Codice Civile art. 2045 - Stato di necessità.

Francesco Agnino

Stato di necessità.

[I]. Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona [1447], e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile [54 c.p.], al danneggiato è dovuta un'indennità [2047 2], la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice [194 trans.; 113 c.p.c.].

Inquadramento

Parallelamente a quanto previsto dall'articolo 54 c.p., ai sensi dell'art 2045 c.c. per l'esistenza dello stato di necessità non basta che l'autore del fatto illecito sia stato costretto o compierlo per la necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, ma si richiede, altresì, che il pericolo non sia stato da lui volontariamente causato e non sia altrimenti evitabile (Cass. n. 21918/2006).

Pertanto, anche in ambito civile il legislatore positivizza l'istituto dello stato di necessità, chiarendo come, quando chi ha compiuto il fatto dannoso sia stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e il pericolo non sia stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile ‐, al danneggiato sia dovuta un'indennità (l'art. 2045 c.c., laddove riconosce in favore del danneggiato un'indennità nell'ipotesi in cui chi ha compiuto il fatto dannoso abbia agito in stato di necessità, ha una funzione surrogatoria od integratrice, avendo lo scopo di assicurare al danneggiato un'equa riparazione, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice (Cass. n. 23275/2010).

Per ravvisare lo stato di necessità, previsto dall'art. 2045 c.c. è richiesta la sussistenza della necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona: in relazione al quale non è comunque possibile pretendere dall'agente «umanamente» un comportamento diverso (Cass., I, n. 21918/2006).

In ogni caso, perché trovi applicazione la disposizione dell'art 2045 c.c., occorre che colui che ha compiuto il fatto dimostri che il pericolo non é stato da lui volontariamente causato, né era altrimenti evitabile; non sussistono, quindi, i presupposti per invocare lo stato di necessità quando l'evento sia attribuibile anche al comportamento colposo dell'autore del danno in quanto, tale comportamento, ponendosi quale elemento determinante (esclusivo o no) della situazione di pericolo, esclude l'inevitabilità del pericolo stesso (Cass. n. 3862/1969).

Si è altresì affermato che in tema di responsabilità medica, la struttura ospedaliera che esegua un intervento chirurgico d'urgenza non può invocare lo stato di necessità di cui all'art. 2045 c.c., il quale implica l'elemento dell'imprevedibilità della situazione d'emergenza, la cui programmazione rientra nei compiti di ogni struttura sanitaria e, con riguardo alle risorse ematiche, deve tradursi in un approvvigionamento preventivo o nella predeterminazione delle modalità per un rifornimento aggiuntivo straordinario, sicché grava sulla struttura la prova di aver eseguito, sul sangue pur somministrato in via d'urgenza, tutti i controlli previsti all'epoca dei fatti (Cass. n. 13919/201, nella specie, il paziente aveva contratto epatite post-trasfusionale in conseguenza di emotrasfusioni alle quali era stato sottoposto con particolare urgenza, essendo giunto in ospedale con una ferita da arma da fuoco e con una grave emorragia in corso).

La natura oggettiva ovvero soggettiva dello stato di necessità

Controverso, particolarmente in dottrina, se lo stato di necessità escluda l'ingiustizia del danno, sotto il profilo della oggettiva antigiuridicità del fatto, «rientrando in questo modo nella categoria della responsabilità per atto lecito dannoso» (Briguglio, 146) oppure se esso costituisca un fatto illecito rispetto al quale divergono solamente le conseguenze: «l'indennizzo, anziché il risarcimento» (Scognamiglio, 655). A seconda di come s'intenda risolvere la questione, lo stato di necessità comporterà «responsabilità di tipo oggettivo» (Comporti, 236) oppure d'altra natura, come, ad esempio, responsabilità fondata sul criterio di imputazione dell'ingiustificato arricchimento (Troisi, 92). Per i sostenitori della prima tesi, lo stato di necessità è considerato come una forza che, agendo sull'animo dell'agente, lo priva della libertà di scegliere liberamente la condotta da adottare, obbligandolo — di fatto — a compiere un'azione necessitata per salvare sé o altri da un danno grave alla persona (De Cupis, 16), ciò esclude l'antigiuridicità del fatto da un punto di vista obiettivo e rende ininfluente l'accertamento dell'elemento psicologico (Rubino, 203), in quanto l'azione necessitata priva l'agente della libertà psicologica di scegliere tra più condotte possibili, da ricondurre, per alcuni nella categoria dei fatti leciti dannosi (Piras, 119).

L'indennità per la tesi obiettiva rappresenta un contributo dato all'attenuazione od esclusione del danno che altrimenti un membro della collettività, cui l'indennizzato appartiene avrebbe sofferto. Si ispira, in altre parole ad un principio di equità giuridica che contempera gli interessi in gioco concedendo al soggetto sacrificato una pretesa indennitaria da determinarsi di volta in volta equitativamente, da parte del giudice, ovvero un compenso attribuito al soggetto in cambio dell'interesse sacrificato (De Cupis, 29).

Al contrario, per la tesi opposta l'azione necessitata è il frutto di una libera determinazione di volontà dal soggetto agente che sceglie di violare una norma giuridica o di condotta «... per salvare sé o altri da un danno grave alla persona. In altre parole, l'agente non è un mero strumento materiale delle circostanze di pericolo, ma si inserisce in questo contesto, in qualche modo, con un suo atto di autonomia. L'azione di necessità è voluta ma non meditata.

Propende per la ricostruzione soggettiva dell'istituto anche la Relazione accompagnatoria al codice civile. Sul punto afferma che: «il fatto compiuto in situazione di necessità è imputabile perché cosciente e volontario; da ciò deriverebbe la conseguenza che il danno deve essere risarcito secondo i criteri ordinari. Ma per riguardo alla particolarità del caso, mentre la legge penale dichiara non punibile l'autore (art. 54 c.p.), quella civile sancisce soltanto un'attenuazione della responsabilità, nel senso che al danneggiato è dovuta un'indennità che sarà determinata dal giudice secondo equità (art. 2045 c.c.), costituendo in sostanza un dovere del soggetto di contribuire, con il sacrificio parziale proprio, alla salvezza altrui se questa non si possa ottenere».

Per i sostenitori di questa seconda tesi, inoltre, l'indennità non cessa di essere una forma di risarcimento del danno, dal momento che l'obbligazione dell'autore del fatto necessitato di corrispondere l'indennità trova fondamento in una responsabilità soggettiva, sia pure attenuata per fatto proprio del danneggiante a lui imputabile perché volontaria e consapevole.

La posizione della giurisprudenza

Il giudice delle leggi ha offerto una corretta lettura ermeneutica della disposizione ex art. 2045 c.c., precisando, appunto, che essa presuppone pur sempre una responsabilità dell'agente, almeno in termini di imputabilità della condotta lesiva, derivante dalla libera determinazione di violare una norma giuridica (Corte cost. n. 130/2006).

Nelle ipotesi ex art. 2045 c.c., l'agente sceglie consapevolmente il pregiudizio altrui, ma con la esimente di difendere un bene giuridico superiore attraverso una condotta salvifica.

Ma il «fatto dannoso» deve pur sempre esser stato «compiuto» dall'agente, cioè deve poter essere a questi non solo riferibile ma soprattutto imputabile: è proprio la differenza tra mera riferibilità ed imputabilità che può costituire la chiave di lettura per identificare nel fatto concreto, al fine della sua qualificazione, la presenza della costrizione, dello stato di necessità o del caso fortuito, (e così vis maior).

L'azione è, cioè, «intenzionalmente compiuta» ma, sul piano teleologico, allo scopo di salvare alcuno (sé od altri) dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (Cass. n. 23696/2004).

L'interpretazione suggerita dalla Corte delle Leggi è, peraltro, rinvenibile anche nella giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, che discorre, per l'appunto, di cd. responsabilità attenuata, (Cass. n. 1124/1965; Cass. n. 2913/1966).

Tale posizione è assunta anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Bologna, 27 marzo 2007), dal momento che nell'ambito della responsabilità civile lo stato di necessità si qualifica non quale esimente idonea ad escludere l'antigiuridicità del fatto ma quale ragione di responsabilità attenuata.

Stato necessitato ed evitabilità del danno

Tra l'azione necessitata prevista dall'art. 2045 c.c. ed il danno subito dal danneggiato deve esistere il rapporto di causalità previsto in generale dall'art. 2043 c.c., onde l'indennità di cui all'art. 2045 va esclusa qualora si ritenga che il danno lamentato si sarebbe ugualmente verificato anche in assenza della condotta necessitata.

In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione che si riferiva alla ipotesi di indennità richiesta dalla passeggera di un'automobile, rimasta ferita per la brusca frenata che il conducente di tale veicolo era stato costretto a compiere per evitare la collisione con altro veicolo improvvisamente immessosi sulla strada (Cass. n. 2238/1981). Del resto l'esclusione dell'indennità quando l'atto necessitato sia stato compiuto nel tentativo di evitare un danno che, senza di esso, si sarebbe ugualmente verificato era stata, già in precedenza, affermata (Cass. n. 2087/1966).

Indennizzo e poteri officiosi del giudice

Nella ipotesi in cui l'attore chiede il risarcimento del danno per fatto illecito e risulta che il convenuto ha agito in stato di necessità, il giudice deve applicare d'ufficio l'art. 2045 c.c., essendo implicita nella domanda di risarcimento quella di corresponsione di un equo indennizzo (Cass. n. 2913/1966). Si deve considerare che l'onere di allegazione del fatto, incombente sull'attore, è assolto con la deduzione di un danno ingiusto ricollegabile alla violazione di norme giuridiche o di condotta, che è presupposto necessario e comune ad ambedue le fattispecie disciplinate dagli artt. 2043 e 2045 c.c. Sarà poi onere del convenuto dimostrare lo stato di necessità al fine di attenuare l'entità del ristoro dovuto, a mezzo della corresponsione dell'indennità ex art. 2045 c.c., che è, in tal caso, sostitutiva del pieno risarcimento del danno. Consegue da ciò che deve ritenersi implicita nella domanda di risarcimento del danno da fatto illecito quella subordinata di corresponsione dell'indennità in questione, sulla quale il giudice deve pronunciare anche in mancanza di una esplicito richiamo alla norma dell'art. 2045 c.c. (Cass. n. 12100/2003).

In tal senso, in tema di responsabilità sanitaria va osservato che nei compiti di una struttura ospedaliera organizzata e operante sul territorio, rientra, tra gli altri, la programmazione, ai fini dell'adeguata gestione, delle situazioni di emergenza, che si deve tradurre in un'apposita organizzazione interna finalizzata proprio alla professionale e organizzata gestione dell'emergenza, con appositi protocolli, la previsione di turni in chirurgia di tutte le qualifiche professionali coinvolte, la disponibilità all'occorrenza delle sale operatorie con priorità su interventi che possono attendere, l'approvvigionamento preventivo di risorse ematiche verificate o comunque la predeterminazione delle modalità di un approvvigionamento aggiuntivo straordinario ove necessitato dalla situazione di emergenza. Deve, di conseguenza, in ogni caso escludersi che una struttura sanitaria, che esegua all'interno di essa un intervento chirurgico d'urgenza, agisca in stato di necessità e possa di conseguenza essere ritenuta non responsabile ex articolo 2045 c.c. dei danni riportati dai pazienti ove gli stessi abbiano subito un danno ingiusto (Cass. n. 13919/2016).

Concorso tra l'indennizzo ex art. 2045 c.c. ed il risarcimento ex art. 2043 c.c.

Secondo quanto stabilito dai giudici di legittimità qualora la responsabilità del vettore per i danni subiti dal trasportato sia esclusa dallo stato di necessità determinato dal fatto colposo del terzo, l'azione indennitaria ex art. 2045 c.c. contro il soggetto necessitato (vettore) e quella risarcitoria ex art. 2043 c.c. contro il terzo necessitante sono autonome per la sostanziale diversità dei presupposti delle due ragioni di credito, (l'una diretta al conseguimento di una equa riparazione, in termini di tutela sociale, del danno subito e l'altra volta alla totale reintegrazione del patrimonio leso) e pertanto non cumulabili ma solo alternativamente proponibili (Cass. n. 4074/1978).

Altrimenti il danneggiato, conseguendo due titoli, potrebbe ottenere — con evidente indebito profitto — sia il risarcimento che l'indennità.

Tuttavia è innegabile che l'art. 2045 c.c. ha anche una funzione surrogatoria od integratrice, avendo lo scopo di assicurare comunque al danneggiato un'equa riparazione. Ciò significa che il predetto può rivolgersi contro il danneggiante necessitato per ottenere l'indennità e contro il terzo necessitante per la differenza tra l'integrale risarcimento e l'indennità qualora attraverso quest'ultima non consegua una riparazione soddisfacente, ovvero agire contro il terzo necessitante per ottenere il risarcimento integrale e, contro il necessitato per conseguire l'indennità anche per l'eventuale differenza qualora il primo non adempia in tutto o in parte (Cass. n. 427/1953).

Se, dunque, non è possibile il cumulo, è, però, ammissibile il concorso delle due azioni, con alternatività della pronuncia, nel senso cioè che il giudice, una volta proposte le due azioni, subordina l'accoglimento dell'una o dell'altra al mancato integrale soddisfacimento delle ragioni di credito del danneggiato.

Poiché nella domanda giudiziale di risarcimento integrale del danno deve ritenersi implicitamente compresa, subordinatamente la richiesta di equo indennizzo (Cass. n. 2660/1971), la quale costituisce un minus, data la sua funzione sociale di rappresentare comunque per il danneggiato una possibilità ulteriore per ottenere la riparazione del danno.

Sicché non costituisce domanda nuova, ai fini di cui all'art. 345 c.p.c., la proposizione per la prima volta in appello della domanda di corresponsione dell'indennizzo ex art. 2045 c.c., quando l'appellante abbia proposto in primo grado domanda di risarcimento del danno, dovendo la prima ritenersi implicita nella seconda, tanto che il giudice può provvedere su di essa persino ex officio.

Giova sottolineare che, qualora l'attore abbia chiesto il risarcimento dei danni e sia stato accertato che il convenuto aveva agito in stato di necessità, il giudice deve applicare d'ufficio l'art. 2045 c.c., essendo implicita nella domanda di risarcimento quella di corresponsione di un equo indennizzo, anche in assenza di un esplicito richiamo, da parte del danneggiato, alla ricordata norma ex art. 2045 c.c. (Cass. n. 9239/20123).

Bibliografia

Briguglio, Lo stato di necessità nel diritto civile, Padova, 1963; Comporti, Esposizione al pericolo e responsabilità civile, Napoli, 1965; De Cupis, Natura giuridica dell'atto necessitato, in Riv. critica dir. priv.1939; De Cupis, Il danno, Teoria generale della responsabilità civile, I, Milano, 1979; Mazzon, Responsabilità oggettiva e semioggettiva, Torino 2012; Piras, Saggio sul comportamento del necessitato nel diritto privato, Studi sassaresi, 1949; Rubino, Osservazioni in tema di stato di necessità e concorso di persone nel fatto colposo, in Riv. giur. circolaz. 1953; Scognamiglio, Responsabilità civile, in Nss.D.I., XV, Torino, 1968; Troisi, Lo stato di necessità nel diritto civile, Napoli, 1988.

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