio derivante dalla diminuzione della valetudine psico-fisica del soggetto, ed ormai consolidatosi, alla durata media della vita (è per questo che il risarcimento scema al crescere dell'età del danneggiato), occorre chiedersi come procedere quando il danneggiato viene a mancare a causa delle lesioni, stabilendo se si deve parametrare il risarcimento del danno biologico alla durata puramente figurativa della vita oppure alla sua durata effettiva. E se occorre liquidare il danno biologico come danno temporaneo oppure come danno permanente. Il giudice, ponendosi in consapevole contrasto con la giurisprudenza della S.C., afferma che il danno, pur dovendo essere in tal caso ancorato alla durata effettiva, debba essere liquidato non già come danno da invalidità temporanea, secondo quanto affermato in alcune pronunce, bensì come danno da invalidità permanente. Se si seguisse tale orientamento — dice testualmente il giudice — «si finirebbe per non riconoscere alla vittima la lesione permanente della sua integrità fisica per un tempo pur apprezzabile. In altri termini, nei casi come quello oggetto del presente giudizio non si discute di una mera inabilità temporanea del soggetto (che sarebbe tale — cioè temporanea —, tra l'altro, non per la ripresa delle normali attività quotidiane bensì per l'intervenuto decesso!) ma di una lesione permanente (cfr. c.t.u. in atti) che sussiste per un periodo relativamente breve — e non per la durata media della vita considerata dalle tabelle — per il sopravvenire del decesso. Diversamente ragionando si avrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il soggetto che, dopo aver riportato un danno permanente, sopravviva (qui si riconoscerebbe senza dubbio il danno biologico permanente da tabella) e uno che, nelle stesse condizioni, non sopravviva (che, per l'orientamento qui criticato andrebbe risarcito solo con l'inabilità temporanea “personalizzata”). E, paradossalmente, sarebbe quest'ultimo ad avere il trattamento – sotto il profilo risarcitorio – deteriore (nella specie si perverrebbe a una liquidazione massima di 144 euro per 83 giorni, da personalizzare)». Secondo la giurisprudenza della S.C., tuttavia, nel caso in cui la morte della vittima di lesioni non sia immediata, ma sopraggiunga dopo un certo periodo di tempo, occorre distinguere secondo che la morte sia o non sia conseguenza delle lesioni. Se la vittima di lesioni muore per una causa diversa da esse, il diritto al risarcimento del danno — che è un diritto di natura patrimoniale — si trasferisce agli eredi, pro quota. Peculiare è però il criterio di liquidazione: il danno biologico è tanto maggiore, quanto minore è l'età della vittima: posto che il danno biologico è costituito dalle conseguenze verificatesi a valle della lesione, meno grave è il danno che si ha quando il danneggiato è costretto a tollerare tali conseguenze per un breve arco temporale, più grave è il danno destinato a perpetuarsi per l'intero arco di una vita di durata statisticamente normale, pressappoco 78 anni per gli uomini e 81 per le donne. Ciò si ripercuote sulla aestimatio del danno, sicché il giudice deve tenere conto non della vita media futura presumibile della vittima (78-81 anni), ma della vita effettivamente vissuta (tra le tante, Cass. n. 2297/2011; una diversa soluzione si rinviene in Cass. n. 8204/2003). Diversi sono i criteri operativi adottati, tutti collocati nel campo dell'equità: quello che sembra più ragionevole consiste nel proporzionare la durata effettiva della vita a quella media e calcolare così il risarcimento. Nel caso di morte della vittima di lesioni personali quali conseguenze di questa ultime, come si è visto, la giurisprudenza ha per lungo tempo operato, come si è detto, una distinzione tra morte contestuale alle lesioni ovvero sopravvenuta dopo un tempo «non apprezzabile» e morte sopravvenuta dopo un arco di tempo «apprezzabile». Nel primo caso si è negato l'acquisto, in capo alla vittima, e la trasmissione da questa ai propri eredi, del diritto al risarcimento del danno. Nel caso di morte avvenuta dopo il decorso di un tempo «apprezzabile», la S.C. ha riconosciuto l'acquisto da parte della vittima del diritto al risarcimento del danno e la conseguente trasmissione del medesimo diritto agli eredi. Si è però osservato che il solo danno biologico risarcibile è quello temporaneo: difatti, se la malattia causata dalle lesioni non guarisce, ma conduce la vittima alla morte, non è concepibile lo stabilizzarsi dei postumi, e di conseguenza non è configurabile alcun danno da invalidità permanente. Nondimeno, nel caso di morte causata dalle lesioni, occorre liquidare il danno biologico temporaneo patito dalla vittima attraverso una adeguata personalizzazione, che tenga conto della particolare intensità del danno consistente nella invalidità che precede la morte.

In questo quadro e poi intervenuta la citata Cass. S.U., n. 26972/2008, la quale ha affermato che la vittima, rimasta lucida in consapevole attesa della morte, acquista e trasmette agli eredi il diritto al risarcimento del danno morale, inteso non già quale mera sofferenza interiore transeunte, ma quale sinonimo di «danno non patrimoniale»: tuttavia, parrebbe da ritenere che la svolta indicata dalle Sezioni Unite non abbia inciso significativamente sull'indirizzo precedente, precludendo il risarcimento del danno biologico, dal momento che esso è costituito dal pregiudizio arrecato alla salute, non dalla percezione che di tale pregiudizio abbia la vittima. Nella sentenza di merito di cui si è detto il giudice, nel liquidare come danno da invalidità permanente un danno che tale non era, giacché il quadro patologico non si era stabilizzato, pare dunque essersi discostato dall'indirizzo della giurisprudenza di legittimità senza avvedersi delle ragioni che sottendono alle soluzioni accolte.

All'indirizzo accolto dalla giurisprudenza di merito, ampliato con ulteriori riflessioni, si è quindi rifatta Cass. n. 1361/2014, la quale ha sostenuto che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita — bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile — è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella sua duplice configurazione di danno «biologico terminale» e di danno «catastrofale», sicché esso rileva ex se, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cosiddetta «immediata» o «istantanea», senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l'intensità della sofferenza dalla stessa subìta per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine, aggiungendo che, il risarcimento del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis, atteso che la non patrimonialità è attributo proprio del bene protetto (la vita) e non già del diritto al ristoro della lesione ad esso arrecata.

Sul tema sono successivamente intervenute le Sezioni Unite, le quali hanno confermato l'orientamento tradizionale, affermando il principio secondo cui, in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione — nel primo caso — dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero — nel secondo — della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass. S.U., n. 15350/2015). Principio, questo, ulteriormente ribadito da Cass. n. 5684/2016.

Il tema si interseca con quello legato alla figura del già menzionato danno da perdita del rapporto parentale. In caso di morte del congiunto, infatti, coloro che gli sopravvivono subiscono a propria volta, non già iure hereditario, bensì iure proprio un pregiudizio derivante dalla rottura del rapporto affettivo. Vale in proposito rammentare le parole di una nota decisione della S.C., secondo cui «il soggetto che chiede iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un congiunto lamenta l'incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, del quale è titolare, la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l'integrità biopsichica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico, sia dall'interesse all'integrità morale, la cui tutela, agevolmente ricollegabile all'art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo. L'interesse fatto valere nel caso di danno da uccisione di congiunto è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Si tratta di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell'art. 2043, nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad un risarcimento (o meglio: ad una riparazione), ai sensi dell'art. 2059, senza il limite ivi previsto in correlazione all'art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in tema di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato» (Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 8827/2003).

La «nascita indesiderata»

Il tema del risarcimento dei danni da «nascita indesiderata» pone un complesso fascio di problemi di ordine non soltanto giuridico, ma, indubbiamente, anche etico, che qui non possono avere ingresso.

In generale, sono ormai tre lustri (a partire da Cass. n. 6735/2002, ma si veda già Cass. n. 12195/1998) che la giurisprudenza riconosce, in favore dei genitori, in proprio, il risarcimento dei danni da «nascita indesiderata» (danni che possono essere sia patrimoniali che non), a fronte della violazione del diritto della donna all'autodeterminazione, quando la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza in conseguenza dell'inadempimento del medico, il quale non abbia correttamente eseguito o interpretato esami volti a sondare lo stato di salute del feto, e l'insorgere di eventuali malformazioni, ovvero non abbia informato la paziente degli esiti dell'indagine svolta. La legge sull'interruzione della gravidanza, tuttavia, se consente alla donna (maggiorenne) di decidere liberamente per l'aborto entro il 90° giorno, condiziona successivamente l'interruzione della gravidanza alla sussistenza di taluni presupposti e, in particolare, all'accertamento di processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6 l. 22 maggio 1978 n. 194).

Ecco allora un primo problema: quale prova deve dare la donna (ed il marito, che è con lei danneggiato: si vedano già le due pronunce poc'anzi citate; secondo Cass. n. 16754/2012, poi, il risarcimento spetta anche ai fratelli) in ordine alla duplice circostanza del grave pericolo per la sua salute fisica o, più spesso, psichica, e della sua concreta determinazione ad abortire, ove tempestivamente informata delle malformazioni? Questione tutt'affatto diversa è quella dell'astratta configurabilità di un danno risentito non dai genitori, ma dal nato malformato: può questi lamentare che la madre non abbia abortito, nel qual caso egli non sarebbe nato?

Nel 2015, preso atto del contrasto giurisprudenziale concernente il riparto degli oneri probatori in caso di domanda di risarcimento dei danni da «nascita indesiderata», nonché di legittimazione attiva del nato malformato, la S.C. ha chiesto alle Sezioni Unite di fare chiarezza (Cass. n. 3569/2015). Nasce una bimba affetta da sindrome di Down. I genitori agiscono in giudizio, in proprio e quali genitori, nei confronti di due medici e della ASL presso la quale la madre, durante la gestazione, aveva eseguito un esame ematochimico (non cioè, un'amniocentesi, che possiede una maggiore efficacia diagnostica di talune malattie, quale in particolare la trisomia 21 o sindrome di Down), che — secondo loro — avrebbe fornito esiti non rassicuranti, ai quali non era però seguito, come sarebbe stato necessario, alcun ulteriore approfondimento diagnostico: chiedono dunque, nella duplice veste indicata, il risarcimento del danno da nascita indesiderata. I convenuti resistono ed il giudice rigetta la domanda. La decisione è confermata dalla sentenza di appello, che osserva: i) quanto alla domanda spiegata dai genitori in proprio, che, indipendentemente dallo scrutinio in ordine alla sussistenza di un qualche profilo di colpa dei sanitari, pure ad ammettere che, se avvertita della malattia del feto, la madre avrebbe scelto di accedere alla interruzione volontaria della gravidanza, non risultava provato che ne avesse diritto e che, cioè, sussistesse un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, secondo quanto previsto dalla legge sull'aborto, essendo decorso il 90° giorno dall'inizio della gestazione; ii) quanto alla domanda spiegata nella qualità di genitori esercenti la (allora) potestà sulla figlia minore, che l'ordinamento non riconosce un diritto a non nascere ovvero a non nascere se non sani.

Al riguardo la S.C. evidenzia i contrasti di giurisprudenza formatisi con riguardo all'una e all'altra questione poc'anzi menzionata, concludendo quindi per la trasmissione degli atti al Primo Presidente ai fini dell'assegnazione alle Sezioni Unite.

In effetti, la prima questione (quale prova deve dare la donna in ordine alla duplice circostanza del grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, e della sua concreta determinazione ad abortire) richiedeva senz'altro un intervento chiarificatore.

In linea di principio, non è seriamente dubitabile che debba essere la donna a provare che, ove informata delle malformazioni del feto, avrebbe scelto di abortire, evidente essendo, d'altronde, che, in mancanza di una simile volontà, nessun danno potrebbe essere configurato. Né può dubitarsi che, decorsi i 90 giorni di cui si è detto, il profilarsi di un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna vada anch'esso a collocarsi dal versante del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria spiegata, e che, di conseguenza, la prova sul punto debba essere offerta dalla donna, mentre costituisce circostanza impeditiva dall'esercizio del diritto di interrompere la gravidanza (la cui prova incombe perciò sul medico) l'attitudine del feto alla vita autonoma, ai sensi dell'art. 7 l. n. 194/1978 (Cass. n. 6735/2002).

E, però, le circostanze da provare sono entrambe liquide, sfuggenti: si tratta infatti di dimostrare circostanze che non sono accadute, ma che avrebbero potuto verificarsi se un'altra circostanza di segno negativo (l'omessa diagnosi di malformazione), che ha invece avuto luogo, non fosse venuta ad esistenza. Vi è dunque una doppia incognita da sciogliere, per di più particolarmente ostica, giacché non sembra normale che una donna in gravidanza, ignara delle malformazioni del feto, palesi la propria volontà di abortire per l'ipotesi che dette malformazioni possano ipoteticamente manifestarsi.

In tale contesto, secondo una parte della giurisprudenza, sarebbe «corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto» (capostipite di questa soluzione è ancora una volta Cass. n. 6735/2002, seguita da Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 13/2010; Cass. n. 15386/2011). Ecco perché, nella medesima ottica, è stato detto che, ove la donna abbia allegato che, se informata, avrebbe scelto di abortire (ovviamente di fronte ad una malformazione molto grave: nella mia esperienza giudiziaria mi è capitato di imbattermi in una domanda risarcitoria proposta da una donna la quale lamentava di non essere stata informata di una malattia in conseguenza della quale, in fin dei conti, il figlio era stato colpito da una lieve balbuzie...), deve ritenersi in ciò implicito un «pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all'acquisizione della notizia», e cioè che sarebbe insorto un grave stato depressivo (Cass. n. 22837/2010).

In senso opposto, in seguito, dopo aver affermato che «è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, [la donna: n.d.r.] avrebbe interrotto la gravidanza», la S.C. ha aggiunto che «tale prova non può essere desunta dal solo fatto che la gestante abbia chiesto di sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale richiesta è solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità» (Cass. n. 7269/2013; v. pure Cass. n. 27528/2013; Cass. n. 12264/2014).

L'altra questione, senz'altro più impegnativa, concernente la legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno dal medico e/o dalla struttura sanitaria che abbia privato la gestante della possibilità di abortire, è stata per lungo tempo risolta in senso negativo dalla S.C.. Più di recente si sono mostrate di diversa opinione Cass. n. 9700/2011, sul diritto al risarcimento del danno in favore del feto, poi nato, per la perdita del padre, perito in un incidente stradale, e, soprattutto, Cass. n. 16754/2012, secondo cui, nel caso in cui il medico ometta di segnalare alla gestante l'esistenza di più efficaci test diagnostici prenatali rispetto a quello prescelto, impedendole così di accertare l'esistenza d'una una malformazione del concepito, quest'ultimo, ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza ha diritto ad essere risarcito del danno rappresentato dell'interesse ad alleviare la propria condizione di vita, impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità.

Sulla questione dell'onere della prova nelle azioni risarcitorie per il danno da nascita indesiderata e sul complesso tema della legittimazione ad agire per cd. wrongful life sono dunque intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 25767/2015), enunciando principi di diritto così massimati:

i) In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza — ricorrendone le condizioni di legge — ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale; quest'onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale;

ii) In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l'ordinamento non conosce il «diritto a non nascere se non sano», né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico.

Nell'affermare il primo principio, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto sull'onere probatorio del genitore che agisce per il risarcimento da nascita indesiderata, contrasto nel quale si opponevano, come si è detto, un indirizzo favorevole all'attore, assistito da una presunzione iuris tantum nel senso dell'opzione abortiva della gestante (Cass. n. 22837/2010), e un indirizzo favorevole al convenuto, che dell'opzione abortiva esigeva la piena dimostrazione controfattuale ad onere dell'attore (Cass. n. 7269/2013). La soluzione adottata può definirsi mediana, in quanto rifiuta la costruzione di una presunzione legale, seppur relativa, ma consente l'adempimento dell'onere tramite presunzioni semplici. Nell'affermare il secondo principio, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto sulla legittimazione del disabile ad agire per il risarcimento da nascita indesiderata, contrasto nel quale si opponevano un indirizzo negativo di tale legittimazione, intesa quale riflesso di un inesistente «diritto a non nascere se non sano» (Cass. n. 14488/2004), e un indirizzo positivo, in vista dell'interesse del nato ad alleviare una condizione impeditiva della libera estrinsecazione della persona (Cass. n. 16754/2012). La Sezioni Unite hanno in questa occasione ha adottato una soluzione assai netta, perché la quale esclude in modo chiaro e fermo la legittimazione del disabile, negando che egli sia portatore di un danno-conseguenza dell'inadempimento del medico.

Liquidazione del danno biologico

Il danno biologico è temporaneo e/o permanente. Quello temporaneo incide sull'integrità psico-fisica del soggetto per un limitato arco di tempo, ed a fini di liquidazione è di regola misurato in giorni. Il danno biologico temporaneo (talora qualificato come invalidità permanente, talora come inabilità permanente, con sfumature che non mette conto illustrare) può essere totale o assoluto, laddove pregiudichi integralmente il danneggiato nello svolgimento delle sue attività, oppure può essere parziale, ed in tal caso viene valutato in percentuale. Il danno biologico permanente è quello che residua dopo lo stabilizzarsi degli esiti delle lesioni, ossia il danno biologico non suscettibile di miglioramenti. Osserva in proposito la S.C. che è riscontrabile un'invalidità permanente solo allorquando la malattia abbia compiuto il suo decorso ed il leso non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità; il consolidarsi di postumi permanenti può mancare, pertanto, o nelle ipotesi in cui la patologia sia cessata (ed il leso sia del tutto guarito) oppure quando la malattia abbia avuto un esito letale (Cass. n. 3766/2005). Il danno biologico permanente viene misurato in punti percentuali dal 1% al 100%. Si distinguono in proposito le invalidità permanenti comprese tra l'1% ed il 9%, che sono qualificate come «micropermanenti», per gli effetti dell'applicazione della disciplina normativa di cui tra breve si dirà.

L'accertamento e quantificazione del danno biologico e affidato alla consulenza tecnica d'ufficio ai sensi dell'art. 61 c.p.c. Il medico affidatario dell'incarico, generalmente un medico legale, provvederà a determinare la misura tanto del danno biologico temporaneo, quanto di quello permanente, attraverso le necessarie indicazioni percentuali.

La S.C. conferma stabilmente l'utilizzabilità delle c.d. «tabelle» ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, sia nella voce del danno biologico che in quella del danno morale. Con la precisazione che il giudice non può mai venir meno al proprio dovere di dar conto delle specifiche circostanze di fatto considerate ai fini della liquidazione e di «personalizzare» adeguatamente la medesima (v. p. es. Cass. n. 394/2007). Unica possibile forma di liquidazione — per ogni danno che sia privo, come il danno biologico delle caratteristiche della patrimonialità — è difatti quella equitativa, giacché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura stessa del danno non patrimoniale e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico (Cass. n. 11039/2006; Cass. n. 8386/2006; Cass. n. 20320/2005; Cass. n. 14645/2003). Corollario del principio appena esposto, secondo il medesimo indirizzo, è l'affermazione che il giudice non incorre in violazione dell'art. 1226 c.c. — violazione certamente configurabile, altrimenti, in materia di liquidazione equitativa del danno patrimoniale — se omette di indicare le ragioni per le quali il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, giacché in tanto una precisa quantificazione pecuniaria è possibile, in quanto esistano parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può essere mai provato nel suo preciso ammontare. Tuttavia — ripete costantemente la S.C. — rimane fermo il dovere del giudice del merito di dar conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa, nonché del percorso logico che lo ha condotto al risultato finale della liquidazione, in ordine al quale egli deve considerare tutte le circostanze del caso concreto, quali, in caso di lesioni fisiche, l'attività svolta dal danneggiato, le condizioni sociali e familiari, la gravità delle lesioni e degli eventuali postumi permanenti.

Le regole di base che presiedono all'applicazione della liquidazione tabellare sono state fissate dalla S.C. in una dettagliata pronuncia (Cass. n. 4852/1999) da cui emerge che: a) l'impiego delle «tabelle» si basa sul «potere-dovere di procedere alla liquidazione con criterio equitativo ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c.»; b) il fondamento delle «tabelle» è la «media dei precedenti giudiziari in un dato ambito territoriale e la finalità è quella di uniformare i criteri di liquidazione», sicché, se adotta la «tabella» elaborata presso il proprio ufficio giudiziario, il giudice è di regola esonerato dall'indicare le ragioni della scelta; c) se, viceversa, il giudice «adotta, come è certamente nel suo potere equitativo, le «tabelle» in uso presso altri uffici giudiziari, poiché ciò si discosta da quella che è la funzione tipica delle «tabelle» (fissare criteri tendenzialmente uniformi in una data sede giudiziaria...), deve motivare perché».

L'adozione delle «tabelle» — pur costruite in considerazione dei parametri dell'età e del grado di invalidità del soggetto leso — non esonera però il giudice, come si accennava, dall'obbligo di personalizzare la liquidazione in funzione degli aspetti concreti della lesione patita dal danneggiato. La mancanza dell'opera di personalizzazione, infatti, comporterebbe, di fatto, l'abdicazione del giudice al potere di liquidazione equitativa in favore dei criteri rigidi ed automatici previsti dalle «tabelle», pur in assenza di una previsione legale in tal senso (per quest'affermazione, oltre a Cass. n. 4852/1999, v., tra le altre, Cass. n. 20323/2005; Cass. n. 4186/2004; Cass. n. 11376/2002; Cass. n. 11704/2003; Cass. n. 10996/2003; Cass. n. 13445/2004). Il giudice, insomma, deve provvedere ad un'applicazione flessibile delle «tabelle», definendo una regola ponderale su misura per il caso specifico e motivando congruamente in ordine all'adeguamento dell'importo riconosciuto alla peculiarità del caso.

La S.C. ha da tempo indicato le tabelle milanesi quale strumento applicabile su tutto il territorio nazionale nei casi in cui non sia obbligatoria l'applicazione delle tabelle di legge di cui al codice delle assicurazioni (Cass. n. 12408/2011).

Nel biologico rientra altresì il danno da c.d. «cenestesi lavorativa», ossia il pregiudizio che si verifica nel caso in cui la lesione psicofisica, tale da determinare danno biologico, non si traduca anche in una perdita reddituale (nel qual caso al danno biologico si cumula un danno patrimoniale, sotto forma, secondo i casi, di danno emergente futuro oppure di lucro cessante), ma comporti soltanto una maggior fatica nell'espletamento della propria attività (Cass. n. 14840/2007 tra le altre).

Le «tabelle»

La S.C. ha più volte confermato l'utilizzabilità delle c.d. «tabelle» ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, sia nella voce del danno biologico che in quella del danno morale. Con la precisazione, del massimo rilievo, che il giudice non può mai venir meno al proprio dovere di dar conto delle specifiche circostanze di fatto considerate ai fini della liquidazione e di «personalizzare» adeguatamente la medesima (v. p. es. Cass. n. 394/2007).

Viene osservato che il danno non patrimoniale, nelle due voci del danno biologico (in questo caso comprensivo del danno biologico definibile come «dinamico») e di quello morale, non può che essere oggetto di liquidazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c. Unica possibile forma di liquidazione — per ogni danno che sia privo, come il danno biologico ed il danno morale, delle caratteristiche della patrimonialità — è difatti quella equitativa, giacché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura stessa del danno non patrimoniale e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico (Cass. n. 11039/2006; Cass. n. 8386/2006; Cass. n. 20320/2005; Cass. n. 14645/2003; Cass. n. 8827/2003). Corollario del principio appena esposto, secondo il medesimo indirizzo, è l'affermazione che il giudice non incorre in violazione dell'art. 1226 c.c.— violazione certamente configurabile, altrimenti, in materia di liquidazione equitativa del danno patrimoniale — se omette di indicare le ragioni per le quali il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, giacché in tanto una precisa quantificazione pecuniaria è possibile, in quanto esistano parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può essere mai provato nel suo preciso ammontare. Tuttavia — ripete costantemente la S.C. — rimane fermo il dovere del giudice del merito di dar conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa, nonché del percorso logico che lo ha condotto al risultato finale della liquidazione, in ordine al quale egli deve considerare tutte le circostanze del caso concreto, quali, in caso di lesioni fisiche, l'attività svolta dal danneggiato, le condizioni sociali e familiari, la gravità delle lesioni e degli eventuali postumi permanenti.

Dunque, se si tratta di danno biologico, il giudice può fare applicazione di criteri predeterminati e standardizzati, quali quelli previsti dalle cosiddette «tabelle» elaborate da molti uffici giudiziari, sebbene queste non rientrino nelle nozioni di fatto di comune esperienza, né siano recepite in norme di diritto. Anche la liquidazione equitativa del danno morale, poi, può essere legittimamente effettuata — stando ancora al costante insegnamento della S.C. — sulla base delle stesse «tabelle» utilizzate per la liquidazione del danno biologico, in misura percentuale di esso. E può qui incidentalmente aggiungersi che, invece, la terza voce di cui si compone il danno non patrimoniale, ossia il danno esistenziale, non si presta all'impiego di barème, data l'eterogeneità delle ripercussioni attraverso cui esso può realizzarsi (sul tema si veda Cass. S.U., n. 6752/2006). Ebbene, le regole di base che presiedono all'applicazione della liquidazione tabellare sono state fissate dalla S.C. in una dettagliata pronuncia (Cass. n. 4852/1999) da cui emerge che:

a) l'impiego delle «tabelle» si basa sul «potere-dovere di procedere alla liquidazione con criterio equitativo ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c.»;

b) il fondamento delle «tabelle» è la «media dei precedenti giudiziari in un dato ambito territoriale e la finalità è quella di uniformare i criteri di liquidazione», sicché, se adotta la «tabella» elaborata presso il proprio ufficio giudiziario, il giudice è di regola esonerato dall'indicare le ragioni della scelta;

c) se, viceversa, il giudice «adotta, come è certamente nel suo potere equitativo, le “tabelle” in uso presso altri uffici giudiziari, poiché ciò si discosta da quella che è la funzione tipica delle “tabelle” (fissare criteri tendenzialmente uniformi in una data sede giudiziaria ...), deve motivare perché».

L'adozione delle «tabelle» — pur costruite in considerazione dei parametri dell'età e del grado di invalidità del soggetto leso — non esonera però il giudice dall'obbligo di personalizzare la liquidazione in funzione degli aspetti concreti della lesione patita dal danneggiato. La mancanza dell'opera di personalizzazione, infatti, comporterebbe, di fatto, l'abdicazione del giudice al potere di liquidazione equitativa in favore dei criteri rigidi ed automatici previsti dalle «tabelle», pur in assenza di una previsione legale in tal senso (per quest'affermazione, oltre a Cass. n. 4852/1999, v., tra le altre, Cass. n. 20323/2005; Cass. n. 4186/2004; Cass. n. 11376/2002; Cass. n. 11704/2003; Cass. n. 10996/2003; Cass. n. 13445/2004). Il giudice, insomma, deve provvedere ad un'applicazione flessibile delle «tabelle», definendo una regola ponderale su misura per il caso specifico e motivando congruamente in ordine all'adeguamento dell'importo riconosciuto alla peculiarità del caso.

Anche nella liquidazione del danno morale, poi, il dato scaturito delle «tabelle» predisposte per la liquidazione del danno biologico va adattato alle circostanze della vicenda. Si trova infatti affermato che la liquidazione equitativa del danno morale può essere legittimamente effettuata dal giudice sulla base delle stesse «tabelle» utilizzate per la liquidazione del danno biologico portando, in questo caso, alla quantificazione del danno morale — in misura pari ad una frazione di quanto dovuto dal danneggiante a titolo di danno biologico — purché il risultato in tal modo raggiunto, anche in tale ipotesi, venga poi «personalizzato», tenendo conto delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno (Cass. n. 11039/2006). Il giudice di merito deve allora tener conto, nell'effettuare la valutazione delle effettive sofferenze patite dall'offeso, della gravità dell'illecito e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso (Cass. n. 10996/2003). Il potere di liquidazione equitativa, in tale ipotesi, trova un limite soltanto quando la quantificazione del danno appaia manifestamente simbolica, irrisoria, o per nulla correlata con le premesse di fatto in ordine alla natura ed all'entità del pregiudizio dal medesimo giudice accertate (Cass. n. 11039/2006; Cass. n. 4186/2004).

A quest'ultimo riguardo occorre aggiungere che dopo la «svolta» giurisprudenziale del 2003 (Cass. n. 8828/2003 e Cass. n. 8827/2003 insieme a Corte cost. n. 233/2003) i termini della questione si sono modificati. Uno degli effetti della «svolta» è consistito in una rivalutazione del danno morale soggettivo, che si è almeno virtualmente affrancato dalla evidente condizione di inferiorità che lo affliggeva. Secondo l'interpretazione tradizionale dell'art. 2059 c.c., infatti, era la componente sanzionatoria a prevalere nel danno morale, che poteva essere riconosciuto soltanto in caso di reato. Oggi, nell'art. 2059 c.c. riletto dalla giurisprudenza della S.C., il danno morale sembra aver conquistato un rilievo mai in precedenza posseduto quale componente, equiordinata ai danni biologico ed esistenziale, del danno non patrimoniale. Ebbene, se fino alla «svolta» il danno morale soggettivo è stato perlopiù ricondotto alla indistinta, opaca, approssimativa nozione di «turbamento dell'animo transeunte», sorge oggi la questione di approfondire l'effettivo contenuto della sofferenza in cui il danno morale si compendia. Ma, così stando le cose, non sembra potersi più affermare che il danno morale soggettivo possa essere liquidato quale frazione del biologico, occorrendo in proposito una adeguata motivazione.

Sul tema delle «tabelle» è quindi intervenuta nuovamente la S.C., manifestando la propria adesione a quelle milanesi. È stato affermato che nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale — e al quale la S.C., in applicazione dell'art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. —, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono. L'applicazione di diverse tabelle, ancorché comportante liquidazione di entità inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell'applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito (Cass. n. 12408/2011). Quest'indirizzo si è quindi consolidato, con l'affermazione del principio, da ultimo ribadito, secondo cui il danno alla salute, temporaneo o permanente, in assenza di criteri legali va liquidato in base alle cosiddette tabelle diffuse del tribunale di Milano, salvo che il caso concreto presenti specificità, che il giudice ha l'onere di rilevare, accertare ed esporre in motivazione, tali da consigliare o imporre lo scostamento dai valori standard (Cass. n. 9950/2017).

In seguito è stato ulteriormente chiarito c.d. «tabelle», siano esse normative o giudiziali, quali in particolare quelle elaborate dal tribunale di Milano ma dotate di «vocazione nazionale», costituiscono idoneo strumento di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, liquidazione che, una volta operata la necessaria personalizzazione, non può essere soggetta a controllo in sede di legittimità, essendo inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, se non in presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (Cass. n. 15530/2014). La pronuncia è stata resa in un caso in cui il danneggiato sa un sinistro, non soddisfatto della liquidazione operata dalla corte d'appello, aveva impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di cassazione lamentando l'utilizzo delle tabelle milanesi vigenti al marzo del 2000 in luogo di quelle dell'epoca della pronuncia; definendo irrisoria la liquidazione del danno non patrimoniale diverso dal biologico; contestando la mancata personalizzazione del danno. Sorge in proposito il quesito riguardo ai limiti entro cui è consentito al giudice di procedere alla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale mediante l'utilizzo delle «tabelle» e quali siano gli obblighi motivazionali che egli deve rispettare.

Viene nuovamente osservato che il danno non patrimoniale, nelle «voci» che lo compongono — è qui evidente il riferimento alla nota Cass. S.U., n. 26972/2008, la quale sottolinea la natura unitaria del danno non patrimoniale, che si scandisce tuttavia in «voci» rilevanti sul piano descrittivo, anche al fine di evitare duplicazioni risarcitorie —, non può che essere oggetto di liquidazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c. La ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura stessa del danno non patrimoniale e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico (v. Cass. n. 1361/2014, resa, in difformità dall'orientamento fino a quel punto consolidato, sul tema di risarcibilità del danno da morte subito iure proprio): da ciò discende — vale ulteriormente rammentare — che il giudice, quando liquida il danno non patrimoniale, può legittimamente omettere di indicare le ragioni per le quali ritiene che esso non possa essere provato nel suo preciso ammontare.

L'impiego delle tabelle nella liquidazione del danno non patrimoniale è radicato nella prassi ormai da decenni ed è stato accolto dal legislatore con la tabella per le c.d. micropermanenti, di cui si parlerà. Un tempo poteva accadere che ciascun tribunale si desse le proprie tabelle. In una citata pronuncia (Cass. n. 4852/1999) si era affermato che il fondamento delle «tabelle» è la «media dei precedenti giudiziari in un dato ambito territoriale», sicché, se adotta la «tabella» elaborata presso il proprio ufficio giudiziario, il giudice è esonerato dal motivare. Il numero delle «tabelle» locali si è andato nel corso del tempo riducendo, fintanto che non sono rimaste in auge la sola tabella milanese (più diffusa) e quella romana (attecchita nella Capitale e dintorni). La tabella milanese ha poi vinto la partita grazie alla menzionata decisione (Cass. n. 12408/2011), la quale ha sottolineato l'ovvia esigenza di uniformità di giudizio, a fronte di casi analoghi, sull'intero territorio nazionale, e dunque l'intollerabilità della liquidazione di danni identici in misura diversa sol perché esaminati da differenti uffici giudiziari: e — ha osservato la S.C. — la necessaria uniformità di trattamento può essere per l'appunto fornita dall'adozione della tabella milanese. Tale attitudine della menzionata tabella è oggi riconfermata dalla pronuncia in commento, che riconosce ad essa «vocazione nazionale».

Resta fermo che l'adozione delle «tabelle» non esonera (mai e in nessun caso) il giudice dall'obbligo di personalizzare la liquidazione in funzione degli aspetti concreti della lesione patita dal danneggiato: e ciò in funzione dell'osservanza del principio dell'integralità del risarcimento. La mancanza dell'opera di personalizzazione, infatti, comporterebbe la violazione da parte del giudice del potere-dovere di liquidazione equitativa in favore dei criteri rigidi ed automatici previsti dalle «tabelle», sia pure milanesi, pur in assenza di una previsione legale. In particolare, dal momento che la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale è inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione «si esclude che l'esercizio del potere equitativo del giudice di merito possa di per sé essere soggetto a controllo in sede di legittimità, se non in presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni». Basta dunque una motivazione stringata, purché pertinente agli aspetti caratterizzanti, al nocciolo della concreta vicenda. Ad esempio è stata di recente ritenuta viziata la motivazione della sentenza che, in fattispecie di colpa medica neonatale, aveva liquidato equitativamente il danno morale del neonato e dei genitori senza riferirsi alla gravità del fatto, alle condizioni soggettive della persona, all'entità della sofferenza e del turbamento d'animo (Cass. n. 3582/2013): e che, in definitiva, aveva indicato il quantum senza curarsi affatto di spiegare il perché.

Ma, nel caso scrutinato dalla corte d'appello, il collegio aveva debitamente tenuto conto tanto degli aspetti relazionali della lesione, rapportati alla giovane età del danneggiato, quanto dei profili di sofferenza interiore, commisurati alla lunga durata della convalescenza. Quanto all'utilizzo delle tabelle del 2000, la S.C., dopo aver premesso che non ogni scostamento dai valori tabellari vizia la decisione, ha sottolineato che, nel caso di specie, esso trovava giustificazione nell'esigenza di calcolo, su base omogenea, dell'importo ancora dovuto al danneggiato.

A tal riguardo occorre però ricordare una più recente pronuncia secondo cui, i tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando, all'esito del giudizio di primo grado, l'ammontare del danno alla persona sia stato determinato secondo il sistema «tabellare», la sopravvenuta variazione – nelle more del giudizio di appello – delle tabelle utilizzate legittima il soggetto danneggiato a proporre impugnazione, per ottenere la liquidazione di un maggiore importo risarcitorio, allorquando le nuove tabelle prevedano l'applicazione di differenti criteri di liquidazione o una rideterminazione del valore del «punto-base» in conseguenza di una ulteriore rilevazione statistica dei dati sull'ammontare dei risarcimenti liquidati negli uffici giudiziari, atteso che, in questi casi, la liquidazione effettuata sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall'art. 1226 c.c. (Cass. n. 25485/2016).

Con riguardo alle tabelle milanesi è altresì sorta questione in ordine a quando si possa lamentarne la mancata applicazione. È stato detto che l'applicazione delle tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale elaborate presso il tribunale di Roma, anche se comporti la liquidazione di una somma inferiore a quella che sarebbe derivata dall'applicazione delle tabelle di Milano, può essere denunciata in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito (Cass. n. 9134/2015). Questo il fatto. Incidente stradale. Il danneggiato agisce in giudizio con successo per il risarcimento del danno, ma, all'esito del processo di appello, ritiene che la somma riconosciutagli a titolo di danno non patrimoniale, sulla base delle tabelle romane impiegate per la liquidazione del danno biologico, sia insufficiente. Egli ricorre allora per cassazione dolendosi sotto un duplice profilo della mancata applicazione delle tabelle milanesi, le quali avrebbero secondo lui comportato una diversa e più generosa quantificazione del danno subito: per un verso, nell'applicare le tabelle romane, il giudice di appello sarebbe incorso in violazione di legge; per altro verso non avrebbe congruamente motivato in ordine alla scelta effettuata.

Come si è visto, a far data dal 2011, la Corte di cassazione ha riconosciuto la «vocazione nazionale» delle tabelle milanesi (Cass. n. 12408/2011). Esaminando la questione la S.C. ha rigettato, per tale aspetto, l'impugnazione. Ed ha osservato che la preminenza e conseguente applicabilità delle tabelle milanesi, in base ai principi affermati dalla pronuncia di legittimità poc'anzi ricordata, necessita, prima di ogni altra cosa, che l'applicazione di tali tabelle sia stata chiesta già nei gradi di merito: la qual cosa, nel caso esaminato, non risultava essere avvenuta.

In effetti, la pronuncia del 2011 si è fatta specificamente carico di esaminare le possibili ricadute sull'impugnazione per cassazione della preminenza attribuita alle tabelle milanesi. Ed ha in particolare affermato che il principio elaborato non comporta la ricorribilità per cassazione, per violazione di legge, delle sentenze d'appello che abbiano liquidato il danno in base a diverse tabelle, per il solo fatto che non sia stata applicata la tabella di Milano e che la liquidazione sarebbe stata di maggiore entità se fosse stata effettuata sulla base dei valori da quella indicati. Perché il ricorso non sia dichiarato inammissibile per la novità della questione posta non è infatti sufficiente che in appello sia stata prospettata l'inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma occorre che il ricorrente si sia specificamente lamentato, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano; e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti (ed infatti le tabelle non sono atti normativi che il giudice debba conoscere alla stregua del principio iura novit curia). In tanto, dunque, la violazione della regula iuris può essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la questione sia stata specificamente posta nel giudizio di merito.

Vale al riguardo rammentare che il tribunale di Roma sembra ritenere in buona sostanza — in consapevole contrasto con l'orientamento della S.C., che nel frattempo si è consolidato — che le tabelle milanesi rechino previsioni contrastanti con la Costituzione, mentre quelle romane «soddisfino correttamente ... i parametri diretti ad assicurare un corretto esercizio del potere equitativo di determinazione del danno». Le tabelle milanesi, al contrario, secondo il tribunale di Roma (le citazioni sono tratte dalla sentenza Cass. n. 5295/2015, tra le molte di identico tenore), «non appaiono al momento essere corrispondenti ai valori costituzionali quali la valutazione del danno non patrimoniale secondo un incremento percentuale del biologico fino al 50% per un pregiudizio fino al 33% e fino al 25% per pregiudizio a partire dal 34% e fino al 100%, analogamente a quanto ipotizzato per la personalizzazione, essendo evidente che in presenza di lesioni a interessi costituzionalmente rilevanti maggiori coincida la necessità di valutazioni che siano funzione diretta del pregiudizio correlabili al danno biologico ... e non secondo criteri di funzionalità inversa ... come ipotizzato dalle tabelle milanesi ... Anche la valutazione di una misura variabile della indennità per la incapacità temporanea induce perplessità». A ciò può aggiungersi che, per altro verso, la soluzione adottata dal tribunale non è, almeno stabilmente, condivisa neppure dalla corte di merito capitolina, che applica invece le tabelle milanesi non solo quando la sentenza di primo grado è impugnata sotto tale profilo, ma anche quando procede ex novo alla liquidazione del danno non patrimoniale, ad esempio riformando le decisioni che in primo grado avevano rigettato la domanda risarcitoria. Il vero è, difatti, che, indipendentemente da ogni considerazione sulla qualità tecnica dell'una e dell'altra tabella, non paiono esservi casi in cui quella milanese non consenta di pervenire ad un risultato applicativo equo ed appropriato.

Il danno biologico differenziale

Occorre soffermarsi inoltre sulla liquidazione del c.d. danno biologico differenziale, ossia all'ulteriore credito risarcitorio vantato dal danneggiato nei confronti del responsabile civile, e se del caso della sua assicurazione, quando egli, trattandosi di infortunio sul lavoro, abbia percepito l'indennizzo dovuto dall'Inail, nonché sulla connessa questione della surrogazione di quest'ultimo nel credito del proprio assicurato nei confronti del danneggiante.

È in proposito osservato la S.C. (Cass. n. 17407/2016) che la surrogazione dell'assicuratore di cui all'art. 1916 c.c. è una successione a titolo particolare nel diritto al risarcimento spettante all'assicurato. Essa ha la funzione di evitare l'arricchimento del responsabile nonché di impedire che possa concretizzarsi in interesse dell'assicurato al verificarsi del sinistro, per il finale intento di mantenere bassi i costi del servizio assicurativo e, con esso, dei premi.

Da ciò deriva quanto segue: i) l'assicuratore sociale può surrogarsi alla vittima se questa sia titolare di un diritto di credito verso il responsabile; ii) una volta esercitata la surrogazione, il danneggiato perde il relativo diritto di credito verso il responsabile, essendosi detto diritto trasferito all'assicuratore sociale; iii) se l'assicuratore sociale, per effetto della legislazione operante in materia, è tenuto ad indennizzare obbligatoriamente un pregiudizio che, dal punto di vista civilistico, la vittima non risulta avere subito, per il relativo intorto non può esservi surrogazione; iv) il credito risarcitorio della vittima si riduce solo e nella misura in cui abbia ricevuto dall'assicuratore sociale indennizzi destinati a ristorare danni che dal punto di vista civilistico possano dirsi effettivamente patiti.

Tanto premesso, con riguardo all'individuazione dei criteri per il calcolo del c.d. danno differenziale, occorre rammentare che, per quanto riguarda il danno biologico permanente, la nozione civilistica di esso, come individuata dall'art. 138 cod. ass., che secondo la S.C. è espressione d'un principio generale, coincide con la corrispondente nozione assicurativa fissata dall'art. d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38). Pertanto il calcolo differenziale va compiuto sottraendo dal credito risarcitorio civilistico l'importo pagato dall'Inail per la stessa voce.

Vale in proposito rammentare che, per le invalidità permanenti superiori al 16%, detto Istituto paga all'assicurato una rendita, il cui importo è stabilito dalla Tabella che costituisce l'Allegato 5 al dm. 12.7.2000. Il valore risultante dalla suddetta tabella è poi maggiorato in una determinata misura variabile in finzione del reddito della vittima, alla luce dell'art. 12, comma 2, d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, secondo il quale le, menomazioni di grado pari o superiore al 16 per cento danno diritto all'erogazione di un'ulteriore quota di rendita commisurata alla retribuzione dell'assicurato. L'ulteriore quota di rendita è calcolata moltiplicando la retribuzione del danneggiato per un cosciente stabilito dall'Allegato 6 al d.m. 12 luglio 2000. La S.C. ha al riguardo chiarito che l'incremento della rendita per danno biologico, di cui all'art. 134, comma 2, lett. b), d.lgs 23 febbraio 2000, n. 38 costituisce un indennizzo forfettario del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro. Tanto si desume: a) in primo luogo dalla lettera della legge, la quale espressamente afferma che l'ulteriore quota di rendita di cui si discorre è erogata per l'indennizzo delle conseguenze patrimoniali della lesione della salute; b) dal principio c.d. di aredittualità del danno biologico. Quest'ultimo, infatti, consiste nella lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona, e deve essere indennizzato «in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato», secondo quanto stabilito dall'art. 13, comma 1, d.lgs 23 febbraio 2000, n. 38. Ne discende «che qualsiasi incremento del risarcimento dovuto dall'INAIL per il danno biologico patito dal lavoratore, che sia agganciato al reddito della vittima, abbia lo scopo di ristorare il pregiudizio patrimoniale da compromissione della capacità di lavoro e di guadagno, perché sarebbe altrimenti incompatibile con la natura areddituale del risarcimento del danno biologico. Pertanto, quando ricorrano i presupposti di fatto di cui al d.lgs. 38/2000, art. 13, comma 2, lett. b), l'INAIL liquida all'avente diritto un indennizzo in forma di rendita che ha veste unitaria, ma duplice contenuto: con quell'indennizzo, infatti, l'INAIL compensa sia il danno biologico, sia il danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno. Da quanto esposto consegue che quando la vittima di un illecito aquiliano abbia percepito anche l'indennizzo da parte dell'INAIL, per calcolare il danno biologico permanente differenziale è necessario: a) determinare il grado di invalidità permanente patito dalla vittima e monetizzarlo, secondo i criteri della responsabilità civile, ivi inclusa la personalizzazione o danno morale che dir si voglia, attesa la natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale; b) sottrarre dall'importo sub a) non il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il valore capitale della quota di rendita che ristora il danno biologico» (così Cass. n. 17407/2016, la quale richiama Cass. n. 13222/2015). Si aggiunge che per quanto riguarda il risarcimento del danno biologico temporaneo, esso in nessun caso potrà essere ridotto per effetto dell'intervento dell'assicuratore sociale, dal momento che l'Inail non indennizza questo tipo di pregiudizio, e se non v'è pagamento non può esservi — per quanto detto — surrogazione. Per quanto riguarda il risarcimento del danno patrimoniale da riduzione permanente della capacità di guadagno, che l'Inail —secondo quanto osservato- indennizza a prescindere da qualsiasi prova della sua sussistenza, sol che l'invalidità causata dall'infortunio superi il 16%, il relativo indennizzo assicurativo potrà essere detratto dal risarcimento aquiliano solo se la vittima abbia effettivamente patito un pregiudizio di questo tipo. Negli altri casi, l'indennizzo resta acquisito alla vittima, ma né potrà essere defalcato dal credito risarcitorio di quest'ultima per altre voci di danno, né potrà dar luogo a surrogazione: se infatti la vittima non ha patito alcuna riduzione della capacità di guadagno, non vanta il relativo credito verso il responsabile, e se quel diritto non esiste, non può nemmeno trasferirsi all'Inali. Per quanto riguarda il danno patrimoniale da inabilità temporanea al lavoro e quello rappresentato dalle spese mediche, solitamente non si pongono problemi di calcolo del danno differenziale, essendo i suddetti pregiudizi di norma integralmente ristorati dall'Inail. È tuttavia ovvio, alla luce di quanto esposto, che l'indennizzo pagato dall'Inail a titolo di inabilità temporanea o spese mediche non può essere defalcato dal credito risarcitorio aquiliano spettante alla vittima per voci di danno diverse. Infine, per quanto riguardai ratei di rendita già riscossi dalla vittima prima del risarcimento, essi seguiranno sorte diversa a seconda del titolo per il quale sono stati pagati, e quindi: i) i ratei (o la quota parte di essi) già riscossi a titolo di danno biologico permanente, andranno a defalco del credito risarcitorio spettante alla vittima per questa voce di danno; i ratei (o la quota parte di essi) già riscossi a titolo di danno patrimoniale da incapacità lavorativa, andranno a defalco del credito risarcitorio spettante alla vittima per questa voce di danno, se esistente ed accertato.

In breve, come si è di recente ribadito, il calcolo del cd. danno biologico differenziale deve avvenire sottraendo dal credito risarcitorio l'importo dell'indennizzo versato alla vittima dall'INAIL per il medesimo pregiudizio e, qualora tale indennizzo sia costituito ex lege da una rendita, va sottratto l'importo capitalizzato della rendita stessa, tenendo conto delle variazioni che quest'ultima può subire in relazione alle condizioni di salute dell'infortunato, ove intervengano prima che il diritto al risarcimento del danno diventi «quesito»; peraltro, se il danneggiato deduca in appello che, per effetto di una guarigione parziale, si sia ridotto il valore dell'indennizzo e sia di conseguenza aumentato il risarcimento dovutogli a titolo di danno differenziale, ha l'onere di dedurre e dimostrare che tale guarigione, a causa della non coincidenza tra le tabelle usate dall'INAIL e quelle utilizzate in ambito civilistico per la stima dell'invalidità permanente, abbia ridotto solo la misura dell'indennizzo dovuto dall'assicuratore sociale, ma non abbia inciso sul danno biologico e sul relativo credito risarcitorio, che è, altrimenti, da presumersi invariato (Cass. n. 22862/2016; Cass. n. 13222/2015).

Le tabelle per le micropermanenti

Il d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (su cui v. Ziviz, 2006) disciplina il quantum del risarcimento del danno biologico derivante da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti. Esso riprende il criterio di liquidazione già indicato nell'art. 5 l. 5 marzo 2001, n. 57, poi abrogato, che impiega il sistema del punto di invalidità. L'art. 139 del menzionato testo normativo, relativo alle «micropermanenti» (entro il 9% di invalidità permanente) stabilisce che la liquidazione del danno biologico sia determinata in un importo crescente in relazione ad ogni punto percentuale di invalidità e che si riduce con il crescere dell'età del soggetto». L'art. 138 d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, prevede poi l'impiego dello stesso metodo per ciò che concerne il danno biologico per le lesioni di «non lieve entità», ovvero quelle eccedenti la misura del 9%, ma le tabelle non sono state ancora licenziate, sicché vengono nella pratica impiegate quelle milanesi. Merita aggiungere che l'art. 7, comma 4, l. 8 marzo 2017, n. 24, recante «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie» ha stabilito che il danno conseguente all'attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell'esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto art. 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli (v. già art. 3, d.l. n. 158/2012).

Il congegno ideato dal legislatore prevede inoltre un correttivo di tipo equitativo del 30% per le lesioni di non lieve entità (art. 138 d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) e del 20% per le micropermanenti.

Il danno alla salute e le funzioni del risarcimento

L'esame del tema delle funzioni del risarcimento del danno non patrimoniale, e di quello alla salute in particolare, oltre ad un intrinseco rilievo concettuale, consente di illuminare importanti aspetti applicativi, concernenti soprattutto la determinazione del quantum, sicché occorre soffermarsi su di esso.

La questione si interseca con quella riguardante le funzioni della responsabilità civile in generale, prevalentemente scrutinate dal versante del danno patrimoniale. L'impostazione della dottrina, difatti, si riassume generalmente nella verifica della riferibilità al settore del danno non patrimoniale delle funzioni individuate con riguardo a quello del danno patrimoniale. Così inquadrato l'argomento, non occorre tuttavia dilungarsi sulle funzioni del risarcimento del danno patrimoniale — funzioni che la dottrina ricostruisce secondo prospettive diverse — per poi procedere all'esame del tema rilevante in questa sede. Ed infatti, per i fini di questa trattazione, è sufficiente ricordare come le funzioni della responsabilità civile, nel suo complesso, siano state così sintetizzate: «Secondo l'orientamento dominante la responsabilità civile assolve: (i) la funzione di reagire all'atto illecito dannoso, allo scopo di risarcire i soggetti ai quali il danno è stato arrecato; e, a questa correlata, (ii) la funzione di ripristinare lo status quo ante nel quale il danneggiato versava prima di subire il pregiudizio; (iii) la funzione di riaffermare il potere sanzionatorio (o «punitivo») dello Stato, e nel contempo, (iv) la funzione di «deterrente» per chiunque intenda, volontariamente o colposamente, compiere atti pregiudizievoli per i terzi. A queste si affiancano alcune funzioni sussidiarie, che più propriamente attengono agli effetti economici della responsabilità civile: (v) la distribuzione delle «perdite»; (vi) l'allocazione dei costi» (Alpa, 2003, 289). Poi in proposito darsi per scontato che la funzione di maggior spicco, tutt'al più unitamente a quella di prevenzione (o di deterrence), sia quella compensativa (o di compensation), ossia di ripristino — almeno in una prima approssimazione — della situazione preesistente all'illecito, sia in forma specifica, ove possibile, sia per equivalente. Anche in giurisprudenza si trova in generale affermato, con particolare riguardo a quest'ultima ipotesi di compensazione in denaro, che: «Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tende ad eliminare le conseguenze del danno arrecato» (Cass. n. 1183/2007).

Si può dire in definitiva che, almeno in materia di danno patrimoniale, la disciplina risarcitoria del danno sembra costituire espressione, del brocardo quanti ea res erit, tantam pecuniam condemnato. Sicché occorre chiedersi se la stessa ispirazione stia alla base della disciplina del risarcimento del danno non patrimoniale.

La funzione compensativa.

Occorre dunque chiedersi se i pregiudizi non patrimoniali essere cancellati — oltre che con un intervento di ripristino in forma specifica, ove possibile, com'è talora nel campo della salute — attraverso la corresponsione di una somma di denaro al danneggiato. La risposta è evidentemente negativa, giacché ciò che è avvenuto non può essere cancellato attraverso il risarcimento. Ma ciò non vuol dire che il risarcimento in denaro non si giustifichi e non realizzi il suo consueto scopo, così come accade con riguardo al danno patrimoniale, nel quadro della funzione compensativa.

Nel discorrere del risarcimento del danno non patrimoniale è stato scritto, così, che: «Essendo il denaro, nelle moderne consociazioni, il comune denominatore di tutti beni e di tutti valori, il risarcimento non può praticarsi che con moneta» (Brasiello, 1928, 196). Con particolare riguardo alla compensabilità dei pregiudizi non patrimoniali di natura esistenziale è stato più di recente affermato quanto segue: «Altre riserve, abbiamo visto, sono quelle concernenti lo strumento del denaro — quando si insiste sulla (pretesa) impossibilità che oppressioni o storture come quelle esistenziali, così aliene da risvolti di patrimonialità, siano raddrizzabili attraverso la corresponsione alla vittima di una somma pecuniaria. Il discorso si pone anche qui su vari piani. In astratto l'osservazione coglie largamente nel segno. Non soltanto è palese come la responsabilità civile manchi di capacità miracolistiche — non potendo, di per sé, cancellare l'accaduto o riportare indietro gli orologi. È indubbio altresì che nessun cespite in moneta sonante varrà mai a neutralizzare, sul terreno della quotidianità/relazionalità, ombre come quelle che attendono al varco, poniamo, un bambino che abbia subito violenze profonde, una donna alla quale sia stato ucciso il marito, un imputato messo in carcere per errore — persino un musicista costretto a subire per mesi i rumori di una segheria sotto casa (magari installata lì senza permessi). E tuttavia appunti del genere, bisogna dire, risultano di significato ben modesto — dal punto di vista applicativo. La storia del danno morale appare eloquente, in proposito — e non c'è bisogno di ricordarla nei dettagli (nemmeno con riguardo alle sue origini). Nessun avversario della categoria in esame è mai riuscito, in effetti, a replicare adeguatamente alle contro-obiezioni di fondo: — posto che (prevenire è meglio che reprimere, e che tuttavia) la prevenzione dei danni e delle sofferenze non sempre è facile o possibile, ad opera dell'ordinamento giuridico; — stabilito che una qualche forma di protezione, a favore di chi pianga e si tormenti per le offese ingiustamente ricevute, non può tendenzialmente mancare, sul terreno civilistico; — tenuto conto che a poter reagire contro il male (ormai prodottosi) è spesso, al di là di ogni buona intenzione, unicamente l'istituto della responsabilità delittuale; — visto che le risorse tecnico/istituzionali di cui quest'ultima dispone figurano ristrette, nella normalità dei casi, alla messa in opera di soluzioni di ordine pecuniario/risarcitorio: — orbene, che fare se non assicurare la vittima del fatto pregiudizievole perlomeno i vantaggi («although money will neither ease the pain nor restore the victim's abilities, this device is as close as the law can come in its effort to right the wrong. We have no hope of evaluating what has been lost, but a monetary award may provide a measure of solace for the condition created»: così Wachtler, Chief Judge, in McDougald v. Garber, 1989) di una provvista di denaro? Inevitabile a questo punto l'evocazione di aneddoti, più o meno bizzarri o surreali, della storia e della letteratura del passato: ad esempio, i richiami al pane e alle brioches di Maria Antonietta di Francia. Giustificato in ogni caso il sospetto che chi utilizza l'argomento in questione — e si sofferma variamente sui limiti taumaturgici del denaro, sulla sua disomogeneità rispetto a questo o quel versante dell'esistenza umana — lo faccia in realtà nel proposito di difendere gli interessi specifici del convenuto, di lasciare il danneggiato a bocca asciutta (Cendon, 2001, 72).

Tali osservazioni, pur condivisibili non rispondono però al quesito se la funzione del risarcimento del danno non patrimoniale sia o meno la medesima che anima il risarcimento del danno patrimoniale: se, in altri termini, la corresponsione di una somma di danaro valga parimenti a compensare, nell'uno o nell'altro caso, il danno cagionato. Occorre in altri termini interrogarsi sull'esattezza dell'osservazione secondo cui non potrebbe parlarsi con riguardo al danno non patrimoniale «di funzione compensativa in senso proprio. E ciò non perché il danno non patrimoniale sia astrattamente incommensurabile in denaro... ma perché non può essere misurato secondo lo stesso criterio (dell'equivalenza con la perdita economica subita dalla vittima) che vale per il danno patrimoniale» (Salvi, 1998, 31).

Altra parte della dottrina non esita a ritenere che anche nel caso del danno non patrimoniale debba discorrersi di risarcimento — dunque di compensazione per equivalente — traendo argomento sia dalla sostanziale affinità dei due fenomeni, sia dall'esigenza di rispetto della terminologia accolta dal legislatore: «Quanto testè detto non toglie che il danno non patrimoniale influisca sulla funzione del risarcimento, adattandola e modificando la in relazione alla propria natura. La creazione, mediante il risarcimento, di una situazione equivalente a quella compromessa può avvenire, per quanto riguarda il danno non patrimoniale, solo mercé l'equo arbitrio del giudice: solamente questo arbitrio è idoneo a stabilire un'equivalenza tra una cifra pecuniaria e il verificatosi danno-interesse non patrimoniale, attribuendo a tale cifra, con artificio giuridico, l'attitudine ad esprimere la misura di tale danno. L'equivalenza tra denaro e danno, tra la situazione derivante dalla prestazione risarcitoria dello stesso denaro e quella preesistente al danno, è squisitamente giuridica, spiegabile solo alla stregua del fine riparatorio. Confermiamo che esiste la tendenza ad estendere la misura pecuniaria oltre i valori economici: ma questa estensione comporta una deviazione rispetto alla normale funzione del denaro, e si realizza istituendo un'equivalenza necessariamente artificiosa, giustificata solamente dal detto fine riparatorio. In verità, mentre gli interessi relativi ai beni patrimoniali, capaci di classificarsi nell'ordine della ricchezza materiale, idonei allo scambio è al commercio giuridico, hanno nel denaro la propria naturale misura, quando si vuole misurare col denaro gli interessi non patrimoniali si pongono a fronte entità di natura rispettivamente diversa: la misura sfugge, allora, alla prova, ed è raggiunta solo in via di equitativo arbitrio giudiziale» (De Cupis, 1971, 153).

Si riconosce che il risarcimento in ambito patrimoniale attingere con maggior facilità lo scopo di realizzare una reale parità tra il pregiudizio e l'importo corrisposto per quel titolo, ma si precisa che ciò non esclude che l'espressione «risarcimento» sia da preferire anche in ambito non patrimoniale: «La maggiore efficienza del risarcimento del danno patrimoniale la reale parità di valore economico che esso fa conseguire al soggetto danneggiato, tutto ciò basta per riservare ad esso il vocabolo «risarcimento», impiegando altra denominazione per il rimedio privato relativo al danno non patrimoniale? Secondo alcuni, la differente natura di tale rimedio comporta sì profonda alterazione della nozione del risarcimento da provocare il distacco da questa. Si verrebbe così a creare una specifica ed ulteriore figura giuridica, distinta dal risarcimento, designata con la espressione, intesa in senso tutta fatto particolare, «riparazione (anziché risarcimento) pecuniaria». Sul piano legislativo, l'espressione «riparazione» era usata dall'art. 38 c.p. del 1889 e dall'art. 7 del codice di procedura penale del 1913 per designare il rimedio pecuniario della lesione di interessi non patrimoniali, in contrapposizione all'espressione «risarcimento» riservata al rimedio pecuniario del danno patrimoniale. Peraltro, già sotto l'imperio delle citate norme, fu rilevato come, per la spinta della politica, risarcimento e riparazione tendessero a divenire tutt'uno; e fu posta in luce l'elasticità della nozione del risarcimento. Il codice penale del 1930, poi, ha confermato questo ordine di idee, conglobando nel «risarcimento» l'antica «riparazione» (art. 185, comma 2); ed in ciò è stato seguito dal codice civile vigente. Questo più recente linguaggio legislativo, che unifica i rimedi privati pecuniari del danno patrimoniale e non patrimoniale, è atto, anzitutto, a fugare ogni residuo dubbio sulla finalità non penale, non afflittiva, della reazione dell'ordinamento a pro', direttamente, del privato interesse non patrimoniale. Sembra opportuno che il linguaggio della dottrina non si discosti dallo stesso linguaggio legislativo, tanto più che l'espressione «riparazione» è meglio idonea a designare genericamente ogni rimedio, pecuniario e non pecuniario, che, a favore del danneggiato, abbia, in un modo o d'altro modo, efficacia repressiva del danno patrimoniale o non patrimoniale, e quindi così ogni forma di risarcimento come la reintegrazione in forma specifica. Essa, per la punto, tende, piuttosto che a restringere il suo significato, a dilatarlo nel senso indicato. Il risarcimento, che è quello, tra i modi di riparazione del danno, in cui la riparazione avviene per equivalente, assume, indubbiamente, i speciali caratteristiche quando concerne il danno non patrimoniale. Ma è pur sempre operante per mezzo del equivalente pecuniario: il che, pur ammesso il particolare significato qui assunto dall'equivalenza, è elemento sufficiente per la fondamentale unità della sua nozione» (De Cupis, 1971, 155).

In effetti, tuttavia, sembra potersi dire che anche la distinzione tra il procedimento di riduzione del danno patrimoniale ad un determinato importo risarcitorio, per il tramite della valutazione di mercato, ed il procedimento di riduzione del danno non patrimoniale all'importo risarcitorio pertinente, per il tramite della valutazione equitativa del giudice, sia ancor più sfumata di quanto non emerga da quest'ultima opinione. La radicale distinzione tra la funzione del risarcimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, infatti, viene a ridursi sol che si consideri che la pretesa oggettività del risarcimento del primo — che è del resto sempre mediata, infine, dall'intervento giudiziale — presuppone una determinante storica, quale è la scoperta del valore di scambio che, evidentemente, non esiste in rerum natura. Simili considerazioni — sia pure nel quadro di una ricostruzione dogmatica del tutto distinta ed in funzione di differenti finalità argomentative — si rinvengono puntuali nelle osservazioni seguenti di un autore, il quale nega recisamente che possa stabilirsi una relazione di diretta equivalenza tra il bene materiale ipoteticamente distrutto dall'illecito aquiliano e l'ammontare del risarcimento: «Negli stessi casi in cui il comportamento contrario alla previsione della norma dà luogo ad un mutamento materiale o fisico, e cioè nelle ipotesi di cosiddetto danno emergente, nessuna equivalenza obiettiva può essere stabilita tra quanto viene distrutto o menomato e quanto viene prestato a titolo di risarcimento. In altri termini, anche in queste ipotesi, malgrado la contraria apparenza, il legame tra l'oggetto del danno e l'oggetto del risarcimento (per parlare con termini tradizionali) può essere stabilito soltanto attraverso la mediazione della psiche del danneggiato. Il pensiero corre subito al caso comune della distruzione di un oggetto che ha un prezzo di mercato, tradizionalmente parlando ha un valore oggettivo: ad esempio all'ipotesi della distruzione di un autoveicolo, o di una bicicletta, o di una partita di merci o di derrate, eccetera. Orbene, la correlazione tra la cosa, distrutta dal comportamento contrario alla previsione della norma, ed il prezzo, prestato a titolo di risarcimento, non è affatto l'espressione di un'identità intrinseca, promanante dalla struttura dei due oggetti correlativi; bensì è soltanto il riflesso del rapporto che tra quei due soggetti viene posto dalla psiche individuale. Soltanto da questo rapporto internamente posto nasce lo scambio. Intanto cioè la cosa viene scambiata col prezzo, in quanto in un dato momento storico a chi dà la cosa occorre disporre del prezzo per il conseguimento di un fine particolare e contingente che in quel momento storico egli perseguiva; ed in quanto chi dà il prezzo vuole disporre della cosa per poter realizzare lo scopo concretamente perseguito. Se quei due diversi scopi non si realizzano storicamente, lo scambio non può aver luogo e cosa e denaro continuano a rimanere entità incommensurabili e infungibili. Perciò è la storia degli uomini, determinata dai fini che essi perseguono e dal conseguente contenuto dei loro atti di volontà, che determina a sua volta lo scambio: non una chimerica e inesistente affinità intrinseca degli oggetti scambiati; e quel che si chiama valore della cosa e ammontare del prezzo è il prodotto è la conseguenza, non già l'oggetto precostituito della valutazione soggettiva. Soltanto la generalizzazione e la conseguente maggiore uniformità dei fini umani, porta pure al generalizzarsi degli scambi e crea di conseguenza l'illusione e lo scambio sia fenomeno regolato da leggi obiettive, prescindendoti completamente da ogni riferimento al soggetto» (Giusiana, 1944, 135). In altre parole, factum infectum fieri nequit, o, come si trova affermato — nel quadro di un'impostazione del tutto diversa — nella fondamentale opera di Pietro Trimarchi, «una volta che il danno si è verificato, non vi è niente che possa fare che esso sia come non avvenuto. Il danno non si cancella più dalla società» (Trimarchi, 1961, 16).

E dunque il risarcimento, tanto nel campo del danno patrimoniale, quanto nel campo del danno non patrimoniale, avviene per il tramite di un congegno convenzionale: da un lato il valore di mercato; dall'altro lato l'equità del giudice. Dopo aver osservato che «sotto il profilo strettamente economico... ogni danno è monetizzabile, tanto che può essere attribuito un prezzo finanche alla vita» (Comandè, 1994, 873), la dottrina chiarisce come il risarcimento sia frutto di una «valutazione sociale tipica» (Comandè, 1994, 876) effettuata dal giudice, sicché: «La liquidazione del danno non patrimoniale si è configurata di fatto come il risultato di un giudizio di valore espresso dei giudici, questa volta non bouche de la loi, ma bouche della societé» (Comandè, 1994, 887).

Per concludere non sembra condivisibile la collocazione del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale da versanti opposti: il primo suscettibile di essere liquidato con la bilancia di precisione; il secondo suscettibile di essere soltanto individuato, nel mistero della camera di consiglio, attraverso l'insondabile procedimento di formazione della decisione giudiziale. Danno patrimoniale e non patrimoniale sono cioè assai più prossimi l'uno all'altro di quanto non possa apparire ed entrambi possono risultare suscettibili o insuscettibili di esatta liquidazione. Il che trova un preciso riscontro in un essenziale dato normativo, quale l'art. 1226 c.c., il quale ipotizza l'impossibilità di provare il danno nel suo preciso ammontare, con la conseguente esigenza di ricorso alla valutazione equitativa del giudice, senza operare distinzione alcuna fra il settore del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale. Nello stesso senso, poi, è una disposizione dettata in specifico per il settore aquiliano, quale l'art. 2056, comma 2, che impone la liquidazione equitativa del lucro cessante.

Sembra in definitiva esatto ritenere che il risarcimento del danno non patrimoniale non abbia una funzione sostanzialmente diversa da quella del risarcimento del danno patrimoniale. Sul piano applicativo il risarcimento di quest'ultimo, nella fase della liquidazione, sarà talora più agevole — ma non, ad esempio, per il danno biologico, la cui liquidazione conosce affinati automatismi — senza che ciò comporti, però, una strutturale differenza tra l'una e l'altra figura.

La funzione consolatoria-satisfattiva.

La tesi della funzione consolatoria-satisfattiva condivide con quella della funzione sanzionatoria, di cui si parlerà dopo, nella sua versione tradizionale, l'idea della incommensurabilità del danno non patrimoniale e del risarcimento in denaro. Attraverso la tesi dell'incommensurabilità si perviene all'affermazione che il risarcimento, lungi dal determinare il riequilibrio dello stato di fatto creatosi per effetto dell'illecito aquiliano, avrebbe la diversa funzione di mettere in condizioni il danneggiato di procurarsi sensazioni piacevoli tali, appunto, da consolarlo ovvero arrecargli soddisfazione a fronte del male subito: «È vero che non è possibile pagare in denaro le ansie, i dolori patiti, le affezioni perdute, ma non è inesatto dire che il danaro sia capace di produrre altri conforti e rendere meno gravi le conseguenze del dolore sofferto. Non si tratta di dare al danneggiato gli identici beni che ha perduti, ma di far nascere in lui una nuova sorgente di felicità e di benessere, capace di alleviare le conseguenze del dolore, del male, che ha ricevuto. Il danaro in questi casi non è un corrispettivo equivalente in quantità e qualità al bene perduto, ma è un mezzo per ottenere soddisfazioni piacevoli in cambio delle dolorose, ingiustamente provate» (Minozzi, 1909, 65). In breve, il danneggiato dovrebbe poter godere attraverso il denaro altrettanto quanto ha sofferto in conseguenza dell'illecito. In altri termini si è detto che la lesione dell'interesse del danneggiato può avere conseguenze dannose «non suscettibili di una diretta valutazione patrimoniale (ad es. dolori, sacrificio di affetti, dispiacere per una offesa ingiusta, e così via). Non si potrà avere quindi una reintegrazione in forma specifica o per equivalente, ma solo una compensazione indiretta, e in casi previsti specificatamente (il c.d. risarcimento dei danni morali)» (Nicolò, 1962, 100).

In giurisprudenza la funzione consolatoria-satisfattiva, come contrapposta a quella punitivo-afflittiva, è talvolta presa espressamente a parametro di verifica della corretta liquidazione del danno non patrimoniale: «È in particolare irrilevante, in relazione alla funzione consolatoria-satisfattiva della corresponsione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a lesioni personali derivate da sinistro stradale riconducibile ad un fatto costituente reato, la considerazione dello stato di «bisogno del danneggiato» e, ancor di più, della «capacità patrimoniale dell'obbligato», che potrebbe logicamente correlarsi solo ad una finalità prevalentemente «punitiva» del risarcimento in relazione al particolare disvalore sociale della condotta cui l'evento si ricollega, da escludersi in caso di lesioni personali colpose» (Cass. n. 10024/1997).

La relazione tra le funzioni consolatoria-satisfattiva e punitivo-afflittiva, ma anche tra la prima e quella compensativa, emerge parimenti dalla pronuncia che segue, la quale assegna al risarcimento del danno non patrimoniale il compito di procurare al danneggiato «un'utilità sostitutiva delle sofferenze morali e psichiche ricevute» (Cass. n. 1633/2000). Da un lato si rammenta che il risarcimento del danno non patrimoniale non risponde ad una funzione sanzionatoria e, dall'altro lato, si evidenzia che esso neppure può, per l'impossibilità del risultato, avere funzione reintegratoria delle sofferenze morali e dei torti giuridici subiti. Ecco perché il risarcimento del danno non patrimoniale viene rappresentato come utilità sostitutiva: «Quanto poi allo scarso peso che ... sarebbe stato attribuito dai giudici del merito alle condizioni economiche del responsabile del sinistro ai fini del riconoscimento di un maggior danno morale che incidendo sul suo patrimonio finisse con l'assolvere anche ad una funzione punitiva ritiene questa Corte che l'impugnata sentenza, che ha conferito al parametro del reddito dell'investitore un ruolo complementare e non prevalente nell'ambito di una funzione non punitiva ma satisfattiva della liquidazione del danno morale, non si sia per nulla discostata dal preciso orientamento del Supremo Collegio e non meriti l'esposta censura. Come esattamente osservato nella parte motiva, infatti, il risarcimento del danno morale — per pacifica giurisprudenza — soddisfa all'esigenza di assicurare al danneggiato un'utilità sostitutiva delle sofferenze morali e psichiche ricevute. Ed è perciò irrilevante, come ribadito da questa Corte anche in successive pronunce (v. tra le altre Cass. n. 10024/1997) la considerazione della capacità patrimoniale dell'obbligato che potrebbe correlarsi unicamente ad una finalità prevalentemente punitiva del risarcimento in relazione al particolare disvalore sociale della condotta cui l'evento si ricollega. L'indennizzo infatti non ha e non può avere funzione reintegrativa delle sofferenze morali e dei torti giuridici subiti potendo solo soddisfare l'esigenza di assicurare al danneggiato un'adeguata riparazione come “utilità sostitutiva”» (Cass. n. 1633/2000).

A questa impostazione, che vede aderire in dottrina diversi autori, pur con talune sfumature, e che possiede numerosi addentellati in giurisprudenza (oltre alle pronunce appena citate v. Cass. n. 6404/1998; Cass. n. 4947/1985; Cass. n. 2063/1975; Cass. n. 820/1970; Cass. n. 2336/1964; Cass. n. 1468/1961), si è replicato che essa muove da un'impostazione in sé contraddittoria: difatti, una volta riconosciuto il principio dell'incommensurabilità del danno non patrimoniale mediante il denaro, diviene inspiegabile il meccanismo, sia pure equitativo, attraverso cui pervenire ad un qualche bilanciamento tra il pregiudizio patito dal danneggiato e la somma necessaria a procurargli quei piaceri tali da ripagarlo. Ed inoltre si è pure sottolineato che la menzionata costruzione: a) non avrebbe senso in mancanza di ogni considerazione, non prevista dall'ordinamento, delle condizioni economiche del danneggiato, il quale, indipendentemente da ogni risarcimento, potrebbe essere più o meno ampiamente in grado di procurarsi le utilità sostitutive in questione; b) non sarebbe idonea a spiegare il risarcimento del danno non patrimoniale in favore delle persone giuridiche, riguardo alle quali non appaiono configurabili le medesime sensazioni piacevoli sostitutive della perdita non patrimoniale subita; c) risulterebbe parimenti inidonea a spiegare il fenomeno del risarcimento simbolico, tale da appagare talvolta il danneggiato senza procurargli però nulla di concreto.

Sembra potersi ulteriormente osservare, in proposito, che il delinearsi della funzione consolatoria-satisfattiva del risarcimento del danno non patrimoniale si è presentata nel quadro dell'identificazione di quest'ultimo con il solo danno morale soggettivo. È cioè, in detta prospettiva, la sofferenza interiore con cui il danno morale si identifica — come tale giudicata insuscettibile di valutazione economica — a dettare l'esigenza di un proporzionale procacciamento di piaceri. Ma, in effetti, quella identificazione è oggi del tutto superata, giacché «il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona» (Cass. n. 8828/2003). Il danno non patrimoniale, dunque, si suddivide, dopo la svolta del 2003, nelle tre sotto-voci del danno biologico, del danno esistenziale e del danno morale soggettivo (Cass. S.U., n. 6572/2006).

Sicché viene a mancare finanche il presupposto logico attraverso cui giustificare la creazione del binomio dolore-piacere mediato dal risarcimento del danno non patrimoniale. Il che, concludendo sul punto, non esclude affatto che il danneggiato possa col denaro del risarcimento procurarsi piaceri che più gli aggradano: ma significa soltanto che non sembra possibile stabilire una relazione istituzionale, rilevante sul piano della funzione, tra risarcimento del danno non patrimoniale e consolazione-soddisfazione del danneggiato.

La funzione sanzionatoria.

Un'opinione assai diffusa è quella che attribuisce al risarcimento del danno non patrimoniale una funzione strettamente punitivo-afflittiva o sanzionatoria: perciò nella prospettiva esaminata la stessa espressione «risarcimento» dovrebbe aggiudicarsi erroneamente impiegata, non essendovi una perdita da contrastare attraverso il risarcimento, ma una condotta lesiva da sanzionare. Alla radice di quest'opinione — che, per questo aspetto, presenta punti di contatto con la tesi secondo cui il risarcimento del danno non patrimoniale avrebbe funzione consolatoria-satisfattiva — sta l'idea che il pregiudizio non patrimoniale non possa mai essere tradotto in denaro. Mentre il risarcimento del danno patrimoniale avrebbe la funzione esclusiva di ripristinare la sfera patrimoniale del danneggiato, giacché per danno «si intende la diminuzione del patrimonio, il quale per via del risarcimento deve essere reintegrato» (Chironi, 1906, 311), il risarcimento del danno non patrimoniale — insuscettibile di essere monetizzato se non al prezzo dell'immoralità insita nella mercificazione del valore umano — perseguirebbe l'esclusivo scopo di colpire il danneggiante entro i ristretti limiti consentiti dall'art. 2059 c.c. nella sua tradizionale ed ormai superata lettura.

È stato già osservato che una simile distinzione, quanto meno in termini di così marcata nettezza, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale è con tutta probabilità frutto di una forzatura. E però occorre rammentare il contenuto della relazione del Guardasigilli al codice civile: «Circa il risarcimento dei danni cosiddetti morali, ossia circa la riparazione o compensazione indiretta di quegli effetti dell'illecito che non hanno natura patrimoniale, si è ritenuto di non estendere a tutti la risarcibilità o la compensabilità, che l'art. 185 dc.p. pone soltanto per i reati. La resistenza della giurisprudenza a tale estensione può considerarsi limpida espressione della nostra coscienza giuridica. Questa avverte che soltanto nel caso di reato è più intensa l'offesa all'ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una più energica repressione con carattere anche preventivo. Il nuovo codice si è perciò limitato a dichiarare che il danno non patrimoniale deve essere risarcito (in senso largo) solo nei casi determinati dalla legge, presente o futura, e nelle forme, eventualmente diverse da una indennità pecuniaria, da essa stabilite (art. 2059 c.c.)» (Relazione del Guardasigilli al codice civile, n. 803). Il testo che precede contiene dunque una distinzione terminologica, quella tra risarcimento e riparazione, destinata ad essere spesso accolta tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza. La stessa pronuncia che ha inaugurato il mutamento di indirizzo della S.C. in tema di danno non patrimoniale ripete che la disciplina aquiliana avrebbe tratto, al riguardo, «ad un risarcimento (o meglio: ad una riparazione)» (Cass. n. 8828/2003). Ebbene, traendo argomento dalle osservazioni contenute nella Relazione è stato sostenuto da più parti, in buona sostanza, che il risarcimento del danno non patrimoniale avrebbe natura di pena privata, giustificata dall'esigenza di colpire le condotte maggiormente riprovevoli, in quanto rilevanti anche sul piano penale. Conferma dell'impostazione è stata sovente tratta dalla sentenza Dell'Andro, la quale — a ben vedere — afferma però qualcosa di ben diverso, ossia che la funzione sanzionatoria, lungi dall'esaurire i compiti della responsabilità civile nel suo complesso, può convivere con quella risarcitoria: «Certo, ritenere che la responsabilità civile abbia carattere esclusivamente o prevalentemente sanzionatorio sarebbe oggi infondato oltre che antistorico. Ma dopo l'attenta lettura della precitata relazione ministeriale al codice civile è impossibile negare o ritenere irrazionale che la responsabilità civile da atto illecito sia in grado di provvedere non soltanto alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato ma fra l'altro, a volte, anche ed almeno in parte, ad ulteriormente prevenire e sanzionare l'illecito, come avviene appunto per la riparazione dei danni non patrimoniali da reato. Accanto alla responsabilità penale (anzi, forse meglio, insieme ed «ulteriormente» alla pena pubblica) la responsabilità civile ben può assumere compiti preventivi e sanzionatori. Né può essere vietato al legislatore ordinario, ai fini ora indicati, prescrivere, anche a parità di effetto dannoso (danno morale subiettivo) il risarcimento soltanto in relazione a fatti illeciti particolarmente qualificati e, più di altri, da prevenire ed ulteriormente sanzionare. E per giungere a queste conclusioni non è neppur necessario aderire alla tesi che sostiene la natura di pena privata del risarcimento del danno non patrimoniale, essendo sufficiente sottolineare la non arbitrarietà d'una scelta discrezionalmente operata, nei casi più gravi, d'un particolare rafforzamento, attraverso la riparazione dei danni non patrimoniali, del carattere preventivo e sanzionatorio della responsabilità penale» (Corte cost. n. 184/1986).

La tesi secondo cui il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, ex art. 2059 c.c. avrebbe funzione punitivo-afflittiva, poi, non ha mancato di riscuotere consensi nella giurisprudenza. Si trova così affermato che «ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale l'accertamento della responsabilità esclusiva non è inconciliabile con la valutazione del grado di colpa, nel senso (inteso dall'art. 133 n. 3 c.p.) di gravità della stessa, e quindi, non preclude al giudice di determinare, anche in rapporto alla gravità della colpa, l'equivalente pecuniario di questa specie di danno» (Cass. n. 13336/1999). Ovvero il risarcimento del danno morale si trova espressamente qualificato come «sanzione civile» (Cass. n. 11741/1998; Cass. n. 2367/2000). Numerose, poi, le pronunce che ancorano la liquidazione del danno morale alla «gravità del reato» (Cass. n. 15568/2000; Cass. n. 14752/2000; Cass. n. 2272/1998; Cass. n. 5944/1997; Cass. n. 5387/1980; Cass. n. 3114/1978; Cass. n. 3856/1977). E la possibilità che il risarcimento del danno non patrimoniale abbia funzione punitiva, sia pure accanto a quella satisfattiva e dissuasiva, è espressamente riconosciuto anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Roma 24 novembre 1992, in Dir inf e inf., 1993, 403).

Gli approdi dell'indagine dottrinale, unitamente all'assetto della giurisprudenza, sono stati dunque sintetizzati nell'opinione che segue, confermativa della riconducibilità del risarcimento del danno non patrimoniale alla nozione di pena privata: «Secondo alcuni in dottrina il danno non patrimoniale sarebbe una voce di danno da risarcire al pari di tutte le altre; secondo altri il risarcimento del danno non patrimoniale avrebbe una funzione satisfattiva, nel senso cioè che la devoluzione di una somma di denaro contribuirebbe ad alleviare il dolore causato dalla lesione; altri ancora non esitano a ritenere che il risarcimento del danno non patrimoniale integri gli estremi di una vera e propria pena privata. Quest'ultima soluzione sembrerebbe del resto trovare conferma, oltre che nelle indubbie difficoltà a quantificare in qualche modo il dolore, il patema d'animo, e così via, nei criteri utilizzati dai giudici al fine di determinare l'entità dell'obbligazione risarcitoria e/o sanzionatoria. In materia di danni non patrimoniali si fa infatti sovente riferimento non alla gravità della lesione, ma anche al grado della colpevolezza del responsabile dell'illecito, nonché ancora alla sua condizione patrimoniale o all'arricchimento realizzato mediante il fatto ingiusto. Il grado di colpevolezza del responsabile della lesione nonché ancora l'entità dell'arricchimento realizzato mediante fatto ingiusto sono ovviamente circostanze che a rigor di logica esulano da un mero problema di accertamento della reale entità dei danni effettivamente inferti, e che quindi sono un chiaro sintomo del fatto che si è ormai varcata la linea di demarcazione tra semplice risarcimento e pene private» (Gallo, 1996, 96).

A confutazione della tesi che attribuisce al risarcimento del danno morale funzione esclusivamente punitivo-afflittiva sono stati avanzati molteplici argomenti: a) si è osservato che essa si fonda su un errore di prospettiva, dal momento che pone al centro del sistema il danneggiante, mentre la disciplina del risarcimento del danno aquiliano ruota intorno alla figura della vittima; b) si è aggiunto che il risarcimento del danno non patrimoniale non può spiegarsi con la sua funzione punitivo-afflittiva sol che si consideri come il risarcimento sia dovuto anche dal non imputabile ovvero per un fatto penalmente non perseguibile, ad esempio per mancanza di querela ovvero per prescrizione; c) si è sottolineata l'incompatibilità della costruzione in esame con l'attribuzione della responsabilità risarcitoria, ricorrente nelle ipotesi di responsabilità per fatto altrui, non all'autore del danno, ma al responsabile civile; d) si è ulteriormente chiarito che la funzione punitivo-afflittiva neppure si armonizza con l'ampliamento del campo di applicazione della responsabilità oggettiva, la quale, evidentemente, prescinde da ragioni di biasimo nei confronti del danneggiante; e) si è posto l'accento sulla ricorrenza di diverse ipotesi normative, anche di larga applicazione, le quali contemplano la risarcibilità del danno non patrimoniale (basti considerare la c.d. legge Pinto in tema di irragionevole durata dei processi) al di fuori della sussistenza di una condotta sia pure astrattamente criminosa.

La giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni negato la funzione punitivo-afflittiva del risarcimento del danno non patrimoniale. In una pronuncia la quale ha escluso la compatibilità dei punitive damages con l'ordinamento interno si trova ad esempio affermato che: «Errata è da ritenere qualsiasi identificazione o anche solo parziale equiparazione del risarcimento del danno morale con l'istituto dei danni punitivi. Il danno morale corrisponde ad una lesione subita dal danneggiato e ad essa è ragguagliato l'ammontare del risarcimento. Nell'ipotesi del danno morale, infatti, l'accento è posto sulla sfera del danneggiato e non del danneggiante: la finalità perseguita è soprattutto quella di reintegrare la lesione, mentre nel caso dei punitive damages, come si è visto, non c'è alcuna corrispondenza tra l'ammontare del risarcimento e il danno effettivamente subito. Nel vigente ordinamento l'idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato, ma occorre altresì la prova dell'esistenza della sofferenza determinata dall'illecito, mediante l'allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi in re ipsa» (Cass. n. 1183/2007).

In effetti, al di là dei senz'altro fondati rilievi critici fin qui riassunti, sembra da ritenere che la tesi della funzione punitivo-afflittiva del risarcimento del danno non patrimoniale, intesa come funzione esclusiva o prevalente, dipendente dall'irriducibilità a denaro delle poste di danno di natura personale, sia ormai divenuta comunque anacronistica. Basti osservare, in proposito, che la «svolta» del 2003, con le «sentenze gemelle» (Cass. n. 8828/2003), seguite dal giudice delle leggi (Corte cost. n. 233/2003) non ha fatto altro che scardinare la regola del reato, sottraendo il risarcimento del danno non patrimoniale — attraverso il rinvio ai diritti della persona dotati di rilievo costituzionale ai sensi, anzitutto, della norma «aperta» dettata dall'art. 2 Cost. — al principio di tipicità precedentemente fissato dall'art. 2059 c.c.. Ciò sta a significare che, oggi, la risarcibilità della danno non patrimoniale non è collegata, neppure mediatamente, alla particolare riprovevolezza della condotta del danneggiante, bensì al rilievo dell'interesse del danneggiato colpito dalla condotta lesiva: il che consente ormai di escludere che il risarcimento del danno non patrimoniale possa rispondere ad un'esigenza esclusiva o prevalente di tipo punitivo-afflittivo.

Questa conclusione, tuttavia, non sta affatto a significare che il risarcimento in questione, ed anzi l'intero sistema della responsabilità civile, non manifesti, in determinati frangenti, anche una funzione punitiva collocata accanto a quella principale risarcitoria.

Prospettive della funzione sanzionatoria.

Sembra dunque utile qualche ulteriore considerazione sulla funzione sanzionatoria. La conclusione raggiunta si riassume nell'affermazione che il risarcimento del danno non patrimoniale è principalmente espressione della medesima funzione compensativa — salvo ipotetiche differenze tutto sommato non decisive — svolta dal risarcimento del danno patrimoniale. Si è così escluso che il risarcimento del danno non patrimoniale abbia una funzione punitiva esclusiva o prevalente. E si è parimenti negato che essa possegga una esclusiva funzione consolatoria-satisfattiva, quantunque nulla impedisca al danneggiato di consolarsi-soddisfarsi col denaro intascato a titolo di risarcimento.

Non si può tuttavia escludere che il risarcimento del danno non patrimoniale — come il risarcimento del danno patrimoniale, del resto — non possa avere anche una funzione sanzionatoria accanto a quella principale, risarcitoria. Si leggano anzitutto le considerazioni che seguono, riservate al tema della risarcibilità del danno non patrimoniale. Esse sono state scritte in un'epoca che non conosceva le regole del «politicamente corretto»: «In tanta morbosa sensibilità pei ladri, pei sicari, per gli aggressori, che trovano nelle scusanti prevedute dai codici, nelle agevolazioni di regimi carcerari, nella cura dei manicomi criminali, tanto larga, generosa, intelligente, sagace e precisa valutazione dei loro sentimenti, è deplorevole la noncuranza nella quale si vogliono abbandonare i sentimenti offesi, conculcati, distrutti, della gente onesta. Il patema d'animo d'un colpevole deve essere calcolato in tutti i gradi, della sua origine, nella sua manifestazione, nella sua cura; quello d'una vittima d'un delitto deve essere negletto, abbandonato, respinto. Ciò vale calunniare il legislatore e calpestare ogni sentimento di giustizia bene intesa» (Brasiello, 194).

Il tema della funzione sanzionatoria richiama immediatamente la figura dei punitive damages. Molte autorevoli voci diffidano dall'impiego, presso di noi, dell'espressione «danni punitivi» quale equivalente di punitive damages, ossia i «damages exceeding simple compensation and awarded to punish the defendant». Ma, «damages», significa in realtà «indennizzo», «risarcimento»: nei sistemi di common law non indica il «danno», il pregiudizio sofferto dalla vittima di un illecito, bensì la somma di denaro al cui pagamento l'autore dell'illecito è tenuto nei confronti della vittima: the sum of money the law imposes for a breach of some duty or violation of some right. Diremmo insomma che «danni punitivi» è una traduzione in certo qual modo ingannevole di «punitive damages» e che una traduzione più corretta sarebbe semmai «risarcimento punitivo».

I punitive o exemplary damages consistono nel riconoscimento al danneggiato, prevalentemente in ipotesi di tort, ossia di responsabilità extracontrattuale, di una somma ulteriore rispetto a quella necessaria a compensare il danno subito (compensatory damages), qualora il danneggiante abbia agito con malice (dolo) o gross negligence (colpa grave). Il danneggiato, in definitiva, non soltanto riceve una compensazione pari alla perdita subita per effetto del danno inferto, ma si arricchisce conseguendo una somma che va al di là, e spesso ben al di là, del pregiudizio effettivamente patito. A fronte di una condotta particolarmente riprovevole, perché soggettivamente caratterizzata da dolo, mala fede o colpa grave, l'ordinamento reagisce dunque in modo più severo di quanto non farebbe dinanzi alla semplice colpa lieve, e ciò ad un duplice scopo di prevenzione generale e speciale (deterrence) nonché di adeguata punizione del responsabile: in ossequio cioè ad una specifica funzione punitivo-afflittiva del congegno risarcitorio così intenso. Ora, il modello dei punitive o exemplary damages non è nato in Inghilterra, e neppure negli Stati Uniti, ma affonda le sue radici — com'è stato osservato — già nel diritto romano delle origini, nel quale «la responsabilità civile era concepita in primo luogo come strumento sanzionatorio per la tutela di situazioni giuridiche rilevanti». L'actio furti, l'iniuria, il damnum iniuria datum davano luogo all'irrogazione di sanzioni civili sostitutive di quelle penali, all'origine circoscritte al solo campo degli illeciti contro lo Stato e contro la pace del Regno: non ne discendeva il semplice risarcimento del danno ma l'attribuzione di una somma calcolata come multiplo, fino al quadruplo, dell'importo necessario a compensare la lesione.

Di qui, nel corso dei secoli, il sistema della responsabilità civile si è evoluto secondo direttrici diverse nei paesi che oggi definiamo di common law ed in quelli di civil law. In questi ultimi, e dunque anche in Italia, si manifesta una tendenza — riassunta nella formula «secolarizzazione» della responsabilità civile — alla sempre più netta separazione tra il mondo del diritto penale e quello del diritto civile, separazione che, in Italia, è incontrovertibilmente testimoniata in tempi recenti dalla definitiva scomparsa della pregiudizialità penale e, da ultimo, dall'affermarsi, nel campo civile, di una regola concernente il nesso di causalità materiale — quella del «più probabile che non» — radicalmente difforme dalla analoga regola operante in materia penale.

Insomma, è ampia e radicata, negli ordinamenti di civil law, la tendenza, che nel corso del tempo ha accompagnato l'evoluzione del sistema della responsabilità civile, a risolvere «il dilemma risarcimento-punizione» nel senso del primo indirizzo.

La situazione degli ordinamenti di common law è totalmente diversa. In Inghilterra sono documentate già dal 13º secolo condanne in duplum, ad esempio per il tort di trespass, volto a tutelare l'inviolabilità della persona e delle cose da questo possedute contro ogni offesa ed interferenza fisica da parte di terzi. Dopodiché, nel Regno Unito, risale al 1763 la prima applicazione dei punitive damages nel caso Hukle v. Money: un tipografo era stato arrestato senza motivo e trattenuto per circa sei ore, sicché, sebbene fosse stato per il resto trattato in modo civile e rispettoso, ottenne una condanna al pagamento di £ 300, di gran lunga superiore all'entità del danno effettivamente subito. Dello stesso anno è il caso Wilkes v. Wood: la casa dell'editore di un giornale era stata perquisita ingiustamente, questi agì in trespass ed ottenne parimenti il riconoscimento di punitive damages.

Nella stessa area, tuttavia, lo spazio dei punitive damages si è in seguito sensibilmente contratto a causa dei limiti imposti dalla House of Lords nel caso Rookes v. Barnard, del 1964, con cui è stato chiarito che i danni punitivi possono essere riconosciuti solo: a) nel caso di violazione grave di diritti fondamentali da parte dell'amministrazione dello Stato; b) nel caso in cui il danneggiante abbia agito intenzionalmente al fine di conseguire un guadagno ingiusto, sempre che l'applicazione dei compensatory damages non sia sufficiente a riequilibrare la situazione; c) nei casi previsti dalla legge.

Negli Stati Uniti il principio dei punitive damages fu assunto a precedente giudiziario nel 1791, nel caso Coryell v. Colbought. Talora i risultati dell'applicazione degli punitive damages sono eufemisticamente discutibili, in particolare nelle controversie etichettate come frivolous lawsuit. Nel caso Liebeck v. McDonald's Restaurants del 1994, ad esempio, una anziana donna ottiene un risarcimento del danno prossimo ai 3 milioni di dollari perché il caffè che le era stato servito era troppo caldo. In effetti, il caso non è così ridicolo come potrebbe apparire sulla base del sommario riassunto che ne ho fatto: il caffè aveva una temperatura di quasi 90°, e la donna, che era in macchina, aveva poggiato il bicchiere tra le ginocchia e lo aveva aperto per aggiungere dello zucchero, sicché il caffè si era rovesciato e le aveva provocato ustioni di terzo grado con conseguente — diremmo noi — danno biologico tutt'altro che trascurabile. Ma, certo è che la somma riconosciuta dalla giuria, pur ridotta poi dal giudice a $ 640.000, era enormemente sproporzionata rispetto al pregiudizio (ed infatti la donna aveva chiesto $ 20.000), tanto più che, secondo la stessa giuria, il fatto si era verificato in concorso di colpa della danneggiata, che si era rovesciata il caffè addosso.

Sta di fatto che negli ultimi 20 anni la Corte Suprema degli Stati Uniti è intervenuta più volte sui punitive damages, fissando argini sempre più stringenti alla loro applicazione.

Nel caso BMW of North America, Inc. v. Gore, del 1996 (era emerso che la Bmw vendeva come intatte autovetture che durante il trasporto avevano subito modesti danni alla carrozzeria, dietro riparazioni approssimative, senza informare gli acquirenti), la Corte Suprema ha affermato l'incostituzionalità del riconoscimento di punitive damages che siano «grossly excessive».

Nel caso State Farm Mutual v. Campbell, del 2003 (si trattava, diremmo noi, di una condotta di mala gestio da parte di un assicuratore, a seguito di un sinistro stradale), la Corte Suprema ha «riformato» la decisione che aveva quantificato i punitive damages in 145 milioni di dollari, ossia in 145 volte i compensatory damages, intervenendo a perimetrare in modo chiaro e restrittivo i criteri necessari a rendere costituzionalmente compatibile la loro applicazione: la decisione conferma, in particolare, la funzione deterrente dei danni punitivi, ma allo stesso tempo privilegia il collegamento della liquidazione ai fatti di causa ed ai danni realmente patiti dall'attore.

Nel caso Philip Morris USA v. Mayola Williams, del 2007 (si trattava di 79,5 milioni di dollari dovuti a titolo di danni punitivi per aver negligentemente e con inganno causato la morte del marito della ricorrente, in seguito alla produzione e commercializzazione di sigarette) la Corte Suprema ha richiamato la propria precedente giurisprudenza secondo cui «i danni punitivi possono essere propriamente imposti per realizzare un legittimo interesse dello stato a punire una condotta illegittima e disincentivare la sua ripetizione», precisando allo stesso tempo che si deve «evitare una determinazione arbitraria del loro ammontare». La due process clause (XIV emendamento) impone — secondo tale indirizzo — alcuni limiti alla comminazione dei danni punitivi. Dal punto di vista sostanziale, sono incostituzionali i danni punitivi «largamente eccessivi», e cioè quelli non congruenti rispetto ai criteri della riprovevolezza della condotta, del rapporto tra il danno reale e potenziale causato al ricorrente, dell'ammontare delle somme corrisposte in casi analoghi. Dal punto di vista procedurale, quello immediatamente rilevante nel caso esaminato, «la due process clause vieta ad uno stato di usare una condanna al pagamento di danni punitivi per punire il convenuto con riferimento ad un danno cagionato a chi non è parte nel processo o a chi non è direttamente rappresentato dalla parte ... cioè a chi è, essenzialmente, estraneo alla controversia processuale».

Così stando le cose, un trapianto dei punitive damages, sic et simpliciter, in Italia sia all'evidenza impraticabile. E ciò non soltanto perché, a differenza di quanto accade da noi, la decisione è presa negli Stati Uniti dalla giuria, ossia da una personificazione del popolo, che può come tale irrogare la sanzione che ritiene, senza dover motivare. Si è detto poc'anzi che una traduzione corretta della formula punitive damages, più che «danni punitivi», può essere «risarcimento punitivo». Ma «risarcimento punitivo», se inteso nel senso di risarcimento ultracompensativo, è un ossimoro, perché il danno da risarcire è per noi nient'altro che la «perdita» alla quale si riferisce, unitamente al «mancato guadagno», l'art. 1223 c.c., applicabile nel campo aquiliano per il tramite dell'art. 2056 c.c. Il nostro modello risarcitorio, cioè, si colloca in pieno nella tradizione «differenzialista», alla luce della quale il danno altro non è — in breve — che la differenza tra il prima e il dopo l'illecito. D'altro canto, se si pensa all'art. 2058 c.c., secondo cui il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, ma il giudice può negarla, e disporre che il risarcimento avvenga per equivalente, se la reintegrazione risulta eccessivamente onerosa, sembra potersi arguire che la reintegrazione in forma specifica costituisca un limite del risarcibile aquiliano. In definitiva i punitive damages sono insuscettibili «di essere trasposti nell'esperienza italiana».

Questo non vuol dire che possano essere condivise le passate decisioni della S.C. in materia di danni punitivi. Nel 2007 la S.C. è chiamata ad esaminare una decisione della corte d'appello di Venezia che aveva respinto una domanda di delibazione di una sentenza statunitense che recava il riconoscimento di punitive damages per un milione di dollari. Si trattava di una controversia in materia di products liability introdotta dalla madre di un motociclista deceduto a causa di un sinistro stradale reso letale per il fatto che, a seguito della caduta, egli aveva perduto il casco a causa della rottura della fibbia di chiusura, prodotta da una società italiana.

Dice in proposito la Corte di cassazione, in una sentenza che un chiaro autore ha definito «sciattamente perentoria e supponentemente apodittica»: «Nel vigente ordinamento l'idea della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tende ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato, ma occorre altresì la prova dell'esistenza della sofferenza determinata dall'illecito» (Cass. n. 1183/2007).

Il successivo caso è del 2012. Si tratta nuovamente di products liability: una lavoratrice che aveva subito gravi lesioni fisiche a causa del mal funzionamento di un macchinario prodotto in Italia si era vista riconoscere un risarcimento di 5 milioni di dollari, senza, tuttavia, che la decisione facesse riferimento alcuno ai punitive damages. In questo caso la corte d'appello di Torino aveva accolto la domanda di riconoscimento della sentenza, ma la pronuncia è stata cassata con l'affermazione del principio: «Nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non é riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive — restando estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta — ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l'arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro. E quindi incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto dei danni punitivi» (Cass. n. 1781/2012).

Ora, dire che il risarcimento del danno, ed ancor più la responsabilità civile nel suo complesso, si muove esclusivamente sul binario della compensazione, restando estranea al sistema l'idea della punizione, non convince, secondo quanto si è in precedenza osservato.

In effetti il tema si collega a quello del dogma dell'equivalenza dolo-colpa, il quale si fonda sulla lettera dell'art. 2043 c.c., che richiede indifferentemente per la sussistenza dell'illecito l'uno o l'altro requisito, senza apparentemente riconnettere alla coloritura soggettiva della condotta alcun rilievo. Il dogma dell'equivalenza dolo-colpa si interseca con quello dei punitive damages: se il nostro ordinamento non distingue tra l'uno e l'altro elemento soggettivo, neppure ha senso immaginare trattamenti differenziati a seconda che la condotta dell'agente sia o no particolarmente riprovevole.

Per la verità, almeno fino a qualche anno fa, la funzione sanzionatoria della responsabilità civile era testimoniata ampiamente dall'art. 2059 c.c., il quale contemplava il risarcimento del danno non patrimoniale, eventualmente in aggiunta a quello patrimoniale, soltanto in caso di condotte sensibilmente gravi e riprovevoli, quali quelle che integravano gli estremi del reato. Ed ancora, nello stesso senso del riconoscimento di una concorrente funzione sanzionatoria della responsabilità civile, sembra potesse richiamarsi l'indirizzo ampiamente diffuso che, in caso di lesione di diritti della personalità, discorreva di danno in re ipsa. La svolta del 2003-2008 ha sotto quest'aspetto segnato un punto contro la funzione sanzionatoria, per un verso «abrogando» di fatto l'art. 2059 c.c., per altro verso aderendo, peraltro condivisibilmente, ad una prospettiva strettamente consequenzialialista, in forza della quale il danno risarcibile non è mai in re ipsa, giacché esso consiste nelle ricadute, patrimoniali o non patrimoniali, che si verificano a valle della lesione dell'interesse protetto.

E tuttavia vi è indubbiamente una vasta area di illeciti in cui la colpa (levis) non basta, ma occorre il dolo o la colpa grave. Questo punto non può essere posto in dubbio, è la legge che lo stabilisce. Basti pensare: i) alla responsabilità del giudice: «Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali» (art. 2, comma 1, l. 13 aprile 1988, n. 117, recentemente novellata);

-) alla responsabilità degli arbitri, che parimenti rispondono dei danni cagionati alle parti con dolo o colpa grave (art. 813 ter c.p.c.); ii) alla responsabilità del cancelliere e dell'ufficiale giudiziario, che «sono civilmente responsabili quando hanno compiuto un atto nullo con dolo o colpa grave» (art. 60, n. 1, c.p.c.); iii) alla responsabilità del consulente di cui all'art. 64 c.p.c., prevalentemente interpretato nel senso che anche il consulente risponde solo per colpa grave (v. p. es. in motivazione Cass. n. 15646/2003); iv) alla responsabilità dei pubblici dipendenti, riguardo ai quali occorre ricordare che: «È danno ingiusto ... quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave» (art. 23 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3); v) alla responsabilità del proprietario del suolo in caso di accessione, ai sensi dell'art. 935 c.c.: egli, in ipotesi di opere fatte con materiali altrui, deve il risarcimento dei danni solo se è in colpa grave; vi) alla responsabilità per il caso di unione e commistione, ai sensi del terzo comma dell'art. 939 c.c.; vii) alla responsabilità processuale aggravata prevista dall'art. 96 c.p.c., di cui parlerò tra breve; viii) alla responsabilità del querelante prevista dall'art. 427 c.p.p., secondo il quale: «Se vi è colpa grave, il giudice può condannare il querelante a risarcire i danni all'imputato e al responsabile civile che ne abbiano fatto domanda».

D'altronde, il dogma dell'equivalenza di dolo e colpa trova precise smentite già sul piano generale. Traccia fondamentale di ciò si rinviene, anzitutto, nell'art. 1227, comma 1, c.c., ossia in una disposizione che chiama in causa la gravità della colpa ascrivibile al danneggiato come criterio per la diminuzione del risarcimento dovuto: il che simmetricamente mostra che il residuo risarcimento riconosciuto è parametrato al grado della colpa ascrivibile al danneggiante.

Vi è d'altro canto un ampio numero di casi in cui l'ordinamento — diremmo in controtendenza rispetto al movimento che vede il sistema della responsabilità civile affrancarsi dalla sua origine e discendenza sanzionatoria — pone a carico del danneggiante pene private derivanti dall'illecito civile: pene private che, cioè, si risolvano nella condanna al pagamento di una somma in favore della vittima priva di effettiva correlazione con il pregiudizio subito. Esse, a seconda dei casi, si cumulano, si integrano o si sostituiscono al risarcimento.

Ed infatti: i) l'art. 12 l. 8 febbraio 1948, n. 47 (c.d. legge sulla stampa) prevede che, ove l'articolista commetta il reato di diffamazione a mezzo di stampa, la persona offesa possa richiedere, «oltre il risarcimento dei danni», anche «una somma a titolo di riparazione», alla quale viene pacificamente riconosciuta natura sanzionatoria, commisurata «alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato»; ii) l'art. 70 disp. att. c.c., modificato dalla riforma del condominio, stabilisce che il regolamento condominiale può prevedere, a carico del condomino che incorra nella violazione di una sua previsione ed a favore del condominio stesso, «il pagamento di una somma fino a € 200 e, in caso di recidiva, fino ad € 800», che va ad aggiungersi a quanto il condomino inottemperante è tenuto a versare al condominio e/o ad uno o più condomini e/o a terzi a titolo di risarcimento danni, secondo le regole generali; iii) il d.l. 22 settembre 2006, n. 259, convertito con modificazioni dalla l. 20 novembre 2006, n. 281, prevede che, in caso di pubblicazione da parte di mass media di documenti «illegittimamente formati» ovvero di «documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni», l'autore della pubblicazione, il direttore responsabile e l'editore sono tenuti, in solido fra loro ed a favore della vittima, ad una prestazione «a titolo di riparazione» (ma si tratta evidentemente di una sanzione), consistente in una «somma di denaro determinata in ragione di cinquanta centesimi per ogni copia stampata, ovvero da 50.000 a 1.000.000 di Euro secondo l'entità del bacino di utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico. In ogni caso, l'entità della riparazione non può essere inferiore a 10.000 Euro»: ciò, beninteso, anche se l'illecito non abbia cagionato un danno alla vittima, che può chiedere anche il «risarcimento del danno», nel qual caso «il giudice tiene conto, in sede di determinazione e liquidazione dello stesso, della somma corrisposta» ai sensi della precedente previsione; iv) il Regolamento 261/2004/CE, con riguardo ai voli in partenza da o in arrivo in un Paese dell'Unione Europea, stabilisce che, in ipotesi di «negato imbarco a passeggeri non consenzienti» ovvero di «cancellazione del volo», il vettore sia tenuto a corrispondere ai passeggeri che ne siano rimasti vittima una «compensazione pecuniaria» (è chiaro però anche qui che si tratta di una sanzione) da € 250 ad € 600; anche in questo caso se il passeggero chiede il risarcimento del danno la «compensazione pecuniaria» già menzionata «può» (quindi non necessariamente deve) essere detratta dal risarcimento; v) il titolare di un marchio, di un brevetto o di un altro diritto di «proprietà industriale» può, in caso di lesione del suo diritto, «chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante» (art. 125, comma 3, d.lgs 10 febbraio 2005, n. 30: «Codice della proprietà industriale»); ed è ancora una volta chiaro che il disgorgement of profits o retroversione degli utili, che risponde per l'appunto al principio «l'illecito non può pagare», possiede una schietta funzione deterrente-sanzionatoria e non certo compensativa; vi) una regola analoga si applica in caso di violazione del diritto di utilizzazione economica di opera tutelata dal diritto d'autore (art. 158, l. 22 aprile 1941, n. 633, recante «Protezione del diritto di autore e di altri diritti connessi al suo esercizio»); difatti la vittima dell'illecito può, almeno per quanto riguarda il «lucro cessante», optare, in luogo dell'ordinaria prestazione risarcitoria, per una prestazione sganciata dal danno effettivamente sofferto dalla vittima; vii) in un'ottica certamente non compensativa ma deterrente-sanzionatoria vanno lette talune disposizioni dettate al fine di conseguire il rispetto delle pronunce giudiziali; nel 2009, in particolare, il legislatore ha introdotto nel codice di rito l'art. 614-bis c.p.c., in forza della quale, tutte le volte in cui pronuncia la condanna ad un facere infungibile ovvero ad un non facere, il giudice, se richiesto dall'interessato, può fissare una prestazione pecuniaria che il condannato dovrà alla controparte in caso ritardo o inosservanza della pronuncia, ovvero di ritardo nella sua esecuzione, prestazione da quantificarsi in considerazione del «valore della controversia», della «natura della prestazione», del «danno quantificato o prevedibile» e di «ogni altra circostanza utile»; anche in questo caso si tratta di previsione dall'evidente finalità deterrente-sanzionatoria, non correlata ad un preciso danno, per definizione non ancora venuto ad esistenza; viii) l'art. 187-undecies d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.u.f.) prevede che, in ipotesi di «abuso di informazioni privilegiate» o di «manipolazione del mercato», la Consob possa porre a carico dell'autore del reato la «riparazione del danno cagionato dal reato all'integrità del mercato», da quantificarsi in relazione all'«offensività del fatto», alle «qualità personali del colpevole», all'«entità (...) del profitto conseguito dal reato».

Ipotesi riconducibili alla categoria delle pene private, inoltre, si rinvengono già nel codice civile: i) così nella previsione dell'art. 129 bis c.c., rubricato «Responsabilità del coniuge in mala fede e del terzo», norma che, anche a prescindere dalla prova del danno sofferto, riconosce a favore del coniuge in buona fede, una congrua indennità posta a carico del coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio; ii) così nella previsione dell'art. 1385 c.c., il quale consente che le parti stabiliscano contrattualmente che, in caso di inadempimento, la parte insoddisfatta, in alternativa all'ordinario rimedio della risoluzione del contratto, con il correlativo risarcimento del danno, possa recedere dal contratto, conseguendo una somma pari alla «caparra confirmatoria», corrisposta da una parte all'altra al momento della conclusione del contratto; iii) così nell'ipotesi della clausola penale prevista dall'art. 1382 c.c., che consente di predeterminare la prestazione che il contraente inadempiente sarà tenuto ad effettuare nei confronti dell'altra, «indipendentemente dalla prova del danno»; la già citata Cass. n. 1183/2007 afferma che la clausola penale non avrebbe carattere sanzionatorio, ma in altra occasione è stato affermato che «nel disciplinare l'istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all'autonomia delle parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una sanzione per l'inadempimento (aspetto sanzionatorio della penale), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private» (Cass. S.U. n. 18128/2005; in senso conforme Cass. n. 21066/2006; Cass. n. 10511/1999; Cass. n. 8188/2003); è d'altronde vero che la penale può essere ridotta, anche d'ufficio, dal giudice, ove il suo ammontare risulti «manifestamente eccessivo», manifestamente eccessivo però rispetto non già al danno concretamente sofferto dal creditore insoddisfatto, bensì all'interesse che il creditore aveva all'adempimento, sicché il controllo giudiziale attiene per l'appunto alla sproporzione della sua funzione sanzionatoria, non a quella risarcitoria, che non c'è; iv) così nell'ipotesi dell'art. 1224 c.c., che rimette al creditore di una prestazione pecuniaria tardivamente eseguita la scelta fra il risarcimento del danno, eventualmente eccedente la misura degli interessi legali, ed il riconoscimento degli interessi legali, senza necessità di dimostrare di aver effettivamente sofferto un danno; essendo altresì precluso al debitore inadempiente la prova dell'inesistenza di danni ovvero dell'esistenza di danni di entità inferiore.

A quest'ultimo riguardo non può mancarsi di rammentare che la tendenza dell'ordinamento è ad aggravare il trattamento riservato al debitore inadempiente, come dimostrano: a) l'art. 3, comma 3, l. 18 giugno 1998, n. 192, recante «Disciplina della subfornitura nelle attività produttive», il quale prevede che, in caso di ritardo nel pagamento dei corrispettivi pecuniari dovuti da un'impresa committente ad un'impresa subfornitrice a fronte della fornitura di beni o servizi, quest'ultima debba corrispondere interessi rapportati ad un determinato interesse praticato dalla BCE, maggiorato di otto punti percentuali; b) gli artt. 2 e 5 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, recante «Attuazione della Direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali», in caso di ritardo nei pagamenti dovuti da una pubblica amministrazione ad un imprenditore o ad un libero professionista, ovvero da un imprenditore o da un libero professionista ad un altro imprenditore o libero professionista, a fronte della fornitura di merci o della prestazione di servizi, prevede che il creditore ottenga interessi in misura ancora una volta pari ad un tasso BCE maggiorato di otto punti percentuali.

In definitiva, l'ordinamento offre plurimi indici da cui desumere l'erroneità dell'ineluttabile equiparazione tra condotte dolose, o gravemente colpose, e condotte caratterizzate da culpa levis ovvero non colpose. L'opposto atteggiamento della dottrina si spiega in ragione dell'orientamento rigorosamente oggettivista, che si è affermato a partire dagli anni '50 del secolo scorso. Ecco che cosa ci dice della funzione sanzionatoria un autore: «La terza funzione, connessa con la potestà punitiva dello Stato, si è progressivamente ridotta, nei tempi moderni, sia per l'affinarsi degli strumenti del diritto penale, sia per il prevalere, nell'ambito delle teorizzazioni dell'istituto della responsabilità civile, della tendenza risarcire il danno piuttosto che non ha colpire il danneggiato. D'altra parte, il significato morale della responsabilità per lo più richiamato ogni volta che se ne vuol riaffermare il profilo sanzionatorio, sembra, il più, addirittura anacronistico, in presenza di fenomeni di declino della responsabilità individuale che appaiono del tutto irreversibili» (Alpa, 2003, 290). Sembra paventarsi che un'attenzione eccessiva all'elemento soggettivo possa costituire un ancora di salvezza per quei danneggiamenti che il congegno della responsabilità oggettiva inchioda all'obbligazione risarcitoria: «E potrebbero ancora ricordarsi certe incomprensioni nei confronti della “colpa soggettiva”, e dello statuto formale che occorre assegnarle ex lege Aquilia: ovverossia certi proclami — anche arroganti — secondo i quali l'accertamento giudiziale della diligenza, in sede di processo civile, dovrebbe svolgersi rigorosamente in abstracto, prescindendo da attenzioni di sorta per le peculiarità psicofisiche dell'offensore. Affermazioni che sembrano emanare, per se stesse, un profumo di irresistibile modernità, quasi che oggettivo significasse automaticamente qualcosa al servizio della funzione reintegratoria, e soggettivo il contrario. Quasi, cioè, che gli obiettivi dell'orientamento soggettivista (passi per il gioco di parole!) fossero quelli di un'indulgenza programmatica verso i danneggianti handicappati o un poco sciocchi, e non invece — molto più fondatamente — quelli di una salvaguardia risarcitoria estesa alle vittime di chi, in quanto dotato dalla natura di muscoli o di intelligenza o di qualità particolari, avrebbe potuto facilmente scongiurare un evento inevitabile per altri» (Cendon, 1989, 894).

Se non è vero che la reazione dell'ordinamento è identica tanto se il danno sia stato inferto con sola colpa, quanto se sia stato inferto con dolo o colpa grave, occorre chiedersi quale spazio può, in concreto, riservarsi all'elemento soggettivo, e per questa via alla funzione deterrente-sanzionatoria, se si tiene per fermo che la responsabilità civile risponde anzitutto ad una funzione compensativa.

Il punto fondamentale è che il danno, sia sotto il profilo patrimoniale che — questo è ancor più evidente — sotto quello non patrimoniale, è ben lungi dal possedere una sua sicura consistenza oggettiva. Diceva Melchiorre Gioia nel 1821: «È tuttora incerta, confusa, oscura l'idea del danno nella mente dei commentatori curiali. Essi restringono il danno all'oggetto materiale diminuito o distrutto, e non veggono danno ove non possono applicare il compasso, la squadra o il trabucco». Oggi le cose non stanno diversamente. Il danno, cioè, può variamente atteggiarsi tanto in considerazione del profilo eziologico, quanto, in considerazione dello statuto probatorio che applichiamo. Vi è, dunque, un'area grigia che può entrare a far parte del danno risarcibile oppure rimanervi esclusa, in ragione — in particolare — della gestione della componente causale e di quella probatoria. I dubbi in proposito, allora, vanno sciolti diversamente — questo è il non indifferente spazio riservato alla funzione deterrente-sanzionatoria nel rispetto della funzione compensativa — secondo che il danneggiante abbia o meno agito con dolo o colpa grave.

Si pensi al nesso di causalità. L'art. 1223 c.c. stabilisce che il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta. Si tratta della regola che fissa i caratteri della causalità giuridica, distinta da quella naturale. Ed infatti il diritto non può mancare di dare della causalità una propria specifica nozione: esigenze di certezza, equità e convenienza impongono di non appiattirsi su una nozione di danno desunta dai soli criteri naturalistici e di creare, in aggiunta ad essi, criteri autonomi che consentano di stabilire quando un certo danno possa dirsi giuridicamente prodotto da un fatto umano. La ratio di questa limitazione risiede nell'esigenza di evitare di esporre il danneggiante a responsabilità eccessiva. Ed è a questa funzione che secondo l'opinione prevalente risponde il criterio della risarcibilità delle sole conseguenze immediate e dirette sancito dall'art. 1223 c.c.

In giurisprudenza è di gran lunga prevalente la tesi della regolarità causale: sono giuridicamente imputabili al debitore gli eventi dannosi (anche mediati e indiretti) purché verificatisi secondo il corso ordinario e abituale degli eventi in base ad un giudizio di probabilità. Si ritiene cioè che alla determinazione dell'immediatezza si debba divenire «con una certa elasticità di criterio, in modo da poter ricomprendere nel risarcimento anche quei danni indiretti immediati i quali si presentino come effetto normale dell'inadempimento» (Cass. n. 910/1963; Cass. n. 4236/1982; Cass. n. 15274/2006). A fondamento di tale indirizzo può porsi già un passo di Paolo, secondo cui non è risarcibile il danno derivante dalla morte degli schiavi per la mancata consegna di una partita di grano, giacché essa deriva dal carattere anomalo e straordinario di una simile conseguenza rispetto al fatto di responsabilità.

In realtà la nozione di conseguenze immediate e dirette, di per sé ampiamente incontrovertibile, subisce senza dubbio l'influenza della connotazione soggettiva della condotta del danneggiante. Può rammentarsi l'esempio di Pothier sul nesso causale, concernente il caso della vendita di un animale infetto. Di qui una serie causale sviluppatasi così: a) altri animali del compratore vengono infettati e muoiono; b) non disponendo più di animali da lavoro, il compratore non riesce a coltivare il proprio fondo e perde il raccolto; c) in mancanza delle entrate che il raccolto gli avrebbe procurato, il compratore non riesce a pagare i propri creditori e fallisce.

Ora, secondo le regole della causalità generalmente accolte, la prima conseguenza è sicuramente risarcibile, la terza sicuramente no (manca, per così dire, la causal proximity), la seconda a determinate condizioni. Si immagini, però, a questo punto, che il venditore, consapevole della malattia del capo di bestiame che andava vendendo, consapevole del fatto che il compratore lo avrebbe ospitato nella sua stalla, consapevole dell'impossibilità del compratore di coltivare il proprio fondo altrimenti che con animali, consapevole altresì della sua situazione debitoria, abbia operato al precipuo scopo di determinarne il fallimento, volendo acquistare il fondo del fallito. Pare evidente che in un simile caso il risarcimento non possa trovare un limite nella regola della causalità immediata e diretta. Qui, anzi, il principio da applicare è quello che in common law si riassume nella formula intendend consequences never too remote, ovvero intentional damage is never too remote.

Ecco che, per questa via, il quantum del risarcimento spettante all'autore di una condotta dolosa o gravemente colposa si allarga ed incrementa, andando a ricomprendere l'importo destinato a compensare conseguenze che, in caso di colpa lieve, non sarebbero state neppure prese in considerazione. Per questa via si esplica, accanto alla funzione compensativa, quella deterrente e quella sanzionatoria.

La connotazione soggettiva della condotta ben può incidere poi direttamente sul quantum, come nell'episodio dell'uccisione di un tifoso genovese, il quale era stato colpito al cuore da un tifoso milanista, donde la successiva richiesta risarcitoria avanzata dai congiunti: «La monetizzazione del dolore, che è valutazione sempre assai delicata ma ineludibile nelle decisioni risarcitorie, deve prendere le mosse dalla gravità degli esiti lesivi e dal comportamento del dante causa in occasione del fatto di sangue» (Trib. Genova 1 maggio 2005).

Più in generale, sempre con riguardo al quantum, il dolo o la colpa grave rilevano nella liquidazione del danno morale, essendo innegabile che il dolore, lo sdegno e i patemi d'animo sono realtà che si prestano massimamente a subire l'influsso dell'elemento soggettivo con cui sono state prodotte (basti considerare torti come l'aggressione o gli abusi a danno di congiunti minori, la violazione della privacy, la macro-invalidazione di una persona cara).

Eguali considerazioni possono farsi con riguardo al danno esistenziale ogni qualvolta ci trovi dinanzi ad attività realizzatrici più o meno esposte all'illecito, e vulnerabili per intensità o per durata, a seconda dell'animus di chi le ha compromesse, in caso ad esempio di diffamazione, di lite temeraria, di torti endofamiliari. Lo stesso danno biologico, almeno sotto forma di danno psichico, potrà risultare incrementato allorquando sia proprio il dato della efferatezza, riscontrabile nell'offesa, ad aver determinato un più ampio stress mentale della vittima. Sul piano probatorio la formula da applicare sarà in breve: atto illecito doloso = maggior tutela da concedere alla vittima = alleggerimento del carico probatorio per quest'ultima = presunzioni legali o giudiziali, destinate a inchiodare il defendant al suo destino.

Insomma, se è certamente vero che il sistema della responsabilità civile vede al suo centro le nozioni di riparazione e risarcimento, non sembra altrettanto vero che la primaria funzione di essa escluda una concorrente e più limitata funzione sanzionatoria: smentisca, cioè, l'idea «di una occasionale repressione in via esclusiva per il dolo o per la colpa grave». Come era detto già nella famosa sentenza Dell'Andro, «è impossibile negare o ritenere irrazionale che la responsabilità civile da atto illecito sia in grado di provvedere non soltanto alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato ma fra l'altro, a volte, anche ed almeno in parte, ad ulteriormente prevenire e sanzionare l'illecito» (Corte cost. n. 184/1986).

Il rilievo della funzione deterrente-sanzionatoria pare infine essere recentemente emerso anche in una pronuncia della S.C. che si è convincentemente misurata col tema del riconoscimento in Italia di un provvedimento emesso dall'autorità giudiziaria di uno Stato europeo recante l'irrogazione di astreinte. In essa si afferma essere noto «come allo strumento del risarcimento del danno, cui resta affidato il fine primario di riparare il pregiudizio patito dal danneggiato, vengano ricondotti altri fini con questo eterogenei, quali la deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti (posto che la minaccia del futuro risarcimento scoraggia dal tenere una condotta illecita, anche se, secondo gli approdi dell'analisi economica del diritto, l'obiettivo di optimal deterrence è raggiunto solo se la misura del risarcimento superi il profitto sperato) e la sanzione (l'obbligo di risarcire costituisce una pena per il danneggiante). Si riscontra, dunque, l'evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente, sulla base di vari indici normativi ... specialmente a fronte di un animus nocendi; pur restando la funzione risarcitoria quella immediata e diretta cui l'istituto è teso, tanto da restare imprescindibile il parametro del danno cagionato» (Cass. n. 7613/2015).

Vale in conclusione osservare che è recentissimo l'intervento nella materia delle Sezioni Unite (Cass. S.U., 16601/2017), che, allontanandosi dal precedente orientamento hanno entro certi limiti riconosce l'ingresso dei punitive damages all'interno dell'ordinamento italiano. La S.C. era chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di riconoscere una sentenza americana contenente la condanna al pagamento di un risarcimento che eccedeva grandemente la misura della compensazione, rispetto al danno cagionato.

Con l'ultima decisione le Sezioni Unite affermano che occorre considerare lo sviluppo dell'istituto della responsabilità civile, la quale ha evidenziato «accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria ... una natura polifunzionale, che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva, o deterrente o dissuasiva, e quella sanzionatorio-punitiva». Tale assunto è confermato da numerosi referenti normativi: la l. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158; il d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 125; il d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187-undecies, comma 2; il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, artt. 3-5); la l. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12; l'art. 96, comma 3, c.p.c., che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una «somma equitativamente determinata», in funzione sanzionatoria dell'abuso del processo; l'art. 18 comma 2 dello Statuto dei lavoratori, che prevede che in ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto; il d.lgs. n. 81/2015, art. 28, comma 2, in materia di tutela del lavoratore assunto a tempo determinato e la anteriore norma di cui alla l. n. 183/2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, che prevede, nei casi di conversione in contratto a tempo indeterminato per illegittimità dell'apposizione del termine, una forfettizzazione del risarcimento.

Danno alla salute e danno patrimoniale

Le lesioni della salute subite dal danneggiato possono determinare pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali. I primi, i pregiudizi patrimoniali vanno sovente a proiettarsi in futuro, assumendo, secondo i casi, vesti diverse.

Per danno futuro, in generale, si intende il danno non ancora verificatosi al momento della sua liquidazione, a condizione che risulti assodato, secondo un parametro di certezza, il suo verificarsi, sia pure di là da venire. Il giudizio di certezza sul verificarsi del danno, allora, consente di distinguere il danno futuro da quello solo potenziale o possibile, la cui risarcibilità è da escludere (sul punto v. Cass. n. 6109/1993).

Poiché il momento di discrimine tra il danno attuale o presente ed il danno futuro è quello della liquidazione operata dal giudice, è agevole intendere come il danno futuro non vada ad identificarsi con quello da lucro cessante. Quest'ultimo, per un verso, può ben essere un danno attuale: si pensi al caso che, al momento della liquidazione, il «mancato guadagno» cui si riferisce l'art. 1223 c.c. abbia già avuto luogo per effetto della perdita di una vantaggiosa occasione lavorativa. Per altro verso, anche il danno emergente può assumere i connotati del danno futuro: si pensi al caso elementare delle spese mediche che con certezza dovranno sostenersi successivamente alla pronuncia, ad esempio per rimuovere e sostituire una protesi di durata contenuta.

Non v'è dubbio, però, che abbia natura di danno futuro il danno patrimoniale da lucro cessante destinato a prodursi, successivamente alla sentenza, in dipendenza della diminuita capacità lavorativa specifica del danneggiante. In questo caso può accadere che quest'ultimo sia percettore di reddito, ed allora il danno patrimoniale da lucro cessante verrà commisurato — con relativa facilità — all'entità del reddito destinato ad essere perso. Ma può anche accadere che il danneggiato non sia al momento percettore di reddito, ad esempio perché momentaneamente disoccupato, ovvero perché stabilmente dedito ad un'attività non remunerativa, quale è quella della casalinga (v. tra le altre Cass. n. 4657/2005, ove è chiarito che il soggetto che esercita lavori domestici può essere «anche di sesso maschile»; sul danno subito dalla casalinga v. pure Cass. n. 15580/2000; Cass. n. 10923/1997).

Nell'ambito dei soggetti non percettori di reddito, poi, ricopre una posizione di rilievo intuitivamente notevole lo studente, il quale dedica il proprio impegno al conseguimento di un titolo di studio che in seguito occorrerà proprio per meglio collocarsi sul mercato del lavoro. Ecco, quindi, che il giudice, dinanzi alla compromissione della capacità lavorativa subita da uno studente, si trova a dover effettuare una valutazione prognostica, sì da stabilire, alla stregua di una valutazione probabilistica, in quale misura tale compromissione inciderà sull'attitudine del soggetto alla produzione di reddito.

In tale prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha sempre ritenuto che il giudice di merito, nel procedere alla liquidazione di un danno futuro non determinabile con assoluta precisione, debba procedere attraverso calcoli di probabilità da compiersi a norma, dell'art. 2056 c.c. con equo apprezzamento delle circostanze del caso. Così, ad esempio, è stata ritenuta corretta la valutazione secondo cui il figlio di un avvocato, con adeguati studi alle spalle ed ancora in corso, avrebbe probabilmente svolto la stessa professione (Cass. n. 14678/2003).

Insomma, nell'ipotesi di invalidità permanente causata da un fatto illecito ad un minore, che per la sua età non svolga attività lavorativa, il danno consistente nel mancato guadagno futuro rispetto a quello che l'infortunato avrebbe percepito se la sua capacità lavorativa non fosse stata menomata, non può essere determinata dal giudice che per mezzo di presunzioni, in base al tipo di attività lavorativa che presumibilmente il minore effettuerà o avrebbe effettuato (in caso di invalidità totale) in futuro: tipo di attività che va accertata con criteri di probabilità, tra cui gli studi compiuti o le inclinazioni manifestate dal minore, se e possibile rilevarle nel caso concreto (Cass. n. 6420/1998), ovvero tenendo conto dell'attività lavorativa e della posizione economico-sociale della famiglia del minore (Cass. n. 1228/1981).

Quest'indirizzo, più volte ribadito (Cass. n. 23298/2004; Cass. n. 2335/2001; Cass. n. 4237/1999; Cass. n. 11975/1998; Cass. n. 11349/1998; Cass. n. 3539/1996; Cass. n. 1801/1991), secondo cui il danno percepito dal soggetto non percettore di reddito può essere liquidato, per mezzo di presunzioni, considerando il tipo di attività che egli svolgerà in futuro secondo un criterio probabilistico, che tenga conto delle possibili scelte ed occasioni che, secondo l'id quod plerumque accidit, si offrono in relazione al livello di studi conseguito e all'ambiente familiare e sociale di riferimento, ha condotto la S.C. ad affermare, in passato, che in tali casi il criterio di liquidazione del danno fondato su un triplo dell'ammontare annuo della pensione sociale di cui all'art. 4 del d.l. 23 dicembre 1976, n. 857, conv. nella l. 26 febbraio 1977, n. 39 non può essere utilizzato, ma può fungere solo da criterio residuale, qualora, avuto riguardo a tutte le particolarità del caso concreto, manchino attendibili parametri per la valutazione del danno futuro (Cass. n. 2335/2001; Cass. n. 11349/1998; Cass. n. 1801/1991).

È stato altresì affermato che il danno patrimoniale da lucro cessante subito da un soggetto privo di reddito il quale abbia subito postumi permanenti in conseguenza di un fatto illecito altrui ha natura di danno futuro da valutare con criteri probabilistici, in via presuntiva, e con equo apprezzamento del caso concreto. Pertanto, ove occorra valutare il lucro cessante di un minore menomato permanentemente, la liquidazione del risarcimento del danno va svolta sulla previsione della sua futura attività lavorativa, in base agli studi compiuti e alle sue inclinazioni, rapportate alla posizione economico-sociale della famiglia, oppure (nel caso in cui quella previsione non possa essere formulata) adottando come parametro di riferimento quello di uno dei genitori, presumendo che il figlio eserciterà la medesima professione del genitore (Cass. n. 3949/2007). Tale pronuncia, in particolare, nel fare applicazione del complesso di principi fin qui riassunti, ha correttamente osservato che, tra i vari elementi rilevanti ai fini della determinazione del pregiudizio futuro in discorso, va considerata la perdita dell'anno scolastico determinata dalle lesioni conseguite al sinistro, la quale, secondo criteri di normalità, finirà per ripercuotersi, ritardandolo, sull'ingresso della studentessa del mondo del lavoro.

Poiché è risarcibile il danno futuro se il suo verificarsi è concretamente pronosticabile sulla base di criteri ragionevolmente probabilistici, spetta alla madre di uno studente prossimo alla conclusione del corso di studi il risarcimento del danno per la perdita della quota di reddito che il figlio, tenuto conto delle modeste condizioni economiche di lei, le avrebbe presumibilmente destinato una volta entrato nel mondo del lavoro (Cass. n. 4791/2007). Anche tale pronuncia si inquadra nel più ampio tema della risarcibilità del danno futuro. Nella vicenda in esame, tuttavia, il giudizio prognostico richiesto al giudice ha dovuto affrontare il doppio ostacolo della determinazione, da un lato, del reddito che il defunto avrebbe percepito una volta collocato sul mercato del lavoro e, dall'altro lato, della quota di detto reddito che avrebbe destinato al congiunto.

In simile frangente, quindi, la valutazione doveva essere compiuta, per un verso, in considerazione del tipo di studi, delle attitudini dimostrate dallo studente e delle conseguenti prospettive lavorative e, per altro verso, in considerazione della solidità del legame tra il defunto e il congiunto, alla luce delle condizioni economiche di questi. Condivisibilmente, dunque, i giudici di legittimità hanno posto l'accento sulla circostanza che il defunto era prossimo alla conclusione del ciclo di studi in elettronica, i quali preludono ad una successiva collocazione lavorativa, e conviveva con la madre pensionata, la quale, del resto, neppure godeva dell'apporto economico del coniuge, precedentemente venuto a mancare.

La decisione così pronunciata trova conforto nell'affermazione di principio secondo cui il genitore di persona minore d'età, deceduta in conseguenza dell'altrui atto illecito, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale futuro provocato dalla perdita degli alimenti che il minore avrebbe potuto erogare in loro favore, devono provare che, sulla base dell'insieme delle circostanze attuali, sia pronosticabile che in futuro essi si possano trovare in uno stato di indigenza tale da aver bisogno della corresponsione di alimenti senza che nessun altro possa prestarli. Parimenti, per dar prova della frustrazione dell'aspettativa ad un contributo economico da parte del familiare prematuramente scomparso, hanno l'onere di allegare e provare che il figlio deceduto avrebbe verosimilmente contribuito ai bisogni della famiglia. A tal fine la previsione va operata sulla base di criteri ragionevolmente probabilistici, non già in via astrattamente ipotetica, ma alla luce delle circostanze del caso concreto, conferendo rilievo alla condizione economica dei genitori sopravvissuti, alla età loro e del defunto, alla prevedibile entità del reddito di costui, dovendosi escludere che sia sufficiente la sola circostanza che il figlio deceduto avrebbe goduto di un reddito proprio (Cass. n. 8333/2004).

In linea generale, in definitiva, è possibile affermare che i danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dal congiunto di persona deceduta a seguito di fatto illecito, ravvisabili nella perdita di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che — sia in relazione ai precetti normativi (artt. 143, 433 c.c.), sia per la pratica di vita improntata a regole-etico sociali di solidarietà e di costume — il defunto avrebbe presumibilmente apportato, assumono l'aspetto del lucro cessante, ed il relativo risarcimento è collegato ad un sistema presuntivo a più incognite, costituite dal futuro rapporto economico tra i coniugi e dal reddito presumibile del defunto, ed in particolare dalla parte di esso che sarebbe stata destinata al coniuge. La prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità del coniuge o avrebbe apportato al medesimo utilità economiche anche senza che ne avesse bisogno (Cass. n. 18490/2006).

Il responso di Cass. n. 4791/2007 invita ad accennare ad una questione di grande rilievo. La tradizionale contrapposizione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale poggia, tra gli altri, sulla maggiore attitudine del primo ad essere determinato nel suo concreto ammontare, a fronte della estrema fluidità del secondo, suscettibile di essere liquidato soltanto in base al criterio dell'equità. Questa distinzione, fondata su osservazioni tutt'altro che trascurabili, mostra sempre più, con l'andar del tempo, consistenti limiti. Da un lato vi sono danni non patrimoniali determinabili al centesimo: è il caso del danno biologico liquidato mediante tabelle. Dall'altro lato vi sono danni patrimoniali tali da essere liquidati soltanto mediante una complessa valutazione prognostico-equitativa — un «sistema presuntivo a più incognite», come emerge dall'ultima pronuncia di legittimità citata —, nei quali il rilievo dell'intervento liquidativo del giudice è decisamente notevole: tale è il caso del danno emergente futuro del quale ci siamo ora occupati, ma ancor più, assai sovente, del lucro cessante. Lo scarto tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, per quest'aspetto, sembra andarsi riducendo e perdere di importanza. Il che consente di replicare ad una frequente obiezione opposta in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale: ossia che il danno non patrimoniale incontrerebbe un limite alla sua risarcibilità in ragione della sua irriducibilità ad un corrispondente monetario.

Sempre in tema di danno patrimoniale da lesione della salute nel non percettore di reddito è stato affermato che contrasta con il principio del risarcimento integrale il rigetto, per mancanza di prova, della domanda di risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica proposta da un disoccupato che, a seguito di un sinistro stradale, abbia riportato una grave invalidità permanente (Cass. n. 23791/2014). A seguito di un sinistro stradale, un ragazzo all'epoca diciottenne subisce lesioni assai gravi, tali da comportare un'invalidità permanente del 70%. Ne segue un giudizio risarcitorio all'esito del quale il danneggiato ottiene in parte il risarcimento richiesto, nei limiti della percentuale di responsabilità addebitata al conducente del veicolo antagonista, escluso il risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica: e ciò, ci riferisce la sentenza che ci apprestiamo a commentare, perché «il giovane, poco più che diciottenne al tempo dello incidente non lavorava né aveva dato la prova della futura attività lavorativa».

Contro tale decisione l'uomo interpone ricorso per cassazione denunciando: i) la contraddittorietà della sentenza d'appello, che aveva per un verso fatto proprie le valutazioni espresse nella consulenza tecnica d'ufficio, la quale aveva stimato l'invalidità nella misura del 70%, tale da incidere sulla capacità lavorativa specifica, e per altro verso rigettato perché non provata la domanda sul punto; ii) la mancata applicazione, ai fini della liquidazione della menzionata posta di danno, del parametro del triplo della pensione sociale.

La pronuncia consente di ricapitolare alcuni principi in tema di risarcimento del danno in favore del non percettore di reddito ed in particolare di rispondere, brevemente, ai quesiti: se spetta al disoccupato il risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica; quale spazio trova in proposito l'applicazione del parametro del triplo della pensione sociale. La S.C. osserva in proposito quanto al rigetto della domanda di risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, che: «La esclusione del danno patrimoniale in un soggetto ventenne, ma non ancora occupato, che subisce una menomazione psicofisica del 70% di invalidità, costituisce violazione del principio del diritto alla riparazione integrale del danno da illecito, nella specie da circolazione, allorché tale posta risarcitoria sia stata dedotta e provata, con lo accertamento della compromissione della attività di guadagno in relazione all'età della vittima, cui è preclusa la concorrenzialità lavorativa».

Dopodiché la pronuncia richiama a conforto di simile affermazione, Cass. n. 17219/2014, peraltro cimentatasi con la doglianza di una lavoratrice cinquantaduenne che lamentava l'esiguità della liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, poiché effettuata in considerazione del suo effettivo reddito e senza tenere invece in considerazione i verosimili incrementi futuri di esso. Fattispecie, dunque, non parente, neppure lontanamente, di quella del giovane disoccupato. La S.C. prosegue affermando che: «Si vuol dire che nella fattispecie in esame, la perdita delle chances del giovane non occupato, in relazione alla perdita della concorrenzialità lavorativa, pressoché totale, giustifica invece la liquidazione equitativa del lucro cessante tenendo conto dello effetto permanente del pregiudizio e della sua gravità obbiettiva».

Occorre al riguardo chiarire che cos'è la perdita della capacità lavorativa specifica, che è la perdita concreta della capacità di guadagno in relazione all'attività lavorativa effettivamente in atto. La perdita della capacità lavorativa specifica è un danno emergente o un lucro cessante? La sentenza citata dice che si tratta di lucro cessante, il che è però discutibile. Si tratta sì di un danno futuro, come è normalmente il danno da lucro cessante, ma ha invece, di regola, natura di danno emergente: il danneggiato, cioè, subisce senza dubbio una «perdita», secondo la formula impiegata dall'art. 1223 c.c., non un mancato incremento del proprio patrimonio, dal momento che guadagna meno di quanto avrebbe altrimenti guadagnato. Certo, può accadere che l'invalidità assuma rilievo anche dal versante del lucro cessante, come nel caso del mancato conseguimento di incrementi reddituali che, in assenza delle lesioni, il danneggiato avrebbe potuto prognosticamente conseguire: ma, in linea di principio, il danno da perdita della capacità lavorativa specifica non è lucro cessante, bensì danno emergente. Neppure sembra esatto dire che il rigetto della domanda, proposta da un ventenne, di risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, comporta così e semplicemente violazione del principio di integrale risarcimento, il che emerge dalla stessa pronuncia, laddove precisa che la violazione c'è «allorché tale posta risarcitoria sia stata dedotta e provata». Ed infatti, nel caso in esame, la corte d'appello aveva per l'appunto sottolineato che il danno (quantunque dedotto) non era stato provato. Insomma, il principio del risarcimento integrale, nella vicenda esaminata dalla S.C., non è richiamato a proposito. Neppure è chiaro quale sia il significato del richiamo alla «perdita delle chances del giovane non occupato»: si sa che la S.C. configura la chance, ossia la perdita della mera possibilità di conseguire un risultato utile, in una pluralità di decisioni, quale bene giuridico a sé stante, sicché, tra l'altro, occorre in proposito un'apposita domanda (p. es. Cass. n. 21245/2012). Sicché il danneggiato non ha perso una chance, ma ha concretamente perso parte del suo guadagno.

Vale in realtà anche nel caso considerato la regola secondo cui, se il danneggiato non è al momento percettore di reddito, ad esempio perché momentaneamente disoccupato, nell'ipotesi di invalidità permanente causata ad un soggetto che non svolga attività lavorativa (escluso il caso del consapevole rifiuto del lavoro: Cass. n. 16396/2010), il danno consistente nel futuro mancato guadagno rispetto a quello che il danneggiato avrebbe percepito se la sua capacità lavorativa non fosse stata menomata, deve essere determinata dal giudice per mezzo di presunzioni, in base al tipo di attività lavorativa che presumibilmente il soggetto effettuerà o avrebbe effettuato in futuro: tipo di attività che va accertato con criteri di probabilità, tenendo conto degli studi compiuti, delle inclinazioni manifestate, dell'ambiente sociale e della vita di relazione del soggetto (Cass. n. 3539/1996; Cass. n. 6420/1998; Cass. n. 564/2005; Cass. n. 26081/2005, secondo cui, in tema di risarcimento del danno alla persona, un danno patrimoniale risarcibile può essere legittimamente riconosciuto anche a favore di persona che, subita una lesione, si trovi al momento del sinistro senza un'occupazione lavorativa e, perciò, senza reddito, in quanto tale condizione può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato all'invalidità permanente che — proiettandosi appunto per il futuro — verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima, al momento in cui questa inizierà a svolgere un'attività remunerata. Questo danno, infatti, si ricollega, con ragionevole certezza, alla riduzione della capacità lavorativa specifica conseguente alla grave menomazione cagionata dalla lesione patita e va liquidato in aggiunta rispetto a quello del danno biologico riguardante il bene della salute, potendosi procedere alla sua quantificazione anche in via equitativa, tenuto conto dell'età della vittima stessa, del suo ambiente sociale e della sua vita di relazione).

È dunque costantemente ribadito «che la menomazione dell'integrità fisica non può essere ... utilizzata per riconoscere in modo sostanzialmente automatico un danno patrimoniale ... come conseguenza delle lesioni, essendo il giudice sempre tenuto ad un giudizio prognostico sull'idoneità delle lesioni ad incidere effettivamente sulla futura capacità lavorativa del soggetto leso, nota o presumibile de futuro» (Cass. n. 10905/2001; Cass. n. 239/2001). Il fondamento di tale principio non ha bisogno di essere spiegato: «tra lesione della salute e diminuzione della capacità di guadagno non sussiste alcun rigido automatismo», sicché «in presenza di una lesione della salute, anche di non modesta entità, non può ritenersi ridotta in eguale misura la capacità di produrre reddito, ma il soggetto ha sempre l'onere di allegare e provare, anche mediante presunzioni, che l'invalidità permanente abbia inciso sulla capacità di guadagno» (così Cass. n. 13409/2001).

Un cenno infine al triplo della pensione sociale di cui è menzione dell'art. 137 cod. ass. L'indirizzo secondo cui il danno percepito dal soggetto non percettore di reddito può essere liquidato, per mezzo di presunzioni, considerando il tipo di attività che egli svolgerà in futuro secondo un criterio probabilistico, che tenga conto degli studi compiuti, delle inclinazioni manifestate, dell'ambiente sociale e della vita di relazione del soggetto, ha condotto la S.C. ad affermare che in tali casi il criterio di liquidazione del danno fondato sul triplo dell'ammontare annuo della pensione sociale non può essere utilizzato, ma può fungere solo da criterio residuale, «sul presupposto di una sicura prova, da fornirsi da parte del danneggiato, anche in via presuntiva, dell'effettiva incidenza dell'invalidità sulla sua vita lavorativa (attuale o futura) e conseguente riduzione della capacità di guadagno» (Cass. n. 13409/2001; v. parimenti Cass. n. 2335/2001; Cass. n. 11349/1998; Cass. n. 1801/1998). Insomma, il parametro del triplo della pensione sociale non funziona come strumento volto ad esimere dall'onere di offrire al giudice quegli elementi di fatto che consentano di ricostruire l'attività lavorativa che essi svolgeranno in futuro, ma opera ai limitati fini della quantificazione del reddito realizzabile, quando non sia possibile fare altrimenti, mediante una determinata attività.

Occorre ancora accennare al tema dei riflessi sulla capacità lavorativa specifica delle c.d. micropermanenti. Secondo la S.C. il grado di invalidità personale determinato dai postumi permanenti di una lesione all'integrità psicofisica (in particolar modo nel caso di c.d. micropermanenti) non si riflette automaticamente sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e quindi di guadagno, spettando al giudice del merito valutarne in concreto l'incidenza (Cass. n. 19357/2007). Tale pronuncia è stata pronunciata nella fattispecie che segue. A seguito di un incidente stradale un avvocato subisce lesioni con conseguente inabilità temporanea assoluta di giorni 30, inabilità temporanea parziale al 50% di giorni 50 ed invalidità permanente dell'1%. Agisce per il risarcimento dei danni nei confronti del proprietario del veicolo danneggiante e del suo assicuratore ottenendo, in primo grado, la complessiva somma di circa 28 milioni di lire per danno biologico, danno emergente (danni all'autovettura e spese mediche) e lucro cessante. Quest'ultima è la posta di maggior rilievo, ammontante a poco meno di 23 milioni di lire di mancato guadagno ritratto dall'esercizio dell'attività professionale. In sede di gravame la pronuncia è riformata in sfavore del danneggiato: egli ottiene qualcosa in più per danno morale soggettivo, non liquidato in primo grado, ma si vede negata integralmente la somma in precedenza riconosciuta a titolo di lucro cessante. La Corte di cassazione conferma la pronuncia, facendo applicazione di taluni principi che qui di seguito rammentiamo.

La S.C. muove dalla ineccepibile osservazione che tra il danno biologico (la pronuncia si riferisce, è bene intendersi, al grado percentuale di invalidità determinato da postumi permanenti) ed il mancato guadagno da parte del danneggiato non vi è un rapporto di implicazione necessaria: è ben possibile, in altre parole, che il danneggiato abbia subito un pregiudizio, grande o piccolo, alla propria integrità psicofisica ma abbia invece continuato a guadagnare quanto guadagnava in precedenza. In tal senso già in passato era stato affermato che il danno biologico da invalidità permanente non determina automaticamente una riduzione della capacità lavorativa specifica del soggetto, con pregiudizio del suo guadagno (Cass. n. 19981/2005, concernente ancora una volta il caso di un avvocato).

Ed in special modo, poi, con riguardo ai riflessi delle c.d. micropermanenti sul lucro cessante, la giurisprudenza della S.C. è comprensibilmente severa, richiedendo al danneggiato di provare con adeguato rigore che, a causa dei postumi, egli ricaverà in futuro dal proprio lavoro minori guadagni (Cass. n. 239/2001; Cass. n. 3434/2002; Cass. n. 5840/2004; Cass. n. 7097/2005). Incombe insomma sul danneggiato l'onere della prova, sia pure per presunzioni, che il pregiudizio all'integrità psicofisica ha avuto concreta incidenza sulle sue possibilità di guadagno futuro. Da ciò discende che la liquidazione del danno da lucro cessante correlato al futuro mancato guadagno non può neppure essere effettuata in modo automatico sulla base del criterio olim previsto dall'art. 4 della l. n. 39/1977, il quale non importa alcun automatismo risarcitorio, ma detta semplicemente un criterio di quantificazione di un danno già dimostrato nell'an (Cass. n. 7097/2005).

Si deve ancora evidenziare che, secondo una pronuncia, in tema di danni alla persona, l'invalidità di gravità tale da non consentire, per la sua entità (nella specie del 25%), la possibilità di attendere (anche) a lavori altri e diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro confacenti alle attitudini e alle condizioni personali ed ambientali del danneggiato integra non già lesione di un'attitudine o di un modo di essere del medesimo, rientrante nell'aspetto (o voce) del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, bensì un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance (il cui accertamento spetta al giudice di merito e va dal medesimo stimato con valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c.), derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica. Trattasi di danno patrimoniale che, se e in quanto dal giudice di merito riconosciuto sussistente, va considerato ulteriore rispetto al danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica, concernente il diverso aspetto dell'impossibilità per il danneggiato di (continuare ad) attendere all'attività lavorativa prestata al momento del sinistro (nella specie, di venditore ambulante dipendente), dovendo (anche) da questo essere pertanto tenuto distinto, con autonoma valutazione ai fini della relativa quantificazione (Cass. n. 12211/2015). Un uomo subisce lesioni fisiche che gli arrecano un significativo pregiudizio biologico e si riflettono altresì sullo svolgimento dell'attività lavorativa (venditore ambulante) che egli in concreto esercita. Cionondimeno, il tribunale gli liquida non solo il danno non patrimoniale (biologico-morale) e quello patrimoniale da compromissione della capacità lavorativa specifica, ma anche, in aggiunta, il danno da perdita della capacità lavorativa generica: e ciò sulla base di una c.t.u. medico legale che ha stimato nel 25% la lesione biologica. In appello la decisione è riformata, sull'assunto, conforme ad un indirizzo giurisprudenziale fino ad epoca recentissima consolidato, che il danno da perdita della capacità lavorativa generica, attenendo ad un modo di essere della persona e non alla sua capacità reddituale, costituisca componente del danno biologico. La S.C. ribalta nuovamente il verdetto, cassa con rinvio, ed afferma il principio appena ricordato. Si tratta dunque di chiedersi se il danno da perdita della capacità lavorativa generica è un aspetto del danno biologico: sì o no.

Il danno da perdita o riduzione della c.d. capacità lavorativa generica è definito dalla S.C. come «la sopravvenuta inidoneità del soggetto danneggiato allo svolgimento delle attività lavorative che, in base alle condizioni fisiche, alla preparazione professionale e culturale, sarebbe stato in grado di svolgere» (Cass. n. 3519/2001). Pareva in proposito fermo l'insegnamento secondo cui tale voce di danno si colloca dal versante del danno non patrimoniale, sub specie di danno biologico, concernendo una qualità della vita della persona (mi limito a citare di recente Cass. n. 18161/2014, ma le sentenze che ribadiscono il principio sono numerose). Tale orientamento era condiviso anche dalla giurisprudenza di merito, non potendo darsi particolare risalto ad una isolata decisione con cui un tribunale aveva sostenuto che «la riconduzione della compromissione della generica attitudine a svolgere un lavoro al danno non patrimoniale di tipo biologico appare in contrasto con l'affermata — e inveterata — autonomia del danno biologico da riflessi reddituali»: non avvedendosi, dunque, che la perdita della capacità lavorativa generica, che non incide sull'attività del soggetto, non comporta, per l'appunto, una perdita reddituale. La soluzione in controtendenza ha tuttavia fatto breccia in Cass. n. 908/2013, che senza evidenziare consapevolezza del contrario e fino ad allora unanime orientamento, ha affermato che, qualora la compromissione riguardi la capacità di lavoro generica, ove il danneggiato fornisca la prova di un pregiudizio concernente la sua idoneità a produrre reddito, il danno deve ritenersi risarcibile sotto il profilo del lucro cessante. Dopodiché, probabilmente sulla scia di Cass. n. 23791/2014, la pronuncia citata ha provato a nobilitare il nuovo indirizzo facendo ricorso alla nozione di chance: chi subisce una lesione biologica significativa perderebbe, secondo la pronuncia in esame, una chance di svolgere non già il proprio lavoro, ma altri lavori compatibili con le proprie attitudini. L'affermazione poggia sulla nozione di chance quale bene giuridico a sé stante (la sentenza che ha inaugurato l'indirizzo è la nota Cass. n. 4400/2004) la cui perdita produrrebbe «un danno certo ed attuale in proiezione futura (nella specie, ad esempio la perdita di un'occasione favorevole di prestare altro e diverso lavoro confacente alle attitudini e condizioni personali ed ambientali del danneggiato idoneo alla produzione di fonte di reddito)».

E — aggiunge Cass. n. 12211/2015 — il risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa generica, da liquidarsi quale danno patrimoniale che si aggiunge al danno biologico, «non realizza pertanto ... alcuna duplicazione nemmeno in presenza del riconoscimento e della liquidazione del danno da incapacità lavorativa specifica, il quale attiene invero al risarcimento del diverso pregiudizio che al danneggiato consegua in relazione al differente aspetto dell'impossibilità di attendere alla specifica attività lavorativa in essere al momento del sinistro».

Un cenno occorre compiere al tema della liquidazione del danno patrimoniale futuro mediante capitalizzazione. Nel procedere alla liquidazione del danno patrimoniale futuro derivante dalla compromissione della capacità reddituale conseguente ad una lesione biologica, il giudice di merito, ove adotti il criterio della capitalizzazione, ossia del riconoscimento di un capitale che comporti per il danneggiato il conseguimento di un importo pari al reddito man mano perduto, non può impiegare i coefficienti allegati al r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403, i quali, essendo fondati su dati risalenti al 1911, forniscono criteri di valutazione non più attendibili e razionali, quantunque il giudice abbia escluso la detrazione della percentuale di abbattimento della rendita per lo scarto fra vita fisica e vita lavorativa (Cass. n. 16197/2015). L'autovettura condotta da un diciottenne, nell'attraversare un incrocio, entra in collisione con un autocarro il cui conducente non si è arrestato al segnale di stop; il ragazzo riporta un grado di invalidità permanente del 90%, con marcato danno psichico, comprensivo di grave deficit alla memoria, e gravissimo pregiudizio alla funzione deambulatoria; la perdita della sua capacità lavorativa specifica ammonta parimenti al 90%. Egli, ricevuti oltre € 700.000 dall'assicuratore del danneggiante, agisce in giudizio per il risarcimento dell'ulteriore pregiudizio subito, quantificato in circa € 3.200.000. Il tribunale gliene riconosce circa 1.900.000, che la corte d'appello riduce a meno di 1.500.000, sicché il danneggiato ricorrere per cassazione, per così dire, su tutta la linea.

Tra i vari motivi di ricorso, ci interessa qui sottolineare quello con cui egli lamenta, in particolare, che i giudici di merito gli avessero riconosciuto, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale per perdita della capacità lavorativa specifica, una somma di circa € 150.000, ottenuta attraverso l'applicazione del congegno di capitalizzazione delle rendite vitalizie previsto nella tabelle di cui al r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403, escluso lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa: secondo il ricorrente tale somma sarebbe ampiamente inferiore a quella effettivamente spettantegli.

La S.C., condividendo la doglianza, cassa la pronuncia per difetto di motivazione ed afferma che la mancata detrazione della percentuale di abbattimento della rendita per lo scarto fra vita fisica e vita lavorativa non è sufficiente criterio di attualizzazione dei parametri, non più attendibili e razionali, adottati dal menzionato decreto del 1922. La pronuncia pone dunque la questione, in caso di liquidazione del danno patrimoniale futuro dipendente dalla compromissione della capacità reddituale del soggetto, conseguita alla lesione biologica tale da determinare una determinata percentuale di invalidità permanente, su quali parametri vadano impiegati ai fini della liquidazione e, in particolare, come vada applicato il meccanismo della capitalizzazione.

Come si è visto, l'invalidità permanente patita dal danneggiato può, come si sa, riflettersi sulla sua capacità di produrre, in futuro, un reddito. Nel procedere alla sua liquidazione possono impiegarsi diversi meccanismi, oltre alla liquidazione equitativa pura, purché sorretta da adeguata motivazione. Ad esempio, immaginando una perdita mensile di € 100 ed una residua vita lavorativa di 10 anni, si potrebbe pervenire alla quantificazione del pregiudizio in € 12.000. Ma, poiché pagare oggi una somma che sarà dovuta nel corso dei prossimi 10 anni determinerebbe un vantaggio per il creditore, il quale potrebbe investire la somma ricevuta e ricavarne un lucro, occorre praticare lo sconto matematico (secondo una formula che qui non è il caso di ricordare), ossia, in definitiva, corrispondere oggi una somma che, tutto considerato, darà tra 10 anni € 12.000. La liquidazione, altrimenti, può essere effettuata utilizzando il meccanismo della capitalizzazione, ossia della corresponsione al danneggiato, oggi, di una somma capitale corrispondente a quella necessaria a costituire una rendita vitalizia tale da comportare l'attribuzione, per il futuro, di ratei pari alla quota di reddito perduto, ossia, nell'esempio fatto poc'anzi, di € 100 mensili. La capitalizzazione in discorso si effettua attraverso appositi coefficienti, i quali tengano conto di due variabili: ossia, per un verso, della somma capitale definita come montante di anticipazione, a sua volta calcolata sulla base di un determinato saggio d'interesse, e, per altro verso, della durata media della vita umana, desunta dalle statistiche di mortalità. In giurisprudenza, è ricorrente l'uso dei coefficienti di capitalizzazione allegati al r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403, che ha approvato le tariffe della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, attraverso l'impiego della formula D = R * K, dove D è l'incognita, ossia il danno da liquidare; R è la quota annuale di reddito netto perduto dal danneggiato, dunque, nell'esempio fatto, € 1200; K è il coefficiente di capitalizzazione corrispondente, basato sull'età della vittima al momento della liquidazione. Dopodiché occorre in linea di principio sottrarre quanto corrispondente allo scarto tra vita fisica e vita lavorativa. L'impiego delle menzionate tabelle è stato sottoposto a critiche, sia perché utilizzano come criterio di calcolo un tasso di interesse del 4,5% (in passato inferiore ai rendimenti medi del capitale, oggi ampiamente superiore ad essi), sia perché si basano sulla tabella di mortalità, e cioè sulla durata media della vita, del 1911, intuitivamente inferiore a quella attuale. La S.C. ha più volte giudicato legittimo il ricorso da parte del giudice di merito alle tabelle menzionate per i fini della liquidazione del danno futuro da perdita della capacità lavorativa specifica (p. es. Cass. n. 6873/2000); ma, allo scopo di eliminare gli inconvenienti evidenziati, ha sottolineato l'esigenza di riconsiderare al rialzo i risultati del calcolo di capitalizzazione. È stato così affermato che, ove il giudice di merito utilizzi il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403, egli deve adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate, e cioè deve tenere conto dell'aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di «personalizzare» il criterio adottato al caso concreto, deve attualizzare lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa (Cass. n. 4186/2004; Cass. n. 15738/2010). Nel caso di specie, dunque, la corte d'appello chiamata a decidere, aveva per l'appunto operato la capitalizzazione, in conformità all'insegnamento della S.C., omettendo di scorporare l'importo corrispondente allo scarto tra vita fisica e vita lavorativa. Ma la soluzione non è questa volta parsa condivisibile al giudice di legittimità, secondo il quale, in buona sostanza, le tabelle in questione non forniscono più parametri di valutazione attendibile e razionali, indipendentemente dall'impiego del correttivo, in passato ritenuto sufficiente, dell'omessa sottrazione dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa. A quanto par di capire, dunque, i giudici, volendo procedere alla liquidazione del danno patrimoniale mediante capitalizzazione, dovranno d'ora in poi adottare indici diversi da quelli contenuti nelle tabelle allegate al r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403, realisticamente collegati al saggio di interesse attuale e a tabelle di mortalità parimenti attuali. La questione è tutt'altro che nuova, e, ad esempio, tabelle diverse (basate sulla mortalità nel 1981) sono leggibili in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Quaderni del CSM, 1990, n. 41, 127 e ss. (all'indirizzo http: www.csm.it/quaderni). Ma, certo, anche dette tabelle, che si basano su un incremento medio annuo della rendita vitalizia del 3%, e su un attuazione al tasso legale del 5%, sembrerebbero inadeguate, sicché permane l'interrogativo se vi siano, e quali, soddisfacenti tabelle oggi applicabili. Anche di recente è stato ribadito che il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell'integralità del risarcimento sancito dall'art. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall'altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano. (Cass. n. 10499/2017, che ha cassato la decisione impugnata, che aveva determinato la quota di reddito perduto da un avvocato, esercente da pochi mesi la professione, sulla base dell'imponibile fiscale dichiarato dal danneggiato nell'anno del sinistro, senza considerare il prevedibile progressivo incremento reddituale che, notoriamente, caratterizza tale attività, moltiplicandola, poi, per il coefficiente di capitalizzazione tratto dalla tabella allegata al r.d. n. 1403/1922, sebbene ancorata a dati non più attuali).

Cedibilità del credito risarcitorio del danno alla salute

Secondo la S.C. il contratto di cessione del credito può avere ad oggetto il diritto di credito al risarcimento del danno non patrimoniale (Cass. n. 22601/2013; contra Trib. Milano, Sez. X, 3 maggio 2012, n. 5149, in Arch. giur. circ. sin., 2012, 911). Una donna rimane coinvolta in un sinistro stradale. Ella, probabilmente, agisce come di consueto in giudizio nei confronti del proprietario del veicolo danneggiante e dell'assicuratore per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito, sotto specie di danno biologico e danno morale. Dopodiché, a quanto si comprende dalla sentenza, cede, in pendenza del giudizio, la sua ragione di credito (la sua, per così dire, aspettativa di risarcimento) ad un terzo. Sopraggiunge però, il pentimento, e dunque la donna chiede che la condanna al risarcimento del danno venga pronunciata in proprio favore, sull'assunto dell'incedibilità del menzionato credito e così dell'invalidità della cessione. Il tribunale giudica effettivamente non cedibile il credito. Propone appello il cessionario, il quale patrocina la tesi opposta della cedibilità del credito da risarcimento del danno non patrimoniale. La corte d'appello ribalta il verdetto e dà ragione al cessionario. La Corte di cassazione conferma la sentenza. È stato detto in dottrina che la più grande scoperta del diritto risiede in ciò, che il debito si può comprare e vendere: secondo la pronuncia menzionata si può far commercio del debito contratto da chi ha provocato ad altri un danno alla persona. Il quesito cui la S.C. risponde, con una pronuncia importante, che non risulta avere precedenti dello stesso tenore, è il seguente: può essere oggetto di cessione il diritto di credito al risarcimento del danno non patrimoniale? La norma di riferimento, nel codice civile, è l'art. 1260, il quale stabilisce che il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge. Ebbene, non c'è alcun espresso divieto legale all'alienazione del credito in questione, sicché si tratta di interrogarsi soltanto se il credito abbia o meno carattere strettamente personale.

La soluzione adottata dalla S.C., che ha riconosciuto la cedibilità del credito, appare motivata. In effetti il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale è un qualsiasi diritto di credito ad una somma di denaro, sulla cui circolazione non può incidere il titolo sulla base del quale esso si fonda. E la dottrina è difatti pressoché concorde nel riconoscere la possibilità di trasferire ad altri il proprio diritto di credito al risarcimento del danno non patrimoniale.

Alla possibile obiezione, secondo cui il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ha natura personale è in particolare agevole replicare che altro è l'interesse leso (in questo caso l'interesse, sicuramente personale, alla salute e all'integrità morale), altro il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di detto interesse: tant'è, come osserva anche la sentenza, che nessuno dubita della trasmissibilità iure hereditario del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, diritto che, ove fosse strettamente personale, non sarebbe suscettibile di trasmissione per causa di morte, come avviene, tanto per fare un esempio, per i diritti (e gli obblighi) derivanti dallo status di genitore o di figlio, ovvero per i crediti alimentari, per quei diritti, cioè, che, in ragione della loro stretta personalità, si estinguono con la morte del titolare.

Si è replicato che l'intervento della S.C. in ordine alla questione della cessione del credito risarcitorio non sembra risolvere in maniera definitiva le tante problematiche interpretative sottese al caso di specie, poste all'attenzione di dottrina e giurisprudenza. Di certo — si aggiunge — la S.C. pare aver confermato il principio di libera cedibilità dei crediti, nel tentativo di agevolare una migliore e più efficace circolazione dei beni e, quindi, al fine di meglio tutelare la posizione (debole) del danneggiato da sinistro stradale. Un obiettivo — quello del giudice di legittimità — per nulla censurabile in via puramente astratta, ma che non può essere raggiunto tramite forzature interpretative delle norme vigenti in materia, né tantomeno senza avere contezza fino in fondo dell'impatto macroeconomico di quel «mercato» dei sinistri che poco (o nulla) ha di positivo allo stato attuale. Viene rammentato il commento riservato dalla dottrina alla prima sentenza che aveva consentito la trasmissibilità iure hereditario del danno biologico da uccisione: «Se il sussidiario e consequenziale diritto al risarcimento ha natura non personale ma pecuniaria, tanto da vivere di vita autonoma e da cadere nell'asse ereditario, cosa ne impedisce la trasmissibilità inter vivos? Si potrebbe sviluppare un mercato in cui non si scambiano i diritti alla salute, ma le pretese risarcitorie che potrebbero scaturire da loro lesioni. Il soggetto in difficoltà economica potrebbe trovar conveniente rinunciare ora ad una propria eventuale pretesa futura alienandola a compagnie che rastrellerebbero pretese future per danni biologici, da far poi valere in blocco onde aver pure una maggior forza contrattuale verso le assicurazioni ... Siffatte conseguenze condannano la teoria, avrebbe detto il Gabba» (Monateri, 1989, 1177). Si pone così in luce il macabro mercato delle lesioni è ormai alle porte e si evidenzia che solo un serio pronunciamento delle Sezioni Unite può ridisegnare il quadro della situazione per condurlo ad equità. La pronuncia commentata della Suprema Corte non pare, da ultimo, in perfetta sintonia con l'approccio dimostrato in merito alla questione da parte dello stesso legislatore: le recenti riforme in materia assicurativa hanno, infatti, compresso e non ampliato le facoltà di cessione dei crediti risarcitori in capo ai danneggiati-assicurati. E ciò al giusto scopo — anch'esso tutt'altro che censurabile — di mettere ordine nella contorta prassi vigente in materia infortunistica e consentire la tanto invocata diminuzione dei premi e delle tariffe assicurative, a vantaggio dell'intera collettività (così Argine, 2014, 544).

Risarcimento del danno e transazione su danni futuri

Nella transazione fra assicuratore e danneggiato, con la quale quest'ultimo abbia accettato una certa somma a tacitazione del pregiudizio subito, ivi considerati i danni futuri, non possono essere compresi anche quei danni non ancora manifestatasi, i quali non potevano essere previsti al momento della transazione in mancanza di elementi obiettivi ed attuali che li rendessero conoscibili (Cass. n. 6657/2009).

La pronuncia esamina il caso di un'infermiera ferrista, che, ferma ad un semaforo alla guida della propria autovettura, viene tamponata violentemente da un altro veicolo. Subisce un «colpo di frusta» e transige la controversia con l'assicuratore del danneggiante dietro pagamento della somma. L'atto di transazione contiene una clausola ricorrente: essa riguarda non soltanto le ipotetiche liti future, ma anche i danni futuri, cagionati dal sinistro. Molti anni dopo le condizioni della donna peggiorano sensibilmente, sicché ella si risolve ad agire in giudizio per il risarcimento dei danni ulteriori, secondo il suo punto di vista non «coperti» dall'indennizzo percepito. La domanda è respinta in primo grado, ma è accolta in appello. La corte di merito, infatti, fa applicazione di un indirizzo giurisprudenziale, di cui si dirà tra breve, secondo il quale la transazione su danni futuri è sì configurabile, ma sempre che abbia ad oggetto sviluppi ragionevolmente prevedibili al momento dell'accordo: viceversa, la transazione non «copre» quei danni che, al momento, il danneggiato non era in grado di rappresentarsi. Il giudice di appello, nel riformare la sentenza, fa leva, in particolare, sulla consulenza tecnica fatta espletare, ritenendo dimostrato che l'aggravamento delle condizioni della danneggiata: a) non fosse prevedibile al momento della transazione; b) fosse collegato, sul piano eziologico, al tamponamento ed al colpo di frusta da cui la vicenda si era originata.

La transazione è, secondo l'art. 1965 c.c., il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Da un lato, dunque, vi è una lite attuale o potenziale (res dubia), dall'altro lato le concessioni reciproche (aliquid datum, aliquid retentum) che pongono fine o prevengono la lite. È dunque la stessa norma a stabilire che la transazione, per quanto può riguardare liti potenziali, possa, per così dire, proiettarsi in futuro. Nel caso la lite abbia ad oggetto il diritto al risarcimento del danno aquiliano vantato da una parte nei confronti dell'altra può sovente prospettarsi, però, una diversa eventualità collocata in futuro: può accadere, cioè, che la transazione abbia luogo quando, dopo il consumarsi di una condotta lesiva, le conseguenze dannose siano ancora in itinere, sicché le parti, intendendo transigere l'intera vertenza, facciano oggetto della transazione non soltanto i danni attuali, ma anche quelli futuri.

Riguardo ad una simile pattuizione, che nei modelli di transazione utilizzati dalle società assicurative per i danni da sinistri stradali è quantomeno frequente, la giurisprudenza della S.C. fa da epoca remota un ben preciso distinguo: se i danni concretizzatisi dopo la transazione erano al momento di essa ragionevolmente prevedibili, la transazione si estende anche ad essi; se tali danni non erano invece ragionevolmente prevedibili, non sono «coperti» dalla transazione. Il che si argomenta a partire dal requisito della determinatezza o determinabilità dell'oggetto del contratto di cui all'art. 1346 c.c., giacché una transazione su danni futuri prevedibili riguarda un oggetto determinabile, mentre una transazione su danni futuri imprevedibili concerne un oggetto indeterminato.

Si trova così stabilito, fin da epoca ormai remota, che, in tema di transazione sui danni per responsabilità da fatto illecito, quando l'atto contenga una clausola indicante come compreso nella transazione ogni diritto presente e futuro, con dichiarazione del danneggiato di non avere più nulla a pretendere per qualsiasi titolo di danno, anche se non conosciuto, e di rinunciare, quindi, ad ogni azione ed in qualsiasi sede, il danneggiato può chiedere successivamente il risarcimento dei danni non ancora venuti ad esistenza al momento della transazione, dei quali non si avevano elementi per ritenere, secondo una ragionevole previsione, che si sarebbero potuti verificare (Cass. n. 3172/1975, Giur. it., 1975, I, 1, 1929, con nota di Berri, Sull'estensione ai danni futuri anche non conosciuti delle «quietanze di risarcimento» da parte delle società assicuratrici della responsabilità civile; nello stesso senso Cass. n. 3905/1977; Cass. n. 9101/1995; Cass. n. 3888/1996). Ed il principio, naturalmente, trova spazi applicativi non soltanto con riguardo al settore della responsabilità civile derivante da sinistri stradali. Così, tra le pronunce più recenti sul tema, la regola della non estensibilità della transazione ai danni futuri imprevedibili è stata applicata materia di locazione. Ad esempio, in caso di transazione intervenuta nel quadro di una controversia in punto di cessazione del rapporto di locazione e di danni all'immobile emersi solo successivamente al rilascio (Cass. n. 615/2003; v. pure, in materia di locazione, Cass. n. 12320/2005). In applicazione del principio che precede, dunque, la S.C. ha rilevato l'erroneità della statuizione del giudice di appello, il quale aveva omesso di considerare, ai fini della prevedibilità dell'aggravamento, il lavoro stesso di infermiera ferrista svolto dalla donna, che, come emergente dagli accertamenti tecnici eseguiti in corso di giudizio, era costretta a svolgere la sua attività in piedi ed assumendo posture scomode e faticose.

Affinché i danni successivi alla transazione possano essere risarciti, in quanto non prevedibili al momento della sua stipulazione, occorre, senza dubbio, che si tratti di danni legati alla condotta lesiva dal nesso di causalità materiale: occorre, cioè, per usare l'espressione dell'art. 2043 c.c., che il fatto abbia «cagionato» il danno. Ebbene, dalla sentenza in commento emerge che, nell'arco temporale tra la transazione e la domanda risarcitoria successivamente proposta, a causa del preteso aggravarsi delle conseguenze del «colpo di frusta», la donna aveva subito altri tre incidenti (non sappiamo con esattezza di che genere) che avevano anch'essi interessato il rachide cervicale. Sicché la S.C. ha censurato la sentenza impugnata anche per non aver attribuito nessun peso ai menzionati sinistri sopravvenuti. Qui si entra nei meandri del tema, intrinsecamente complesso, del nesso di causalità. Preso per buono il criterio della condicio sine qua non, e ritenuto cioè che il nesso di causalità sussista in relazione a tutti quei fatti in mancanza dei quali il danno non si sarebbe cagionato, sorge il quesito del rilievo che possano assumere fatti ulteriori, i quali possono avere, di volta in volta, un'efficienza concausale ovvero un'efficienza causale esclusiva. Quando è possibile ricostruire il diramarsi del nesso di causalità in termini positivi, ogni interrogativo si placa: in ipotesi di concause, il nesso di causalità tra il fatto e il danno c'è per ciascuna di esse; in ipotesi di causa esclusiva, le altre cause, ovviamente, non sono effettivamente tali. Resta da stabilire se in caso di incertezza sulla serie causale l'incertezza debba rimanere a carico del danneggiato (il quale rimarrà senza alcun risarcimento, sebbene il fatto potrebbe avergli cagionato il danno) o debba gravare sull'ipotetico danneggiante (che potrebbe essere effettivamente responsabile). Si potrebbe riflettere se e in che misura la soluzione al quesito sia condizionata dall'adesione della S.C. alla teoria del «più probabile che non» (a partire da Cass. n. 21619/2007).

Danno alla salute e responsabilità medica

Si è detto in apertura che la lesione del diritto alla salute può procedere tanto da una condotta aquiliana, quanto da un inadempimento contrattuale. Ed in effetti, il tema del diritto alla salute, e quello connesso del danno alla salute, si è particolarmente sviluppato nell'ultimo ventennio proprio con riguardo al settore della responsabilità professionale medica, la quale si è evoluta non in senso tale da rafforzare sempre più la tutela del danneggiato a fronte della posizione del medico e della struttura sanitaria nel suo complesso. In breve, può dirsi che l'evoluzione della materia si è connotata per alcuni aspetti nodali: anzitutto la dislocazione complessiva della responsabilità professionale medica nel comparto della responsabilità contrattuale, salvo quanto si accennerà con riguardo recenti novità normative, dislocazione che ha comportato, in breve, lo spostamento del carico probatorio per lo più sul danneggiante; d'altro canto è stata sostanzialmente abbandonata una distinzione, quella tra obbligazioni di mezzo e di risultato, che consentiva sovente al medico di sottrarsi ad ogni addebito di responsabilità; ed infine si è modificata, proprio a partire dal comparto della responsabilità medica, la lettura data dalla giurisprudenza al congegno di funzionamento del nesso di causalità tra la condotta e l'evento, nesso che, nella prospettiva del «più probabile che non», è oggi riconosciuto come sussistente anche in situazione di sostanziale incertezza.

Al fine di ricapitolare i termini della questione, può muoversi da una ampia pronuncia la quale ha preso posizione su una serie di questioni di enorme importanza applicativa, ribadendo il principio della sua collocazione dal versante contrattuale ed indicando con analitica precisione le regole da applicarsi in tema di riparto dell'onere probatorio tra il paziente ed il medico (Cass. n. 8826/2007).

In particolare, la decisione ha esaminato gli aspetti: dell'intensità della diligenza richiesta al medico; dell'irrilevanza, ai fini del riparto dell'onere probatorio, della distinzione tra interventi «facili» e «difficili»; della qualificazione come inadempimento da parte del medico anche del solo mancato miglioramento del paziente; dell'irrilevanza, sempre ai fini del riparto dell'onere probatorio, della distinzione tra obbligazioni «di mezzi» e obbligazioni «di risultato». La decisione osserva in sintesi quanto segue: i) la responsabilità della struttura ospedaliera ha natura contrattuale; l'ingresso del paziente in una struttura ospedaliera pubblica o privata, ai fini della fruizione di una prestazione sanitaria, determina infatti la conclusione di un contratto atipico di prestazione d'opera, definito come contratto di spedalità, il quale ha ad oggetto, oltre alla prestazione sanitaria intesa nel senso più ampio, comprensivo della messa a disposizione del personale ausiliario, dei mezzi tecnici e dei farmaci, anche prestazioni ulteriori di carattere alberghiero; ii) la struttura ospedaliera risponde inoltre nei confronti del paziente delle condotte dolose o colpose del personale, in particolare di quello medico, di cui si avvale, indipendentemente dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, secondo la disciplina dettata dall'art. 1228 c.c., il quale trova fondamento nel rischio, ricadente sul debitore, connaturato all'utilizzazione di terzi nell'adempimento dell'obbligazione; iii) la responsabilità della struttura ospedaliera ai sensi del citato art. 1228 c.c. sussiste anche nel caso che la condotta dolosa o colposa venga posta in essere da un medico di fiducia del paziente, sempre che quest'ultimo abbia effettuato la propria scelta nell'ambito del personale di cui tale struttura si avvale; viceversa, se il paziente abbia richiesto alla struttura ospedaliera l'esecuzione di una prestazione sanitaria effettuata da un medico di propria fiducia, estraneo alla struttura medesima, la responsabilità di questa ex art. 1228 c.c. viene meno, dal momento che essa va a collocarsi nella posizione di mero «cooperatore del creditore»; iv) accanto alla responsabilità della struttura ospedaliera verso il paziente ha natura contrattuale anche quella del medico ospedaliero; la natura contrattuale del rapporto medico ospedaliero-paziente è fondata sul fenomeno del «contatto sociale» che si instaura tra le parti. Semplificando il concetto, possiamo dire che, quantunque tra i due soggetti non intercorra una vera e propria pattuizione, il medico è pur sempre tenuto ad eseguire la propria prestazione in conformità al profilo professionale che gli appartiene, sicché la sua responsabilità, discendendo dalla violazione di un'obbligazione preesistente, non può che essere inquadrata nell'ambito della disciplina dell'inadempimento delle obbligazioni posta in via generale dagli artt. 1218 ss. c.c.; v) dalla natura contrattuale della responsabilità del medico ospedaliero discendono precise conseguenze con riguardo ai parametri che egli deve osservare nell'esecuzione della prestazione; trova in tal caso applicazione il combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c.: il che vuol dire che il medico ospedaliero è tenuto ad osservare non già la diligenza del buon padre di famiglia, bensì quella, di più intenso grado, del buon professionista. E detto grado di diligenza deve essere ancor più intenso in considerazione della specializzazione del medico, tenuto conto che a diversi gradi di specializzazione corrispondono diversi gradi di perizia. Il che vuol dire, cioè, che il giudizio sull'osservanza del parametro di diligenza richiesto va calibrato in funzione delle caratteristiche del professionista e della struttura entro la quale egli opera; vi) il medico ospedaliero, inoltre, in ragione della natura contrattuale dell'obbligazione, è contrattualmente tenuto al risultato dovuto — venendo così a cadere, come si ribadirà tra breve, la tradizionale distinzione dell'obbligazione «di mezzi» obbligazioni «di risultato» — ossia al risultato conseguibile secondo criteri di normalità, da valutarsi in relazione alle condizioni del paziente, all'abilità tecnica del professionista e alla capacità tecnico-organizzativa della struttura; vii) sul piano probatorio si applicheranno naturalmente le regole della responsabilità contrattuale; a tal riguardo occorre anzitutto sottolineare che, ai fini del riparto dell'onere probatorio, nulla rileva che l'intervento da cui è derivato il danno sia o meno di difficile esecuzione, ai sensi dell'art. 2236 c.c.; tale circostanza — qui la presa di posizione della S.C. è di rilievo fondamentale — incide esclusivamente sulla valutazione del grado di diligenza e sul corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario, senza dispiegare alcun effetto sulla ripartizione dei carichi probatori. La menzionata ripartizione, cioè, è indifferente alla distinzione tra interventi «facili» e interventi «difficili», mentre incombe in ogni caso al medico, dinanzi all'insuccesso dell'intervento, dare la prova della particolare difficoltà della prestazione; viii) altro passaggio di importanza fondamentale è quello dedicato dalla pronuncia alla distinzione, giudicata priva di supporto normativo e logico, tra obbligazioni «di mezzi» ed obbligazioni «di risultato»; quella del medico, cioè, è obbligazione diretta al conseguimento di uno specifico obiettivo, avuto riguardo al criterio di normalità fondato sul dato statistico; spetta al professionista, perciò, una volta che il paziente abbia provato l'esistenza del contratto, qualora sua prestazione del primo non abbia determinato il conseguimento del risultato normalmente ottenibile, dare la prova del verificarsi di eventi imprevedibili ed inevitabili ai sensi del combinato disposto degli artt. 1218 e 2697 c.c.; ix) il mancato conseguimento del risultato normalmente ottenibile, ancora, non si ha soltanto nel caso di aggravamento dello stato morboso del paziente, ma anche nel caso di mancato miglioramento, ovvero di inalterazione delle condizioni del paziente, il quale rende inutile l'intervento effettuato e, pertanto, si caratterizza pure esso quale insuccesso; anche questa importantissima osservazione, naturalmente, discende dall'inquadramento della responsabilità del medico nell'ambito della responsabilità contrattuale, essendo evidente che, qualora essa avesse natura aquiliana, il mero insuccesso non potrebbe mai presentarsi quale danno risarcibile; x) le conclusioni raggiunte in punto di riparto dell'onere probatorio — viene ulteriormente precisato — si armonizzano con il basilare principio di vicinanza della prova, già elaborato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, principio che si giustifica in ragione della maggiore possibilità per il debitore di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio: e ciò in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore.

Nella pronuncia può in particolare isolarsi un'affermazione non sempre condivisa nel passato: l'obbligazione del medico è un'obbligazione di risultato, consistente nel raggiungimento di un obbiettivo, la guarigione, sia pure entro i limiti del possibile conseguimento di essa alla luce di un parametro di normalità.

Nella giurisprudenza della S.C. è stata per decenni ricorrente l'affermazione secondo cui le obbligazioni attinenti all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi, non di risultato. Pertanto, il prestatore d'opera intellettuale non è responsabile se il risultato non viene raggiunto, ovvero non viene raggiunto nella forma prevista, e l'inadempimento si concreta nella violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale (Cass. S.U. n. 375/1965; tra le molte successive, v. Cass. n. 6967/2006; Cass. n. 20869/2004; Cass. n. 10454/2002; Cass. n. 5928/2002; Cass. n. 2836/2002; Cass. n. 10431/2000, in tema di responsabilità professionale dell'avvocato; Cass. n. 15255/2005; Cass. n. 15124/2001; Cass. n. 9877/2000, in tema di responsabilità professionale direttore dei lavori; Cass. n. 4400/2004, in tema di responsabilità professionale del medico; Cass. n. 1228/2003, in tema di responsabilità professionale del notaio).

La distinzione tra obbligazioni di mezzi, o obbligazioni di diligenza, ed obbligazioni di risultato — elaborata dalla dottrina francese nella prima parte del secolo scorso — si riassume in ciò, che, mentre di regola il debitore assume l'obbligazione di apportare al creditore un preciso risultato, in taluni casi egli si impegnerebbe soltanto a svolgere una certa attività in conformità a determinate regole, sia pure allo scopo, mediato, di pervenire ad un risultato sperato. Nel caso delle obbligazioni di mezzi, cioè, il risultato non potrebbe essere raggiunto se non grazie all'intervento di un complesso di fattori favorevoli, non tutti controllabili dal professionista: così, volendo ricorrere ad uno dei più comuni esempi dottrinari, «il medico può soltanto mettere in essere alcune condizioni necessarie o utili per promuovere il risanamento dell'infermo: ma la riuscita della cura esige purtroppo la presenza di altri elementi, sui quali il medico non ha potere» (Mengoni, 1954, 189 ss.).

La distinzione, evidentemente, comporta massicce ricadute sul piano del riparto degli oneri di allegazione ovvero di prova — secondo le diverse impostazioni — dal momento che nelle obbligazioni di mezzi non basterebbe al creditore, come nelle obbligazioni di risultato, la sola allegazione/prova del mancato raggiungimento dello scopo al quale l'attività del debitore era diretta, ma occorrerebbe la (certo più impegnativa) allegazione/ prova della negligenza addebitabile al debitore nell'esecuzione della prestazione (v. in proposito Visintini, 2006, 117).

In Italia la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato è stata guardata, in grande prevalenza, con marcato scetticismo. Si è detto, anzi, che l'adesione giurisprudenziale alla distinzione si spiegherebbe «principalmente per la forza di suggestione della formula più che per una meditata analisi» (Bianca, 1979, 32). Effettivamente, si è chiarito, «un risultato inteso come momento finale o conclusivo della prestazione, è dovuto in tutte le obbligazioni» (Bianca, 1979, 33). Sicché — secondo l'impostazione di uno dei contributi critici più noti — l'inadempimento «si verifica con il mancato raggiungimento del risultato, e questo forma l'unico oggetto di prova del cliente, mentre la dimostrazione della diligenza impiegata e della causa non imputabile grava sul professionista, alla stregua di un comune debitore» (Fortino, 1984, 65).

Il rilievo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato è stato dunque escluso dalla giurisprudenza con riguardo all'importantissimo problema pratico dell'applicabilità alla prestazione d'opera intellettuale dell'art. 2226 c.c., dettato in tema di decadenza e prescrizione dell'azione di garanzia per vizi dell'opera.

A tal riguardo, le Sezioni Unite della Cassazione hanno escluso che il criterio risolutivo ai fini dell'applicabilità della disposizione alle prestazioni in questione potesse essere costituito dalla distinzione — priva di incidenza sul regime di responsabilità del professionista — fra le cosiddette obbligazioni di «mezzi» e le cosiddette obbligazioni di «risultato»: e ciò tenuto conto anche della frequente commistione, rispetto alle prestazioni professionali in questione, delle diverse obbligazioni in capo al medesimo o a distinti soggetti in vista dello stesso scopo finale (Cass. S.U., n. 15781/2005).

Ecco, dunque, secondo Cass. n. 8826/2007, che «il professionista, ed il medico specialista in particolare, è ... tenuto non già ad una prestazione professionale purchessia bensì impegnato ad una condotta specifica particolarmente qualificata, in ragione del proprio grado di abilità tecnico-scientifica nel settore di competenza, in vista del conseguimento di un determinato obiettivo dovuto, avuto riguardo al criterio di normalità». Ciò con la ulteriore precisazione, nient'affatto trascurabile, che il mancato raggiungimento del risultato, secondo la stessa sentenza in commento, non è dato soltanto dall'aggravamento della situazione morbosa del paziente, ma anche dal suo mancato miglioramento, il quale rende inutile l'intervento effettuato e, così, si presenta quale insuccesso.

È appena il caso di accennare che la materia della responsabilità medica è stata recentemente oggetto di riforma da parte della l. 8 marzo 2017, n. 24, la quale ha tra l'altro sancito espressamente che la struttura sanitaria risponde a titolo di responsabilità contrattuale nei confronti del paziente, mentre il medico risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale. L'art. 7 della citata legge, in particolare, ha stabilito che: i) la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose; ii) l'esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell'art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'art. 5 della stessa legge, concernente l'osservanza delle buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida, e dell'art. 590-sexies c.p., concernente la responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria; iii) il danno conseguente all'attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell'esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209.

Un tentativo di complessiva sistemazione della materia si è avuta nel novembre del 2019 con la pronuncia di un gruppo di sentenze che hanno preso in estrema sintesi posizione sui seguenti temi:

-) disciplina applicabile ai fatti antecedenti alla pubblicazione della c.d. legge Gelli-Bianco (Cass. III, n. 28994/2019; Cass. III, n. 28990/2019);

-) riparto di responsabilità tra struttura ospedaliera e sanitario ed onere della prova ai fini del regresso e rivalsa tra condebitori (Cass. III, n. 28987/2019);

-) responsabilità della struttura ospedaliera e del del sanitario, nesso causale e onere della prova del paziente (Cass. III, n. 28989/2019; Cass. III, n. 28991/2019; Cass. III, n. 28992/2019);

-) diverse tipologie di danno (violazione consenso informato: Cass. III, n. 28985/2019; parto: Cass. III, n. 28988/2019; integrità della persona: Cass. III, n. 28986/2019; perdita di chance: Cass. III, n. 28993/2019).

Al fine di illuminare la stessa nozione di diritto alla salute, come emergente dalla giurisprudenza in materia di responsabilità professionale medica, alla quale non può in questa sede essere riservata una complessiva ed esaustiva disamina, merita esaminare il tema del risarcimento del danno da omessa diagnosi di malattia incurabile .

Secondo la S.C., l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale assume rilievo causale non solo in relazione alla chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ma anche per la perdita da parte del paziente della chance di conservare, durante quel decorso, una «migliore qualità della vita», intesa quale possibilità di programmare il proprio essere persona, e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell'esito (Cass. n. 16993/2015). Con riguardo ad un caso di tardiva diagnosi di carcinoma dell'utero particolarmente aggressivo — ha affermato la pronuncia —, come tale non curabile, spetta al paziente, se non altro, il risarcimento di un danno parametrato alla perdita della chance di conservare una «migliore qualità della vita».

La sentenza richiama alcuni precedenti in tema di omessa diagnosi di malattia terminale, riguardo alla quale è stato affermato — in particolare — che «l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cosiddetto palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire di tale intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze» (Cass. n. 23846/2008; in seguito Cass. n. 16014/2009; Cass. n. 7195/2014).

Altro tema che si è imposto all'attenzione della dottrina e della giurisprudenza è quello del consenso informato. Tale formula, per la verità pletorica, quale traduzione del corrispondente statunitense informed consent, che richiama i principi degli artt. 13 e 32 Cost. induce a ribadire che il trattamento sanitario eseguito in mancanza di consenso informato è fonte di responsabilità per il medico che pure non abbia commesso, per il resto, alcun errore. E ciò perché la mancanza del consenso informato costituisce violazione del diritto inviolabile all'autodeterminazione del paziente (Cass. S.U., n. 26972/2008).

Sappiamo dunque che un trattamento sanitario eseguito senza la preventiva acquisizione del consenso informato è perciò solo illegittimo. Il consenso informato è cioè coessenziale alla legittimità dell'atto medico è finisce così per far parte integrante di esso: è da ritenere, allora, che l'acquisizione del consenso informato sia a propria volta un atto medico. Ecco, dunque, che essa compete e ricade sotto la responsabilità, anzitutto, del medico che si appresta ad eseguire il trattamento sanitario. Perciò l'acquisizione del consenso informato non è delegabile, tantomeno a chi medico non è, ed in particolare ad un infermiere.

Fin qui, però, la risposta è solo apparentemente completa e soddisfacente: lo è, cioè, per quanto il trattamento sanitario è rimesso all'operato del singolo medico. Questa, però, è ipotesi ormai secondaria, giacché l'evolversi dell'attività professionale medica fa sì che il medico lavori sempre più in équipe con altri medici, oltre ad avvalersi dell'attività svolta da personale non medico.

Nel caso dell'équipe medica ciascun medico deve ottenere il previo consenso informato per il segmento di trattamento di sua pertinenza: consenso informato che deve essere cioè espresso anche con riguardo alle operazioni preparatorie e a quelle successive rispetto all'intervento vero e proprio: si pensi, in ambito chirurgico, al rilievo dell'anestesista. A proposito degli interventi chirurgici condotti in équipe, la S.C. ha stabilito che il medico non può intervenire senza il consenso informato del paziente, aggiungendo che «se le singole fasi assumono un'autonomia gestionale e presentano varie soluzioni alternative, ognuna delle quali comporti rischi diversi, il suo dovere di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi» (Cass. n. 364/1997).

Se nell'équipe c'è un medico in posizione apicale, è questi il responsabile dell'acquisizione del consenso informato. Il medico è poi normalmente inserito in un reparto, oggi Unità Operativa, al vertice della quale c'è un primario, oggi Direttore, il quale è titolare di «funzioni di direzione e organizzazione della struttura, da attuarsi, nell'ambito degli indirizzi operativi e gestionali del dipartimento di appartenenza, anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa, e l'adozione delle relative decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l'appropriatezza degli interventi» (art. 15, comma 6, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni). È perciò il Direttore che sovrintende all'acquisizione del consenso informato, ha il potere di dare disposizioni in proposito e ne porta, unitamente al medico chiamato ad intervenire, la responsabilità.

Difatti, ricade sulla struttura sanitaria, unitamente al medico, l'onere di provare che il consenso è stato acquisito e correttamente: «Pretendere in capo al paziente la puntuale allegazione e la dimostrazione del tipo di informazione resa ... pare irrealizzabile non fosse altro per l'evidente asimmetria informativa esistente tra le parti. Per contro, esigere dalla struttura sanitaria di documentare e conservare traccia di quanto effettuato, anche in considerazione del trattamento e della conservazione dei dati personali ai sensi dell'allora vigente l. 675/1996 (ed ora del d.lgs. 196/2003), appare, oltre che più ragionevole, certamente in linea con la regola di cui all'art. 1218 c.c., da leggersi in unione con l'art. 1176, comma 2, c.c.». (Trib. Venezia 4 ottobre 2004, in Giur. mer., 2005, 1033).

Altro tema di interesse è quello della tenuta ed efficacia probatoria della cartella clinica.

È stato detto che l'ideazione di una embrionale cartella clinica si deve nientemeno che ad Ippocrate, il quale, tra il quarto e quinto secolo a.C., nel teorizzare la necessità dell'osservazione razionale dei pazienti attraverso l'indagine dei sintomi, sottolineava come una buona riuscita delle cure esigesse l'annotazione nei sintomi riferiti e rilevati, delle diagnosi formulate e delle cure prescritte.

Sebbene la cartella clinica, almeno nella sua primitiva nozione, risalga ad epoca così remota, essa non trova, tuttora, nella legislazione vigente una precisa definizione, né tantomeno una organica regolamentazione. Alla cartella clinica si riferiscono infatti diversi dati normativi, i quali però ne danno per presupposti natura e contenuti.

Tralasciando il r.d. 5 febbraio 1891, n. 99, che prevedeva la conservazione dei documenti relativi alla ammissione del ricoverato, nonché alla diagnosi, al riassunto delle sue condizioni ed alla dimissione, nonché il successivo r.d. 30 settembre 1938, n. 1631, che attribuiva al primario la responsabilità della regolare tenuta delle cartelle cliniche e dei registri nosologici, occorre muovere dal meno remoto d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, recante l'«Ordinamento interno dei servizi ospedalieri», il quale si limita ad affermare, relativamente agli ospedali pubblici, che «il primario ... è responsabile della regolare compilazione delle cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, fino alla consegna all'archivio centrale», e che «il direttore sanitario ... vigila sull'archivio delle cartelle cliniche ... rilascia agli aventi diritto ... copia delle cartelle cliniche».

Il d.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, sulle mansioni degli infermieri professionali e generici, elenca tra le attribuzioni di carattere organizzativo ed amministrativo dei primi la «annotazione sulle schede cliniche degli eventuali rilievi di competenza ... e conservazione di tutta la documentazione clinica fino al momento della consegna gli archivi centrali». In seguito il d.p.c.m. 27 giugno 1986, recante «Atto di indirizzo e coordinamento ... in materia di requisiti delle case di cura private», ha sancito all'art. 35 che «in ogni casa di cura privata è prescritta, per ogni ricoverato, la compilazione della cartella clinica da cui risultino le generalità complete, la diagnosi di entrata, l'anamnesi familiare e personale, l'esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la terapia, gli esiti ed i postumi».

Secondo le linee guida del Ministero della salute 17 giugno 1992 concernenti la compilazione, la codifica e la gestione della «Scheda di Dimissione Ospedaliera» (SDO) istituita con d.m. 28 dicembre 1991, la cartella clinica è definita come «lo strumento informativo individuale finalizzato a rilevare tutte le informazioni anagrafiche e cliniche significative relative ad un paziente e ad un singolo episodio di ricovero. Ciascuna cartella clinica ospedaliera deve rappresentare l'intero episodio di ricovero del paziente nell'istituto di cura: essa, conseguentemente, coincide con la storia della degenza del paziente all'interno dell'ospedale. La cartella clinica ospedaliera ha così inizio al momento dell'accettazione del paziente in ospedale, ha termine al momento della dimissione del paziente dall'ospedale e segue il paziente nel suo percorso all'interno della struttura ospedaliera».

All'art. 26 del Codice di deontologia medica in vigore che: « Il medico redige la cartella clinica, quale documento essenziale dell'evento ricovero, con completezza, chiarezza e diligenza e ne tutela la riservatezza; le eventuali correzioni vanno motivate e sottoscritte. Il medico riporta nella cartella clinica i dati anamnestici e quelli obiettivi relativi alla condizione clinica e alle attività diagnostico-terapeutiche a tal fine praticate; registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell'eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua redazione. Il medico registra nella cartella clinica i modi e i tempi dell'informazione e i termini del consenso o dissenso della persona assistita o del suo rappresentante legale anche relativamente al trattamento dei dati sensibili, in particolare in casi di arruolamento in protocolli di ricerca».

Non mancano poi disposizioni di settore le quali incidono sul contenuto della cartella clinica. Così, ad esempio l'art. 7, comma 1,  l. 15 marzo 2010, n. 38, recante «Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore», il quale, sotto la rubrica «Obbligo di riportare la rilevazione del dolore all'interno della cartella clinica», stabilisce che: «All'interno della cartella clinica, nelle sezioni medica ed infermieristica, in uso presso tutte le strutture sanitarie, devono essere riportati le caratteristiche del dolore rilevato e della sua evoluzione nel corso del ricovero, nonché la tecnica antalgica e i farmaci utilizzati, i relativi dosaggi e il risultato antalgico conseguito».

Una specifica menzione, ai fini della definizione del contenuto della cartella clinica, merita la «Scheda di Dimissione Ospedaliera» (SDO), che, come chiarito dalla Circolare del Ministero della Sanità «Linee guida n. 1/95», in G.U. 29 giugno 1995, n. 150, costituisce «ai sensi del citato decreto, parte integrante della cartella clinica, della quale assume la medesima rilevanza medico-legale, e che, conseguentemente, è un atto pubblico, dotato di rilevanza giuridica, la cui corretta compilazione obbliga la responsabilità del medico». Emerge in particolare da tale circolare che la SDO costituisce «titolo per l'accesso alle remunerazioni delle prestazioni di assistenza ospedaliera» attraverso il sistema del DRG (Diagnosis Related Group).

Già dall'elencazione dei dati normativi ricordati emerge come la cartella clinica abbia natura di atto complesso a formazione progressiva, il quale, in realtà, ricomprende in sé componenti diverse e provenienti da diverse mani, che si giustappongono e consolidano nel corso della degenza ospedaliera del paziente. Potremmo dire che lo «strumento informativo» cartella clinica è in realtà nient'altro che un contenitore delle informazioni anagrafiche e cliniche inerenti a un singolo episodio di ricovero, che raccoglie «i dati anamnestici e obiettivi riguardanti il paziente», nonché «quelli giornalieri sul decorso della malattia, i risultati delle indagini strumentali e laboratoristiche effettuate, quelli inerenti alle terapie praticate e, infine, la diagnosi della malattia che ha condotto il paziente in ospedale», con le conseguenti conclusioni diagnostiche e terapeutiche cui si è pervenuti al termine del ricovero (Fineschi-Riezzo-Pomara, 2006, 368).

Possiamo trovare dunque nella cartella clinica: i) il foglio della terapia farmacologica; ii) il foglio delle prescrizioni non farmacologiche; iii) referti; iv) le consulenze; v) il registro operatorio; vi) le informative e le dichiarazioni di volontà del paziente (consenso informato); vii) il diario clinico. Quest'ultimo documento possiede, in effetti, rilievo primario all'interno della cartella clinica: esso attesta l'evoluzione della situazione clinica del paziente, con la diagnosi formulata ed il piano terapeutico praticato.

La cartella clinica ha inoltre una pluralità di funzioni. Possono identificarsene essenzialmente tre: a) una funzione sanitaria, giacché disporre di informazioni esaurienti costituisce, per il medico chiamato ad intervenire in una situazione di degenza già in atto, una esigenza fondamentale ai fini anzitutto di un appropriato esercizio dell'attività terapeutica; b) una funzione amministrativa, consistente nella documentazione dell'attività svolta, anche ai fini della sua remunerazione attraverso il sistema del DRG; c) una funzione probatoria, attraverso una rigorosa e puntuale registrazione del divenire della degenza, tale da assicurarne la più accurata tracciabilità per eventuali esigenze medico-legali.

Il diario clinico, che è elemento centrale della cartella clinica, non può che descrivere selettivamente il dipanarsi della situazione del paziente: non ogni evento occorso è annotato nel diario clinico, ma soltanto i dati obiettivamente rilevanti per i fini della completezza del supporto informativo, dati che spetta al medico individuare. Altrettanto ovvio è che l'annotazione sul diario clinico possa avvenire in un tempo che sia ragionevolmente compatibile con la riflessione medica, con l'attività di reparto e con le contingenze del caso concreto; ciò che conta è il rispetto della sequenza cronologica nella registrazione degli eventi.

L'annotazione predetta deve avvenire nel rispetto delle prescrizioni deontologiche e, in particolare, della regola dettata dal citato art. 26 del Codice di Deontologia Medica, secondo cui «la cartella clinica ... deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza ... e contenere, oltre ad ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate. La cartella clinica deve registrare i modi e i tempi delle informazioni». La stessa giurisprudenza di legittimità non manca di valorizzare il requisito della «contestualità» delle annotazioni da effettuare nella cartella clinica, in considerazione della sua specifica funzione documentativa (Cass. pen. n. 13989/2004; Cass. pen. n. 1098/1997; Cass. pen. n. 9423/1983).

Non possono essere sottaciuti, allora, i profili di censurabilità derivanti dalla presenza in cartella clinica di sezioni non compilate, di lacune cronologiche, ovvero dalla elusione della invece imprescindibile necessità di una sottoscrizione autografa delle singole annotazioni registratevi, corredate della data e dell'ora in cui siano state apposte; elementi tutti che costituiscono uno dei principali criteri di valutazione della qualità della documentazione sanitaria.

Una questione di rilevante impatto pratico, nel medesimo campo, è quella delle modificazioni e correzioni eventualmente apportate alla cartella clinica, questione che si collega al carattere della necessaria contestualità delle annotazioni in essa contenute. È stato stabilito, in generale, che la cartella clinica acquista carattere definitivo in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata (Cass. pen. n. 35167/2005).

Conseguentemente, la correzione di eventuali errori materiali deve comportare la conservazione della leggibilità dell'annotazione originaria e la giustapposizione dell'annotazione corretta, datata e sottoscritta dal soggetto abilitato ad effettuarla; mentre la successiva integrazione di una eventuale omissione non può che essere compiuta mediante la formale acquisizione alla cartella clinica, in data certa, di un documento redatto successivamente all'epoca dei fatti registrativi, in cui vengano storicamente dichiarate l'avvenuta omissione e le sue cause, nonché gli elementi integrativi e le loro fonti.

In dottrina ci si interroga se la cartella clinica abbia natura di atto pubblico, di scrittura privata, ovverosia ascrivibile, come è stato sostenuto, ad un tertium genus intermedio tra l'atto pubblico e la semplice scrittura privata (Buzzi-Sclavi, 1997, 1167).

La S.C. ha però univocamente ribadito più volte, anche in tempi recenti, che le attestazioni contenute nella cartella redatta da un'azienda ospedaliera pubblica o da un ente convenzionato con il servizio sanitario al pari di quelle contenute nei certificati dei medici convenzionati, hanno la natura di certificazione amministrativa (Cass. n. 25568/2011). Ciò vuol dire che la cartella clinica possiede l'efficacia probatoria prevista dall'art. 2700 c.c., il quale stabilisce che l'atto pubblico fa piena prova fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.

Da ciò deriva che l'applicazione dello speciale regime di cui all'art. 2699 c.c. e segg., alla stregua del quale l'efficacia probatoria dell'atto pubblico può essere vinta esclusivamente a mezzo della querela di falso, è circoscritta alle sole rilevazioni e trascrizioni concernenti le attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, mentre ne sono escluse le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essa contenute. Ad esempio l'annotazione nella cartella clinica della «assenza di deficit vascolo nervosi» è stata ritenuta priva di efficacia fidefacente, trattandosi non di attestazione di un fatto, bensì di valutazione diagnostica dell'operatore (così nel caso scrutinato da Cass. n. 7201/2003).

È essenziale tuttavia aggiungere che, anche nella sua qualità di atto pubblico, la cartella clinica non fa mai e in nessun caso prova in favore di colui che l'ha redatta, allorché venga in discussione la sua responsabilità, neanche per i meri fatti ivi indicati come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da questo compiuti.

Infatti il presupposto del carattere vincolante dell'atto pubblico è la terzietà del pubblico ufficiale nella sua funzione certificante con effetti probatori, requisito che non può sussistere allorché si ponga in discussione la responsabilità della persona medesima che ha redatto l'atto, non essendo concepibile che il soggetto sia la fonte di una prova a suo favore con carattere vincolante. Detta responsabilità può dunque essere posta in discussione non solo agendo direttamente nei confronti del pubblico ufficiale, ma anche allorché si agisce nei confronti di altro soggetto che deve rispondere per i fatti del soggetto certificante, riportati nell'atto pubblico (artt. 1228 e 2049 cc.): anche in questo caso, infatti, il giudizio presuppone l'accertamento della responsabilità del pubblico ufficiale che ha redatto l'atto pubblico.

Ne consegue che in dette ipotesi non è necessario, in applicazione della disciplina di cui agli artt. 2699 e 2700 c.c., l'esperimento del rimedio della querela di falso, qualora la parte che affermi la responsabilità del pubblico ufficiale, intenda contestare i fatti indicati nell'atto, escludenti detta responsabilità (in questo senso Cass. n. 10695/1999).

Quanto alle valutazioni, alle diagnosi ed in genere alle manifestazioni di scienza o di opinione contenute nella cartella, si è già detto che esse non sono coperte da fede privilegiata. Ciò non vuol dire, però, che non abbiano alcuna efficacia probatoria: possono averla, invece, contro il medico che ha redatto la cartella quali dichiarazioni confessorie a sé sfavorevoli e favorevoli al paziente. Così, ad esempio, una certa diagnosi risultante dalla cartella clinica, poi risultata errata, prova, contro di lui, che il medico ha posto quella diagnosi e che, dunque, ha sbagliato.

Dalla violazione delle regole concernenti la tenuta della cartella clinica può derivare responsabilità del medico ovvero della struttura sanitaria sotto diversi profili.

L'inottemperanza del medico all'obbligo di controllare completezza ed esattezza del contenuto della cartella clinica configura difetto di diligenza nell'adempimento della prestazione lavorativa, da qualificarsi oggettivamente come di particolare gravità — avuto riguardo alla rilevante funzione che la cartella clinica assume, sotto il profilo sanitario, nei confronti del paziente e, indirettamente, nei confronti della struttura sanitaria a cui il paziente stesso si è affidato — essendo, quindi, idonea a determinare l'irrimediabile lesione dell'elemento fiduciario e il conseguente recesso datoriale. Tale condotta, dunque, giustifica in linea di principio il licenziamento disciplinare (Cass. n. 6218/2009, che, nel caso considerato, ha tuttavia ritenuto corretta la decisione della corte d'appello, la quale aveva giudicato illegittimo il licenziamento, poiché il medico non era stato posto in condizioni di svolgere correttamente la sua attività).

La struttura sanitaria è inoltre tenuta a risarcire il danno sofferto dal paziente in conseguenza della diffusione di dati sensibili contenuti nella cartella clinica, a meno che non dimostri di avere adottato tutte le misure necessarie per garantire il diritto alla riservatezza del paziente e ad evitare che i dati relativi ai test sanitari e alle condizioni di salute del paziente stesso possano pervenire a conoscenza di terzi. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito la quale, muovendo dal fatto che la cartella clinica, dalla quale risultava la condizione di omosessuale affetto dal virus HIV del paziente, e della cui indebita diffusione quest'ultimo si doleva, era risultata custodita nella sala infermieri, aveva escluso la responsabilità dell'ospedale (Cass. n. 2468/2009).

L'aspetto che più interessa, tuttavia, attiene ai riflessi della difettosa tenuta della cartella clinica nelle cause di responsabilità professionale medica.

È superfluo rammentare che la responsabilità del medico è costruita ormai stabilmente in termini di responsabilità contrattuale, con il conseguente riparto degli oneri probatori: il paziente deve provare soltanto l'esistenza del contratto (o del contatto sociale) e dedurre, specificamente, l'inadempimento; il medico deve provare di non essere inadempiente. Quanto al nesso di causalità, poi, la relativa prova incombe in linea di principio sul danneggiato, sicché la mancanza di essa si risolve in suo pregiudizio: e tuttavia, bisogna ricordare che, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai affermatosi, lo scrutinio della sussistenza del nesso di causalità risponde non già ad una regola di certezza, sia pure relativa, ma alla regola conosciuta come del «più probabile che non».

Ora, si è già visto che la cartella clinica possiede rilievo probatorio privilegiato in ordine ai fatti in essa documentati, riguardanti lo svolgimento della degenza. Ebbene, secondo la S.C., se la prova dei fatti occorsi e delle attività espletate in corso della degenza non possa esser fornita a causa di un comportamento — quale la perdita della cartella, la sua mancata redazione, la sua redazione incompleta, la sua falsificazione — addebitabile proprio alla parte nei cui confronti i fatti medesimi sono stati invocati, gli effetti dell'inosservanza dell'onere probatorio ricadono ineluttabilmente sul responsabile dell'inadempimento, sia dal versante della colpa che della sussistenza del nesso di causalità.

Detto in altri termini, la situazione di incertezza giuridica che si determina per la difettosa compilazione della cartella clinica comporta non già il rigetto della domanda del paziente, preteso danneggiato, per mancata prova del fatto costitutivo della domanda, bensì l'accoglimento di tale domanda per mancata prova, da parte del medico, del fatto modificativo, impeditivo o estintivo, secondo la regola posta dal secondo comma dell'art. 2697 c.c.. In termini ancora più brutali: se la cartella è fatta male, e non si sa come si sono svolti i fatti, il giudice ritiene presuntivamente accertati e la colpa del medico e la sussistenza del nesso di causalità tra l'inadempimento ed il danno.

Per questa via la completa e regolare compilazione della cartella clinica, la quale deve riguardare ogni sua parte, senza arbitrarie omissioni, acquista un rilievo decisivo non certo in favore, ma contro il medico. È così definitivamente consolidata la massima secondo cui: «In tema di responsabilità professionale del medico, le omissioni nella tenuta della cartella clinica al medesimo imputabili rilevano sia ai fini della figura sintomatica dell'inesatto adempimento, per difetto di diligenza, in relazione alla previsione generale dell'art. 1176, comma 2, c.c., sia come possibilità di fare ricorso alla prova presuntiva, poiché l'imperfetta compilazione della cartella non può, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria» (da ultimo Cass. n. 1538/2010). In tale prospettiva è stato di recente detto che: "In tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito, che aveva escluso la responsabilità dei sanitari nonostante non risultassero per sei ore annotazioni sulla cartella clinica di una neonata, nata poi con grave insufficienza mentale causata da asfissia perinatale, così da rendere incomprensibile se poteva essere più appropriata la rilevazione del tracciato cardiotocografico rispetto alla mera auscultazione del battito cardiaco del feto)" (Cass. n. 6209/2016). Peraltro è stato anche chiarito che, in tema di responsabilità professionale sanitaria, l'eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido legame causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione (Cass. n. 12218/2015).

Il nesso di causalità.

Altro presupposto che deve concorrere perché si abbia responsabilità civile è il nesso di causalità materiale tra condotta del danneggiante ed evento lesivo: per addossare ad un soggetto l'obbligo risarcitorio è infatti necessario verificare che proprio la sua condotta sia la «causa» di quell'evento. Anche con riguardo al nesso di causalità si sono manifestate, per via giurisprudenziale, novità tali da comportare un ampliamento dell'ambito della risarcibilità: ed anche in questo caso il banco di prova è stato quello della responsabilità medica e, dunque, lo sviluppo è stato governato dall'intento di rafforzare la tutela del diritto alla salute.

La disciplina del nesso di causalità materiale è dettata dagli artt. 40-41 c.p. Al riguardo la giurisprudenza (v. Cass. S.U., nn. 576, 579, 582, 583 e 584/2008) impiega il criterio della causalità adeguata (o della «regolarità causale»): una condotta è causa di un evento se, attraverso un giudizio ex ante, detto evento possa giudicarsi conseguenza prevedibile ed evitabile della condotta. Il nesso di causalità materiale sussiste se, dunque, una certa condotta, sulla base delle comuni regole di esperienza, risulti adeguata a cagionare quel determinato evento dannoso. Viceversa, se il danno costituisce conseguenza del tutto atipica ed imprevedibile della condotta, la responsabilità è esclusa.

La questione è relativamente semplice nel caso della responsabilità commissiva. Più complesso è il tema della sussistenza del nesso di causalità in caso di condotte omissive (è il caso della responsabilità medica nelle ipotesi di omessa o ritardata diagnosi oppure di errata esecuzione di un intervento chirurgico o terapeutico), tema che ha come referente normativo il secondo comma dell'art. 40 c.p.: «Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Si tratta in questo caso di verificare, attraverso il c.d. giudizio controfattuale, cosa sarebbe accaduto se l'agente, invece di omettere la condotta dovuta, avesse posto in essere la condotta alla quale era tenuto.

In sede penale la materia del nesso causale è tuttora regolata dai principi contenuti nella nota sentenza Franzese (Cass. pen.S.U. n. 30328/2002). Quest'ultima sentenza richiede, ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva e l'evento, un giudizio di probabilità molto alta, benché non in termini percentuali: un «elevato grado di credibilità razionale» della sussistenza del nesso di causalità. La S.C. ha però in seguito affermato che la regola accolta nel quadro del giudizio penale secondo cui, con riguardo alle condotte omissive, il nesso causale sussiste in presenza di un «elevato grado di credibilità razionale», non trova applicazione nel giudizio civile, ove opera il diverso principio in forza del quale la causalità obbedisce alla logica del «più probabile che non» (Cass. n. 21619/2007). Secondo l'art. 40 c.p. sussiste il nesso di causalità quando una determinata condotta, commissiva od omissiva che sia, ha come «conseguenza» un determinato evento; quando la condotta «cagiona» l'evento. La configurazione del nesso di causalità non è indifferente all'assetto ideologico che sorregge l'ordinamento giuridico. La dottrina della «causalità adeguata» mostra una ispirazione liberale: l'individuo paga le conseguenze soltanto di ciò che proprio lui ha fondamentalmente cagionato, sia pure in presenza di eventuali cause concomitanti; la dottrina della conditio sine qua non, nella sua rigorosa formulazione, risponde all'origine ad un'impostazione autoritaria: la punizione arriva comunque, anche se il reo abbia deviato dalla regola in misura soltanto marginale. Quale che sia l'impostazione, certo è che la ricostruzione ex post del nesso di causalità viene effettuata non sulla base di criteri di certezza, bensì di probabilità, ed in ciò sta il senso della citata sentenza Franzese (Cass pen. S.U., n. 30328/2002). Quest'ultima sentenza, però, non richiede una qualunque probabilità, ma — in parole semplici — una probabilità molto alta, benché non in termini percentuali: un «elevato grado di credibilità razionale» della sussistenza del nesso di causalità.

Queste regole secondo quanto ritenuto un tempo stabilmente dalla S.C. dovevano applicarsi anche al giudizio civile (Cass. n. 13400/2007; Cass. n. 7577/2007). In senso opposto, tuttavia la S.C., nella svolta cui ha dato luogo Cass. n. 21619/2007, pone l'accento sul rilievo che il diritto penale ruota sulla figura del reo, mentre la responsabilità aquiliana sulla figura della vittima; che l'illecito penale è tipico, mentre l'illecito civile è atipico; che il giudice penale non può accedere ad una nozione di nesso causale ricollegata alla misura del rischio determinato dalla condotta omessa, giacché una simile impostazione finirebbe per trasformare il reato omissivo in reato di mero pericolo, mentre analoga preoccupazione non dovrebbe toccare il giudice civile. Aggiunge la S.C. che la disciplina aquiliana, con particolare riguardo ai danni da malpractice medica, sarebbe — si dice — lo strumento attraverso cui «pervenire ad una più articolata e complessa distribuzione dei rischi». Essa costituirebbe strumento di «attribuzione di un determinato "costo" sociale, da allocarsi di volta in volta presso il danneggiato ovvero da trasferire ad altri soggetti». Insomma, più si allenta il nesso causale, più si favorisce il danneggiato a scapito del (quantunque al momento ipotetico) danneggiante: «Il sottosistema della responsabilità civile diventa, così, un satellite sperimentale di ingegneria sociale (che si allontana definitivamente dall'orbita dello speculare sottosistema penalistico), demandata, quanto a genesi e funzioni, quasi interamente agli interpreti, il cui compito diviene sempre più lo studio dei criteri di traslazione del danno. In questo quadro, il sottosistema della responsabilità medica diviene, in questo quadro, il topos "disfunzionale" al suo stesso interno rispetto agli schemi classici della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, dell'obbligazione di mezzi e di risultato, dove un tempo "pendolare" segna diacronicamente tappe non lineari e non armoniche, per produrre nuovi, repentini e talvolta sorprendenti legami di senso e di struttura a fatti concreti — l'intervento del medico — e moduli giuridici — la sua responsabilità — un tempo tra sé alieni, che officia la mutazione genetica della figura del professionista, un tempo genius loci ottocentesco, oggi ambita preda risarcitoria)» (Cass. n. 21619/2007). E per questa strada, si giunge ad affermare apertamente che il tema del nesso causale «è destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una dimensione "storica", o, se si vuole, di politica del diritto». Il problema è politico, insomma: «La causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità relativa (o "variabile"), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall'accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive ("serie ed apprezzabili possibilità", "ragionevole probabilità" ecc.), senza che questo debba peraltro vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (la verifica processuale in ordine all'esistenza del nesso di causa) di una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del "più probabile che non"».

Il principio del «più probabile che non» pare essersi stabilizzato. In una nota sentenza delle Sezioni Unite risalente al gennaio 2008, in tema di danni da emotrasfusione (Cass. S.U., n. 582/2008), hanno ribadito che in ambito civile «vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non"».

Dopodiché, in materia di lavoro è stata affermata la regola secondo cui, in tema di responsabilità civile, applicati nella verifica del nesso causale tra la condotta illecita ed il danno i principi posti dagli artt. 40 e 41 c.p., e fermo restando il diverso regime probatorio tra il processo penale, ove vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio», e quello civile, in cui opera la regola della preponderanza dell'evidenza o «del più probabile che non», lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla cd. probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la cd. probabilità logica, nell'ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell'esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto (Cass. n. 47/2017).

Lo stesso principio è richiamato nella massima secondo cui il principio, affermato dalla Corte EDU, in forza del quale l'art. 6 della CEDU impone di rinnovare l'istruzione dibattimentale ogni qualvolta si intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado (cd. overturning) ha rilievo solo in ambito penalistico e non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati — in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno — dalla diversa regola probatoria del «più probabile che non», e ciò tanto più ove venga richiesta in appello l'affermazione della responsabilità del presunto danneggiante negata, invece, dal giudice di primo grado (Cass. n. 19430/2016).

È stato stabilito che l'affermazione della responsabilità del medico per i danni celebrali da ipossia patiti da un neonato, ed asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto, esige la prova — che deve essere fornita dal danneggiato — della sussistenza di un valido nesso causale tra l'omissione dei sanitari ed il danno, prova da ritenere sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall'altro, appaia più probabile che non che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato; una volta fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell'art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta (Cass. n. 11789/2016). Ancora in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, è stato detto che l'accertamento del nesso causale — da compiersi secondo il criterio della preponderanza dell'evidenza (altrimenti definito anche del «più probabile che non») — implica una valutazione della idoneità della condotta del sanitario a cagionare il danno lamentato dal paziente che deve essere correlata alle condizioni del medesimo, nella loro irripetibile singolarità (Cass. n. 3390/2015, che ha ritenuto immune da vizi logici la decisione con cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità di una struttura sanitaria, in relazione alla paralisi degli arti inferiori subita da un paziente sottoposto ad un intervento di trombectomia, per essere stato omesso un trattamento preventivo a base di eparina, sebbene lo stesso non fosse previsto da alcun protocollo, ma solo raccomandato in via precauzionale nella letteratura scientifica perché in astratto idoneo a prevenire tale complicanza, attesa l'oggettiva gravità del rischio, sul piano causale, a carico del paziente per le sue particolari condizioni personali, trattandosi di soggetto fumatore, affetto da diabete e, verosimilmente, da vascolopatia).

Sempre in tema di responsabilità medico-chirurgica è stato spiegato che, allorché la consulenza tecnica d'ufficio — che pure di norma presenta in tale ambito natura «percipiente» — formuli una valutazione, sull'efficienza eziologica della condotta della struttura sanitaria rispetto all'evento di danno come «meno probabile che non», tale esito è correttamente ignorato dal giudice, atteso che, in applicazione del criterio della regolarità causale e della certezza probabilistica, l'affermazione della riferibilità causale del danno all'ipotetico responsabile presuppone, all'opposto, una valutazione nei termini di «più probabile che non» (Cass. n. 22225/2014).

Parimenti si è stabilito che, in tema di responsabilità aquiliana, nella comparazione delle diverse concause, nessuna delle quali appaia del tutto inverosimile e senza che una sola assuma con evidenza una efficacia esclusiva rispetto all'evento, è compito del giudice valutare quale di esse appaia «più probabile che non» rispetto alle altre nella determinazione dell'evento. Ne consegue che, nell'ipotesi in cui si sostenga l'esistenza d'un nesso causale tra la condotta posta in essere da organi della P.A. per il depistaggio di indagini giudiziarie, avviate a seguito di un disastro aereo, e il danno da fallimento della compagnia aerea proprietaria del velivolo coinvolto nel disastro, la cui immagine si lamenta essere stata lesa dal depistaggio finalizzato ad avvalorare la tesi del cedimento strutturale dell'aereo e dell'inaffidabilità tecnica e commerciale della compagnia, è incongruo limitarsi ad attribuire alla situazione di preesistente dissesto finanziario — desunto dalla revoca della concessione di volo intervenuta sei mesi dopo il disastro — la causa del fallimento della società, e del danno da questo derivante, essendo invece necessario comparare le concause, verificando in concreto se la situazione di irrecuperabile dissesto fosse effettivamente preesistente al disastro aereo, oppure se uno stato debitorio non patologico per una compagnia aerea si sia aggravato in modo decisivo proprio per la riconosciuta attività di depistaggio con discredito commerciale (Cass. n. 23933/2013).

Finanche in materia di perdita di chance è stato detto che, come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da chance perduta (da intendere come possibilità di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile), l'accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l'applicazione della regola causale di funzione, cioè probatoria, del «più probabile che non», sicché, in questo caso, la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorché il giudice accerti che quella diversa — e migliore — possibilità si sarebbe verificata «più probabilmente che non» (Cass. n. 21255/2013).

In tema di illecito civile, in breve, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo volto ad identificare — in applicazione del criterio del «più probabile che non» — il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno, il secondo essendo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c, norma che pone essa stessa una regola eziologica (Cass. n. 21255/2013).

Il problema del nesso di causalità suscita ulteriori problemi, particolarmente rilevanti in tema di danno alla salute, in causo di concorso di cause umane e cause naturali. Sul tema del concorso tra cause naturali e cause umane la S.C. ha fornito risposte contrastanti in due sentenze che hanno avuto entrambe ad oggetto casi di responsabilità professionale medica in cui i danneggianti avevano chiesto di contenere l'addebito di responsabilità nei loro confronti sul rilievo che la lesione subita dall'attore era stata solo in parte causata dall'errore medico, poiché al processo eziologico avevano concorso le preesistenti condizioni del paziente.

Nel tentativo di offrire una ricostruzione innovativa ed esauriente, è stato in un'occasione sostenuto che, in caso di evento dannoso eziologicamente riconducibile alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale costituito dalla situazione patologica del soggetto, il giudice dovrebbe procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause, al fine di attribuire all'autore della condotta dannosa la parte di responsabilità correlativa, così da lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato personale (Cass. n. 975/2009). In seguito, la S.C. è pervenuta ad una soluzione apparentemente opposta, la quale si riassume nell'affermazione secondo cui il nesso di causalità materiale, in caso di concorso di cause umane e cause naturali, non potrebbe essere oggetto di frazionamento, ma sarebbe, volta a volta, o integralmente sussistente, o integralmente insussistente, secondo l'approccio «all or nothing» (Cass. n. 15991/2011). Secondo tale decisione — e questo punto è essenziale — le condizioni preesistenti del soggetto potrebbero nondimeno assumere rilievo sul piano della causalità giuridica, per i fini della delimitazione del quantum del danno risarcibile.

Questa ricostruzione muove dall'assunto, svolto in polemica con la precedente decisione, secondo cui gli artt. 1227 e 2055 c.c. — i quali prevedono che la valutazione del contributo causale, in caso di pluralità di condotte concorrenti, debba essere rapportato alla condotta di ciascuno — sarebbero «norme destinate a disciplinare il concorso tra concause imputabili», e, dunque, non potrebbero trovare applicazione nei riguardi del diverso caso del concorso tra cause umane e cause naturali. L'inquadramento proposto, alla luce del quale la condotta del danneggiante, in presenza di una concausa naturale, quale ad esempio la preesistente condizione patologica del danneggiato, è da ritenere legata da rapporto di causalità materiale al danno, sarebbe poi conforme, sul piano comparatistico, alla cd. thin skull rule, o eggshell skull rule, propria del common law, che si riassume altresì nella formula take your plaintiff as you find him. La soluzione così delineata, infine, presenterebbe «notevoli vantaggi in termini di efficienza sotto il profilo dei costi transattivi imposti dal processo, volta che un netto confine tra lecito ed illecito sul piano della causalità materiale attinge ad elevati gradi di certezza del giudizio risarcitorio, evitandone "zone grigie" entro la quale la responsabilità oscilli in varia misura percentuale». La decisione, tuttavia, non spiega come debba procedersi a liquidare il danno risarcibile scorporando da esso quanto è stato determinato dalle condizioni patologiche preesistenti: non spiega, cioè, in che cosa debba esattamente consistere il «confronto fra le condizioni del danneggiato precedenti l'illecito, quelle successive alla lesione e quelle che si sarebbero verificate se non fosse intervenuto l'evento dannoso».

Occorre ora muovere da una constatazione. L'art. 40 c.p., secondo cui «nessuno può essere punito ... se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione» — norma che, tuttora, opera, unitamente al successivo art. 41, secondo la giurisprudenza, anche nei riguardi della causalità materiale in ambito civile —, fotografa una nozione di nesso di causalità materiale fondato, come si è detto, sulla formulazione di un giudizio di tipo logico-probabilistico, modellato sul ragionamento presuntivo. Sul piano naturalistico, insomma, non è possibile, in generale, ritenere con certezza che un fatto sia causa di un altro fatto, ma è esclusivamente possibile formulare un giudizio volto ad identificare la probabilità che un certo antecedente sia in relazione eziologica con l'effetto. Lo stesso sintagma «causalità materiale» è dunque ingannevole, ché la causalità materiale non può essere colta, nell'ambito del giudizio civile, se non attraverso la lente del ragionamento giuridico. Ciò, poi, è tanto più vero quando ci si trovi al cospetto della causalità omissiva, giacché ex nihilo nihil fit, sicché lo stabilire la sussistenza del nesso di causalità materiale tra una non-condotta e l'evento è artificio possibile soltanto grazie all'attitudine persuasiva dell'argomentazione del giurista.

Le considerazioni che precedono, d'altronde, si attagliano massimamente al giudizio di responsabilità in ambito sanitario. La medicina legale si fonda infatti sull'osservazione del caso, attraverso il quale risalire a ritroso, mediante un ragionamento ipotetico, all'individuazione dell'antecedente causale, ragionamento che ben di rado conduce ad esiti di certezza, poiché procede, per l'appunto, su calcoli di probabilità statistica: e ciò è quanto quotidianamente il giudice di merito constata nella pratica, laddove interroga il consulente sul quesito se un determinato atto medico, effettuato o ancor più non effettuato, abbia determinato il danno, e si sente rispondere che solo in una certa misura stimata sul piano delle probabilità quell'atto medico è o non è a causa del danno, in genere accanto a possibili ricostruzioni alternative.

Il carattere intrinsecamente mendace della nozione di «causalità materiale» è la miglior giustificazione del criterio del «più probabile che non»: l'orientamento in proposito ormai consolidato della S.C. trova un solido sostegno proprio nella considerazione che esso non comporta l'abdicazione alla ricerca della certezza in favore della semplice probabilità, bensì la realistica e consapevole presa d'atto che, in materia di nesso di causalità materiale, quella della certezza è un'aspirazione destinata a rimanere frustrata. Se, viceversa, fosse possibile ricomporre effettivamente, ex post, i frammenti del nesso di causalità, non avrebbe senso pretendere di addossare la responsabilità dell'occorso sulla base di un criterio così elastico, liquido, incerto, approssimativo, controvertibile, non facile a gestire senza eccedere nell'arbitrio, quale quello del «più probabile che non». Ma, una volta scelta la strada del «più probabile che non», non è accettabile coniugare tale criterio di verifica della sussistenza del c.d. nesso di causalità materiale con l'approccio «all or nothing», tanto più se l'attenzione si focalizza anche sulla prevedibilità dell'esito dei giudizi risarcitori: l'unione di «più probabile che non e «all or nothing» dà infatti luogo al fenomeno che è stato definito di damages lottery.

Nondimeno, la S.C., nel dare ingresso alla altamente fluida regola del «più probabile che non», ha volutamente omesso di precisarne il funzionamento dal versante del quantum: in Cass. n. 21619/2007, in cui si discorre diffusamente di «più probabile che non», la S.C., dopo essersi soffermata sul tema della causalità, si arresta dinanzi al rilievo che «non è compito di questo collegio affrontare il tema del criterio risarcitorio». Viceversa, già quella parte della dottrina che aveva suggerito l'adozione del criterio, collegava tale criterio all'apporzionamento della responsabilità: se tra la condotta e il danno vi è una probabilità di derivazione causale pari all'x%, tale da rendere «più probabile che non» la sussistenza del nesso di causalità materiale, il danneggiante non risarcisce il 100% del danno, ma ne risarcisce l'x%, secondo un modello in sostanza coincidente con quello della liquidazione del danno da perdita di chances.

L'esigenza di una qualche forma di parametrazione del danno risarcibile all'apporto causale addebitabile all'agente è tanto più pressante se è vero — come precisa Cass. n. 15991/2011 — che la regola del «più probabile che non» non sta neppure a significare che occorra una probabilità statisticamente superiore al 50%. Immaginiamo che il danno lamentato dal paziente, il quale abbia subito un intervento chirurgico, si verifichi statisticamente per il 34% dei casi in conseguenza di un certo errore del chirurgo e per il 6,6% in conseguenza di 10 ulteriori distinti possibili fattori; in un simile caso il giudice, una volta accertato attraverso la c.t.u., che il chirurgo ha commesso proprio quell'errore, sembrerebbe dover ritenere, in ossequio alla «preponderanza dell'evidenza», ossia alla regola del «più probabile che non», che il danno si sia prodotto in conseguenza dell'errore, che vale il 34%, e non di uno degli altri fattori, che valgono ciascuno soltanto il 6,6%.

Difficile accettare, nella prospettiva «all or nothing», che chi risulti aver probabilisticamente dato un apporto causale del 34% al verificarsi del danno debba risarcire il 100% di esso. Come si diceva «più probabile che non» e «all or nothing», evidentemente, non possono andare d'accordo, o meglio potrebbero andare d'accordo quando la probabilità è molto elevata ovvero molto scarsa, dal momento che in simile frangente il danneggiante pagherebbe l'intero in luogo di un importo lievemente inferiore, oppure non pagherebbe nulla in luogo di un importo irrisorio. Al contrario, quando la probabilità si attesta nella fascia intermedia, massime intorno al 50%, il «più probabile che non» non può funzionare, così è semplicemente, unitamente all'«all or nothing», perché comporta uno scollamento inaccettabile tra il danno risarcito e la responsabilità dell'agente realisticamente quantificata.

Né vale richiamare, a sostegno dell'approccio «all or nothing», il principio del cd. thin skull rule: se l'agente ha cagionato una ferita all'emofiliaco, che per questo decede; se ha investito un soggetto psichiatrico, che, a causa delle sue condizioni preesistenti, cade in una depressione che lo conduce al suicidio; se, a causa di un improvvido movimento a bordo di un mezzo pubblico, ha urtato la calotta cranica eccezionalmente sottile del suo vicino, e lo ha in tal modo ucciso; egli deve risarcire l'intero danno cagionato in ossequio alla regola take your plaintiff as you find him. Questa regola non è infatti necessitata dalla logica, ma è frutto di una precisa scelta politica: se non si tutelassero in tal modo i soggetti più fragili, si incrementerebbe la loro esclusione dal circuito sociale, si costringerebbero le persone svantaggiate, com'è stato detto, a non uscire di casa. Sembra però che la cd. thin skull rule non sia richiamata a proposito in ambito sanitario. La cd. thin skull rule costituisce infatti un'eccezione alla regola della causalità adeguata (ed al limite della foreseeability), eccezione per l'appunto dettata, in un frangente che si discosta da quello ordinario, per ragioni di complessiva utilità sociale. Ma non è questo il caso della responsabilità sanitaria, dal momento che, in tal caso, la condizione di debolezza della vittima non costituisce eccezione alla regola generale, ma è dato per lo più connaturato alla condizione di paziente: si va normalmente dal medico perché si è malati, ed il medico normalmente interviene su persone indebolite dalla malattia; e, ovviamente, il medico non può selezionare i pazienti su cui intervenire, ma è per definizione costretto ad arrischiarsi su persone affette da fragilità. Sicché non sembra razionale attribuire al medico conseguenze, esulanti dall'ambito della causalità proporzionale, una volta constatato che egli svolge un compito, evidentemente essenziale per i fini stessi della realizzazione del diritto alla salute di cui all'art. 32 della Cost., che implica, impone di intervenire su soggetti fragili.

Se vi sono considerazioni di policy da tener presente, semmai, nell'ambito della responsabilità professionale medica, esse concernono la posizione ormai eccessivamente sbilanciata del giudizio di responsabilità medica, ove si consideri simultaneamente: i) la totale dislocazione della responsabilità dal versante contrattuale onera il medico della prova della non imputabilità dell'inadempimento, che il danneggiato deve soltanto dedurre; ii) l'obbligazione del medico pare ormai per lo più considerata come obbligazione di risultato, essendo caduta in desuetudine, per così dire, almeno per i medici, la nozione di obbligazione di mezzi; iii) il nesso di causalità si scrutina in applicazione del parametro del «più probabile che non»; iv) l'entità del danno si è dilatata in conseguenza del rilievo assunto dal danno non patrimoniale nel suo complesso.

Ciò comporta, per le strutture sanitarie, che esse debbano dislocare ingenti risorse non già ai fini del miglioramento del servizio, bensì del sempre più dilatato risarcimento del danno. In definitiva, ciò di cui si discorre è il rilievo dell'obbligo risarcitorio, come si è andato determinando, sulla sopravvivenza del Servizio sanitario nazionale.

Come si diceva, Cass. n. 15991/2011, afferma che gli artt. 1227 e 2055 c.c. sono «norme destinate a disciplinare il concorso tra concause imputabili» e non tra causa imputabile e causa naturale. Quest'affermazione, tuttavia, non è motivata se non, in buona sostanza, con il richiamo alla tradizione, e in altri termini dà per scontato ciò che sarebbe occorso dimostrare. Cospicui, viceversa, sono ormai gli elementi utili a pervenire al risultato opposto. Certo, l'affermazione della S.C., secondo cui le due norme si limitano a disciplinare il concorso tra concause imputabili, è conforme all'insegnamento della dottrina tradizionale. Tuttavia, ciò che, seguendo la tradizione, imponeva di negare il rilievo alle concause naturali per i fini dell'apporzionamento della responsabilità, non era tanto la formulazione degli artt. 2055 e 1227 c.c., quanto la previsione dell'art. 41 c.p., il quale stabilisce con chiarezza che le concause non escludono il rapporto di causalità se non quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. Ora, questa norma ha un senso evidente nell'ambito penale, che non può più, oggi, essere fatto indiscriminatamente traslocare in sede civile, una volta che la S.C., non solo accogliendo la costruzione del «più probabile che non», ma anche dando generale ingresso al risarcimento del danno per perdita di chances (ci si riferisce a Cass. n. 4400/2004), ha costruito la causalità civile (in cui si tratta di risarcire il danneggiato) in termini totalmente distinti da quella penale (in cui si tratta di punire il reo), affrancando così la prima dalla dipendenza concettuale dalla seconda.

Nel mutato quadro, è allora ben possibile rileggere gli articoli menzionati nella prospettiva della responsabilità proporzionale o parziaria, secondo le diverse definizioni accolte dalla dottrina più recente. L'esigenza (anzitutto) di giustizia, che spinge in tal senso, appare: sicché non può continuarsi a tollerare che la distinzione fra concause umane conduca ad una redistribuzione dell'obbligo risarcitorio in proporzione all'efficacia causale delle condotte dei singoli danneggianti, e la distinzione tra concause e naturali rimanga insignificante, di modo che anche una minima compartecipazione eziologica, pur in presenza di preminenti fattori causali naturali, ponga a carico del danneggiante l'intero risarcimento.

L'accoglimento di un principio generale di corrispondenza tra efficienza causale della condotta ed estensione del relativo obbligo risarcitorio è anzitutto dettato dal buon senso e dalla ragionevolezza: tale è la prospettiva in cui meritano allora di essere intesi gli artt. 2055 e 1227 c.c. Ma non mancano altresì indici giurisprudenziali e normativi in tal senso: si pensi, senza pretesa di completezza, al congegno della compensatio lucri cum damno, alla stessa teorica del danno da perdita di chances, ovvero, sul piano normativo, all'art. 1307 c.c., in tema di inadempimento di un'obbligazione soggettivamente complessa, il quale pone la responsabilità a carico dei soli condebitori responsabili dell'inadempimento, essendo gli altri tenuti nei limiti del «valore della prestazione dovuta», o, ancora, al chiaro esempio dell'art. 79 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, riferito proprio a cause naturali preesistenti («Il grado di riduzione permanente dell'attitudine al lavoro causata da infortunio, quando risulti aggravato da inabilità preesistenti ... deve essere rapportato non all'attitudine al lavoro normale, ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti inabilità»).

Ma, al di là di quanto precede, Cass. n. 15991/2011, dopo aver affermato che il rilievo delle cause naturali si esplica nel governo del nesso di causalità giuridica, nel quadro di applicazione dell'art. 1223 c.c., ha poi affermato che il giudice può «procedere eventualmente anche con criteri equitativi alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica, onde ascrivere all'autore della condotta un obbligo risarcitorio che non ricomprenda anche le conseguenze dannose ... determinate dal fortuito»; e la stessa sentenza ha inoltre aggiunto che il danneggiante è tenuto a farsi carico «solo delle conseguenze dannose che abbia cagionato alla vittima tenuto conto delle sue condizioni precedenti all'evento pregiudizievole e degli stati in cui si sarebbe venuto a trovare se l'evento in parola non fosse intervenuto».

Ora, qui la distinzione tra l'apporzionamento del nesso di causalità e il computo delle sequele dannose a valle dell'inadempimento diviene davvero assai sfuggente. Com'è stato detto, la responsabilità proporzionale fatta uscire dalla porta (della causalità materiale) rientra dalla finestra (della causalità giuridica). Ma, soprattutto, importa poco sapere se, nel rendere proporzionale l'obbligazione risarcitoria, occorra far leva sul c.d. nesso di causalità materiale ovvero sul nesso di causalità giuridica: ciò che preme chiarire è quali siano le regole pratiche attraverso le quali pervenire alla liquidazione del quantum da riconoscere al danneggiato.

Se è vero che ciò che viene in questione nello scrutinio del nesso di causalità materiale non è l'accertamento del nesso di consequenzialità tra la condotta e l'evento, su un piano di certezza e verità, bensì la verifica del grado di probabilità che il secondo sia il prodotto del primo, è certamente lecito immaginare, in astratto, che il danno venga identificato non già con la totalità del pregiudizio patito dalla vittima, bensì in una percentuale di detto pregiudizio pari a quella che lega la condotta all'evento.

Se, in altri termini, l'evento è statisticamente attribuibile per un x% alla condotta del danneggiante e per un y% ad una causa naturale, può immaginarsi la parametrazione del risarcimento del danno al netto dell'apporto di tale concausa: di guisa che l'importo a carico del danneggiante, a titolo risarcitorio, verrà calcolato mediante la sottrazione dell'y% dal 100% dell'intero pregiudizio. Si perviene, in questo modo, ad identificare il danno da risarcire in una prospettiva che sembra non contraddire entrambe le decisioni di legittimità che si sono esaminate e che, come si è cercato di sostenere, sono meno lontane tra loro di quanto il collegio che ha licenziato la seconda decisione non abbia ritenuto. D'altro canto, la soluzione si armonizza con l'apposizione giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno da perdita di chances, intesa quale «entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione» (Cass. n. 4400/2004).

Diritto alla salute e autodeterminazione

Come si è detto, il trattamento sanitario eseguito in mancanza di consenso informato è fonte di responsabilità per il medico che pure non abbia commesso, per il resto, alcun errore. E ciò perché la mancanza del consenso informato costituisce violazione del diritto inviolabile all'autodeterminazione del paziente (Cass. S.U., n. 26972/2008). Vale ora precisare che in passato si discuteva della natura della responsabilità derivante dalla violazione del consenso informato. Secondo un primo indirizzo detta responsabilità avrebbe avuto natura precontrattuale (Cass. n. 14638/2004). Successivamente il dovere informativo gravante sul medico è stato prevalentemente qualificato come dovere di fonte contrattuale (Cass. n. 20806/2009, in cui si legge che: «Il consenso informato, espressione del diritto personalissimo, di rilevanza costituzionale, all'autodeterminazione terapeutica, è un obbligo contrattuale del medico perché è funzionale al corretto adempimento della prestazione professionale, pur essendo autonomo da esso»).

La centralità del principio di autodeterminazione nella somministrazione di interventi terapeutici è stata in particolare esaminata con riguardo al tema del «fine vita» nella vicenda Englaro, culminata, sul piano giuridico, nella pronuncia di Cass. n. 21748/2007, la quale ha in sintesi stabilito: i) a monte di ogni trattamento sanitario c'è il consenso informato; ii) è dunque legittimo il rifiuto delle cure; iii) nel caso in cui la persona non sia in grado di decidere da sé, in mancanza di una disciplina positiva, il diritto al rifiuto delle cure non può essere conculcato, ma va tutelato nel quadro dei principi costituzionali; iv) il tutore, e così pure l'amministratore di sostegno, hanno la piena legittimazione a decidere sui trattamenti sanitari in favore dell'incapace; v) possono dunque, in linea di principio, deliberare il rifiuto delle cure; vi) ci sono però dei limiti, giacché la situazione deve essere irreversibile e la scelta deve corrispondere a quella che la persona avrebbe fatto se avesse potuto scegliere.

Con riguardo all'evoluzione del diritto all'autodeterminazione occorre rammentare che anche in epoca ancora recente il rapporto medico-paziente era riguardato in un'ottica paternalistica che affidava al medico la scelta sulle soluzioni terapeutiche da adottare. Si legge in una recente pronuncia quanto segue: «Dall'antico paternalismo medico, che vedeva informazione e consenso del paziente rimessi integralmente all'apprezzamento del medico, unico sostanzialmente a sapere e decidere cosa fosse “bene”, in termini curativi, per il paziente, anche la nostra giurisprudenza, dopo un lungo e travagliato percorso, è pervenuta così all'affermazione del moderno principio dell'alleanza terapeutica, snodo decisivo sul piano culturale prima ancor che giuridico, poiché riporta il singolo paziente, la sua volontà, il suo consenso informato e, quindi, il singolo paziente quale soggetto e non oggetto di cura al centro del percorso sanitario, nel quale medico e paziente concorrono nella scelta della strategia terapeutica più rispondente alla visione della vita e della salute propria della persona che si sottopone alla cura. La “cura” non è quindi più un principio autoritativo, un'entità astratta, oggettivata, misteriosa o sacra, calata o imposta dall'alto o dall'esterno, che ciò avvenga ad opera del medico, dotato di un elevato e inaccessibile sapere specialistico, o della struttura sanitaria nel suo complesso, che accoglie e “ingloba” nei suoi impenetrabili ingranaggi l'ignaro e anonimo paziente, ma si declina e si struttura, secondo un fondamentale principium individuationis che è espressione del valore personalistico tutelato dalla Costituzione, in base ai bisogni, alle richieste, alle aspettative, alla concezione stessa che della vita ha il paziente» (Cons. St. 2 settembre 2014, n. 4460). Il paziente ha dunque diritto di aderire liberamente e consapevolmente al trattamento sanitario, il che comporta non soltanto che egli possa scegliere quale terapia scegliere tra le diverse ipotesi offerte, ma anche la facoltà di rifiutare in toto il trattamento proposto, così come di interromperlo in qualsiasi momento. Come si è visto, il medico è sottoposto all'obbligo di informare il paziente sulla natura dell'intervento, sulla portata ed estensione dei suoi risultati, ed altresì sulle probabilità di successo.

Sì è così radicata la nozione di consenso informato all'atto medico, inteso come diritto fondamentale distinto rispetto al diverso diritto alla salute, consenso informato che si fonda su una pluralità di fonti normative. Ha difatti osservato la S.C. che «il diritto al consenso informato è un vero e proprio diritto della persona e trova fondamento in quelle norme costituzionali sopra richiamate, nell'art. 5 della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145, nell'art. 3 della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 ed ora giuridificata, nella l. 21 ottobre 2005, n. 219, art. 3 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati), nella l. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 6 (Norme sulla procreazione medicalmente assistita), nella l. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 33 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), oltre che nell'art. 30 del Codice deontologico, ma che soprattutto trova fondamento nell'a priori della dignità di ogni essere umano, che ha trovato consacrazione anche a livello internazionale nell'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla biomedicina del 12 gennaio 1998 n. 168. Come argomenta il giudice delle leggi, in virtù di queste previsioni normative il consenso informato svolge la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, al punto che deve essere ritenuto un principio fondamentale in tema di tutela della salute (Corte cost. sent. n. 438, par. 4, in motivazione). In virtù del "diritto vivente", in altri termini, così come costituito dalle statuizioni costituzionali e da questa Corte, nonché dall'osmosi tra attività interpretativa, da un lato, e norme interne ed internazionali, dall'altro, per gli interventi sanitari sul paziente emerge l'obbligo dello Stato e delle sue istituzioni, tra cui il giudice, a mantenere al centro la dimensione della persona umana nella sua concreta esistenzialità, in quanto connaturata da dignità, che presiede ai diritti fondamentali, senza la quale tali diritti potrebbero essere suscettibili di essere soggetti a limiti da svilire ogni loro incisività e che costituisce valore assiologico che informa l'ordinamento giuridico nella sua totalità e, quindi, a maggior ragione ogni norma ordinaria. Se, quindi, l'homo juridicus è ormai homo dignus, come, condividendo autorevole dottrina e prendendo spunto dalle varie disposizioni sui diritti umani, ha ritenuto questa Corte con sentenza n. 7237/2011 (in motivazione) la giurisprudenza di cui alle sentenze anche all'evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni oggi può affermarsi che il consenso informato rappresenta «espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico» (Cass. n. 1328/2008). Sicché, in definitiva, come già detto, il consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, in assenza del quale, fatto salvo il caso di trattamenti obbligatori o di quelli posti in essere in stato di pericolo, esso assume il connotato dell'illiceità, quantunque posto in essere nell'interesse del paziente (Cass. n. 21748/2007; Cass. n. 2854/2015).

In proposito ha affermato il giudice delle leggi che il consenso informato costituisce sintesi di due diritti fondamentali della persona, quello alla autodeterminazione e quello alla salute. Quello all'autodeterminazione è cioè un diritto diverso rispetto al diritto alla salute, sicché dalla violazione del primo sorge l'obbligo di risarcire il danno, e ciò indipendentemente da un'eventuale colpa del professionista nell'esecuzione della prestazione sanitaria. Difatti non mancano decisioni della S.C. le quali riconoscono la risarcibilità del danno derivante dalla violazione del diritto all'autodeterminazione, anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna lesione della salute (Cass. n. 16543/2011; Cass. n. 12205/2015). Poiché sussiste un autonomo obbligo contrattuale informativo a carico del medico, l'inadempimento determina per ciò stesso la responsabilità di quest'ultimo per la violazione del diritto del paziente a manifestare il consenso informato, dal momento che solo se adeguatamente informato, il paziente è posto in condizione di accettare preventivamente il possibile esito negativo dell'intervento terapeutico. A tal riguardo merita sottolineare che l'eventuale correttezza dell'atto medico non assume sotto detto profilo alcuna rilevanza: e cioè, se, in presenza di un esito negativo dell'intervento, il medico è tenuto al risarcimento, anche in assenza di un danno alla salute. L'eventuale esito positivo dell'atto medico, eseguito ma non consentito, potrà semmai assumere rilevanza ai fini della quantificazione del danno sofferto dal paziente. Ed infatti, in tema di attività medico-chirurgica, è risarcibile il danno cagionato dalla mancata acquisizione del consenso informato del paziente in ordine all'esecuzione di un intervento chirurgico, ancorché esso apparisse, ex ante, necessitato sul piano terapeutico e sia pure risultato, ex post, integralmente risolutivo della patologia lamentata, integrando comunque tale omissione dell'informazione una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all'espletamento dell'atto medico e di beneficiare della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall'esito favorevole dell'intervento (Cass. n. 12205/2015).

Aderendo tale indirizzo la S.C. ha ribadito l'autonomia risarcitoria del diritto del paziente all'autodeterminazione terapeutica (Cass. n. 24220/2015). Questa decisione, nel disattendere i motivi di ricorso concernenti la condotta colposa del sanitario, ha cassato invece la sentenza impugnata con riguardo alla violazione del diritto all'autodeterminazione terapeutica. Infatti, nel caso in esame, esclusa la negligenza o l'imperizia del sanitario «nel prescrivere gli accertamenti diagnostici o nel valutarne gli esiti», è stata censurata la condotta consistente nel non aver fornito alla paziente le informazioni necessarie in ordine agli accertamenti diagnostici da compiere, nello specifico caso, concernente una omessa diagnosi di malformazione fetale, per conoscere preventivamente le possibili patologie di cui era affetto il feto.

A fronte della violazione del diritto all'autodeterminazione è da escludere la sussistenza dell'onere probatorio affermato da Cass. n. 2847/2010, secondo cui spetterebbe al paziente, dopo aver allegato la violazione dell'obbligo di informazione, dimostrare che, ove compiutamente informato, avrebbe rifiutato l'intervento. Secondo la S.C., tale onere probatorio trova applicazione solo nelle ipotesi in cui l'oggetto di contestazione sia la lesione del diritto alla salute e non in quelle, da esse distinte, in cui il paziente lamenti la violazione del diritto di autodeterminarsi. In quest'ultimo caso, la responsabilità del medico deriva dal solo fatto di non aver messo il paziente in condizione di prestare un consenso realmente informato. La prova di aver somministrato la necessaria informazione a paziente, con riguardo ai possibili accertamenti diagnostici, dev'essere dunque fornita dal soggetto tenuto ad informare il paziente, ossia il professionista, il quale, altrimenti, è chiamato a risarcire il danno eventualmente cagionato per aver violato il diritto del paziente alla autodeterminazione. In altri termini, nel caso in cui sia contestata la violazione del diritto all'autodeterminazione, il paziente potrà semplicemente allegare l'inadempimento del professionista; qualora invece voglia far valere il diverso diritto alla salute, egli dovrà provare un elemento ulteriore, ossia che non avrebbe acconsentito, se debitamente informato, al trattamento proposto. Ha in tal modo avuto luogo un ulteriore ampliamento dei confini della responsabilità medica, dal momento che, nei casi di violazione del diritto all'autodeterminazione, la responsabilità del sanitario si determina in conseguenza di una sua condotta meramente omissiva, in quanto «a causa del deficit di informazione, il paziente non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni». Tale inadempimento, dunque, non solo assume carattere autonomo rispetto alla condotta mantenuta dal medico dell'esecuzione del trattamento terapeutico, ma dà luogo al risarcimento del danno indipendentemente dalla prova che il paziente, se informato, avrebbe rifiutato il trattamento.

Il tema dell'autodeterminazione, come si diceva, possiede un rilievo centrale nell'evoluzione del tema del «fine vita». Espressioni come «morire con dignità», «diritti dei morenti» sono da tempo di uso diffusissimo e la letteratura, quella giuridica, è sterminata. Nel dibattito giuridico la questione è stata essenzialmente incentrata sul rapporto tra suicidio e aiuto al suicidio. Suicidarsi — si osserva — è lecito per il diritto, anche se può discutersi se esista un vero e proprio diritto a suicidarsi. Molti riscontri giurisprudenziali ruotano su questa impostazione. La Supreme Court canadese, nel 1993, rigetta la domanda di una malata di sclerosi laterale amiotrofica, Sue Rodriguez, di essere aiutata a morire (Rodriguez v. British Columbia). La stessa soluzione adotta per due volte la Supreme Court degli Stati Uniti nel 1997 (Washington v. Glucksberg e Vacco v. Quill). Anche la House of Lords — in un caso, per la verità, alquanto strampalato, in cui una moglie aveva chiesto l'impunità per il marito, che non era un medico, nell'ipotesi in cui questi la avesse aiutata a morire — decide allo stesso modo nel 2001 (Diane Pretty Case), con una pronuncia che è ribadita nel 2002 dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Pretty v. The United Kingdom).

Ma sotto il sintagma «morire con dignità» ricadono situazioni diverse. In particolare, nel caso di sospensione di trattamenti sanitari di sopravvivenza domina, al contrario, il diritto di rifiutare le cure, che costituisce espressione del principio del consenso informato. Tale diritto, che può esercitare il morente capace, va a proiettarsi anche sul morente incapace. In tal caso, in mancanza di una dichiarazione di volontà espressa (e dunque del c.d. testamento biologico), i giudici ritengono possa stabilirsi se la persona, ove avesse saputo in anticipo di trovarsi in quel determinato frangente, avrebbero o meno rifiutato il trattamento. Si può per tutte ricordare una nota pronuncia statunitense del 1990 della Supreme Court (Cruzan v. Director), con la quale è stato riconosciuto, in linea di principio, che anche l'incapace — si trattava appunto di una persona in SVP — può rifiutare il trattamento sulla base di una ricostruzione della sua ipotetica volontà, quantunque detta volontà non fosse stata nel caso di specie provata. E ciò perché l'incapace ha pari diritti e dignità della persona capace: «Reasoning that an incompetent person retains the same rights as a competent individual because the value of human dignity extends to both».

Ora, vi sono perplessità che il tema del suicidio, quando si discute di «morire con dignità», sia richiamato a proposito: e che le due ipotesi del suicidio assistito e della sospensione dei trattamenti di sopravvivenza siano radicalmente diverse. Ed in effetti, è vero che un'autorizzazione preventiva all'aiuto a morire è stata in più occasioni negata. Ma è altrettanto vero che, per così dire a cose fatte, colui che ha aiutato non è stato poi punito: il che è sottolineato dalla dissenting opinion resa in Washington v. Glucksberg, la quale sostiene che la punizione dell'aiuto al suicidio sarebbe addirittura caduta in desuetudine. In Italia si può menzionare, per tutti, il caso di un ingegnere cinquantenne, assolto in appello nell'aprile del 2002, che, pistola alla mano, entra nell'ospedale in cui è ricoverata la moglie e stacca il respiratore che la tiene artificialmente in vita. E così pure l'anestesista del caso Welby è stato scagionato.

Insomma, sembra da rimeditare il punto se il suicidio assistito non debba essere riguardato dall'angolo visuale del principio di uguaglianza nei confronti di chi morirebbe, se potesse, ma è fisicamente impedito a compiere il gesto. In questo senso, un'inversione di tendenza della giurisprudenza statunitense pare potersi leggere nella pronuncia con cui la Supreme Court il 17 gennaio 2006 ha confermato (sei contro tre) la legittimità del Death with Dignity Act dello Stato dell'Oregon, che dal 1997 consente ai medici — a condizioni naturalmente rigorose — di prescrivere dosi letali di farmaci a malati terminali che ne facciano richiesta.

La formulazione della domanda di risarcimento del danno alla salute

Occorre infine accennare alla formulazione della domanda chiedendosi se, nell'agire per responsabilità extracontrattuale, è sufficiente chiedere «il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali». In proposito una sentenza resa all'esito di un giudizio in cui l'attore, vittima di un sinistro stradale, aveva chiesto inizialmente il risarcimento del danno non patrimoniale, senza ulteriori specificazioni, e successivamente, in sede di precisazione delle conclusioni, il risarcimento del danno esistenziale, la S.C. ha osservato che: «Ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, è sufficiente che nella domanda sia stato fatto espresso riferimento a tale tipo di pregiudizio, senza limitazioni connesse solo ad alcune e non ad altre conseguenze da esso derivate, non avendo rilievo che l'attore abbia poi richiesto, solo in sede di conclusioni, il cosiddetto "danno esistenziale", il quale, pur costituendo sintagma ampiamente invalso nella prassi giudiziaria, non configura un'autonoma categoria di danno» (Cass. n. 3718/2012).

Occorre tuttavia rammentare che, con riguardo al danno biologico, si è osservato che la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, comprende necessariamente anche la richiesta volta al risarcimento del danno biologico anche in mancanza di ogni precisazione in tal senso, in quanto la domanda, per la sua onnicomprensività, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno (tra le tante, Cass. n. 2869/2003; Cass. n. 22987/2004; Cass. n. 4184/2006).

Ne consegue, per converso, che, se è richiesto il danno patrimoniale, non è chiesto il danno biologico, ed in generale il non patrimoniale, sicché la sua domanda in corso di causa oppure in appello é nuova e, come tale, inammissibile. Parimenti, utilizzando questo ragionamento nel campo del danno patrimoniale, in un caso di sinistro stradale si è detto che, se l'attore chiede il danno patrimoniale da lucro cessante, non può poi chiedere in corso di causa il ristoro del danno materiale all'autovettura, che è da ricondurre all'area del danno emergente (Cass. n. 22987/2004).

È da ritenere invece superato l'indirizzo secondo cui, data la suddivisione del danno non patrimoniale nelle tre sotto-voci del biologico, esistenziale e morale, ecco allora che, se l'attore chiede in citazione il biologico ed il morale, non potrà più chiedere l'esistenziale. Il tutto con conseguenze disastrose, dal momento che il principio esposto va coordinato con l'altro principio dell'unitarietà del diritto al risarcimento del danno, il quale comporta la non frazionabilità del giudizio di liquidazione (tra le altre Cass. n. 15823/2005; Cass. n. 22987/2004), con l'ulteriore conseguenza che, se non chiesto, il risarcimento del danno esistenziale, o di altra voce del danno non patrimoniale, non potrà mai più essere domandato in un successivo giudizio e, al contrario, dovrà intendersi definitivamente rinunciato.

Un'applicazione di tale regola emerge dalla pronuncia che segue, secondo cui: «Quella del danno esistenziale non è una sottocategoria del danno biologico, ma se ne distingue ontologicamente poiché discende dalla lesione di diritti fondamentali di rango costituzionale diversi dalla salute: è perciò nuova la domanda di risarcimento del danno esistenziale proposta per la prima volta in appello, quando nel giudizio di primo grado è stato chiesto il risarcimento del danno biologico» (Cass. n. 3284/2008). La miglior regola di condotta, dunque, è senz'altro quella di formulare le conclusioni in modo specifico e dettagliato.

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