Codice Civile art. 2047 - Danno cagionato dall'incapace.

Cesare Trapuzzano

Danno cagionato dall'incapace.

[I]. In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere [2046; 185 ss. c.p.], il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.

[II]. Nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l'autore del danno a una equa indennità [2045; 113 c.p.c.].

Inquadramento

La norma si riferisce all'ipotesi in cui il danno sia cagionato da persona priva della capacità di intendere o di volere, sia questo minore o maggiorenne, capace legale o incapace legale. In tal caso il risarcimento è dovuto dal soggetto tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto. Ove il minore o l'interdetto in stato momentaneo di lucida coscienza non siano incapaci di intendere o di volere, troverà applicazione l'art. 2048 c.c. (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 744; Bianca, 690; Patti, 249 e 264). Pertanto, il codice vigente ha nettamente distinto, e diversamente regolato, l'ipotesi in cui la responsabilità ricade sui genitori, tutori ed insegnanti, i quali risponderanno per i fatti illeciti compiuti dai minori o interdetti capaci di intendere e volere, e quindi responsabili in proprio, dall'ipotesi in cui la responsabilità è ascritta ai soggetti tenuti alla sorveglianza, a fronte di fatti posti in essere da persone incapaci di intendere e di volere, e quindi esenti da responsabilità proprio in ragione di tale incapacità. Ne discende che l'ambito applicativo delle due norme è alternativo e non concorrente: la sussunzione della fattispecie concreta nell'alveo dell'una o dell'altra norma dipenderà dall'accertamento della capacità ovvero dell'incapacità di intendere e di volere. Mentre nell'ipotesi regolata dall'art. 2048, risponderanno in solido l'incapace legale e il rappresentante legale, nella fattispecie regolata dall'art. 2047 del danno risponde solo il sorvegliante, quando non riesca a fornire la prova liberatoria, ma non l'incapace naturale, che non è imputabile ai sensi dell'art. 2046 c.c., salvo che lo stato di incapacità derivi da sua colpa. Perché il danno cagionato dalla persona priva della capacità naturale gravi sul sorvegliante occorre che il comportamento del danneggiante risponda astrattamente ai requisiti dell'art. 2043 c.c., sia cioè obiettivamente contrario alla legge o alla comune prudenza e diligenza, ossia ingiusto o antigiuridico: la protezione della vittima non può estendersi, infatti, sino a comprendere eventi che sarebbero rimasti a suo carico, se a provocarli fosse stato un soggetto capace (Cendon, 356; Salvi, 1239). Allo scopo di ottenere il risarcimento il danneggiato non ha l'onere di provare la colpa del sorvegliante; per converso, il sorvegliante si libera dalla responsabilità ove riesca a provare di non aver potuto evitare la verificazione del danno (Visintini, 502; Corsaro, 150). Dal tenore della norma si desume l’autonomia delle due categorie dell’imputabilità e della colpevolezza: la prima concerne la capacità d’intendere e di volere, al fine di verificare l’astratta possibilità che il danno possa essere addebitato al soggetto, e trova il suo referente normativo nell’art. 2046 c.c.; la seconda riguarda l’elemento psicologico dell’illecito civile (Cossu, 199). La funzione del requisito normativo dell’imputabilità risiede nel fatto che l’ordinamento subordina la responsabilità per dolo o per colpa alla possibilità di riferire il fatto all’agente non solo materialmente, ma avuto riguardo, altresì, al suo stato psico-fisico: il giudizio sulla colpevolezza concerne le modalità oggettive del comportamento, mentre quello sull’imputabilità consente di ricondurre il comportamento stesso alla sfera soggettiva di chi lo ha posto in essere. L’art. 2047 si riferisce, dunque, a quei soggetti che, a posteriori, risultino privi dell’attitudine ad orientarsi secondo una percezione non distorta della realtà o del potere di controllare gli impulsi ad agire (Monateri, 280), ossia appaiano sforniti di quella minima e contingente volontà, consapevole della materialità del fatto; gli stessi, inoltre, secondo un criterio giuridico, dovranno reputarsi sottoposti all’altrui vigilanza, a causa della loro condizione. Pertanto, la norma trova applicazione nell’ipotesi di danni cagionati da minori incapaci, oppure da infermi di mente, siano essi interdetti o meno (Mantovani, 74).

Anche secondo la S.C., la norma si applica quando il fatto sia posto in essere da persone incapaci di intendere e di volere (Cass. n. 3242/2012; Cass. n. 8740/2001); se i minori non sono imputabili, i genitori, il precettore, il tutore ed il maestro d'arte possono ugualmente rispondere, non già ai sensi dell'art. 2048 c.c., ma solo come sorveglianti di incapaci, ai sensi dell'art. 2047 (Cass. n. 2606/1997). I genitori del minore danneggiante, che sia incapace naturale, possono liberarsi dalla responsabilità che incombe sugli stessi, ai sensi dell'art. 2047, solo ove dimostrino che l'affidamento della sorveglianza sul minore incapace naturale spettava ad altro soggetto ben individuato (Cass. n. 1148/2005). Per affermare o escludere la capacità di intendere e di volere di un minore d'età, autore di un fatto illecito, il giudice di merito non è tenuto a compiere un'indagine tecnica di tipo psicologico quando le modalità del fatto e l'età del minore siano tali da autorizzare una conclusione in un senso o nell'altro (Cass. n. 23464/2010). Ai fini del riconoscimento della responsabilità del sorvegliante, a norma dell'art. 2047, è necessario che il fatto commesso dall'incapace presenti tutte le caratteristiche oggettive dell'antigiuridicità, cioè che sia tale che, se fosse assistito da dolo o colpa, integrerebbe un fatto illecito. Ne consegue che, nell'ipotesi di lesione personale inferta da un minore ad un altro nel corso di una competizione sportiva, occorre verificare, al fine di escludere l'antigiuridicità del comportamento dell'incapace e la conseguente responsabilità del sorvegliante, se il fatto lesivo derivi o meno da una condotta strettamente funzionale allo svolgimento del gioco, che non sia compiuto con lo scopo di ledere e che non sia caratterizzato da un grado di violenza od irruenza incompatibile con lo sport praticato (Cass. n. 7247/2011).

Qualificazione giuridica della fattispecie

La responsabilità del sorvegliante per il danno cagionato dall'incapace naturale è qualificata, da una parte della dottrina, come un'ipotesi di responsabilità per fatto altrui; e ciò perché la parte tenuta al risarcimento non è l'autore materiale dell'evento lesivo, bensì un soggetto diverso (Scognamiglio, 693). Secondo questa lettura, la responsabilità del sorvegliante per il fatto dell'incapace sarebbe giustificata dalla sussistenza, in capo al primo, di un obbligo legale di garanzia (Busnelli, 20). Ma secondo la ricostruzione prevalente si tratta di una fattispecie di responsabilità per fatto proprio, poiché il sorvegliante è chiamato a rispondere di un fatto a sé riconducibile, ossia dell'omessa sorveglianza (Alpa, 665; Comporti, 168; Salvi, 1238). Pertanto, ad un elemento positivo, rappresentato dall'illecito altrui, si associa un elemento negativo, costituito dall'omesso impedimento del fatto (De Cupis, 134; Franzoni, 328; Giannini-Pogliani, 118; Venchiarutti, 109).

Anche la giurisprudenza di legittimità propende per la qualificazione giuridica della fattispecie in termini di responsabilità diretta del sorvegliante, che si impernia sull'inosservanza del dovere di vigilanza verso il soggetto incapace (Cass. n. 21972/2007; Cass. n. 12965/2005; Cass. n. 8740/2001).

Obbligo di sorveglianza

Il sorvegliante è il soggetto passivo dell'obbligazione derivante dall'illecito dell'incapace, gravato dall'obbligo di sorveglianza o vigilanza, in ragione dello stretto legame che si instaura con l'incapace e che ne determina la sua custodia. L'obbligo di sorveglianza può desumersi in primis dalla legge, come avviene nel caso dei soggetti qualificati menzionati dall'art. 2048 (Salvi, 1239; Visintini, 504). Ma altre norme speciali attribuiscono a determinati soggetti compiti di sorveglianza nei confronti di particolari categorie di incapaci. Al riguardo, le norme che stabiliscono doveri di sorveglianza non sono suscettibili di applicazione analogica. Pertanto, le previsioni che stabiliscono doveri di sorveglianza a carico di determinate figure sono di stretta interpretazione. Inoltre, la qualifica di sorvegliante può derivare da una convenzione oppure da una situazione di convivenza stabile, con spontanea assunzione del compito di vigilare sull'incapace (Salvi, 1239; Visintini, 504). Nello stesso senso si esprime altro autore, secondo cui il sorvegliante è il soggetto passivo dell'obbligazione derivante dall'illecito dell'incapace, tale essendo chi si trova, per ragioni di ufficio, per la specifica attività professionale o per un titolo contrattuale, in una stretta relazione che importi la custodia del non imputabile (Franzoni, 332). In qualità di sorveglianti rispondono i genitori, quando il figlio minore non abbia la capacità di intendere e volere; in questo caso essi sono esonerati da responsabilità ove dimostrino di non aver potuto impedire il fatto, non occorrendo anche dimostrare di avere impartito un'adeguata educazione, come accade nelle ipotesi di responsabilità delineate dall'art. 2048 c.c. (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 744; Visintini, 502; Chianale, 281). L'obbligo di risarcimento grava in solido su entrambi i genitori del minore che sia incapace di intendere e di volere, atteso che la sorveglianza spetta ad entrambi; tuttavia, la responsabilità di uno di essi può essere esclusa ove l'incapace si trovi occasionalmente, al momento del fatto, sotto la personale ed esclusiva sorveglianza dell'altro; in questo caso l'altro sorvegliante va esente da responsabilità ove sia in grado di addurre una valida causa giustificatrice del mancato esercizio della custodia (Pogliani, 124). Rientra nella previsione dell'art. 2047 anche la responsabilità del figlio maggiorenne convivente per il danno cagionato dal genitore incapace (Patti, 231). Hanno l'obbligo di sorveglianza anche gli insegnanti, a fronte dei contegni assunti da allievi che siano incapaci naturali. Il passaggio da una dimensione custodialistica ad una dimensione terapeutica dell'infermità mentale, ai sensi della l. 13 maggio 1978, n. 180, pone in dubbio che il personale medico e sanitario che assiste l'infermo possa essere onerato della responsabilità ai sensi dell'art. 2047 (Visintini, 503; Cendon, Infermità di mente e responsabilità civile, Padova, 1993, 47); la responsabilità di tale personale è piuttosto ricondotta all'art. 2043 c.c. (Salvi, 1240). Ma in senso contrario altra tesi osserva che il dovere di sorveglianza ex art. 2047 grava sulle strutture sanitarie in cui le persone incapaci sono ospitate; sicché le unità sanitarie locali sono obbligate a ricercare e sorvegliare gli infermi di mente che per le loro condizioni siano pericolosi per sé e per gli altri; in tal caso il rilascio del paziente non esonera da responsabilità l'unità sanitaria, la quale omette la sorveglianza alla quale è legalmente tenuta (Bianca, 703). Nello stesso senso altro autore rileva che, nonostante siano venute meno le norme che prevedevano un preciso obbligo di sorveglianza sugli infermi di mente sottoposti a terapia, tuttavia l'affidamento al medico non è scomparso, anche se è diventato più debole (Monateri, 937); di conseguenza, l'art. 2047 può essere applicato al personale medico, al personale infermieristico, alle strutture ed ai presidi psichiatrici, allorché l'infermo sia stato posto nella condizione di cagionare un danno ai terzi (Comporti, 193). Si evidenzia, sul punto, che i doveri di sorveglianza degli operatori delle strutture sanitarie pubbliche o private, dove sono ricoverati i malati di mente, sono eterogenei (e più penetranti) dai doveri di sorveglianza che incombono sui minori o sugli incapaci che vivono in famiglia, poiché i malati di mente, ricoverati in strutture sanitarie, sono, di norma, affetti da patologie più gravi, che possono anche determinare una loro pericolosità specifica e che richiedono una competenza tecnica nell'esercizio del controllo (Comporti, 196). Con riguardo ai familiari dell'infermo di mente, la dottrina solleva dubbi sulla reale possibilità di qualificarli come sorveglianti, soprattutto nel caso in cui il malato di mente, autore del fatto, sia un soggetto adulto, nei cui confronti è esclusa la possibilità giuridica di esercitare la sorveglianza (Morozzo della Rocca, 23).

Anche la giurisprudenza ha osservato che la norma che imputa la responsabilità al sorvegliante, per il fatto commesso dall'incapace naturale soggetto a vigilanza, è eccezionale, sicché non è passibile di estensione ad altri soggetti che non siano tenuti alla sorveglianza (Cass. n. 3617/1972). Nondimeno, l'obbligo di sorveglianza può discendere anche da una situazione di fatto, che legittima la custodia, purché esteriormente rilevabile (Cass. n. 5306/1994). Inoltre, la sorveglianza può derivare sia da un affidamento stabile sia da un affidamento temporaneo (Cass. n. 4633/1997). L'obbligo di sorveglianza ha uno specifico contenuto in funzione dell'età e del grado di maturità del soggetto che vi è sottoposto (Trib. Reggio Emilia 18 marzo 1982) e deve essere rapportato alle circostanze di tempo, luogo, ambiente, pericolo, che, considerando altresì la natura e il grado di incapacità del soggetto sorvegliato, possono consentire o facilitare il compimento di atti lesivi da parte del medesimo (Cass. n. 4633/1997). Tale contenuto non riguarda la sola persona del sorvegliato, ma si estende all'ambiente che lo circonda, il quale deve essere tale che non sussistano cause di pericolo in relazione al suo stato di incapacità (Cass. n. 2157/1967). Le abitudini sociali del tempo o del luogo — nella specie lasciar giocare minori incapaci di intendere e volere senza sorveglianza continua — non costituiscono circostanze idonee né ad escludere né ad attenuare il relativo obbligo (Cass. n. 5485/1997, in Dir. ed econ. assic., 1998, I, 287). La responsabilità dei genitori, tenuti alla sorveglianza del minore che sia incapace naturale, è solidale (Trib. Foggia 14 agosto 1962; Trib. Firenze 1 dicembre 1959). Risponde, ai sensi dell'art. 2047, primo comma, dei danni cagionati dall'incapace maggiorenne non interdetto colui che abbia liberamente scelto di accogliere l'incapace nella propria sfera personale, convivendo con l'incapace medesimo ed assumendone spontaneamente la sorveglianza (Cass. n. 5306/1994), sicché, per dismettere tale responsabilità, è necessaria una determinazione di volontà uguale e contraria, che può essere realizzata anche trasferendo su altro soggetto l'obbligo di sorveglianza, sì da sostituire all'affidamento volontario preesistente un altro almeno equivalente, la cui idoneità va verificata dal giudice con valutazione prognostico-ipotetica ex ante, riferita al momento del passaggio delle consegne. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva riconosciuto il trasferimento del dovere di sorveglianza su un incapace maggiorenne da un genitore all'altro, nella decisione della madre di non proseguire la convivenza con il figlio e nella contestuale libera e consapevole decisione del padre di portarlo con sé a vivere in campagna, in luogo astrattamente idoneo all'esercizio della sorveglianza in condizioni addirittura preferibili a quelle in precedenza offerte dalla madre (Cass. n. 1321/2016, in Guida al dir., 2016, 17, 43). In ragione dei compiti di sorveglianza liberamente assunti, è stata ritenuta la responsabilità del marito della madre del minore, incapace naturale, danneggiante, il quale, senza avere riconosciuto il bambino come figlio, conviveva stabilmente con lui e la moglie (Cass. n. 3142/1981; con riferimento alla convivenza in sé, che non creerebbe un obbligo di sorveglianza, Cass. n. 3790/1953; Trib. Reggio Emilia 18 novembre 1989). Per converso, la giurisprudenza ha escluso che possano essere qualificati come sorveglianti, anche ai fini della responsabilità di cui all'art. 2047, gli accompagnatori di soggetti invalidi ai sensi della l. 28 luglio 1971, n. 585 (Cons. St. n. 693/1979). Allo stesso modo, non può essere assimilato ad un sorvegliante il militare di leva, incaricato di accompagnare, durante un viaggio di licenza per convalescenza, un commilitone in stato di labilità psichica (Trib. Venezia 23 ottobre 1995). Con riferimento alla sorveglianza degli infermi di mente, si è ritenuto che il contratto di ricovero produce, quale effetto naturale ex art. 1374 c.c., l'obbligo della struttura sanitaria di sorvegliare il paziente in modo adeguato rispetto alle sue condizioni, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne. La circostanza che il paziente ricoverato sia capace di intendere e di volere, ovvero il fatto che non sia soggetto ad alcun trattamento sanitario obbligatorio, non esclude il suddetto obbligo, ma può incidere unicamente sulle modalità del suo adempimento   ( Cass. n. 25288/2020; Cass. n. 22331/2014, in Foro it., 2015, 3, I, 999). Pertanto, nei confronti di persona ospite di reparto psichiatrico o di altra struttura equipollente,ancorché non interdetta né sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio ai sensi della l. 13.5.1978, n. 180, la configurabilità di un dovere di sorveglianza, a carico del personale sanitario addetto al reparto, e della conseguente responsabilità risarcitoria per i danni cagionati dal o al ricovero, presuppone soltanto la prova concreta dell'incapacità di intendere e di volere del ricoverato medesimo (Cass. n. 22818/2010). Ne consegue che la presunzione di responsabilità prevista dall'art. 2047, nei confronti di chi sia tenuto alla sorveglianza dell'incapace, è configurabile a carico della struttura sanitaria soltanto in caso di ricovero ospedaliero del malato mentale, dovendosi, peraltro, considerare priva di tutela, a carico del servizio sanitario, l'esigenza di assicurare la pubblica incolumità che possa essere messa in pericolo dal malato mentale, rientrando tale compito tra quelli demandati in via generale agli organi che si occupano di pubblica sicurezza (Cass. n. 16803/2008, in Giur. it., 2009, 4, 864). Viceversa, la struttura risponde del danno provocato dal malato di mente a terzi durante il periodo di ricovero. L'obbligo di sorvegliare l'assistito in modo adeguato alle sue condizioni sussiste anche a carico del personale di un centro di assistenza per lo svolgimento di attività di terapia occupazionale (Cass. n. 9714/2020). Ove il danneggiato, per effetto dell'infortunio cagionato dalla persona affetta da vizi di mente in stato di ricovero, e quindi paziente, sia un componente del personale sanitario, del danno risponde il datore di lavoro che esercita attività di trattamento e cura dei pazienti incapaci, alla cui sorveglianza questi è tenuto erga omnes ai sensi dell'art. 2047, essendo la struttura responsabile verso il personale ex art. 2087, qualora non provi di avere adottato tutte le misure di prevenzione idonee, per l'esperienza e la tecnica in relazione alla particolare attività, a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (Cass. n. 17066/2007, in Mass. giur. lav., 2008, 3, 185). E' stato poi puntualizzato che, in tema di responsabilità per i danni subiti da un paziente ricoverato presso una RSA, la struttura che, pur avendo palesato i propri deficit organizzativi, abbia accettato il ricovero del paziente, è tenuta ad assolvere diligentemente e con perizia gli obblighi di sorveglianza e protezione nei sui confronti, in modo adeguato e coerente rispetto alle condizioni psico-fisiche del paziente al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne; ne consegue che, accertato l'inadempimento (o inesatto adempimento) dei predetti obblighi, la responsabilità può essere esclusa solo dalla prova liberatoria dell'impossibilità oggettiva non imputabile della prestazione ad essa richiesta in base al c.d. contratto di ricovero, essendo, peraltro, nulla, ai sensi dell'art. 1229 c.c., una pattuizione volta ad escludere o limitare la responsabilità della struttura per colpa grave (Cass. n. 13037/2023, che, in applicazione di tale principio, dopo aver statuito che sull'errata qualificazione in termini contrattuali della responsabilità della struttura per i danni subiti "iure proprio" dai congiunti della paziente deceduta si era formato il giudicato, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità in ragione del fatto che i familiari avevano accettato il ricovero della paziente, pur essendo consapevoli dei "deficit" organizzativi della struttura, che non le consentivano di assicurare l'adeguata sorveglianza).

La giurisprudenza ha ritenuto che, a carico della struttura di accoglienza facente parte del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (cd. SPRAR), sussiste l'obbligo di sorvegliare il rifugiato ospite al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne; rispetto a tale obbligo assumono rilievo le condizioni di vulnerabilità del rifugiato e la conoscenza delle stesse da parte dell'ente, trovando il predetto obbligo un limite nella doverosità e esigibilità in concreto della condotta richiesta al sorvegliante, ancorché sia esigibile, da detta struttura, un obbligo di vigilanza che impone di sottoporre il rifugiato a particolare attenzione - ad esempio, con l'inserimento in un percorso di recupero, con l'erogazione di un supporto psicologico e con la eventuale segnalazione all'autorità di pubblica sicurezza ed al servizio sanitario nazionale perché gli fornisca la necessaria assistenza terapeutica - ma non un più pregnante dovere di impedire l'evento lesivo (Cass. n. 14260/2020).

Incapacità naturale dell'autore materiale del fatto

Spetta al giudice di merito la valutazione, previo accertamento tecnico, se del caso, dello stato di incapacità di intendere e di volere dell'agente al momento del fatto, e quindi della sua irresponsabilità, a fronte della deduzione della responsabilità del sorvegliante, ai sensi dell'art. 2047, avanzata con la domanda introduttiva del giudizio risarcitorio. In conseguenza, dovrà stabilirsi che l'autore materiale del fatto era persona non imputabile ai sensi dell'art. 2046 c.c., ovverosia che fosse in una condizione di incapacità di intendere e di volere tale, per grado e intensità, da impedire la comprensione dell'importanza degli atti che stava compiendo e da precludere la determinazione di una cosciente volontà (Comporti, 178).

L'accertamento dello stato di incapacità naturale dell'autore materiale del fatto è affidato al giudice, poiché l'art. 2047 non enuncia in via preventiva i criteri in base ai quali tale verifica deve essere effettuata. Pertanto, l'accertamento dovrà avvenire in sede giudiziale in forza dei criteri tratti dalla comune esperienza e dalle nozioni della scienza (Cass. n. 8740/2001). Si evidenzia che, in ordine all'imputabilità del fatto dannoso, opera un sistema autonomo rispetto a quello regolato dal legislatore per l'imputabilità del reato: in ambito penale, è la legge stessa che determina a priori le cause che escludono l'imputabilità, mentre nel campo civile spetta al giudice accertare se, in base al vizio di mente, all'età immatura o ad altra causa, esuli in concreto la capacità di intendere e di volere (Cass. n. 2425/1975). Lo stato di incapacità naturale, ai fini dell'integrazione della fattispecie risarcitoria di cui all'art. 2047, deve essere verificato caso per caso (Cass. n. 3403/1969), eventualmente ricorrendo al meccanismo inferenziale delle presunzioni, ove tale incapacità possa essere desunta da fatti secondari noti, come l'età del minore, il tipo di studi frequentati (Cass. n. 565/1985). Non è dunque sempre indispensabile l'indagine tecnica. Al riguardo, la S.C. ha affermato che è legittima la decisione del giudice che, indipendentemente dall'espletamento di indagini tecniche di natura psicologica, abbia ritenuto o escluso l'incapacità di intendere e di volere di un minore, agli effetti dell'art. 2047, sulla scorta delle modalità del fatto posto in essere da quest'ultimo e della sua età (Cass. n. 23464/2010).

Prova liberatoria

In forza di un primo indirizzo, il soggetto tenuto alla sorveglianza risponde in via indiretta per il fatto dell'incapace a titolo di colpa presunta in vigilando, ossia per non aver diligentemente sorvegliato l'incapace (Bianca, 703; Alpa-Bessone, 301; Pogliani, 124), o addirittura in via diretta per fatto proprio per non aver impedito, pur dovendolo o potendolo, il verificarsi dell'evento (Alpa, 665; De Cupis, 50). Causa mediata dei danni è, quindi, un fatto del sorvegliante, che però rileva solo in quanto abbia dato luogo al fatto obiettivamente illecito dell'incapace (Bianca, 703; Comporti, 168). Altro filone della dottrina ritiene, invece, che la responsabilità in questione sia di natura oggettiva, poiché il criterio di imputazione per l'illecito commesso dall'incapace naturale è piuttosto legato allo status di sorveglianti (Franzoni, 370; Rodotà, 153; Monateri, 971; Pardolesi, 227). Ne discende che la prova liberatoria sembra doversi piuttosto intendere alla stregua di un limite posto all'estensione di un obbligo legale di garanzia: obbligo che l'art. 2047, al fine di rendere più sicuro il risarcimento ai danneggiati dal fatto di un incapace, impone a determinati soggetti, individuati in funzione della loro qualifica, che li pone in stretto rapporto con l'incapace (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 745; Rodotà, 156; Patti, 260; Busnelli, 62). La stessa giurisprudenza finisce per assegnare ai responsabili il ruolo di garanti, restringendo drasticamente le ipotesi di esclusione della responsabilità, fino a farle coincidere con i soli casi in cui venga provato, non tanto un diligente esercizio della sorveglianza sull'incapace, quanto piuttosto una completa estraneità del fatto dannoso dell'incapace alla sfera di incidenza di tale sorveglianza (Rossi Carleo, 132; Corsaro, 234). Nello stesso senso sono orientati gli autori che qualificano tale fattispecie in termini di responsabilità aggravata per fatto altrui non riconducibile a colpa, poiché il criterio di imputazione si identifica con la relazione che intercorre tra il responsabile ed il soggetto che ha causato il danno (Scognamiglio, 690; Salvi, 1235). Secondo la teoria soggettiva, l'impossibilità di impedire il fatto è una nozione relativa, che si dimensiona sul metro della normale diligenza, con la conseguenza che il sorvegliante potrà superare la presunzione di colpa dimostrando di avere adottato tutte le cautele normalmente appropriate in relazione allo stato e alle condizioni dell'incapace (Bianca, 703). In base alla teoria oggettiva della responsabilità, i sorveglianti vanno esenti da responsabilità ove provino che, nonostante l'esercizio appropriato della sorveglianza, il danno si sarebbe ugualmente verificato (Rodotà, 157) o, ancora, che non hanno creato o lasciato permanere situazioni di pericolo, tali da permettere o da agevolare il compimento di atti lesivi (Monateri, 939) ovvero che l'esercizio della sorveglianza non è stato possibile per legittimo impedimento (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 745). Siffatta prova è assimilabile a quella che il debitore deve fornire per escludere la responsabilità da inadempimento ai sensi dell'art. 1218 (Franzoni, 339; Venchiarutti, 514).

Secondo la giurisprudenza, la responsabilità civile del soggetto tenuto alla sorveglianza di una persona incapace, la quale abbia cagionato danni a terzi, dà luogo ad una responsabilità diretta e propria di coloro che sono tenuti alla sorveglianza, per inosservanza dell'obbligo di custodia, ponendo a carico di essi una presunzione di responsabilità, che può essere vinta solo dalla prova di non aver potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio della sorveglianza impiegata (Cass. n. 12965/2005). Detta prova è particolarmente rigorosa, dovendo il sorvegliante provare di non aver potuto impedire il fatto e, quindi, dimostrare un fatto impeditivo legittimo, assoluto e oggettivo (Cass. n. 1148/2005; Cass. n. 15419/2004). Ne consegue che l'impedimento non determina impossibilità di vigilanza ove il custode avrebbe potuto farsi sostituire nell'esecuzione dell'incarico (Cass. n. 1008/1970). Per l'effetto, sul piano della distribuzione dell'onere probatorio, per il danneggiato è sufficiente dimostrare che l'incapace di intendere o volere ha cagionato il fatto dannoso al di fuori della sfera di sorveglianza del soggetto ad essa obbligato, mentre incombe sul sorvegliante dimostrare che tale fatto si sarebbe comunque verificato anche se la sorveglianza fosse stata esercitata, e — quindi — che non vi è nesso di causalità tra l'omissione di essa e il fatto dannoso (Cass. n. 5485/1997, che aderisce ad una concezione oggettiva della responsabilità). L'accertamento in sede penale della mancanza di prova della colpa dei soggetti tenuti alla sorveglianza dell'incapace non comporta il superamento della presunzione di colpa su di essi gravante, ai sensi dell'art. 2047, né costituisce prova del caso fortuito (Cass. n. 19060/2003). Non costituisce legittimo impedimento la semplice assenza dei genitori, anche se per ragioni di lavoro, al momento del verificarsi dell'evento dannoso; né è attribuito alcun valore alla prova di aver dato al bambino una buona educazione, tale da indurre i genitori ad un allentamento delle misure di sorveglianza (Cass. n. 880/1963). Con riferimento all'obbligo della struttura sanitaria di sorvegliare il paziente in modo adeguato rispetto alle sue condizioni, la prova liberatoria dell'impossibilità oggettiva non imputabile offerta dal danneggiante, richiesta dall'art. 1218 c.c., va verificata sul piano della non esigibilità di un comportamento diverso da quello in concreto tenuto (Cass. n. 25288/2020).

Equa indennità

Il mancato conseguimento del risarcimento dal sorvegliante può dar luogo, in via sussidiaria, alla condanna dell'incapace non imputabile al pagamento di un'equa indennità; ciò sia quando tale mancato pagamento dipenda dall'insolvibilità del sorvegliante sia quando sia dovuto al fruttuoso esperimento della prova liberatoria sia quando manchi tout court un sorvegliante (Bianca, 704; Visintini, 491). Pertanto, perché l'incapace sia tenuto a corrispondere l'indennità, è necessario che il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento dalla persona tenuta alla sorveglianza, il che può verificarsi qualora l'obbligato alla custodia non abbia la possibilità economica di riparare il pregiudizio subito dal danneggiato ovvero qualora sia stata fornita dal sorvegliante la prova liberatoria in ordine all'impossibilità di impedire il fatto. Nella prima evenienza, ossia nel caso di incapienza del patrimonio del sorvegliante, non vi è alcuna sovversione delle regole generali, come potrebbe sembrare a prima vista: benché si riconosca una responsabilità dell'incaricato alla sorveglianza per cattiva attuazione della stessa, grava sul patrimonio della persona negligentemente sorvegliata la trascuranza del soggetto che, proprio nei suoi riguardi e nei confronti dei terzi, ha contravvenuto ad un obbligo. Questa considerazione è però superata dal rilievo secondo cui la responsabilità del sorvegliante integra una disposizione derogatrice dei principi generali, atta a tutelare il diritto del terzo incolpevole. La previsione deroga, infatti, al principio in forza del quale la responsabilità è fondata sull'imputabilità, soddisfa però un'esigenza di equità. Inoltre, l'indennità a carico dell'incapace spetterà anche quando manchi a monte una sorveglianza, ipotesi non infrequente, specie per gli infermi di mente per malattia latente, che improvvisamente si manifesti proprio con l'atto dannoso. La disposizione, nelle fattispecie indicate, di un'equa indennità concilia, per l'effetto, due esigenze: da un lato, impedire che rimanga senza indennizzo la vittima dell'operato di un incapace, che potrebbe essere anche persona fornita di senno, nell'ipotesi in cui non sia rinvenuto un responsabile civile nel soggetto che avrebbe dovuto sorvegliarlo, sia questi un apposito incaricato ovvero un istituto; dall'altro, confermare la ricostruzione secondo cui, in difetto di una norma legislativa, non si può affermare la responsabilità dell'incapace senza contraddire il principio fondamentale che, ove non ricorre imputabilità, non può esservi colpa. Si reputa che detta indennità spetti anche se a subire il danno sia il sorvegliante stesso (Venchiarutti, 515). L'art. 2047, secondo comma, costituisce un'evidente limitazione al principio dell'irresponsabilità dell'incapace di cui all'art. 2046: tale limite è sancito per fini indennitari di protezione del terzo (Monateri, 941). La tenutezza dell'incapace all'obbligo di pagamento dell'indennità è stata ricondotta ad una forma di responsabilità oggettiva, data la non imputabilità dell'autore del fatto; tuttavia, debbono sussistere tutti i requisiti in presenza dei quali il soggetto capace di intendere e di volere sarebbe stato chiamato a rispondere, secondo le regole ordinarie (Franzoni, 343). L'attribuzione dell'indennità è rimessa al potere discrezionale del giudice (Patti, 248 e 251; De Cupis, 55; Trimarchi, 30). Sia con riferimento all'an sia con riferimento al quantum, il riconoscimento dell'indennità dipende da una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti, che deve svolgersi in via equitativa (De Cupis, 51). Sotto il profilo dei criteri utilizzabili per la liquidazione, tenuto conto che il riconoscimento dell'indennità si fonda su un'imprescindibile esigenza di solidarietà sociale, occorre avere riguardo all'equità, intesa come esigenza di riparare la vittima incolpevole, nella misura che risulta dalla valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti (Franzoni, 343). In relazione a tali condizioni, l'indennità subisce decurtazioni, fino a doversi considerare non dovuta quando emerga una manifesta sperequazione fra le rispettive posizioni (Pogliani, 127; Rodotà, 143 e 160; Venchiarutti, 515). Le condizioni economiche delle parti debbono essere accertate al momento della liquidazione dell'indennità, e non al momento in cui si è verificato il fatto (Franzoni, 346). La determinazione dell'indennità non richiede la ricostruzione concreta delle componenti del danno da riparare (Scognamiglio, Indennità, in Nss. Dig. it., Torino, 1962, 596).

Alla luce di tale previsione si riscontra la seguente apparente distonia: il danneggiato avrà diritto ad un'equa indennità, quando a rispondere del danno cagionato sia il patrimonio dell'incapace; viceversa, ove a rispondere del pregiudizio subito dal danneggiato sia la persona incaricata della sorveglianza, spetterà un risarcimento pieno, secondo i criteri generali. Siffatta differenza di trattamento è, nondimeno, ampiamente giustificata e logica: nel primo caso, manca un soggetto imputabile e ricorre un fatto dannoso, ma non un fatto illecito, difettando l'elemento psicologico ascrivibile all'incapace; nel secondo caso, per converso, sussiste un colpevole del fatto illecito, poiché vi è un soggetto imputabile, ossia il sorvegliante, che sarà tenuto alla riparazione piena del danno.

Al mancato conseguimento del risarcimento dal sorvegliante è equiparata, ai fini della condanna dell'incapace al pagamento dell'indennità, la mancanza di persona obbligata alla sorveglianza (Cass. n. 216/1953). Secondo un arresto di merito, la liquidazione dell'indennità presuppone la ricostruzione del danno che sarebbe spettato al danneggiato ove avesse risposto il sorvegliante (Trib. Macerata 20 maggio 1986). Sempre alla stregua delle pronunce della giurisprudenza di merito, mentre la richiesta dell'equa indennità ex art. 2045 c.c. è implicita, in via subordinata, nella domanda di risarcimento integrale del danno patito, la domanda diretta alla liquidazione dell'indennità regolata dall'art. 2047 non può ritenersi implicita nella domanda di risarcimento del danno proposta contro l'incapace e il soggetto tenuto alla sua sorveglianza, poiché sono diversi i fatti costitutivi su cui si fondano le due pretese (Trib. Roma 28 maggio 1987).

Danno subito dall'incapace

La norma ha una rilevanza esclusivamente esterna al rapporto sorvegliante-incapace, in quanto il legislatore ha contemplato tale disposizione allo scopo di favorire la risarcibilità del danno provocato ai terzi da soggetti nei confronti dei quali non sarebbe altrimenti possibile od agevole esperire l'azione risarcitoria (Morozzo della Rocca, 4). Per l'effetto, la presunzione di responsabilità stabilita dall'art. 2047 non si applica all'ipotesi in cui l'incapace sia soggetto passivo dell'evento dannoso (Patti, 258). Nello stesso senso altro autore afferma che l'art. 2047 non può trovare applicazione nel caso in cui l'incapace si sia autolesionato oppure nel caso in cui l'incapace sia rimasto vittima dell'azione illecita di un terzo ed il sorvegliante non abbia sufficientemente vigilato affinché ciò non avvenisse; e tanto perché la ratio della norma è quella di imporre sul vicario un dovere nell'interesse dei terzi, non dell'incapace (Monateri, 932).

Anche la giurisprudenza esclude che la norma trovi applicazione qualora l'incapace naturale abbia patito il danno, poiché la presunzione di responsabilità è stabilita nei confronti di coloro che sono tenuti alla sorveglianza degli incapaci quando siano costoro ad arrecare danno a terzi, non già quando tali incapaci siano soggetti passivi dell'evento dannoso, cosicché il danneggiante non può invocare detta presunzione di responsabilità allo scopo di avvantaggiarsi degli effetti di cui all'art. 1227 c.c., richiamato dall'art. 2056 c.c. (Cass. n. 2704/2005; Cass. n. 2012/1967). In particolare, ove il genitore agisca per il risarcimento dei danni subiti dal figlio minore, che sia incapace naturale, in rappresentanza di questi e non in proprio, il responsabile del danno cagionato non può eccepire, nei confronti del genitore, il concorso di colpa per non averlo sorvegliato, poiché comunque il danneggiato ha diritto all'intero risarcimento nei confronti di ciascuno dei corresponsabili in solido (Cass. n. 4633/1997). Qualora l'incapace abbia subito un danno in concorso causale con il proprio fatto colposo, il risarcimento in favore del danneggiato incapace è dovuto dal terzo danneggiante solo nella misura in cui l'evento possa farsi risalire a colpa di lui, con esclusione della parte del danno ascrivibile al comportamento dello stesso danneggiato (Cass. n. 4332/1994). L'art. 2047 non è applicabile al caso di danni che l'incapace abbia causato a se stesso (Cass. n. 11245/2003; Cass. S.U., n. 9346/2002). Piuttosto, in tal caso il sorvegliante potrà eventualmente rispondere a titolo contrattuale. Infatti, il sorvegliante si libera dalla responsabilità per il danno che l'incapace si è procurato, a norma dell'art. 1218 c.c., se l'omissione di vigilanza sia stata determinata da causa non imputabile; la colpa dell'incapace danneggiato non può costituire causa di esclusione o diminuzione della responsabilità del sorvegliante, poiché la prestazione cui questi è tenuto è proprio quella di impedire che il sorvegliato cagioni danno a sé o ad altri (Cass. n. 1601/1980).

Casistica

La giurisprudenza, in ragione del carattere eccezionale e non suscettibile di estensione analogica delle norme che prescrivono verso determinati soggetti incapaci di intendere e volere specifici obblighi di sorveglianza, ha escluso la responsabilità per culpa in vigilando, ai sensi dell'art. 2047, del locatore di un'automobilina a pedali per i danni da questa cagionati a terzi nella circolazione, poiché la sorveglianza del minore incapace era rimasta al genitore presente (Cass. n. 3617/1972, in Giust. civ., 1973, I, 418). Viceversa, la sorveglianza è dovuta dai genitori di un soggetto maggiorenne riconosciuto, in sede penale, totalmente incapace di intendere e di volere (Cass. n. 5306/1994, in Resp. civ. e prev., 1994, 6, 1067). E così essa è dovuta dai genitori del minore danneggiante di sette anni che abbia colpito con un ceppo di legno altro fanciullo che giocava con lui, non potendo la madre del danneggiante giustificare il proprio allontanamento in ragione di una tacita delega alla sorveglianza del proprio figlio minore alla stregua della presenza al gioco del padre del danneggiato (Cass. n. 1148/2005). Allo stesso modo, è stata disposta la condanna della struttura psichiatrica per difetto di sorveglianza del personale della struttura nei confronti di persona adulta affetta da oligofrenia di grado elevato, con note mongoloidi, rimasta vittima di violenza sessuale all'interno della struttura psichiatrica presso la quale si trovava ricoverata (Cass. n. 22818/2010). La responsabilità risarcitoria della struttura ospedaliera è stata configurata, inoltre, sempre ai sensi dell'art. 2047, per l'uccisione di un paziente da parte di altro paziente ricoverato, in quanto incapace di intendere e di volere (Cass. n. 12965/2005). Al riguardo, la configurabilità di un dovere di sorveglianza a carico del personale sanitario addetto al reparto postula la prova concreta della incapacità di intendere e di volere del danneggiante al momento in cui il fatto si è realizzato (Cass. n. 2483/1997). È stata, per converso, disattesa la domanda di risarcimento dei danni proposta dai parenti di un congiunto, ucciso da un soggetto affetto da vizio totale di mente all'interno di un bar, nei confronti di un'azienda sanitaria, non potendosi configurare verso quest'ultima uno stretto obbligo di sorveglianza a carico dell'omicida, risultato malato di mente nell'ipotesi esaminata, considerato altresì che il trattamento sanitario obbligatorio può essere disposto solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure extraospedaliere e, senza trascurare che, nel caso in questione, l'aggressore omicida, fino a pochi giorni prima del compimento del fatto delittuoso, non aveva dato segni di squilibrio e premonitori di una possibile manifestazione di follia (Cass. n. 16803/2008). L'ammontare della somma da liquidare, a titolo di risarcimento dei danni subiti iure proprio, in favore dei genitori della figlia incapace naturale, deceduta in conseguenza dell'attraversamento imprudente della strada, cui era seguito l'investimento da parte di un'auto, deve essere proporzionalmente ridotto, tenendo conto del concorso di colpa della stessa minore nel provocare il danno (Cass. n. 2704/2005).

Bibliografia

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