Codice Civile art. 2050 - Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose.

Cesare Trapuzzano
aggiornato da Rosaria Giordano

Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose.

[I]. Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati [965 c. nav.], è tenuto al risarcimento [2056 ss.; 678 c.p.], se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno [2054] (1).

(1) V. artt. 15 ss. l. 31 dicembre 1962, n. 1860 e l. 23 aprile 1991, n. 147. V. art. 5 l. 25 gennaio 1983, n. 23.

Inquadramento

La disposizione riguarda tutte le attività che sono destinate a provocare danni con un grado di probabilità molto elevato, ma che sono considerate lecite in ragione della loro utilità sociale (Comporti, 24; De Martini, 978; Franzoni, 1985, 156; Scognamiglio, 1962, 171). Il legislatore, pur ammettendo l'esercizio di tali attività, ha, tuttavia, reso particolarmente gravoso il regime di responsabilità per l'esercente. L'alternativa, infatti, avrebbe potuto essere in astratto quella di vietare in radice l'esercizio di tali attività oppure di ammetterle, ma a condizione che i danneggiati potessero più agevolmente essere risarciti, esponendo così l'esercente dell'attività pericolosa ad un rischio maggiore (Franzoni, 1985, 156).

La relazione al codice dà conto del particolare rigore della prova liberatoria richiesta dalla disposizione, nella prospettiva di ampliare il contenuto del dovere di diligenza posto a carico del danneggiante (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 757). Sicché dai lavori preparatori al codice civile emerge la volontà sia di mantenere la colpa come base della responsabilità sia di invertire l'onere probatorio relativo all'assenza di colpa a carico del danneggiante e di estendere il contenuto del dovere di vigilanza posto a suo carico (Visintini, 1996, 694). Per l'effetto, in prima battuta, la dottrina ha individuato nella norma in commento una fattispecie di responsabilità per colpa lievissima (De Cupis, 189; Forchielli, 202). Secondo altra ricostruzione, che muove comunque dalla qualificazione di tale ipotesi di responsabilità speciale come fattispecie di responsabilità soggettiva, l'obbligo di diligenza prescritto dalla disposizione deve essere adeguato alla pericolosità dell'attività svolta, ma non è comunque aggravato (Rovelli, 343). Pertanto, l'adozione di tutte le misure idonee non importa un eccezionale maximum diligentiae, ma richiede uno sforzo di diligenza reputato normale in relazione al carattere particolare dell'attività svolta, il cui rigore probatorio legittima la qualificazione di tale fattispecie in termini di responsabilità semioggettiva, in sintonia con le previsioni degli artt. 2051 e 2052 (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 757 e 759), ovvero in termini di responsabilità aggravata per colpa presunta (Bianca, 709 e 710). Il principio regolatore di tali forme di ingerenza pericolosa (2050, 2051 e 2052) è, pertanto, il medesimo (Bianca, 711). Secondo questa logica, le formule utilizzate dagli artt. 2050 e 2054 sono sostanzialmente identiche e così quella cui fa riferimento l'art. 1681, in tema di responsabilità del vettore nel contratto di trasporto di persone (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 758). In base ad altra lettura, maturata a partire dagli anni sessanta, facendo particolare riferimento all'oggetto della prova liberatoria, previsto dalla legge a favore dell'esercente dell'attività pericolosa, è stata evidenziata la natura oggettiva della responsabilità in esame, sebbene più contenuta di quella che ha per limite il caso fortuito, in quanto fondata sul rischio d'impresa (Trimarchi, 48 e 275; Alpa-Bessone, 14; Scognamiglio, 1968, 646) ovvero sull'esposizione al pericolo (Comporti, 176) o sul concetto stesso di pericolosità (Franzoni, 1987, 462). Si è sottolineato, infatti, come la mancata adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno non significhi necessariamente violazione di un dovere di condotta. Anche più recentemente si è rilevata la natura oggettiva della responsabilità in esame (Franzoni, 1987, 459; Monateri, 1010), in base ad una duplice considerazione: la condotta dell'esercente costituisce un semplice antecedente dell'evento dannoso, che viene ascritto indipendentemente da ogni riguardo alle sue condizioni psico-fisiche, con la conseguenza che risponde anche il minore oppure l'incapace naturale; la prova liberatoria prevista dall'art. 2050 esula completamente dalla dimostrazione di una mancanza di colpa. Aderendo a questa lettura, ne consegue una netta demarcazione tra l'art. 2054 e l'art. 2050, poiché il criterio recepito dalla prima norma non si discosterebbe dal fondamento colposo della responsabilità mentre dalla seconda previsione potrebbe trarsi un criterio più rigoroso, ai margini della responsabilità oggettiva (Comporti, 262). Per l'effetto, l'art. 2050 sarebbe piuttosto correlato agli artt. 2051 e 2052, all'interno di un sistema di responsabilità incolpevole per fatto non proprio (De Martini, 238). Ma altra dottrina sottolinea la carenza di coordinamento dell'art. 2050 con gli artt. 2051 e 2052, poiché la prima disposizione non fuoriesce dai limiti della responsabilità soggettiva mentre gli artt. 2051 e 2052 dovrebbero essere configurati in termini di responsabilità oggettiva (Castronovo, 711; Salvi, 120). L'applicazione dell'art. 2050 può concorrere con quella dell'art. 2051, sia a carico del medesimo soggetto, quando il danno sia arrecato da una cosa che il soggetto custodisce nell'esercizio di un'attività pericolosa, sia a carico di soggetti diversi (Visintini, 1967, 389; Bianca, 711).

La giurisprudenza di legittimità consolidata qualifica la responsabilità speciale per svolgimento di attività pericolosa come fondata sulla colpa, sebbene in mancanza di un accertamento in concreto di tale colpa a cura dell'autore del danno, bensì in ragione di una presunzione di legge che importa un'inversione dell'onere probatorio (Cass. n. 10422/2016; Cass. n. 18812/2014; Cass. n. 25187/2007). Sicché, in forza della relevatio ab onere probandi, dovrà essere il danneggiante a dimostrare l'assenza di colpa nella causazione dell'evento lesivo derivante dall'esercizio dell'attività pericolosa. Con riferimento alla clausola generale di responsabilità extracontrattuale, la S.C. puntualizza che la responsabilità di cui all'art. 2043 e quella ex art. 2050 presuppongono un unico fatto costitutivo, la causazione del danno, ed un elemento reciprocamente specializzante, dato dal criterio d'imputazione alternativo che, in un caso, è la colpa e, nell'altro, lo svolgimento di un'attività pericolosa, sicché pronunciare in ordine all'applicabilità della prima norma implica escludere quella della seconda per il medesimo fatto, stante l'unicità dell'oggetto del processo ed il nesso di reciproca esclusione tra le due fattispecie legali, e come l'una domanda può essere modificata con l'introduzione dell'altra in corso di causa, nel rispetto delle previsioni dettate per il giudizio ordinario dall'art. 183 c.p.c., così anche il giudicato formatosi sulla responsabilità per uno dei due titoli esclude la riproponibilità dell'azione per far valere l'altro (Cass. n. 10513/2017). L'alternatività opera anche tra criteri presuntivi di imputazione della responsabilità. Ne consegue che, in relazione al medesimo evento, non è configurabile il concorso di norme e delle relative presunzioni a carico di distinti soggetti, perché nei confronti di più soggetti ogni presunzione è esclusiva ed assorbe per intero la responsabilità dell'evento, senza lasciare alcun margine, esso pure presuntivo, ad altre; sicché la corresponsabilità di più soggetti è ammissibile soltanto se, ferma a carico di taluno di loro una delle presunzioni, a carico dell'altro (o degli altri) sia stata accertata una colpa in concreto e non già presunta nella produzione dell'evento (Cass. n. 1595/1969, in Resp. civ. e prev., 1970, 270). Nel caso in cui concorrano le condizioni sia della responsabilità ex art. 2050 sia della responsabilità ex artt. 2051 o 2052, secondo la giurisprudenza, prevale la prima norma (Cass. n. 1155/1979).

Significato di attività pericolose

Devono essere considerate attività pericolose quelle che determinano per i terzi situazioni che vanno oltre il normale svolgimento della vita, tali da implicare la rilevante possibilità del verificarsi di un danno (Alpa-Bessone, 333; Scognamiglio, 1968, 647). L'attività pericolosa presuppone la predisposizione di mezzi e una certa continuità nel suo esercizio, pur non necessitando di un'organizzazione imprenditoriale (Salvi, 120). La norma trova applicazione ad ogni attività che il giudice di merito reputi pericolosa, indipendentemente da una specifica previsione legislativa o regolamentare; comunque, l'attività deve essere pur sempre obiettivamente e considerevolmente pericolosa (De Cupis, 182; Scognamiglio, 1968, 647; Comporti, 291). In senso parzialmente diverso altro autore afferma che la qualificazione dell'attività come pericolosa esige che ricorra una specifica e più intensa probabilità di danno, da valutarsi ex ante (Salvi, 123). Nel concetto di esercizio e di svolgimento di attività pericolosa si devono ricomprendere anche singoli atti tra di loro indipendenti e non coordinati. Al riguardo, spesso il pericolo è maggiore nel caso di integrazione di atti occasionali, dal momento che l'atto è compiuto da una persona inesperta e non dotata di un'organizzazione tecnica costituita da persone e cose, quale caratteristica tipica dell'impresa. Pertanto, può considerarsi esercente di un'attività pericolosa anche chi non è imprenditore, estendendosi l'applicazione della norma a chiunque svolga, anche occasionalmente, un'attività pericolosa (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 760; Franzoni, 1993, 511); per converso, l'attività d'impresa può essere in concreto non pericolosa (Bianca, 704). L'attività pericolosa non si restringe solo alle attività esercitate per fini di lucro o di utilità personale (Monateri, 1016). D'altro canto, devono reputarsi pericolose anche le attività potenzialmente lesive di beni diversi dall'integrità fisica dei terzi, come la gestione di banche dati (Visintini, Il danno da uso dei computer. Profili generali, in Alpa (a cura di), Computers e responsabilità civile, Milano, 1985, 59; Morozzo della Rocca, Gestione di banche dati e problemi della responsabilità civile, in Legalità e giust., 1988, 326). Tra le attività pericolose si distinguono le attività pericolose tipiche (quelle elencate nel t.u. delle leggi di pubblica sicurezza, nel relativo regolamento, nelle leggi, nonché, indirettamente, nelle leggi di prevenzione degli infortuni e di tutela della pubblica incolumità) e le attività pericolose atipiche, organizzate nell'ambito di un'impresa, o compiute isolatamente, che sono da considerarsi tali, se la loro pericolosità sia accertata mediante un'indagine condotta caso per caso (Franzoni, 1987, 496). Si distingue, anche, tra pericolosità della condotta e pericolosità dell'attività in sé considerata (Comporti, 291; Gentile, 97). Nel primo caso vi è un'attività normalmente innocua che assume i caratteri della pericolosità per la condotta imprudente, imperita o negligente di colui che la esercita; nel secondo caso l'attività è essa stessa potenzialmente dannosa per l'alta percentuale di sinistri che può causare, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati (Franzoni, 1987, 492). Si sostiene che nell'ipotesi di pericolosità della condotta, imputabile appunto alle mere modalità subiettive del soggetto che pone in essere un'attività in sé innocua, l'art. 2050 non si applica (Bianca, 705; De Cupis, 184; Comporti, 293; Salvi, 124). Per valutare la pericolosità di un'attività è possibile fare riferimento a due criteri concorrenti: 1) quantità di danni abitualmente cagionati dall'attività in questione; 2) gravità ed entità dei danni minacciati (Monateri, 1019). Si è soliti rilevare che il carattere della pericolosità può mutare nel tempo: attività che un tempo erano ritenute pericolose, all'esito del progresso tecnologico, ora possono ritenersi innocue, mentre altre attività, che un tempo erano innocue (o che non esistevano), oggi possono essere considerate estremamente pericolose (Comporti, 291; Franzoni, 1985, 173; Monateri, 1020). La norma non trova applicazione alle attività rispetto alle quali la responsabilità civile è specificamente disciplinata e, in particolare, con riferimento alla responsabilità del produttore (Di Majo, 175), alla navigazione aerea, disciplinata dal codice della navigazione, alle comunicazioni ferroviarie, cui si applica l'art. 2 r.d. n. 1687/1873.

Sono attività pericolose non solo quelle qualificate come tali dalla legge di pubblica sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche quelle che, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, comportano, in ragione della loro spiccata potenzialità offensiva, una rilevante possibilità del verificarsi di un danno (Cass. n. 16052/2015; Cass. n. 8148/2002; Cass. n. 5341/1998). In applicazione di tale principio, si è ritenuto che un'attività normalmente non pericolosa, quale l'esercizio di escursioni guidate in prossimità delle bocche eruttive dell'Etna, fosse divenuta pericolosa in presenza di una situazione di “inquietudine” del vulcano che, in base alle conoscenze tecniche all'epoca del fatto, non era percepibile (Cass. n. 1195/2007). La valutazione in concreto se un'attività, non espressamente qualificata pericolosa da una disposizione di legge, possa essere considerata tale per la sua natura o per la spiccata potenzialità offensiva dei mezzi adoperati, implica un accertamento di fatto secondo il criterio della prognosi postuma, in base alle circostanze esistenti al momento dell'esercizio dell'attività, rimesso in via esclusiva al giudice di merito (Cass. n. 4545/2019; Cass. n. 10268/2015). Rispetto a tale accertamento di fatto, l'onere di provare la sussistenza di un'attività pericolosa incombe su chi invoca l'applicazione dell'art. 2050 (Cass. n. 2220/2000, in Foro it., 2000, 6, I, 1828). Così l'attività di polizia, svolta per la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, sebbene non sia, per sua natura, attività pericolosa, può qualificarsi tale per la natura dei mezzi adoperati, quali armi o altri mezzi di coazione di pari pericolosità, sempreché emerga un uso imperito o imprudente degli stessi, ovvero il loro carattere di anormalità od eccedenza e, dunque, di sproporzionalità evidente rispetto alla situazione contingente, sì da rendere inoperativa la scriminante di cui all'art. 53 c.p. (Cass. n. 21426/2014). Le attività pericolose — che, per loro stessa natura od anche per i mezzi impiegati, rendono probabile e non semplicemente possibile il verificarsi di un evento dannoso e importano responsabilità ex art. 2050 — devono essere tenute distinte da quelle normalmente innocue, che possono diventare pericolose per la condotta di chi le esercita od organizza e che comportano responsabilità secondo la regola generale ex art. 2043 (Cass. n. 8449/219, in Danno e resp., 2019, 6, 803; Cass. n. 20334/2004, in Foro it., 2005, 6, I, 1794; Cass. n. 7916/2004, in Giust. civ., 2005, 12, I, 3120). Con riferimento al servizio ferroviario o aereo, la S.C., pur confermando che in linea generale essi non rientrano nel novero delle attività pericolose, puntualizza che la presunzione di colpa di cui all'art. 2050 va riconosciuta allo svolgimento di tali servizi, quando il danno che ne derivi si ricolleghi ad uno specifico aspetto o momento del servizio stesso, il quale presenti connotati di pericolosità eccedenti il livello normale del rischio, sì da richiedere particolari cautele preventive (Cass. n. 10422/2016; Cass. n. 22822/2010; Cass. n. 10551/2002). In applicazione di questo principio, è stata qualificata come attività pericolosa lo svolgimento del servizio ferroviario, con riguardo allo specifico momento della previa comunicazione all'addetto al passaggio a livello del transito di un convoglio (Cass. n. 10422/2016) ovvero all'esito del venir meno, ad opera di terzi, dell'integrità delle recinzioni dell'area ferroviaria, con la creazione dello specifico rischio che specialmente i minorenni potessero introdurvisi per svolgere pericolosissimi giochi, situazione nota all'amministrazione, che avrebbe dovuto attivarsi per prevenire detto rischio (Cass. n. 3829/1995, in Giur. it., 1996, 2, 1, I, 222). Ancora, si è affermato che lo svolgimento del servizio aereo mediante elicotteri, da parte di una ditta specializzata, ricade tra le attività pericolose ove il danno che ne derivi si ricolleghi ad uno specifico aspetto o momento del servizio stesso, il quale presenti connotati di pericolosità in quanto non rientri nella normalità delle condizioni previste, in osservanza dei piani di volo, di condizioni di sicurezza o d'ordinarie condizioni atmosferiche, ma, eccedendo il livello normale del rischio, richieda particolari cautele preventive, come accade qualora l'attività svolta dal pilota dell'elicottero consista nell'effettuare evoluzioni a bassa quota sul mare, pur in presenza di raffiche di vento e di una regata velica, con il rischio concreto di inabissarsi (Cass. n. 5971/2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006, 3, I, 318). L'autorizzazione di polizia non vale in sé a superare la presunzione di responsabilità (Cass. n. 3213/1971). Sulla qualificazione dell'attività non assume alcun peso la circostanza che essa sia svolta senza fine di lucro o per fini filantropici (Cass. n. 12900/2012).

Nesso eziologico tra attività e danno

È necessario che il danno sia causalmente riconducibile all'attività pericolosa esercitata, con la conseguenza che non ricadono nell'ambito dell'art. 2050 quei danni che non si pongono in rapporto immediato col carattere rischioso dell'attività stessa (Monateri, 1034) ovvero che non appaiono connessi con lo specifico carattere di pericolosità tenuto presente nel qualificare come pericolosa l'attività che viene in considerazione (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 760). Il nesso di causalità si interrompe qualora l'evento dannoso sia ascrivibile al fatto del danneggiato, al fatto del terzo oppure ad una causa estranea, non imputabile alla sfera giuridica dell'esercente (Monateri, 1034). Secondo un filone della dottrina, la responsabilità sussiste anche qualora il danno dipendente dall'attività pericolosa si sia verificato per cause rimaste ignote (Alpa-Bessone, 333). Ricorre la responsabilità anche quando il danno, seppure temporalmente successivo all'esercizio dell'attività pericolosa, sia comunque a questa sufficientemente collegato sotto il profilo eziologico (Salvi, 121). Ne discende che il nesso causale riassunto nella locuzione «cagiona danno nello svolgimento di un'attività pericolosa» non deve essere interpretato nel senso di necessaria contestualità tra l'esercizio dell'attività e la verificazione del danno, bensì nel senso dell'imprescindibilità di un rapporto di derivazione del danno dallo svolgimento dell'attività (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 759). Ad ogni modo, la responsabilità postula che l'attività pericolosa sia causa e non semplice occasione del danno (Franzoni, 1985, 193; Cinelli, Contributi e contraddizioni della giurisprudenza in materia di responsabilità da attività pericolose, in Riv. dir. civ., II, 1970, 172).

Anche la giurisprudenza afferma che presupposto affinché l'art. 2050 possa trovare applicazione è rappresentato dal collegamento o nesso causale fra lo svolgimento dell'attività pericolosa e l'evento dannoso (Cass. n. 3678/1984; Cass. n. 702/1967, in Resp. civ. e prev., 1967, 547, e in Giur. it., 1968, 1, I, 364; Trib. Trani 17 settembre 2020), a tal fine dovendo ricorrere la duplice condizione che l'attività costituisca un antecedente necessario dell'evento, nel senso che quest'ultimo rientri tra le sue conseguenze normali ed ordinarie, e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento, e ciò anche quando esso sia attribuibile ad un terzo o allo stesso danneggiato (Cass. n. 15113/2016; App. Bologna 19 giugno 2005). La prova di tale nesso è a carico del danneggiato (Cass. n. 19449/2008; Cass. n. 4792/2001); incombe, invece, sull'esercente dell'attività pericolosa l'onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno (Cass. n. 12307/1998, in Resp. civ. e prev., 1999, 3, 702). La presunzione di responsabilità va affermata quando, pur essendo ignota o incerta la causa dell'evento dannoso, non risulta interrotto il nesso di causalità con l'esercizio dell'attività pericolosa (Cass. n. 10382/2002, in Dir. ed econ. assic., 2003, 1, 261); mentre va esclusa ove sussista incertezza sul fattore causale e sulla riconducibilità del fatto all'esercente (Cass. n. 19872/2014; Cass. n. 3424/2012). La presunzione di responsabilità ricorre non solo per gli eventi che siano conseguenza diretta di un comportamento positivo, ma anche per quelli che derivino dall'omissione di una condotta dovuta alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza (Cass. n. 919/2013; Cass. n. 3415/1971), come nel caso di mancata adozione di misure di sicurezza relativamente al funzionamento di una macchina (Cass. n. 2189/1978). Inoltre, deve ricorrere una relazione diretta tra danno e rischio specifico dell'attività pericolosa o dei mezzi adoperati, giacché diversamente il danno cagionato può essere riconosciuto solo in base al criterio generale dell'art. 2043 c.c., se ne sussistano i presupposti di applicazione. Pertanto, è stata negata la responsabilità ai sensi dell'art. 2050 con riferimento alle conseguenze di una caduta su uno spazio ghiacciato, siccome l'evento non era ricollegabile alla titolarità dell'esercizio di attività alberghiera con annesso spiazzo per la sosta di veicoli, essendo piuttosto l'evento medesimo dipeso dalla scelta del danneggiato di avventurarsi su un tracciato ghiacciato, agevolmente individuabile con l'uso dell'ordinaria attenzione e prudenza Cass. n. 20359/2005). Il fatto del danneggiato o del terzo esonerano l'esercente da responsabilità solo se siano tali da escludere il nesso causale tra attività pericolosa ed evento lesivo, per esempio attraverso l'integrazione di un comportamento incauto, non già quando concorrano alla produzione del danno (Cass. n. 15733/2011; Cass. n. 17851/2003; Cass. n. 5484/1998; Cass. n. 5960/1984; App. Milano 23 luglio 1999). L'intervento di un fattore esterno, il caso fortuito, attiene non già ad un comportamento del responsabile, ma alle modalità di causazione del danno, che può consistere anche nel fatto dello stesso danneggiato recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità. Peraltro, quando il comportamento colposo del danneggiato non è idoneo da solo ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta del danneggiante ed il danno, esso può, tuttavia, integrare un concorso colposo ai sensi dell'art. 1227, primo comma, c.c. - espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso -, con conseguente diminuzione del risarcimento dovuto dal danneggiante in relazione all'incidenza della colpa del danneggiato (Cass. n. 27544/2017). Così è stata esclusa la responsabilità per i danni derivanti dall'uso di una saldatrice a fiamma ossiacetilenica quando sia raggiunta la prova che la causa esclusiva e determinante del danno prodottosi, ossia di un incendio, sia la condotta del terzo fornitore del rivestimento dell'immobile incendiatosi che, in violazione degli accordi contrattuali, non aveva consegnato pannelli autoestinguenti (Cass. n. 4777/1998). Allo stesso modo, la responsabilità è stata esclusa, addebitando l'evento dannoso ad un comportamento doloso di terzi estranei all'esercizio dell'attività pericolosa, con riguardo all'ipotesi in cui gli attori, assumendo che ignoti ladri, approfittando di un ponteggio eretto per la costruzione di un contiguo edificio dall'impresa convenuta, a soli 57 cm. dal loro balcone, sito al quarto piano di uno stabile, erano penetrati nel loro appartamento ed avevano sottratto oggetti di valore, avevano chiesto la condanna dell'impresa al risarcimento dei danni, rigettata appunto in ragione della riconducibilità dell'evento al fatto dei ladri e non all'attività pericolosa (Cass. n. 3722/1976, in Giur. it., 1977, 1, I, 223; Cass. n. 1582/1970). Non rileva, per contro, che il danno abbia attinto un terzo estraneo all'attività pericolosa oppure un soggetto che vi prenda parte, per esempio in veste di lavoratore subordinato, poiché la norma ha riguardo al fatto obiettivo della derivazione causale dall'esercizio di questa attività: pertanto, anche in tali ipotesi l'esercente dell'attività pericolosa risponderà, nei confronti dei soggetti danneggiati, ai sensi dell'art. 2050 (Cass. n. 2628/1970). Né assume rilievo che la situazione di pericolo fosse conoscibile dal danneggiato (Cass. n. 2584/1989). Secondo un arresto della S.C., la norma non trova applicazione qualora l'attività dannosa sia cessata, subentrando, in tal caso, i generali principi della responsabilità aquiliana ex art. 2043 (Cass. n. 4641/1976, in Resp civ. e prev., 1977, 460), salvo ipotesi eccezionali in cui il pericolo insito nello svolgimento dell'attività si sia materializzato in determinati oggetti, i quali, per un'imperfetta confezione, conservino in sé un'intrinseca potenzialità lesiva, collegata allo svolgimento dell'attività pericolosa, di cui costituiscono il risultato (Cass. n. 4131/1975).

Adozione delle misure idonee

Controverso è il significato che deve essere attribuito all'espressione «avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno», con particolare riguardo ai requisiti prescritti della totalità e idoneità delle misure volte ad evitare il danno. In proposito, potrebbe, a monte, apparire contraddittoria l'affermazione che, pur essendo state adottate tutte le misure idonee ad evitare il danno, ugualmente l'evento dannoso si sia verificato, dovendosi viceversa ritenere che l'adozione di tutte le misure valga a scongiurare il pericolo (Franzoni, 1985, 202; Bianca, 708). Per attribuire effettività al contenuto della prova liberatoria si dovrebbe ritenere che la totalità e la idoneità delle misure non devono essere intese in senso letterale, altrimenti la prova consisterebbe in una probatio diabolica (Franzoni, 1985, 202). Non è possibile, infatti, fornire la prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, perché tale prova è indefinita: nessuno può escludere che, oltre a quelle adottate, altre cautele sarebbero state opportune per rendere più sicura l'attività esercitata (Bernardini, 1178). Pertanto, in base alla tesi della responsabilità oggettiva, detto onere probatorio è accollato all'esercente alla stregua della posizione da questo rivestita, ossia, non già per non avere adottato tutte le misure idonee, bensì per il solo fatto che l'attività considerata è un'attività pericolosa (Franzoni, 1993, 521). Ne consegue che la prova liberatoria si risolverebbe nella dimostrazione del caso fortuito, atto a interrompere il nesso causale tra l'attività pericolosa e l'evento (Monateri, 1036; Salvi, 122; Scognamiglio, 1968, 647): così il danno verificatosi dovrebbe risultare estraneo al potere di controllo dell'esercente e ciò si verifica quando il danno sia derivato da una causa esterna a lui non imputabile (Monateri, 1036). Per contro, la tesi che connota la fattispecie in ragione della previsione di una presunzione di colpa sostiene che la prova liberatoria consiste nella dimostrazione dell'adozione di tutte le misure offerte dalla tecnica e a propria disposizione secondo le circostanze del caso (De Cupis, 183). L'adozione delle misure normalmente adeguate (Bianca, 709), imposta per legge a chiunque svolga attività pericolose, trova spiegazione nella circostanza che l'agente si trova nella condizione più favorevole per adottare ogni misura possibile di cautela, sicché la prova liberatoria riguarda la mancanza di colpa del danneggiante, quale causa di esonero da responsabilità, in quanto da essa possano ricavarsi elementi presuntivi circa l'identificazione di una causa non imputabile (caso fortuito, forza maggiore, fatto del terzo o del danneggiato), che abbia reso oggettivamente impossibile l'adempimento (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 758), anche qualora il nesso causale non si sia interrotto. Pertanto, il criterio di causalità è diverso dal giudizio di diligenza: quest'ultimo attiene all'adozione delle misure idonee ed è necessario proprio in quanto il danno sia causato dall'attività pericolosa (Bianca, 710). Quanto alla gravosità della prova liberatoria, secondo un certo indirizzo, la prova circa l'adozione delle misure adeguate sarebbe meno rigorosa di quella del caso fortuito, poiché il danneggiante che svolge attività pericolosa può liberarsi dimostrando la propria assenza di colpa e l'esistenza di un'idonea organizzazione tecnica (Comporti, 255); in base ad una tesa opposta, l'art. 2050 imporrebbe una prova liberatoria più ampia o, quantomeno, diversa da quella del fortuito (Franzoni, 1987, 478); in ragione di una soluzione intermedia, si tratta della stessa prova poiché l'idoneità delle cautele adottate può essere dimostrata solo in relazione al danno concretamente verificatosi (Bianca, 710).

La S.C. ritiene che tra le misure idonee che l'esercente dell'attività pericolosa deve provare di avere assunto per essere esentato da responsabilità sono comprese tutte quelle previste dalle norme legislative e regolamentari che disciplinano l'attività specificamente svolta (Cass. n. 2584/1989). Infatti, per vincere la presunzione di colpa, posta a carico dell'esercente dell'attività pericolosa dall'art. 2050 c.c., non rileva la semplice prova dell'imprevedibilità del danno, dovendosi, invece, dimostrare che esso non si sarebbe potuto evitare mediante l'adozione delle misure di prevenzione che le leggi dell'arte o la comune diligenza imponevano (Cass. n. 4590/2020; Cass. n. 16637/2017). Tuttavia, non basta la prova di non avere violato norme legislative o di comune prudenza, ma occorre positivamente dimostrare di avere adottato tutte le misure atte ad evitare il danno, in quanto concretamente esigibili (Cass. n. 5484/1998; Cass. n. 5960/1984; Trib. Milano 15 giugno 2000), ivi compreso il rispetto delle più avanzate tecniche note ed anche solo potenzialmente possibili all'epoca del fatto dannoso (Trib. Milano 19 novembre 1987). Nondimeno, anche nell'ipotesi in cui l'esercente non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, in tal modo realizzando una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità, la causa efficiente sopravvenuta, che abbia i requisiti del caso fortuito e sia idonea — secondo l'apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione — a causare da sola l'evento, recide il nesso eziologico tra quest'ultimo e l'attività pericolosa, producendo effetti liberatori, e ciò anche quando sia attribuibile al fatto di un terzo o del danneggiato stesso (Cass. n. 24549/2013; Cass. n. 25/2010; Cass. n. 5839/2007). Il giudizio sull'autonoma idoneità causale del fattore esterno ed estraneo, costituito dalla condotta del danneggiato, a recidere il nesso eziologico tra l'evento e l'attività pericolosa, deve essere adeguato alla natura e alla pericolosità della cosa, sicché, quanto meno essa è intrinsecamente pericolosa e quanto più la situazione di possibile pericolo é suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino ad interrompere il nesso eziologico tra cosa e danno e ad escludere, pertanto, la responsabilità dell'esercente l'attività (Cass. n. 28299/2011).

Legittimazione soggettiva

L'art. 2050 sembra non porre limitazioni all'individuazione dei soggetti che possono invocare la normativa in esame. Parte della dottrina, comunque, tende ad escludere quei soggetti, la cui sfera di interessi potrebbe confondersi con quella dell'esercente-convenuto, quali i familiari o i partecipanti alla gestione dell'attività (Di Martino, 65; Franzoni, 1985, 162). In senso diverso altra dottrina ritiene che non è possibile escludere i familiari in quanto tali, potendo la limitazione essere operata soltanto nel caso di familiari coesercenti dell'attività pericolosa (Monateri, 1030). Legittimato passivo all'azione risarcitoria ex art. 2050 è colui che esercita l'attività, cioè il soggetto che ha il controllo sull'attività pericolosa, anche se tale controllo sia occasionale o sporadico, ma comunque riferito al momento del verificarsi della lesione (Monateri, 1031). La responsabilità dell'esercente dell'attività pericolosa viene in rilievo anche ove sia accertato che il fatto lesivo è stato posto in essere da un dipendente (De Cupis, 182); in questo caso si applicheranno gli artt. 2050 e 2049 (Comporti, 285; Monateri, 1032; Recano, 210). La responsabilità ex art. 2050, inoltre, non è posta a carico solo di chi pone in essere di fatto l'attività, ma anche a carico di chi organizza e dirige tale attività (Franzoni, 1985, 159), compresa la p.a. (Bronzetti, Esercizio di attività pericolose e responsabilità della pubblica amministrazione, in Arch. civ., 1978, 932). Pertanto, la responsabilità coinvolge sia i soggetti che svolgono, ossia eseguono, tale attività sia quelli che la gestiscono, ossia ne hanno il controllo, ne impartiscono le direttive, ne traggono i benefici, ne sostengono i costi, benché l'attività sia materialmente svolta da altri (Bianca, 707). Estranei a tale responsabilità sono invece gli utenti e i committenti che si avvalgono di attività altrui, senza eseguirle o gestirle (Bianca, 708). La presunzione di legittimità dell'atto amministrativo non esclude a priori la ricorrenza di una colpa, sicché, anche in ordine alla ponderazione della ricorrenza di un'attività pericolosa esercitata dalla p.a., non può farsi riferimento all'insindacabilità dei comportamenti della p.a., dovendosi piuttosto valutare questioni di carattere tecnico-scientifico (Comporti, 257; Recano, 225; Casetta, Gli enti pubblici e l'art. 2050 cod. civ., in Giur. it., I, 1956, 890; Bonasi-Benucci, In tema di attività pericolose, in Temi, 1956, 231). Sempre con riferimento al tema dell'esercizio di attività pericolosa da parte della p.a., si è argomentato che, pur ammesso, per ipotesi, che al g.o. sia precluso sindacare la scelta operata dalla p.a. in ordine alle misure cautelari adottate per consentire tale esercizio, in ogni caso, una volta scelte e messe in opera, siffatte misure e i relativi mezzi predisposti devono essere tenuti in efficienza, con la conseguenza che, ove per inefficienza o difetto di manutenzione fosse cagionato un danno a terzi, la norma dovrebbe comunque trovare applicazione verso la p.a. Nell'ipotesi in cui si ritenga che la previsione sia riconducibile ad una fattispecie di responsabilità oggettiva, essa trova applicazione anche quando il danneggiante sia incapace di intendere o di volere (Trimarchi, 278). Diversamente, l'esenzione di responsabilità dell'incapace trova fondamento non già nella mancanza di colpa, ma nell'esigenza di tutela di quel soggetto (Bianca, 712). Ove il danno sia imputabile a più soggetti, questi sono responsabili in solido, sia che rispondano allo stesso titolo sia che rispondano a titolo diverso (Bianca, 711; Franzoni, 1987, 468).

Secondo la giurisprudenza, la presunzione di responsabilità riguarda solo colui che esercita l'attività pericolosa, anche a mezzo di subordinati (Cass. n. 294/1981, in Foro it., 1981, I, 1325). Non si estende, per converso, ai soggetti che abbiano affidato l'attività a soggetti terzi fuori da ogni vincolo di subordinazione (Cass. n. 16638/2017; Cass. n. 3462/1972; Cass. n. 835/1966), salvo che non rimangano a suo carico doveri protettivi e di sicurezza (Cass. n. 15723/2010). La presunzione opera anche nei confronti della p.a. (Cass. n. 5764/1987). Quanto alla legittimazione soggettiva attiva, l'esercente risponde dei danni derivanti dal suo svolgimento, a nulla rilevando che il danneggiato sia un terzo piuttosto che un proprio incaricato e che i mezzi o le opere fonte di danno siano di proprietà di terzi (Cass. n. 16637/2017).

Fattispecie di responsabilità da esercizio di attività pericolosa

La finalità di lucro non costituisce un presupposto per valutare l'esistenza di un'attività pericolosa, poiché l'art. 2050 non conferisce giuridica rilevanza all'utilità di colui che esercita l'attività pericolosa (De Cupis, 178). Tra le attività pericolose rientra, secondo la dottrina, la sperimentazione umana, in quanto la pericolosità è oggettivamente immanente nell'attività di ricerca sull'uomo (Bianca, 707; Bellelli, Aspetti civilistici della sperimentazione umana, Padova, 1983, 133), o l'esercizio della caccia (De Cupis, 181). Non rientrano, invece, nel campo di applicazione della norma quelle attività che, seppure pericolose, sono disciplinate dalla legge in modo specifico (Comporti, 316), quali l'attività professionale medico-chirurgica, che ricade nella previsione dell'art. 2236 (ma nel senso che tale attività, a monte, non possa essere annoverata tra quelle pericolose Cattaneo, in La responsabilità medica, Milano, 1982, 3; salvo che non siano utilizzati strumenti dotati di intrinseca pericolosità, come quelli radioattivi: così Bianca, 707), l'attività dell'armatore, disciplinata dall'art. 274 c.n., la circolazione dei veicoli, prevista dall'art. 2054, l'esercizio di attività nucleari, regolato da leggi speciali (Alpa-Bessone, 321; Di Martino, 188). D'altronde, per la qualificazione dell'attività come pericolosa non è sufficiente che essa sia sottoposta all'assicurazione obbligatoria sugli infortuni (Bianca, 704). Taluno sostiene che, al di là del riferimento astratto al tipo di attività svolto, ai fini della qualificazione dell'attività come pericolosa assumono un peso determinante le concrete circostanze in cui l'iniziativa ha luogo (Ziviz, 181). Ma in senso contrario si rileva che le circostanze non bastano da sole a qualificare non pericolosa un'attività che risulti tale per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, così come l'adozione delle cautele necessarie può rendere in concreto non pericolosa un'attività che resta pur sempre pericolosa in base al criterio normativo (Bianca, 705).

La giurisprudenza ha ritenuto pericolose le seguenti attività: la gestione di un cantiere edilizio, sia nel caso di cantiere attivo (fase dinamica), sia nel caso di cantiere inattivo (fase statica), massimamente quando comporti rilevanti opere di trasformazione o di rivolgimento o di spostamento di masse terrose e scavi profondi ed interessanti vaste aree (Cass. n. 8688/2009; Cass. n. 10300/2007; Cass. n. 11452/1995, in Dir. ed econ. assic., 1996, 2, 637; Cass. n. 6739/1988; Cass. n. 8304/1987), ivi comprese le fosse di calce (Cass. n. 2271/1949), salvo che la condotta in concreto assunta dal danneggiato interrompa il nesso causale e, segnatamente, con riferimento ad un cantiere stradale, qualora la caduta in una voragine aperta nel manto viario, all'interno del cantiere, sia dipesa dalla consapevole introduzione nel cantiere della parte lesa, delimitato da una recinzione e segnalato come pericoloso da cartelli che avvertivano della presenza di scavi aperti (Cass. n. 28299/2011); l'attività di esecuzione di lavori sulla pubblica strada (Cass.  n. 13579/2019;Cass. n. 3022/2001, in Giur. it., 2001, 12, 2274; Cass. n. 9743/1996Trib . Imperia  18 gennaio 2021); la rimozione del piano di un pavimento mediante martellamento, atteso il pericolo specifico di caduta dell'intonaco del soffitto del locale sottostante (Cass. n. 391/1975); l'attività di escavazione sul fondo, eventualmente posta in essere dall'appaltatore incaricato, rispondendo in tal caso anche il committente allorché abbia imposto particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro (Cass. n. 7027/2021 ); la produzione e la vendita di tabacchi lavorati, poiché i tabacchi, avendo come unica destinazione il consumo mediante il fumo, contengono in sé una potenziale carica di nocività per la salute umana (Cass. n. 26516/2009); le operazioni di carico e scarico di navi con mezzi meccanici (Cass. n. 103/1965); il trasporto di petrolio greggio per condutture (Cass. n. 662/1978) o l'erogazione di carburante presso una stazione di servizio (Cass. n. 16052/2015); la gestione di reti elettriche ad alta tensione (Cass. n. 1393/1984, in Foro it., 1985, I, 1497, con nota di Comporti; Cass. n. 537/1982, in Giust. civ., 1982, I, 915, con nota di Alpa) e in determinate circostanze anche a bassa tensione (Cass. n. 2584/1989), e,  più in generale, la produzione e distribuzione di energia elettrica sia in relazione ai rischi ai quali espone sia in relazione a quelli implicati dalla materia trattata, a prescindere quindi dalla circostanza che si tratti di rischi da contatto o di guasti alla distribuzione (Cass. n. 32498/2019Trib . Teramo 13 gennaio 2022Trib .  Crotone 9 marzo 2021); lo smontaggio di un banco di vendita, tenuto conto delle circostanze ambientali (Cass. n. 6573/1979); l'attività venatoria (Cass. n. 25058/2013; Cass. n. 5222/1977); l'operazione di doma di un cavallo nell'ambito di un'attività di maneggio (Cass. n. 3616/1988); la gestione di un maneggio o di un ippodromo funzionale all'esercizio di una scuola di equitazione o all'organizzazione di gare ippiche qualora i partecipanti siano cavallerizzi principianti o inesperti o giovanissimi, del tutto ignari di ogni regola di equitazione (Cass. n. 6737/2019Cass. n. 24211/2015; Cass. n. 2482/2009, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 7-8, 764; Cass. n. 6888/2005; Cass. n. 1155/1979), essendo, all'uopo, irrilevante, una volta accertato il nesso eziologico tra lo svolgimento dell'attività pericolosa e l'evento dannoso, che la caduta dell'allievo sia avvenuta a causa dell'andamento del cavallo o della rottura di uno staffile, che il danneggiato conducesse l'animale al passo o al galoppo e che lo stesso fosse o meno preparato a farlo (Cass. n. 19449/2008); la gestione di piste di go-kart (Trib. Roma 31 gennaio 1967) o di autoscontro (Cass. n. 9205/1995, in Giur. it., 1996, 4, 1, I, 466; contra Cass. n. 2555/1969, in Resp. civ. e prev., 1970, 573); l'organizzazione di un tour di autocaravan, in quanto comportante la circolazione su strade pubbliche di più veicoli, di maggiore ingombro rispetto alle ordinarie autovetture, in coordinamento tra loro (Cass. n. 25421/2017); la gestione di impianti di seggiovia (Trib. Savona 20 dicembre 1965) e di sciovia (Cass. n. 7916/2004; Trib. Como 31 maggio 1972); l'attività di produzione di farmaci (Cass. n. 8069/1993; Cass. n. 6241/1987, in Foro it., 1988, 1, I, 144) nonché di produzione di sostanze potenzialmente lesive da utilizzare per comporre un farmaco destinato ad essere iniettato nell'organismo umano (Cass. n. 814/1997, in Gazz. giur. Italia Oggi, 1997, 12, 4, 42); ovvero di produzione e immissione in commercio di farmaci, essendo in tal caso l'impresa farmaceutica tenuta a dimostrare di avere osservato, prima della produzione e immissione sul mercato del farmaco, i protocolli di sperimentazione previsti dalla legge, e di avere fornito un'adeguata informazione circa i possibili effetti indesiderati dello stesso, aggiornandola - se necessario - in relazione all'evoluzione della ricerca (Cass. n. 6587/2019, con nota di Pirruccio, in Guida al dir., 2019, 16, 34); l'attività di trattamento di dati personali (Cass. n. 18812/2014; Cass. n. 10947/2014; Cass. n. 10646/2012); l'illecita divulgazione di dati on line (Cass. n. 2338/2023); l'attività da emotrasfusione (Cass. n. 7814/2018 Cass. n. 5961/2016; Cass. S.U., n. 582/2008;); l'esposizione alle radiazioni emanate da un apparecchio radiografico (Cass. n. 1966/2009); la produzione e distribuzione di gas in bombole, sia per la sua natura, sia per quella dei mezzi usati, perdurando il pericolo di esplosioni anche dopo le operazioni di riempimento, cioè quando le bombole, che rimangono sempre di proprietà dell'imprenditore, vengono poste in commercio, distribuite e consegnate alla clientela per l'uso (Cass. n. 294/1981; Cass. n. 5799/1980; Cass. n. 934/1967, in Giust. civ., 1967, 1, 1839, e in Resp. civ. e prev., 1968, 268); l'attività di prevenzione e sorveglianza degli obblighi antiinfortunistici  a cura del titolare dei poteri di decisione e di spesa, inclusa la figura dell'amministratore unico di società che, in quanto titolare di una specifica posizione di garanzia, è responsabile ex artt. 2087 verso i propri dipendenti e 2050 verso i terzi (Cass. n. 1399/2021). In tema di responsabilità conseguente alla sperimentazione di farmaci, la casa farmaceutica promotrice della sperimentazione, la quale abbia fornito il farmaco ad una struttura sanitaria, perché lo sperimentasse sui suoi pazienti a mezzo dei propri medici, risponde a titolo contrattuale dei danni sofferti dai soggetti cui sia stato effettivamente somministrato il farmaco, a causa di un errore dei medici "sperimentatori", soltanto nell'ipotesi in cui, sulla base della concreta conformazione dell'accordo di sperimentazione, debba ritenersi che essa si sia personalmente obbligata verso i destinatari della sperimentazione, sicché la struttura ospedaliera e i suoi dipendenti abbiano assunto la qualità di ausiliari di cui la casa farmaceutica si sia avvalsa nell'adempimento, ai sensi dell'art. 1228 c.c.; al di fuori di questa ipotesi, essa può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità extracontrattuale (in applicazione del criterio di imputazione speciale di cui all'art. 2050, o, eventualmente, di quello generale di cui all'art. 2043 c.c.), da accertarsi secondo le regole proprie della stessa. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, senza accertare se la società promotrice avesse personalmente assunto una obbligazione verso il paziente reclutato nel programma sperimentale, aveva qualificato la responsabilità della prima verso il secondo in termini di responsabilità contrattuale, facendo riferimento ad un "contatto sociale" tra loro pacificamente insussistente, perché instaurato dal paziente esclusivamente con i medici sperimentatori (Cass. n. 10348/2021).

Sono state invece escluse dal novero delle attività pericolose: la vendita al dettaglio di merci non pericolose (Cass. n. 17369/2004; Cass. n. 1376/1980); la gestione di una piscina (Cass. n. 10027/2005; Cass. n. 20334/2004); l'attività di noleggio di natanti (Cass. n. 1712/1972) e di automobili (Cass. n. 2766/1961); l'attività equestre, quando sia riservata ad allievi esperti, poiché in tal caso essa è soggetta alla presunzione di responsabilità di cui all'art. 2052, con la conseguenza che spetta al proprietario o all'utilizzatore dell'animale che ha causato il danno fornire, non soltanto la prova della propria assenza di colpa, ma anche quella che il danno è stato causato da un evento fortuito (Cass. n. 16637/2008; Cass. n. 1380/1994); la circolazione di veicoli con guida di rotaie (Cass. n. 1974/1966); l'attività di carico e scarico di contenitori spray (Cass. n. 3445/1985); l'attività di guida alpina (Trib. Bolzano 24 gennaio 1977; ma con riferimento alla gestione di una scuola di alpinismo Cass. n. 12900/2012); l'apertura al pubblico di un complesso archeologico (Trib. Napoli 14 aprile 1987); la gestione di una piccola giostra (Cass. n. 1629/1978, in Resp. civ. e prev., 1978, 856); l'attività bancaria (Cass. n. 11275/2005; Cass. n. 2555/1991), salvo che non si tratti di gestione di conti correnti on line, ipotesi in cui la banca è stata ritenuta responsabile per non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico mediante la captazione dei codici d'accesso del correntista, ove non dimostri che l'evento dannoso non gli sia imputabile perché discendente da trascuratezza, errore o frode del correntista o da forza maggiore (Cass. n. 10638/2016). Inoltre, l'art. 2050 concerne genericamente le attività pericolose e non si applica a quelle per le quali il legislatore ha specificamente provveduto, sicché l'attività che formi oggetto della prestazione dovuta dal professionista, come un medico-chirurgo, ricade esclusivamente nell'ambito dell'art. 2236, cui è estranea ogni presunzione di colpa (Cass. n. 26236/2021 ;   Cass. n. 3978/1979).

In specie, l'esercizio di un'attività sportiva

Secondo la giurisprudenza, non ricade fra le attività pericolose l'organizzazione di una gara sportiva, con riferimento ai danni subiti dagli atleti e dei quali è prevedibile la verificazione, in quanto provocati dagli inevitabili errori del gesto sportivo degli atleti impegnati nella gara, salvo che, in conseguenza di essa, gli atleti siano stati esposti a conseguenze più gravi di quelle che possono essere determinate dai predetti errori (Cass. n. 3528/2009; Cass. n. 8095/2006). Nella stessa prospettiva la S.C. ha escluso che all'attività sportiva riferita al gioco del calcio possa essere riconosciuto il carattere di particolare pericolosità, trattandosi di disciplina che privilegia l'aspetto ludico, pur consentendo, con la pratica, l'esercizio atletico, tanto che è normalmente praticata nelle scuole di tutti i livelli come attività di agonismo non programmatico, finalizzato a dare esecuzione ad un determinato esercizio fisico, sicché la stessa non può configurarsi come attività pericolosa a norma dell'art. 2050, così rimanendo irrilevante, ai fini della possibile responsabilità dell'insegnante di educazione fisica e dell'istituto scolastico, ogni indagine volta a verificare se la medesima attività faccia, o meno, parte dei programmi scolastici ministeriali. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, sulla scorta dell'enunciato principio, aveva escluso la sussistenza dei presupposti per la configurazione della forma di responsabilità riconducibile al richiamato art. 2050, considerando, altresì, adeguatamente motivata tale decisione nella parte in cui era rimasto accertato, in positivo, che l'infortunio occorso all'allievo scolastico durante la lezione di educazione fisica era stato determinato da un fatto accidentale ascrivibile ad un errore del medesimo minore, il quale, nel controllare il possesso del pallone in un frangente del gioco in cui non vi era stato alcun contrasto con altri giocatori, era inciampato sul pallone stesso e nel cadere aveva appoggiato a terra la mano sinistra, procurandosi la frattura del relativo avambraccio (Cass. n. 20982/2012; Cass. n. 1197/2007, in Resp. civ. e prev., 2007, 10, II, 2089).  Con riferimento all'organizzatore di una attività sportiva (nella specie, rafting) che abbia caratteristiche intrinseche di pericolosità o che presenti passaggi di particolare difficoltà, nei quali il rischio di procurarsi danni alla persona per i partecipanti sia più elevato della media, deve, nell'ambito della diligenza richiesta per l'esecuzione della propria obbligazione contrattuale, illustrare la difficoltà dell'attività o del relativo passaggio e predisporre cautele adeguate affinché gli stessi, se affrontati, possano essere svolti da tutti i partecipanti in condizioni di sicurezza (Cass. n. 18903/2017).

In specie, lo svolgimento di attività industriale

Gli arresti della giurisprudenza di legittimità in ordine allo svolgimento di attività industriale consentono di rilevare che l'esercizio di un'impresa industriale non è significativo in sé di pericolosità dell'attività, ma dipende dal tipo di attività industriale svolto in concreto. Così il soggetto produttore di rifiuti tossici (nella specie, rifiuti industriali speciali) è, comunque, sottoposto alla responsabilità prevista dagli artt. 2043 e 2050 e non può esimersi da essa sostenendo di aver affidato completamente a terzi lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti stessi, in quanto tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di produzione e smaltimento dei rifiuti tossici — e, in particolare, il produttore — sono ugualmente responsabili e solidalmente tenuti ad adottare le idonee misure di sicurezza, anche nella fase di smaltimento, affinché lo sversamento definitivo e lo stoccaggio dei rifiuti avvenga senza danno a terzi (Cass. n. 9211/1995). Viceversa, ove non sia dimostrata la riconducibilità dell'inquinamento del fondo ad una attività industriale, poiché lo sversamento delle acque reflue di lavorazione riferito a quella specifica industria è solo eventuale, deve negarsi che si ricada nell'esercizio di attività pericolosa (Cass. n. 19872/2014). In molte pronunce la giurisprudenza ha soffermato l'attenzione sull'industria della produzione e distribuzione di gas in bombole. Tale attività costituisce attività pericolosa non solo nelle fasi di riempimento, trasporto e distribuzione, ma altresì in quelle di conservazione, commercio o, comunque, consegna a qualsiasi titolo delle bombole vuote, che abbiano contenuto gas, senza un preventivo trattamento idoneo a renderle innocue (e ciò anche in riferimento all'art. 249 del d.P.R. n 547/1955, il quale, per tali contenitori, vieta usi diversi da quelli originari senza una preventiva, completa bonifica del loro interno). Pertanto, l'esercente di una tale attività è tenuto alla responsabilità prevista dall'art. 2050 c.c. con riguardo a qualsivoglia evento dannoso che possa comunque collegarsi ad una di dette operazioni, salvo che fornisca la prova liberatoria di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, in relazione all'intrinseca pericolosità di quello strumento (Cass. n. 294/1981; Cass. n. 5799/1980; Cass. n. 4352/1979; Cass. n. 819/1963). Anche la distribuzione in commercio di merci pericolose, una volta accertato che il bene (nel caso, un minivogatore) costituisce strumento pericoloso, integra esercizio di attività pericolosa, poiché la responsabilità di cui all'art. 2050 ricorre in relazione a tutti gli eventi dannosi che si verifichino in dipendenza o in occasione del relativo uso (Cass. n. 17369/2004).

Ad ogni modo, la responsabilità per esercizio di attività pericolosa - che può prescindere dall'attività in sé e per sé considerata e sussistere quando il pericolo sia intrinseco ai beni - non si configura in danno del produttore e del distributore e a favore di chi professionalmente impieghi gli oggetti potenzialmente lesivi come materie prime in una fase autonoma di un successivo ciclo produttivo, assumendo così propri oneri di precauzione adeguati a quello sviluppo, a meno che il danneggiato non provi, impregiudicati eventuali diversi titoli di responsabilità (da prodotto difettoso o per vizi della cosa venduta), il nesso causale tra l'esercizio della fase specifica dell'attività pericolosa gestita dalle controparti e il danno subito. In applicazione di questo principio, la S.C. ha escluso che la semplice presenza di nitrocellulosa - in precedenza prodotta e commercializzata da altri e poi stoccata, come materia prima, in un impianto di produzione di vernici - potesse di per sé sola considerarsi la causa dell'incendio divampato nello stabilimento e, comunque, fosse eziologicamente riconducibile all'attività pericolosa esercitata dalle controparti e, segnatamente, alle fasi della produzione e della distribuzione del materiale esplodente (Cass. n. 28626/2019).

Bibliografia

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