Codice Civile art. 2046 - Imputabilità del fatto dannoso.Imputabilità del fatto dannoso. [I]. Non risponde delle conseguenze dal fatto dannoso chi non aveva la capacità d'intendere o di volere [428] al momento in cui lo ha commesso [2047; 85 ss. c.p.], a meno che lo stato d'incapacità derivi da sua colpa. InquadramentoL’autore del fatto dannoso è esente da responsabilità se al momento in cui lo commette è incapace di intendere e di volere. L’interpretazione della norma distingue la colpa dall’imputabilità, anche se in passato un diverso orientamento indicava come non si potesse parlare di colpa ove mancasse lo stato della volontà razionale. Da qui anche una condotta dell’incapace sarebbe suscettibile di essere qualificata colposa e potrebbe diventare antigiuridica se violasse un interesse tutelato dall’ordinamento. L’art. 2046 c.c. disciplina, dunque, un’esimente da responsabilità da fatto illecito per colui che non è in grado di intendere e di volere non perché manchi un elemento costitutivo dell’illecito, ma per la primaria esigenza di tutela dell’incapace. L’incapacità naturale è, in questo caso, un’esimente personale di responsabilità a tutela dell’incapace, non necessariamente in stato di disabilità psichica, ma la fattispecie è configurabile anche nei riguardi di soggetto adulto capace giuridicamente, ma temporaneamente incapace di intendere e volere, per cause transitorie. Le norme che disciplinano le cause di giustificazione nascono nell'ambito dell'ordinamento penale (artt. 50-54 c.p.) e sono state inserite, solo parzialmente, nel codice civile del 1942 (artt. 2044 e 2045) sul modello penalistico. La ratio legis dell'art. 2046 c.c. è solo quella di escludere la responsabilità civile dell'autore di un fatto che cagiona ad altri un danno ingiusto, quando viene a mancare (per la incapacità naturale di intendere e volere) l'elemento soggettivo della imputabilità e cioè della responsabilità a titolo soggettivo. Come affermato dalla Corte di Cassazione (Cass. n. 2425/1975), in tema di imputabilità del fatto dannoso opera, nel campo civile, un sistema diverso ed autonomo rispetto a quello previsto dal legislatore per l'imputabilità nel campo penale, laddove è la stessa legge che fissa le cause che la escludono, mentre, a norma dell'art. 2046 c.c., compete al giudice civile accertare caso per caso, se, in relazione all'età, allo sviluppo fisico-psichico, alle modalità del fatto o ad altre ragioni, debba escludersi o meno la capacità di intendere o di volere. La norma dev'essere interpretata nella logica connessione con quella dell'art. 2043, che appunto presuppone l'elemento soggettivo della colpa e del dolo. Dal coordinamento (logico sistematico) tra le norme richiamate (artt. 2043, 2046) si deduce che il soggetto che versi nelle condizioni di incapacità d'intendere e volere di cui all'art. 2046 c.c. (cd. incapacità naturale, provvisoria o definitiva) è esentato dalla responsabilità civile ma non dalla determinazione dell'apporto causale. Vale dunque il principio della c.d. equivalenza delle cause allorché, in presenza di una pluralità di fatti, l'antecedente abbia contribuito direttamente o indirettamente, alla produzione dell'evento o degli eventi lesivi (Cass. n. 2737/1988). In nesso eziologico è spezzato solo dal principio della c.d. causalità efficiente nel senso che una sola serie causale, sin dall'origine e per forza propria, sia stata la esclusiva determinante dell'evento, o degli eventi (Cass. n. 2234/1985). Peraltro, l'art. 2046 c.c., è norma applicabile in caso di fatto imputabile all'incapace quando le conseguenze pregiudizievoli si siano prodotte a danno di terzi, non anche quando l'incapace sia il danneggiato. In tale eventualità trova applicazione il principio di diritto per il quale quando un soggetto incapace di intendere e di volere, per minore età o per altra causa, subisca un evento di danno, in conseguenza del fatto illecito altrui in concorso causale con il proprio fatto colposo, l'indagine deve essere limitata all'esistenza della causa concorrente alla produzione dell'evento dannoso, prescindendo dall'imputabilità del fatto all'incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo, ed il risarcimento al danneggiato incapace è dovuto dal terzo danneggiante solo nella misura in cui l'evento possa farsi risalire a colpa di lui, con l'esclusione della parte di danno ascrivibile al comportamento dello stesso danneggiato (Cass. n. 4332/1994; Cass. n. 14548/2009; Cass. n. 3242/2012). In altri termini, quando un soggetto incapace di intendere e di volere, per minore età o per altra causa, subisca un evento di danno, in conseguenza del fatto illecito altrui in concorso causale con il proprio fatto colposo, l'indagine deve essere limitata all'esistenza della causa concorrente alla produzione dell'evento dannoso (Cass. n. 23214/2016). Peraltro, l'art. 2046 c.c. configura la incapacità di intendere e volere come "esimente" della responsabilità civile, e si pone quindi al di fuori della struttura dell'illecito nel senso che non integra alcuno dei fatti costitutivi della fattispecie ex art. 2043 c.c. e tanto meno coincide con l'elemento soggettivo della condotta (il cui accertamento concerne la verifica della disformità della condotta tenuta in concreto rispetto a parametri oggettivi di comportamenti normativamente prescritti o comunque richiesti in base al principio "alterum non laedere", in situazioni analoghe, verifica che esula pertanto dalla indagine sulla personale attitudine psichica del soggetto), ma riverbera, invece, come causa esterna alla fattispecie ex art. 2043 c.c., in quanto impediente l'ingresso allo stesso giudizio di responsabilità; del pari non vi è coincidenza tra capacità di intendere e volere ed antigiuridicità del fatto, in quanto quest'ultima si qualifica esclusivamente per il disvalore attribuito dall'ordinamento al risultato della condotta in quanto contrario all'interesse-valore tutelato e non anche all'elemento psichico della persona fisica. Inconferente è il richiamo operato dal ricorrente alla massima giurisprudenziale tratta dal precedente Cass. III, n. 390/2008 secondo cui grava sul danneggiato dall'illecito ex art. 2043 c.c., l'onere della prova degli elementi costitutivi di tale fatto, del nesso di causalità, del danno ingiusto e della imputabilità soggettiva, laddove la imputabilità soggettiva è individuata nell'elemento soggettivo della condotta (fatto doloso o colposo) che suppone la "suitas" del soggetto, in quanto precondizione minima esterna alla fattispecie normativa astratta dell'illecito aquiliano, richiesta dall'ordinamento per poter dare luogo all'ingresso ad un giudizio di responsabilità (id est di attribuzione ad un soggetto delle conseguenze della sua azione), in quanto giudizio che può essere fondato esclusivamente su di un agire umano posto in essere da un soggetto dotato di coscienza ed attitudine psichica alla autodeterminazione. Da quanto, precede discende che la "imputabilità" è oggetto di un giudizio e non costituisce un fatto la cui esistenza non è oggetto di verifica nella fase istruttoria del processo. Infatti, non valgono quelle particolari ipotesi in cui l'ordinamento pone a fondamento della pretesa proprio l'accertamento della capacità di intendere e volere del soggetto. Ed infatti, se la "non imputabilità", o più correttamente, lo stato di incapacità di agire determinato da infermità psichica, viene riconosciuto come elemento costitutivo della pretesa risarcitoria, nei casi in cui il danneggiato agisca in giudizio, ai sensi dell'art. 2047 c.c., comma 1, per fare valere la responsabilità civile del soggetto tenuto alla sorveglianza dell'incapace che ha cagionato il danno (cfr. Cass. III, n. 5485/1997), diversamente, nel caso in cui il danneggiato agisce allegando la imputabilità dell'evento lesivo alla condotta dell'autore dell'illecito, qualificata da dolo o colpa, fornendo gli elementi circostanziali attestanti la intenzionalità della condotta o la violazione di norme giuridiche prescrittive di obblighi a tutela dell'interesso leso o ancora la mancanza, nel caso di specie, dell'adempimento dei doveri generici di condotta (prudenza, attenzione, e perizia del soggetto) richiesti per evitare di arrecare nocumento a terzi, la questione della mancanza di coscienza e volontà del danneggiante nel momento in cui è stato commesso l'illecito ex art. 2046 c.c., deve essere eccepita e dimostrata dall'interessato, in quanto condizione soggettiva intesa a paralizzare la pretesa risarcitoria, non essendo sufficiente pertanto la mera allegazione da parte del convenuto in risarcimento danno, della propria situazione di incapacità al momento del fatto, ma occorre che tale peculiare condizione sia esplicitamente individuata nella sua causa (patologia psichica di natura permanente o transeunte; stato di alterazione cagionato da terzi o da caso fortuito, ecc.) ed oggetto di verifica istruttoria attraverso gli ordinari mezzi di prova (Cass. n. 16661/2017).
La nozione di imputabilitàLa disposizione codicistica subordina la risarcibilità del danno extracontrattuale alla sussistenza dell'imputabilità, ossia alla capacità di intendere e di volere dell'autore del fatto lesivo, non rilevando in materia di illecito la capacità legale. Quest'ultima è richiesta in materia di rapporti obbligatori; in caso di illecito, invece, l'ordinamento ritiene che anche un minore di età, purché capace di intendere e di volere, sia in grado di comprendere le conseguenze dannose che da un certo comportamento possono derivare e, per converso, che un maggiore d'età, anche se legalmente capace, può non essere in condizione di capire il significato delle proprie azioni e di autodeterminarsi (Messineo, 50). In dottrina è stato ritenuto corretto far riferimento a quel minimo di attitudine psichica ad agire e valutare le conseguenze del proprio operato, che appare indispensabile perché, secondo i criteri di giudizio offerti dalla comune coscienza, il fatto dannoso, che si prende concretamente in considerazione, possa qualificarsi come espressione della libera scelta ed azione di chi materialmente lo pone in essere (Scognamiglio, 639). Ancora, l'incapacità di intendere e di volere è stata definita come la inidoneità psichica della persona a comprendere la rilevanza sociale negativa delle proprie azioni e a decidere autonomamente il proprio comportamento (Bianca, 657). Anche se, formalmente, la norma di cui all'art. 2046 c.c. non introduce una definizione della nozione di imputabilità, ma enuncia una regola di irresponsabilità, sostanzialmente il contenuto precettivo generale degli artt. 85 c.p. e 2046 c.c. è identico. Pertanto, il concetto di imputabilità coincide con quello di capacità di intendere o di volere. In altre parole, non vi è imputabilità in caso di incapacità naturale e, cioè, nell'ipotesi in cui vi sia difetto di coscienza o di volontà. Affinché vi sia incapacità naturale non è necessaria l'esistenza di una malattia che annulli in modo totale e assoluto le facoltà psichiche del soggetto, rivelandosi sufficiente un perturbamento psichico anche transitorio, tale da menomare gravemente, pur senza escluderle, le facoltà intellettive del soggetto (Napoli, 290). Non sono mancate, tuttavia, valutazioni difformi in ordine all'unità sostanziale del concetto di imputabilità, essendosi sottolineata la opportunità di costruire in maniera autonoma ed indipendente i rispettivi concetti di imputabilità, richiamandosi soprattutto alle diverse finalità delle due diverse materie: punitivo-afflittiva quella penale, risarcitoria o satisfattiva quella civile. Per quanto concerne la ratio dell'imputabilità nell'ambito dell'ordinamento civile, una parte della dottrina lo ravvisa nella primaria ragione di protezione dell'incapace; in altri termini, l'incapacità naturale è un'esimente personale di responsabilità sancita a tutela dell'incapace (Bianca, 655). Infatti, secondo tale impostazione, non è condivisibile la teoria che ravvisa il fondamento dell'art. 2046 c.c. nell'assenza di un elemento costitutivo dell'illecito (e cioè della colpa). Inoltre, il fatto che l'art. 2046 c.c. sia stato previsto dal legislatore a tutela dell'incapace (e non perché in tali casi non si integri l'illecito per mancanza di un elemento costitutivo) viene desunto anche dalla configurazione della colpa come nozione oggettiva, quale non conformità ad un obiettivo modello di comportamento diligente. A tale stregua, ove la ratio della irresponsabilità non fosse quella della protezione, l'incapace dovrebbe essere considerato responsabile in quanto il suo comportamento è suscettibile di essere considerato colposo. In altri termini, la sua condotta verrebbe ritenuta obiettivamente antigiuridica perché non conforme alla diligenza dovuta nei rapporti della vita di relazione. Non è mancato, però, chi ha contestato questa teoria. La protezione dell'incapace sia solo un effetto secondario dell'applicazione dell'art. 2046 c.c.: che la funzione preminente della capacità non sia protettiva dell'agente risulta dalla natura delle disposizioni sul fatto illecito, dagli interessi che esse tutelano (Corsaro, 108). Nella giurisprudenza di merito si è precisato che affinché possa essere dichiarata l'effettiva incapacità di intendere e di volere di un soggetto imputato è necessario che vi sia la assoluta e totale assenza di capacità di autodeterminazione, tale da rendere impossibile la comprensione del disvalore sociale della propria condotta e di conseguenza la capacità di valutare se compiere o meno detta azione. In particolare non vi deve essere alcun dubbio o incertezza dell'assenza di tale capacità durante l'intera commissione del fatto illecito o omissione (App. Firenze, 10 maggio 2023, n. 981). Accertamento dell'imputabilitàI due ambiti (quello civile e quello penale) divergono in ordine ai criteri di accertamento dello stato di incapacità. Com'è noto, il codice penale enuncia in modo preciso le cause in presenza delle quali un soggetto deve ritenersi incapace per presunzione legislativa: gli artt. 88,95,97 c.p. elencano fra le cause dell'incapacità il vizio di mente, la cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, l'età inferiore ai quattordici anni. Anche se l'opinione corrente non ritiene tassativo questo elenco, è evidente che in presenza di tali circostanze, il giudizio sulla non imputabilità dell'autore del reato è automatico. Viceversa, il diritto civile non conosce alcuna elencazione e quindi lascia arbitro il giudice di decidere, in relazione al caso concreto, se il soggetto sia capace di intendere e di volere e quindi imputabile in presenza delle circostanze indicate dal codice penale o di altre. Ne deriva che l'eventuale verifica penalistica del vizio parziale di mente di cui all'art. 89 c.p. è del tutto irrilevante nel giudizio di responsabilità civile. Infatti, com'è noto, il codice penale, oltre al vizio totale di mente che esclude l'imputabilità, prevede il vizio parziale di mente che comporta una diminuzione della capacità di intendere e di volere e, quindi, una riduzione della pena. Sicché può accadere che uno stesso individuo sia ritenuto capace secondo l'ordinamento civile e incapace alla stregua dell'ordinamento penale e correlativamente che lo stesso fatto dannoso possa essere ritenuto fonte di responsabilità solo civile e non anche penale. Per la Corte di Cassazione in tema di imputabilità del fatto dannoso opera, nel campo civile, un sistema diverso ed autonomo rispetto a quello previsto dal legislatore per l'imputabilità in campo penale (Cass. n. 11163/1990). In termini chiari, i giudici di legittimità hanno rilevato che la persona incapace d'intendere e di volere non può essere ritenuta responsabile, rispetto all'ordinamento giuridico civile e penale, del fatto dannoso da essa compiuto in obiettivo contrasto con le norme dei detti ordinamenti. L'ordinamento giuridico, penale e civile, segue criteri diversi per la concreta determinazione dello stato di incapacità di intendere e di volere; la legge penale, invero, enuncia tassativamente le cause in presenza delle quali il soggetto, per presunzione iuris et de iure, deve ritenersi incapace di intendere e di volere; così per vizio di mente, per cronica intossicazione da alcool, per età inferiore agli anni quattordici; la legge civile, invece, lascia arbitro il giudice di stabilire se il soggetto stesso, in presenza delle anzidette cause o di altre, sia o meno incapace di intendere e di volere; pertanto la responsabilità giuridica per uno stesso fatto dannoso, rispettivamente a titolo di illecito civile o di reato, può essere valutata diversamente dall'interprete in funzione delle diverse norme dettate dall'uno e dall'altro ordinamento circa la determinazione dell'anzidetto stato di capacità di intendere e di volere (Cass. n. 1006/1959). Nell'azione risarcitoria per responsabilità extracontrattuale proposta allegando l'imputabilità dell'evento lesivo alla condotta dell'autore dell'illecito, qualificata da dolo o colpa, grava sul danneggiante l'onere di allegare e provare l'esistenza al momento del fatto illecito, dello stato di incapacità di intendere e di volere previsto dall' art. 2046 c.c. , in quanto la imputabilità non integra un elemento costituivo della fattispecie di responsabilità aquiliana ma si pone come condizione soggettiva esimente della stessa. Tale accertamento che avrebbe dovuto essere sollecitato con apposita eccezione, da sollevare nei termini ex art. 167 c.p.c. , accertamento, dunque, che in questa è ormai precluso ex art. 345 c.p.c . (App. Napoli, 8 gennaio 2024, n. 39). Il sistema di accertamento previsto dal codice civile, pertanto, è più elastico di quello penalistico e permette al giudice di condurre l'indagine sulla base della comune esperienza, oltre che di nozioni scientifiche fornite dai periti e di correlare la sanzione al tipo di illecito, alla gravità del fatto e alla personalità dell'autore. Il consulente tecnico dovrà rispondere ai quesiti posti dal giudice, prospettando tutte le circostanze che inducono ad affermare che lo stato considerate, dal punto di vista civilistico, le monomanie, le quali non diminuiscono soltanto la capacità di intendere e di volere (come i vizi parziali di mente), ma potrebbero escluderla del tutto. Si è affermato che la sentenza di assoluzione dell'imputato per vizio totale di mente non consente al giudice penale, ove anche applicasse all'imputato una misura di sicurezza, di pronunciare alcuna statuizione civile sull'esistenza del danno né di liquidare in favore della parte civile l'indennità prevista dall'art. 2047 c.c. (Cass. pen. n. 45228/2013). In caso di assoluzione dell'imputato, dunque, per qualsiasi causa, è inibito al giudice penale — che in tal senso ha una vera e propria incompetenza funzionale, perché finisce per invadere indebitamente la giurisdizione civile — emettere pronuncia sulle richieste civilistiche dei soggetti danneggiati costituiti in parte civile. Non c'è dubbio, quindi, che il sistema ordinamentale prevede che la parte danneggiata, a fronte di assoluzione dell'imputato, non abbia altra via che quella di promuovere azione davanti alla giurisdizione civile, giudice generale dei diritti. Il principio di diritto sopra espresso è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con una decisione che, pronunciata in un caso di assoluzione per la riconosciuta esimente della legittima difesa, ancorché putativa, ribadisce l'affermazione — peraltro imposta da una formulazione normativa (art. 538 c.p.p.) che non ammette dubbi interpretativi — secondo cui: a) la condanna risarcitoria può essere legittimamente emessa dal giudice penale solo in caso di pronuncia di condanna penale; b) l'assoluzione per causa esimente (e qui per vizio totale di mente), pronunciata ex art. 530 c.p.p., comma 3, è vera e propria assoluzione (art. 530 c.p.p., comma 1); c) a fronte di tale inequivocabile sbarramento normativo, neppure può porsi il principio generale di economia processuale, anche in funzione di un giusto e celere processo, per la cessazione, con il vigente codice di procedura penale, del pregresso sistema di unitarietà della funzione giurisdizionale e di generale prevalenza dell'accertamento in sede penale (Cass. pen. n. 33178/2012; Cass. pen. n. 40049/2008). La capacità naturale nell'interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno, minore etàAccanto all'incapacità naturale il nostro ordinamento prevede l'incapacità legale, quale inidoneità del soggetto a compiere e ricevere gli atti giuridici incidenti sulla propria sfera personale e patrimoniale. La capacità di agire si acquista col raggiungimento della maggiore età e si può perdere a causa di una infermità mentale o di una condanna penale. In particolare, sono totalmente incapaci di agire: in primo luogo, i minori che non hanno compiuto il diciottesimo anno di età; in secondo luogo, gli interdetti giudiziali, cioè coloro che, trovandosi in condizioni di abituale infermità di mente (art. 414 c.c.), sono dichiarati con provvedimento giudiziale incapaci di agire; gli interdetti legali, cioè le persone che sono prive della capacità di agire in quanto hanno subito una condanna ad una pena della reclusione non inferiore a cinque anni. Hanno, invece, una parziale capacità d'agire gli inabilitati, cioè coloro che si trovano in uno stato non talmente grave da dar luogo all'interdizione. Inoltre, la l. n. 6/2004, prevedendo l'istituto dell'amministrazione di sostegno, ha introdotto un nuovo sistema di protezione delle «persone in tutto o in parte prive di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana», graduando, in base alle diverse esigenze del singolo caso concreto, gli interventi limitativi della capacità di agire. Con riferimento all'interdetto, all'inabilitato e al beneficiario dell'amministrazione di sostegno ci si domanda se questi soggetti rispondano o meno dei danni da essi stessi cagionati. Com'è noto, presupposto per l'interdizione è un'abituale infermità di mente accertata giudizialmente. Tale stato sussiste quando le condizioni mentali del soggetto siano stabilmente alterate. Ciò non vuol dire che sia necessaria un'infermità mentale continua. Tuttavia, non rileva, ai fini dell'interdizione, uno stato morboso transitorio, destinato a risolversi in un breve lasso di tempo. La Cassazione afferma che l'interdetto per infermità di mente si presume, con riferimento agli atti illeciti, non responsabile (fino a prova contraria). In altri termini, la Suprema Corte ritiene che dallo stato di interdizione derivi per gli atti illeciti una presunzione di incapacità, che può essere vinta da prova contraria (Cass. 19 gennaio 1933: l'interdetto per infermità di mente si presume irresponsabile anche nel caso di obbligazioni nascenti da delitto o quasi delitto. Tale presunzione può vincersi dal danneggiato con la prova che, nel momento dell'evento dannoso, l'infermità mentale che determinò l'interdizione o non esisteva, o non esisteva in grado tale da determinare l'irresponsabilità). La pronuncia del Supremo Collegio, anche se emanata durante la vigenza del codice civile del 1865, si fonda su quegli orientamenti dottrinari in materia poi accolti pienamente nel codice del 1942. Pertanto, del danno cagionato dall'interdetto risponde (salva la prova sulla capacità naturale del soggetto al momento dell'illecito) chi è tenuto alla sorveglianza secondo il disposto dell'art. 2047 c.c. Parte della giurisprudenza risalente, invece, non parla di presunzione di responsabilità, ma asserisce con fermezza che l'interdetto per abituale infermità di mente non risponde dei fatti ingiusti e dannosi in pregiudizio dei terzi, mancando nei suoi atti il principale requisito per ritenerlo in colpa: quello dell'imputabilità. Tuttavia, non sono mancati quei giudici che hanno affermato la responsabilità dell'interdetto per infermità di mente, argomentando che la capacità necessaria per rispondere di un fatto illecito è differente rispetto a quella necessaria per le obbligazioni contrattuali (App. Milano, 25 febbraio 1929: l'interdetto per infermità (nella specie cleptomania) non può ritenersi responsabile del danno commesso a cagione di detta infermità; App. Torino, 25 febbraio 1929: la responsabilità indiretta, a carico del tutore per i danni cagionati dall'interdetto, se con lui abitante, promana da colpa presunta (mancata vigilanza), ma tale presunzione può essere esclusa dalla prova che il danneggiato, pur essendo a conoscenza della cleptomania dell'interdetto ed essendo stato diffidato a non riceverlo in casa, lasciava che questi liberamente frequentasse i suoi negozi, senza curarsi di vigilarlo). Anche per l'inabilitazione si ritiene sia necessario un accertamento caso per caso. La giurisprudenza ha affermato che il grado e l'intensità della malattia mentale necessaria e sufficiente per la pronuncia d'inabilitazione sono inferiori a quelli richiesti per l'accertamento dell'incapacità naturale, per cui l'avvenuta declaratoria d'inabilitazione non equivale alla dimostrazione dell'incapacità naturale dell'inabilitato (Cass. n. 1388/1994). Per quanto concerne l'amministrazione di sostegno, il beneficiario (come si è detto) viene considerato dal legislatore capace di agire, anche se si tratta di una capacità che viene limitata in relazione alla idoneità del soggetto di curare i propri interessi. Tale figura, pertanto, può essere accostata a quella dell'inabilitato. Anche in tal caso, dunque, l'incapacità di intendere e di volere dovrà essere accertata nel caso concreto. Lo stesso principio è stabilito dalla dottrina e dalla giurisprudenza per l'accertamento della capacità naturale del minore di anni 14 (App. Firenze, 13 marzo 1964, ha considerato civilmente imputabile una bambina di dodici anni, ritenendola in condizioni psico-fisiche tali da poter valutare le proprie azioni; App. Firenze, 27 febbraio 1968, ha riconosciuto l'imputabilità ad un minore di quattordici anni che, alla guida di un ciclomotore era entrato in collisione con altro motociclista). La giurisprudenza ha escluso la necessità della verifica dell'imputabilità solo quando il danno sia stato prodotto da un'infante (età minima sette anni), dal momento che la prova dell'incapacità di intendere e di volere è in questi casi in re ipsa, data l'età estremamente giovane del danneggiante. Nelle altre ipotesi per la valutazione della capacità di un minore, come si è già detto, il giudice non potrà utilizzare il criterio relativo all'età dell'agente e alle modalità del fatto: dovranno anche essere presi in considerazione lo sviluppo intellettivo, quello fisico, l'assenza di eventuali malattie, la forza del carattere, gli studi effettuati, le modalità del fatto, la capacità del minore a comprendere l'illiceità dell'azione dannosa compiuta. Nella giurisprudenza di merito si osserva che quando sia stato accertato in via definitiva il totale vizio di mente dell'autore del reato, egli non può essere chiamato a rispondere dell'illecito in sede civile ex art. 2046 c.c. (Trib. Genova, 12 ottobre 2020, n. 1567). Actiones liberae in causaL'ultima parte dell'art. 2046 c.c. sancisce la responsabilità del non imputabile nel caso in cui lo «stato d'incapacità derivi da sua colpa». Pertanto, il legislatore deroga, nell'ipotesi dell'incapacità procurata, alla regola generale della necessaria corrispondenza tra imputabilità e produzione dell'evento dannoso: il soggetto, infatti, nel momento in cui cagiona il danno ha perduto la capacità di intendere e di volere. Si tratta delle actiones liberae in causa, dove, tradizionalmente, la condotta «non libera», resa in stato d'incapacità, deve farsi risalire ad un'azione anteriore consapevole. Ci si chiede in dottrina come possa spiegarsi che l'agente sia responsabile anche se al momento del fatto non era imputabile Sono state prospettate diverse giustificazioni. Un primo orientamento rinviene il fondamento della responsabilità nel semplice nesso causale, per cui causa causae est causa causati: e cioè, colui che determina una situazione dalla quale deriva un evento dannoso, ne deve rispondere, indipendentemente dalla circostanza che l'evento sia previsto e voluto (Visintini, 2005). Tuttavia, rifarsi ad un criterio puramente «oggettivo» di attribuzione della responsabilità non è opinione condivisibile in un sistema di responsabilità fondato sull'elemento soggettivo del dolo o della colpa. Secondo un'altra impostazione, l'incapace inizia a realizzare l'evento già nel momento in cui egli si pone volontariamente in condizione d'incapacità. La caratteristica dell'actio libera in causa sta proprio nel fatto che il soggetto comincia la sua azione in stato d'imputabilità e la continua in stato di non imputabilità. Si obietta, però, che in tal caso si condannerebbe al risarcimento per un comportamento precedente rispetto alla produzione dell'illecito e, quindi, si finirebbe per ampliare eccessivamente il concetto di realizzazione del danno. Peraltro, in caso di preordinazione volontaria dello stato di incapacità, con conseguente causazione in se stessi di tale stato, il richiamo alla disciplina penalistica di cui agli artt. 87 e 92 c.p. è sufficiente ad affermare la piena responsabilità civile dell'agente (Marini, 779). Ciò perché al soggetto può essere mosso un rimprovero per essersi intenzionalmente posto in quella condizione che gli ha reso possibile realizzare quanto aveva programmato. Inoltre, c'è chi ritiene che, diversamente da quanto prevede la legge penale, si applica il regime ordinario della responsabilità anche nell'ipotesi in cui l'autore del fatto illecito si sia posto in condizioni di incapacità, senza l'intenzione preordinata di porre in essere l'azione dannosa. È qui sufficiente che l'autore abbia adottato consapevolmente un comportamento che lo abbia posto in una condizione di incapacità, dando causa ad una condotta idonea a produrre un evento dannoso, ancorché non voluto e finanche non concretamente previsto (ma prevedibile: è il classico caso di chi, in stato di ubriachezza, si metta alla guida di un autoveicolo ed investa un pedone). Ci si pone un altro interrogativo: come si deve considerare il soggetto che si sia posto in stato di incapacità consapevolmente, ma senza avere la possibilità di autodeterminarsi in maniera realmente libera? A riguardo deve escludersi che possa individuarsi una responsabilità quando il comportamento che procura l'incapacità, pur dovendosi ascrivere al soggetto, sia comunque caratterizzato dall'inesistenza di una volontà. Si pensi al caso di cronica intossicazione da alcool, caratterizzato da un impulso (ripetitivo e condizionante tutto il comportamento della persona) all'assunzione di sostanze alcooliche e da stabili perturbazioni di ordine fisico. In tale ipotesi, la situazione dell'autore è simile a quella del malato di mente, con la conseguenza che la sua capacità deve ritenersi esclusa o diminuita. Allo stesso modo, lo stato di tossicodipendenza di per sé non potrebbe ritenersi rilevante ai fini dell'imputabilità, a meno che la droga non sia stata assunta per forza maggiore o per caso fortuito; tuttavia, se questo stato di tossicodipendenza è tale da produrre un'intossicazione patologica, può essere assimilato a quello di un vero malato di mente. È facile osservare che in tale modo la valutazione della capacità si riporta al momento in cui è stato posto in essere l'atto che ha prodotto l'incapacità: il tossicodipendente, infatti, viene valutato incapace già prima che assuma la droga, perché è «inidoneo» ad autodeterminarsi (secondo la definizione tradizionale, è «incapace di volere»). Il concorso di colpa dell'incapaceProblemi interpretativi di eccezionale rilevanza sono sorti con riferimento al trattamento che la previsione di cui al comma 1 dell'art. 1277 c.c. (richiamato, per la responsabilità extracontrattuale, dall'art. 2056 c.c.) sembrerebbe riservare allo stato di incapacità naturale. Secondo questa previsione «Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate». Si tratta, come è intuitivo, di spiegare come sia possibile ipotizzare una «colpa» a carico dell'incapace, posto che la condotta di quest'ultimo, in ragione del suo stato, non può essere qualificata nei termini della volontarietà. Una prima soluzione può essere quella di escludere già in radice l'applicabilità dell'art. 1227 c.c. al caso del danno procurato dall'incapace. Poiché il dato testuale menziona esplicitamente la nozione di «colpa», è impossibile riferire all'incapace, in ragione della sua assenza di discernimento, il danno da lui cagionato (De Cupis, 62). Tale tipo di risposta denuncia come la soluzione del problema possa essere tratta attingendo dalle argomentazioni che sono state proposte (secondo le linee già sopra segnalate), in ordine all'autonomia delle nozioni di colpevolezza ed imputabilità. Chi infatti ritiene che la «colpa» possa essere individuata anche prescindendo dal profilo psicologico, chi sostiene la tesi dell'indifferenza del giudizio sull'imputabilità rispetto al giudizio sulla «colpevolezza», riesce a motivare l'opinione secondo la quale la previsione dell'art. 1227, comma 1, c.c. costituirebbe altro indizio normativo (insieme all'art. 2047 c.c.), capace di confermare l'impossibilità di configurare l'imputabilità quale elemento essenziale della colpevolezza. Come la responsabilità di cui all'art. 2047 c.c. non sorge – nonostante la conclamata incapacità – se non tramite una valutazione di «colpevolezza», in termini «oggettivi» del comportamento dell'incapace, anche la regola del concorso – ed anche qui nonostante l'affermata incapacità – sarebbe irragionevole se la colpa a cui fa riferimento la norma non fosse quella che si evidenzia in termini obiettivi, rispetto ad un modello sociale astratto. Di tale dibattito non vi è particolare traccia nella giurisprudenza, della quale si avverte la fondamentale preoccupazione di non addossare definitivamente il danno a carico di un soggetto, quando non sussistano valide ragioni (e tale non sarebbe la circostanza che nell'illecito abbia avuto parte una persona incapace). Anche qui si tratta peraltro di teoria che la giurisprudenza, difficile è dire quanto consapevolmente o meno, da sempre ignora. In risposta a tali esigenze, già a metà degli anni sessanta la Corte Suprema a sezioni unite (Cass. n. 351/1964) aveva affermato che la regola enunciata nel comma 1 dell'art. 1227 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui il danneggiato sia incapace, ricomponendo in tale modo un conflitto che aveva segnato la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità (Cass. n. 1749/1950; Cass. n. 1697/1953; Cass. n. 827/1962). A decorrere dalla sent. n. 351/1964 la Corte non ha invece più avuto oscillazioni e l'insegnamento in essa contenuto è stato seguito dalla giurisprudenza successiva, sicché oggi l'orientamento secondo il quale il comma 1 dell'art. 1227 c.c. trova applicazione anche nel caso dell'incapace è assolutamente univoco e dominante (Cass. n. 1736/1978; Cass. n. 1442/1983). La sentenza della Corte del 1964 non prende peraltro posizione in ordine all'autonomia delle nozioni di colpevolezza ed imputabilità ed esclude l'applicabilità dell'art. 2046 c.c. all'ipotesi del concorso di colpa (non già in ragione dell'impossibilità di dare un giudizio nei termini della colpa, stante l'incapacità, ma) sull'assunto che la fattispecie ivi prevista sarebbe delimitata alla sola ipotesi del danno cagionato dall'incapace (non già a sé medesimo bensì) a terzi. In effetti è proprio nell'ipotesi di danno cagionato dall'incapace (a sé stesso ed) a terzi che si rischia di pervenire a soluzioni palesemente inique: mentre infatti, nel caso di soggetti tutti capaci, il risarcimento, in caso di concorso, sarebbe graduato in funzione delle rispettive colpe, nel caso in cui un coautore fosse incapace, dando rilievo allo stato di incapacità, la vittima sarebbe costretta ad assumersi il danno per l'intero. Compreso il caso in cui, se l'autore fosse stato capace, rispetto ad una identica condotta, il danno sarebbe rimasto a carico della vittima. Da parte della giurisprudenza, si tratta quindi di un ossequio ad esigenze equitative, che non incide minimamente sul problema teorico ma anzi, per il richiamo operato dalla Corte alla regola della causalità, tende a produrre ulteriori equivoci. Se infatti le esigenze equitative meritano di essere condivise, numerose perplessità solleva, il richiamo operato dalla Corte alla regola causale, con l'esplicita dichiarazione che «il principio della riduzione del risarcimento in caso di danno unilaterale con la colpa concorrente del danneggiato, costituisce applicazione logica del più generale principio della rispettiva efficienza delle colpe concorrenti, ai fini della determinazione del quantum di danno di cui deve rispondere ciascun concorrente». In altre parole, secondo la Corte, l'elemento subiettivo (della capacità) avrebbe rilevanza (solo) ai fini della responsabilità e non già ai fini del diritto al risarcimento subito. A prescindere dal fatto che un simile principio non esiste nel nostro ordinamento (ma semmai, in relazione all'art. 2055 c.c., esiste l'opposto principio), deve condividersi la tesi in base alla quale l'art. 1227 c.c. svolge la stessa funzione preventiva che nel campo della responsabilità altrui è svolta dall'art. 2043 c.c.: gli incapaci di intendere e di volere non possono pertanto considerarsi destinatari di tale previsione, a motivo che non sono in grado di conformare la propria condotta in modo tale da evitare il danno. Le – pur innegabili – esigenze di giustizia di cui si fa portatrice la giurisprudenza neppure sembrano essere motivabili introducendo una nozione di «colpa» obiettiva. La soggezione al concorso anche nel caso di danno procurato dall'incapace può infatti essere giustificata sulla considerazione, secondo la quale l'art. 1227 c.c. è espressione del principio generale in base al quale nessuno può invocare il risarcimento del danno da lui stesso provocato. Correlativamente, chi ha subito un danno deve sopportare quella parte di danno che sia ricollegabile alla sua condotta, ma non quello che si deve mettere in collegamento con fattori a lui esterni, compreso quello dell'altrui condotta, quand'anche incolpevole. In questa direzione sembra collocarsi una non lontana sentenza della Corte di Cassazione, la quale ha affermato che nel caso di danno provocato ad un incapace la responsabilità dell'autore materiale del fatto sussiste solo se è confermata la colpa di quest'ultimo, con esclusione della percentuale ascrivibile al comportamento del danneggiato (Cass. n. 4691/1992; Cass. n. 142/1983). Che, quindi, una parte del danno finisca con il gravare sull'incapace non è perché può a lui essere rimproverata una «colpa», neppure in senso «oggettivo», ma perché nessuna colpa (pro-misura) è riscontrabile nella condotta del coautore: in assenza di validi criteri di trasferimento del danno, quest'ultimo non potrà che rimanere là dove si è collocato. Resta il rilievo della pressoché assoluta irrilevanza di simili questioni sotto il profilo pratico: la Corte Suprema conclude per l'applicabilità della regola del concorso anche nel caso dell'incapace, senza motivare con alcuno degli argomenti utilizzati in dottrina. L'insoddisfazione per tale tipo di soluzione, che finisce con il far gravare sull'incapace il danno da lui cagionato (sulla pretesa esistenza di una sua «colpa»), è stata fatta propria dal Tribunale di Genova il quale ha ritenuto di sollevare il sospetto di illegittimità costituzionale dell'art. 1227, comma 1, c.c., per violazione del principio di eguaglianza (Trib. Genova, 23 maggio 1977). La Corte costituzionale ha respinto tali dubbi, dichiarando che l'equiparazione del trattamento anche nei riguardi dell'incapace risulta giustificata dal rilievo che il comportamento del creditore, sia egli capace o no, si pone egualmente come un evento di cui il debitore, che non l'ha cagionato, ragionevolmente non deve rispondere (Corte cost. n. 14/1985). La giurisprudenza rimane quindi attestata sull'affermazione della rilevanza giuridica del contributo causale della condotta del soggetto incapace che abbia concorso alla produzione dell'evento. Ancora in tempi recenti, in fattispecie di sinistro da circolazione di autoveicoli, è stato così sostenuto che la prova della incapacità di intendere e di volere di uno dei due conducenti esclude solo la responsabilità di uno ma non anche la comparazione della valenza causale delle due condotte. Giustificata è allora la proporzionale riduzione del risarcimento, in ragione dell'entità percentuale del contributo causale della condotta dell'autore incapace, dovuto dall'altro conducente, il quale risponde solo nei limiti dell'incidenza causale del suo comportamento. E ciò sia nel caso in cui la colpa di quest'ultimo sia stata in concreto accertata, sia in quello in cui la colpa debba essere, invece, presunta perché è mancata la prova liberatoria richiesta dall'art. 2054 c.c. (Cass. n. 5024/1993). Secondo i costanti assunti della giurisprudenza, in tale ipotesi l'indagine deve essere quindi limitata a conoscere l'esistenza della causa concorrente alla produzione dell'evento dannoso, prescindendo dall'imputabilità del fatto all'incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo: nel risarcimento dovuto rimane pertanto esclusa quella parte di danno ascrivibile al comportamento della vittima (Cass. n. 4332/1994). BibliografiaBianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994; Corsaro, L'imputazione del fatto illecito, Milano, 1969; Crespi, voce Imputabilità, Enc. dir., XX, Milano, 1970; De Cupis, Postilla sulla riduzione del risarcimento per concorso del fatto del danneggiato incapace, Riv. dir. civ. 1965, II; Marini, voce Imputabilità, Dig.. pen., VI, Torino, 1992; Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1952; Napoli, L'infermità di mente, l'interdizione, l'inabilitazione, in Comm. S., sub artt. 414-432 c.c., 2002; Scognamiglio, voce Responsabilità civile, Nss. Dig. it., XV, 1968; Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005. |