Codice di Procedura Civile art. 813 ter - Responsabilità degli arbitri1.Responsabilità degli arbitri1. [I]. Risponde dei danni cagionati alle parti l'arbitro che: 1) con dolo o colpa grave ha omesso o ritardato atti dovuti ed è stato perciò dichiarato decaduto, ovvero ha rinunciato all'incarico senza giustificato motivo; 2) con dolo o colpa grave ha omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato a norma degli articoli 820 o 826. [II]. Fuori dai precedenti casi, gli arbitri rispondono esclusivamente per dolo o colpa grave entro i limiti previsti dall'articolo 2, commi 2 e 3, della legge 13 aprile 1988, n. 117. [III]. L'azione di responsabilità può essere proposta in pendenza del giudizio arbitrale soltanto nel caso previsto dal primo comma, n. 1). [IV]. Se è stato pronunciato il lodo, l'azione di responsabilità può essere proposta soltanto dopo l'accoglimento dell'impugnazione con sentenza. passata in giudicato e per i motivi per cui l'impugnazione è stata accolta. [V]. Se la responsabilità non dipende da dolo dell'arbitro, la misura del risarcimento non può superare una somma pari al triplo del compenso convenuto o, in mancanza di determinazione convenzionale, pari al triplo del compenso previsto dalla tariffa applicabile. [VI]. Nei casi di responsabilità dell'arbitro il corrispettivo e il rimborso delle spese non gli sono dovuti o, nel caso di nullità parziale del lodo, sono soggetti a riduzione. [VII]. Ciascun arbitro risponde solo del fatto proprio. [1] Articolo inserito dall'art. 21, d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006. Ai sensi dell'art. 27, comma 4, d.lg. n. 40, cit., la disposizione si applica ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del decreto. InquadramentoL'art. 813-ter c.p.c. — con il quale il legislatore ha inteso per un verso ampliare l'area della responsabilità degli arbitri, per altro verso salvaguardare l'indipendenza e l'autonomia del giudizio arbitrale, dettando una disciplina unitaria e tendenzialmente esaustiva di detta responsabilità, a somiglianza di quella dei magistrati — stabilisce anzitutto che l'arbitro risponde dei danni cagionati alle parti se: i) con dolo o colpa grave ha omesso o ritardato atti dovuti ed è stato perciò dichiarato decaduto, ovvero ha rinunciato all'incarico senza giustificato motivo; ii) con dolo o colpa grave ha omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato. Tale disposizione va letta in combinato disposto con l'art. 813-bis, sulla decadenza degli arbitri per i casi di omissione o ritardo nel compimento di un atto relativo alle funzioni arbitrali: in presenza di tali condotte può dunque darsi corso all'azione di responsabilità promossa nei confronti degli arbitri. Al di fuori di tali ipotesi, la norma disciplina la responsabilità degli arbitri — al fine di impedire l'uso strumentale dell'azione di responsabilità — sul modello di quella del giudice, e nei limiti della compatibilità. Ne discende che gli arbitri rispondono esclusivamente per dolo o colpa grave entro i limiti previsti per il giudice (art. 2, commi 2 e 3, l. n. 117/1988). L'azione di responsabilità, inoltre, non può essere proposta in pendenza del giudizio arbitrale, a meno che non ricorrano i casi di decadenza o rinuncia considerati al n. 1 del comma 1. Se viceversa è stato pronunciato il lodo, l'azione di responsabilità — all'evidente scopo di neutralizzare il rischio di iniziative pretestuose — può essere proposta soltanto dopo l'accoglimento dell'impugnazione con sentenza passata in giudicato e per i motivi per cui l'impugnazione è stata accolta. In proposito è stata giudicata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 813-ter, comma 4, c.p.c., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui subordina l'azione di responsabilità degli arbitri al passaggio in giudicato della sentenza emessa a seguito dell'impugnazione del lodo e la circoscrive ai motivi per cui la stessa impugnazione è stata accolta (Cass. n. 12144/2016). La norma interviene poi sulla misura dell'eventuale risarcimento. Se la responsabilità non dipende da dolo dell'arbitro, la misura di esso non può superare una somma pari al triplo del compenso convenuto o, in mancanza di determinazione convenzionale, pari al triplo del compenso previsto dalla tariffa applicabile. Nei casi di responsabilità dell'arbitro il corrispettivo e il rimborso delle spese non gli sono dovuti o, nel caso di nullità parziale del lodo, sono soggetti a riduzione. Si precisa infine che ciascun arbitro risponde solo del fatto proprio: è dunque esclusa una responsabilità solidale degli arbitri e, in particolare, in caso di lodo dichiarato nullo, è da escludere la responsabilità dell'arbitro che abbia manifestato il proprio dissenso. Natura della responsabilità degli arbitriIl discorso sulla responsabilità degli arbitri prende le mosse dall'individuazione della natura di essa, giacché detta natura si riflette sulla stessa perimetrazione della loro responsabilità e sulla comprensione del significato dell'art. 813-ter c.p.c. Per indagare la natura della responsabilità in questione occorre anzitutto accennare, sia pur brevemente, alla classica questione del rapporto che intercorre tra gli arbitri e le parti, quantunque, come si è osservato, il dibattito sul punto non abbia immediate ricadute applicative, così da risolversi in una «polemica classificatoria» (Bove, 265), tanto più che «ormai il contratto tra le parti e gli arbitri ha una sua disciplina ampiamente tratteggiata nel codice di procedura civile» (Bove, 265). Possono individuarsi, in proposito, quattro linee di pensiero. Secondo parte della dottrina tale rapporto sarebbe da inquadrare nello schema del mandato (Cecchella, 97). Altri sostengono che si tratterebbe di un contratto di prestazione di opera intellettuale (Mirabelli, 3; Vecchione, 401). Si afferma ancora che il contratto di arbitrato andrebbe qualificato come contratto atipico misto, giacché presenterebbe caratteri propri sia del mandato che della prestazione d'opera intellettuale, con la conseguenza che la disciplina applicabile andrebbe individuate attraverso il criterio della prevalenza (Schizzerotto, 392). Secondo altra tesi il contratto di arbitrato è contratto tipico, essendo disciplinato nei tratti fondamentali dal codice di rito (Verde, 117). Al di là della discussa classificazione del contratto, sta di fatto che le obbligazioni degli arbitri presentano un contenuto principale ed uno accessorio avente ad oggetto obblighi strumentali all'obbligazione principale concernente la pronuncia del lodo, ossia della sentenza privata con la quale si decide una controversia tra le parti (Bove, 265). Dalla violazione di detti obblighi si genera la responsabilità degli arbitri, che va come tale considerata responsabilità contrattuale, con la precisazione che si tratta di un regime speciale di responsabilità limitato ai soli casi di «dolo» o «colpa grave» dell'arbitro, il che si colloca peraltro in armonia con la previsione dell'art. 2236 c.c. Tale responsabilità ricorre nelle ipotesi tipizzate dal legislatore ed elencate dalla disposizione in esame, fatta salva la questione, su cui dovrà tornarsi, se possano essere configurate ipotesi extratestuali di responsabilità degli arbitri. Nondimeno, al di là delle peculiarità previste dall'art. 813-ter c.p.c., la responsabilità degli arbitri è disciplinata dalle regole generali in tema di responsabilità per inadempimento. E così: i) per quanto riguarda il riparto degli oneri probatori trova applicazione il principio operante in materia di responsabilità contrattuale secondo cui le parti devono solo allegare il fatto costituente fonte di responsabilità e la violazione dell'obbligo di diligenza, mentre sta all'arbitro provare l'assenza di colpa, ossia la non imputabilità dell'inadempimento (Cass. n. 3612/2014; Cass. n. 18341/2013; Cass. n. 12274/2011); ii) l'attore, oltre a dedurre l'inadempimento, deve dare la prova sia del danno, sia del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nel quadro di applicazione dell'art. 1223 c.c.; iii) rileva il concorso del fatto colposo del creditore nella determinazione del danno ex art. 1227 c.c.; iv) il risarcimento è limitato ai danni prevedibili ex art. 1225 c.c., salvo non ricorra il dolo dell'arbitro. In collegamento con la natura contrattuale della responsabilità degli arbitri può anche leggersi la previsione introdotta dall'art. 813-ter, u.c., c.p.c., il quale stabilisce che «ciascun arbitro risponde solo del fatto proprio», formula che esprime l'opzione del legislatore per il regime della responsabilità parziaria, in deroga alla regola accolta dall'art. 1716 c.c., in materia di mandato e, più in generale, dall'art. 2055 c.c., collocato nel campo aquiliano, ma al quale viene per lo più attribuita valenza generale. In giurisprudenza si osserva che, qualunque sia la natura, privatistica o pubblicistica, dell'arbitrato rituale, tra i contendenti e gli arbitri si perfeziona, con l'accettazione dell'incarico da parte di questi, un contratto di diritto privato, riconducibile al contratto d'opera intellettuale, dal quale deriva l'obbligo in via solidale dei contendenti di corrispondere il compenso per l'opera prestata, rimanendo ininfluente, a tali effetti, il carattere unilaterale della devoluzione effettiva della controversia agli arbitri (Cass. n. 13174/1999). In altre occasioni tuttavia si è discorso di mandato (Cass. n. 10923/1996) ovvero di mandato collettivo (Cass. n. 4823/2009). E si aggiunge che alla stipulazione di detto contratto pone a carico degli arbitri l'obbligo di risolvere la controversia sottoposta al collegio arbitrale: a tale obbligo generale sono cioè accessori due obblighi specifici: quello di non rinunciare all'incarico senza giustificato motivo e quello di pronunciare il lodo nel termine fissato (Cass. n. 4823/2009). Omessione o ritardo di atti dovutiLa previsione dettata dall'art. 813-ter, comma 1, n. 1, c.p.c., laddove si riferisce alla omissione o ritardo di atti dovuti, va letta in combinato disposto con l'art. 813-bis c.p.c. Quest'ultima norma consente alle parti (ovvero al terzo da esse incaricato) di sostituire l'arbitro che omette o ritardi il compimento di un atto relativo alle sue funzioni. La sostituzione può aver luogo attraverso due diversi meccanismi: essa può essere direttamente disposta dalle parti di comune accordo ovvero dal terzo dalle stesse incaricato di provvedere alla nomina; altrimenti, può essere richiesta al presidente del tribunale da una delle parti (la quale può in tal modo contrastare eventuali atteggiamenti ostruzionistici posti in essere soprattutto dall'arbitro di parte), nel contraddittorio delle altre parti e degli arbitri. Si tratta di un'ipotesi di sostituzione distinta da quella, fisiologica, prevista dall'art. 811 c.p.c.: in quest'ultimo caso la sostituzione è il frutto di una situazione obbiettiva creatasi per il venire a mancare, per qualunque motivo, dell'arbitro; nel caso disciplinato dalla norma in commento viene invece sanzionata una condotta dell'arbitro contraria ai doveri nascenti dall'assunzione dell'incarico. Nondimeno, è generalmente ritenuto che la disposizione non richieda che l'omissione o il ritardo sia da attribuire a condotta colpevole dell'arbitro. Su di un piano diverso si colloca viceversa la previsione dell'art. 813-ter c.p.c., la quale riconnette la responsabilità dell'arbitro all'aver omesso o ritardato atti dovuti con dolo o colpa grave, sempre che in conseguenza di ciò sia stato dichiarato decaduto dal presidente del tribunale. Ciò significa che l'omissione o ritardo di atti dovuti, intesa nella sua oggettività, conduce legittimamente alla sostituzione dell'arbitro, eventualmente previa dichiarazione di decadenza da parte del presidente del tribunale: viceversa detta condotta dà altresì luogo a risarcimento del danno soltanto se l'arbitro abbia agito con dolo o colpa grave, ovvero, come è stato detto, abbia posto in essere «un vero ostruzionismo», tale da determinare il perfezionamento della fattispecie di responsabilità dell'arbitro, il quale non solo perderà il diritto al rimborso delle spese ed al pagamento del compenso, ma sarà obbligato al risarcimento del danno nei confronti delle parti (Bove, 265). Potranno assumere rilievo a tal fine tutte le condotte dolose o gravemente colpose addebitabili all'arbitro, a partire dal caso delle ripetute assenze ingiustificate. La responsabilità dell'arbitro andà fatta valere in un giudizio ordinario, con la precisazione che l'ordinanza con cui il presidente del tribunale abbia dichiarato la decadenza dell'arbitro, ritenendo la sussistenza, a suo carico, di una condotta dolosa o gravemente colposa, non dispiegherà alcuna autorità nel giudizio risarcitorio, attesa la natura volontaria del procedimento volto alla sostituzione dell'arbitro (Bove, 265) Vale inoltre osservare che il giudizio risarcitorio potrà essere in questo caso intentato pendente l'arbitrato, secondo l'espressa previsione dell'art. 813-ter, comma 3, c.p.c. In giurisprudenza è stato detto che l'arbitro che rifiuti, senza giustificato motivo, di partecipare alla deliberazione del lodo arbitrale, impedendo l'assunzione della decisione nel termine fissato (o, come nel caso di specie, determinandone la nullità), è responsabile per inadempimento del mandato collettivo ricevuto, con conseguente perdita del diritto al compenso ed obbligo di risarcire il danno (Cass. n. 4823/2009). Dalla disciplina della sostituzione dell'arbitro che ometta o ritardi di compiere un atto relativo alle sue funzioni, oltre che da quella concernente la ricusazione degli arbitri, è stata tratta l'affermazione secondo cui, a fronte di tali rimedi, più coerenti con la natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale, in esso le parti non hanno il potere di revocare per giusta causa, ai sensi dell'art. 1723 c.c., il mandato agli arbitri (Cass. n. 25735/2013). Rinunzia all'incarico senza giustificato motivoL'art. 813-ter, comma 1, n. 1, c.p.c. riconnette altresì la responsabilità dell'arbitro alla rinuncia all'incarico senza giustificato motivo, la quale costituisce inadempimento dell'obbligazione assunta dall'arbitro, con la precisazione che la sussistenza di un giustificato motivo va dimostrata dall'arbitro quale fatto impeditivo dell'avversa pretesa (Giovannucci-Orlandi, 266; Dimundo, 504). Quanto alla nozione di giustificato motivo, si è detto che esso ricorre al sopraggiungere di situazioni involontarie che rendono irragionevole per l'arbitro la prosecuzione del suo ufficio e così giustificano il suo recesso dal contratto (Bove, 265). Si sono fatti gli esempi della rinuncia dettata da un motivo di salute, da gravi motivi personali o familiari, da un sopravvenuto motivo di ricusazione, dall'intervenuta revoca di un'autorizzazione in precedenza concessa a svolgere l'incarico, come può accadere per i professori universitari (Bove, 265, Cecchella, 118; Giovannucci-Orlandi, 180). Secondo un'opinione anche l'allargamento del thema decidendum dopo l'accettazione dell'incarico da parte degli arbitri giustificherebbe la rinunzia all'incarico (Cecchella, 118) Vi sono inoltre due casi di rinuncia all'incarico per giustificato motivo disciplinati direttamente dal codice di rito: a) il primo caso è previsto nell'art. 816-sexies c.p.c., che, in presenza di circostanze che comporterebbero dinanzi al giudice l'interruzione del processo, attribuisce agli arbitri il potere di assumere «le misure idonee a garantire l'applicazione del contraddittorio ai fini della prosecuzione del giudizio», stabilendo poi che, se «nessuna delle parti ottempera alle disposizioni degli arbitri per la prosecuzione del giudizio, gli arbitri possono rinunciare all'incarico»; b) il secondo caso è previsto dall'art. 816-septies, comma 1, c.p.c., secondo la quale gli «arbitri possono subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle spese prevedibili »; si discute se la norma si riferisca alle sole spese, o anche agli onorari (per l'interpretazione ampia Bove, 265, in applicazione di principi civilistici da trarre dagli artt. 1719 e 2234 c.c.); secondo la giurisprudenza, invece, per spese prevedibili devono intendersi quelle parametrate agli esborsi necessari per lo svolgimento dell'arbitrato, quelle di segreteria (Cass. n. 15820/2008; Cass. n. 10141/2004; Cass. n. 14182/2004) o di eventuali consulenti. In giurisprudenza è stata giudicata legittima la rinunzia da parte dell'arbitro in caso di rifiuto delle parti di concedere la proroga del termine per la pronunzia del lodo, a seguito di ritardo determinatosi per causa non imputabile agli arbitri: nella specie, si trattava di ritardo determinato dallo svolgimento di una consulenza tecnica, protrattasi oltre il termine previsto, per la difficoltà di reperire la necessaria documentazione per lo svolgimento dell'incarico peritale (Cass. n. 10923/1996). Omessa o impedita pronuncia del lodo entro il termine fissatoRicorre la responsabilità dell'arbitro, ai sensi dell'art. 813-ter, comma 1, n. 2, c.p.c., qualora egli abbia con dolo o colpa grave omeso o impedito la pronunzia del lodo entro il termine fissato. La disposizione, risalente alla riforma del 2006, ha inteso circoscrivere l'ambito della responsabilità dell'arbitro, che, prima della riforma, sussisteva per il fatto in sé considerato della mancata pronunzia: ad oggi occorre invece, secondo una prospettiva cui si è già fatto cenno, che l'inosservanza del termine sia accompagnata da dolo o colpa grave dell'arbitro. La disposizione richiamata va letta in combinato disposto, da un lato, con l'art. 821 c.p.c., laddove si sofferma sulla rilevanza del decorso del termine per la pronuncia del lodo e, dall'altro lato, col principio fissato dal comma 4 dell'art. 813-ter c.p.c., secondo cui, se è stato pronunciato il lodo, l'azione di responsabilità può essere proposta soltanto dopo l'accoglimento dell'impugnazione con sentenza passata in giudicato e per i motivi per cui l'impugnazione è stata accolta. Con riguardo alla prima delle due menzionate disposizioni, occorre dire che secondo l'art. 821 c.p.c. la mera scadenza del termine non rileva, in mancanza di un'eccezione formulata dalla parte interessata con atto notificato alle altre parti ed agli arbitri prima della deliberazione del lodo. Se l'eccezione non viene proposta, dunque, la scadenza del termine è irrilevante, sicché gli arbitri mantengono il potere-dovere di pronunciare il lodo, con conseguente inammissibilità di una eventuale impugnazione ai sensi dell'art. 829, comma 1, n. 6, c.p.c. (per l'ipotesi, cioè, che il lodo sia stato pronunciato dopo la scadenza del termine stabilito, salvo per l'appunto il disposto dell'articolo 821), e, di conseguenza, gli arbitri non possono essere chiamati a rispondere, dal momento che la loro responsabilità sorge solo in caso di annullamento del lodo, e nei limiti in cui l'annullamento — che in questo caso non può esservi — è pronunciato. Viceversa, in caso di formulazione dell'eccezione ex art. 821 c.p.c., trova applicazione il comma 2 della disposizione secondo cui gli arbitri, «verificato il decorso del termine, dichiarano estinto il procedimento», sicché scatta l'obbligo risarcitorio previsto dall'art. 813-ter, comma 1, n. 2, c.p.c.. In particolare, se gli arbitri dichiarano l'estinzione del procedimento, potrà essere intrapresa, da colui che abbia formulato l'eccezione, l'azione risarcitoria nei confronti dell'arbitro o degli arbitri che con dolo o colpa grave abbiano impedito la pronuncia di un lodo. Se gli arbitri rigettano l'eccezione e pronunciano il lodo, si aprirà la strada all'impugnazione del lodo ai sensi dell'art. 829, comma 1, n. 6, c.p.c., all'esito della quale, se vittoriosa, potrà essere chiesto il risarcimento del danno. In dottrina si è infine sostenuto che la responsabilità dell'arbitro ricorrerebbe anche anche in caso di omessa correzione o integrazione, del lodo nel termine di cui all'art. 826 c.p.c. (Auletta, 751). Il rinvio alla responsabilità dei magistratiL'art. 813-ter, comma 2, c.p.c., rinvia all'art. 2, commi 2 e 3, l. n. 117/1988, sulla responsabilità civile dei magistrati. Il rinvio opera in un duplice senso, per un verso circoscrivendo la responsabilità degli arbitri, per altro verso delimitando la nozione di «colpa grave». Sotto il primo aspetto l'art. 2, comma 2, l. n. 117/1988, pur dopo le modifiche apportate dalla l. 27 febbraio 2015, n. 18, esclude che nell'esercizio delle funzioni giudiziarie possa dare luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto o la valutazione del fatto e delle prove. Sotto il secondo aspetto, il rinvio al comma 3 della stessa disposizione definisce «colpa grave», per quanto qui rileva, la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento. Poiché un'azione di responsabilità nei confronti degli arbitri può essere proposta solo a seguito dell'annullamento del lodo ed unicamente fondandosi sul motivo che ha causato l'annullamento, occorre distinguere tra errori di fatto ed errori di diritto: i primi non possono dar luogo a responsabilità risarcitoria in quanto prodotti da colpa grave, giacché l'art. 829 c.p.c. non prevede alcun motivo in tal senso; né al riguardo è prospettabile una impugnazione per revocazione, giacché l'art. 831 c.p.c. non richiama il n. 4 dell'art. 395 c.p.c.; i secondi possono invece dar luogo a responsabilità quando ricorrano le condizioni previste dalla legge, sempre che l'errore di diritto abbia condotto all'annullamento del lodo. La S.C. (della quale non risultano specifiche pronunce riferite ad arbitri) ha in numerose occasioni ribadito che la responsabilità prevista dalla legge n. 117 del 1998, ai fini della risarcibilità del danno cagionato dal magistrato nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, è incentrata sulla colpa grave del magistrato stesso tipizzata secondo ipotesi specifiche ricomprese nell'art. 2 della citata legge, le quali sono riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile, che implica la necessità della configurazione di un quid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 c.c., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come «non spiegabile» e, cioè, senza agganci con le particolarità della vicenda idonee a rendere comprensibile anche se non giustificato l'errore del magistrato. Alla stregua di tale criterio va ravvisato l'errore rilevante ai sensi delle lettere b) e c) del suddetto art. 2, comma terzo, ove il giudice abbia posto a fondamento del suo giudizio elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio di riferimento, mentre lo stesso errore deve essere escluso nell'ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto sussistente una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti ovvero sulla scorta di elementi insufficienti che, però, abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti (Cass. n. 6791/2016; Cass. n .15227/2007; Cass. n. 25133/2006; Cass. n. 16696/2003). Il quantum del risarcimentoL'art. 813-ter, comma 5, c.p.c. pone un tetto al risarcimento dei danni cagionato dalle condotte di inadempimento contrattuale dell'arbitro considerate dalla norma, sempre che non si tratti di condotte caratterizzate da dolo: il triplo del compenso pattuito, o, in mancanza di determinazione convenzionale, del compenso previsto dalla tariffa applicabile. Si tratta di una previsione che ha un qualche tratta di prossimità rispetto a quella dettata per i magistrati, per i quali è previsto che la misura della rivalsa intrapresa dall'amministrazione non può superare, al di fuori anche qui del caso di dolo, una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio (art. 8, comma 3, l. n. 117/1988 (Rubino-Sammartano, 491). È stato tuttavia osservato che, con l'avvenuta abolizione delle tariffe professionali (v. art. 9 l. n. 27/2012, di conversione del d.l. n. 1/2012), detta disposizione si applica solo se le parti e gli arbitri abbiano stipulato un accordo su un criterio applicabile (a meno che non si ritenga che il rinvio alle tariffe oggi debba intendersi come riferito ai parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi nei casi in cui non vi siano accordi tra gli interessati), che può anche rinviare alle vecchie tariffe ovvero ai criteri assunti da una camera arbitrale o a qualsiasi altri criterio, ovvero propriamente sui compensi da corrispondere (Bove, 265). Il riferimento alla «tariffa applicabile» ha suscitato alcuni dubbi destinati a riproporsi qualora si intenda riferito il rinvio dell'art. 813-ter, comma 5, c.p.c., ai parametri, tanto più che gli arbitri potrebbero anche appartenere a categorie professionali per le quali non sono previste tariffe o parametri. Si è al riguardo osservato, in particolare, che il riferimento alle tariffe professionali sarebbe da considerare vincolante solo nel caso di collegi arbitrali formati da appartenenti alla stessa categoria professionale, dovendosi altrimenti far riferimento alla determinazione giudiziale del compenso (Auletta, 758). Vengono inoltre in questione le possibili interferenze tra la responsabilità risarcitoria degli arbitri ed il procedimento previsto dall'art. 814, comma 2, c.p.c., il quale stabilisce che quando gli arbitri provvedono direttamente alla liquidazione delle spese e dell'onorario, tale liquidazione non è vincolante per le parti se esse non l'accettano: in tale ultimo caso, ossia in mancanza di accettazione, l'ammontare delle spese e dell'onorario è determinato con ordinanza dal presidente del tribunale indicato nell'art. 810, comma 2, c.p.c., su ricorso degli arbitri e sentite le parti. Si ritiene, in primo luogo, che la determinazione del compenso, ai fini della liquidazione del risarcimento, possa essere effettuata in via incidentale nel corso del giudizio per il risarcimento dei danni. Occorre interrogarsi, poi, se il procedimento dettato dall'art. 814 c.p.c. per la liquidazione dei compensi degli arbitri possa subire l'interferenza con eventuali profili di responsabilità degli arbitri medesimi. Sorge così la questione se le parti del giudizio arbitrale, convenute dagli arbitri dinanzi al presidente del tribunale per la liquidazione del loro compenso, possano in quella sede resistere alla domanda di liquidazione facendo valere profili di responsabilità tali da determinare la perdita in tutto o in parte del diritto al compenso altrimenti spettante agli arbitri. E si presenta altresì il quesito se il procedimento ex art. 814 c.p.c. debba essere sospeso per la contemporanea pendenza del giudizio di impugnazione del lodo, il quale, potendo portare all'annullamento di questo, potrebbe poi fondare l'insorgenza di una fattispecie di responsabilità degli arbitri, con conseguente perdita del diritto al compenso. La dottrina ha risolto in senso negativo entrambe le questioni sul rilievo che il procedimento di cui all'art. 814 c.p.c. non ha la funzione di accertare se gli arbitri abbiano o meno il diritto al compenso, bensì solo lo scopo di determinarne l'ammontare, essendo in altri termini volto a fissare il quantum debeatur, senza interrogarsi sull'an debeatur, con la conseguenza che di quest'ultimo aspetto parti ed arbitri potranno discutere nell'ambito del processo in cui sia esercitata l'azione di responsabilità (Bove, 265). Resta però possibile per le parti sollevare ogni contestazione in sede di opposizione all'esecuzione (Bove, 265). Secondo altri, perfezionatasi la fattispecie di responsabilità (a seguito dell'annullamento del lodo), il giudice investito ai sensi dell'art. 814 c.p.c. dovrebbe rigettare la domanda degli arbitri, dovendosi, però, in questo caso ricorrere ad una cognizione piena (Auletta, 765). Si è anche sostenuto che il giudice dovrebbe dichiarare inammissibile il ricorso presentato dagli arbitri ai sensi dell'art. 814 c.p.c. ove emerga una contestazione, non sulla quantificazione, bensì sull'an debeatur (Garbagnati, 676). Bisogna ancora soffermarsi sul rapporto tra il giudizio di annullamento del lodo ed il giudizio di responsabilità degli arbitri. Vale in proposito osservare che, se per un verso l'annullamento del lodo è senz'altro condizione necessaria perché possa darsi corso all'azione di responsabilità, per altro verso l'accertamento compiuto in quella sede non dispiega autorità nei confronti degli arbitri, che non hanno preso parte al giudizio d'impugnazione del lodo (contra Zumpano, 151, nt. 16). I principi in materia di limiti soggettivi della cosa giudicata, fanno sì che l'accertamento contenuto nella sentenza che ha pronunciato l'annullamento del lodo non è opponibile agli arbitri, che ben possono affermare l'ingiustizia dell'avvenuto annullamento (Bove, 265). In giurisprudenza, in conformità all'indirizzo dottrinale di cui si è dato conto, è stato affermato che non sussiste alcuna pregiudizialità in senso tecnico giuridico fra il giudizio di impugnazione del lodo arbitrale e il procedimento inerente alla liquidazione del compenso agli arbitri. Sicché la pendenza del giudizio di impugnazione del lodo per nullità, fondata sulla illegittimità della investitura degli arbitri, non impedisce al presidente del tribunale di liquidare il compenso per l'opera prestata ai sensi dell'art. 814 c.p.c., essendo la sua competenza limitata alla determinazione del quantum senza che egli possa conoscere della denuncia di eventuali vizi del procedimento arbitrale (Cass. n. 15051/2012). La pendenza del giudizio di impugnazione del lodo arbitrale non giustifica dunque la sospensione del giudizio di pagamento del compenso dovuto agli arbitri, vertendo le due cause tra soggetti diversi, con conseguente impossibilità di attribuire alla decisione della prima autorità di giudicato ai fini della pronuncia sulla seconda (Cass. n. 15067/2012, concernente fattispecie non soggetta ratione temporis all'art. 813-ter c.p.c.). Ed è stato ribadito che il diritto dell'arbitro di ricevere il pagamento dell'onorario sorge per il fatto di avere effettivamente espletato l'incarico e prescinde dalla validità ed efficacia del lodo: non sussistono, pertanto, i presupposti della sospensione, ex art. 295 o 337 c.p.c., del procedimento instaurato dall'arbitro per ottenere il residuo compenso, già liquidato, in attesa della definizione del giudizio di impugnazione del lodo, la cui eventuale nullità può giustificare solo un'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 813-bis c.p.c. (Cass. n. 24072/2013). Viceversa, secondo un giudice di merito, considerato che l'art. 813-ter, comma 6, c.p.c., prevede espressamente che nei casi di responsabilità dell'arbitro il corrispettivo e il rimborso delle spese non gli sono dovuti, o nel caso di nullità parziale del lodo sono soggette a riduzione, può ritenersi che la decisione della causa di cui è investito il presidente del tribunale ai sensi dell'art. 814, comma, 2 c.p.c. per la liquidazione del corrispettivo e del rimborso delle spese spettanti agli arbitri «dipende» dalla definizione della controversia di cui è investita la corte di appello in sede di impugnazione per nullità del lodo, per cui il procedimento per la liquidazione del corrispettivo e del rimborso delle spese degli arbitri deve essere sospeso ex art. 295 c.p.c. in pendenza del giudizio di impugnazione del lodo (Trib. Sondrio 6 ottobre 2006, in Riv. arb., 2007, 613). Va anche ricordato che la S.C., movendo dal rilievo che il procedimento di cui all'art. 814 c.p.c. dà luogo solo una quantificazione sostitutiva della volontà negoziale, nega a tale procedimento valenza decisoria anche con riguardo alla quantificazione con conseguente inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, potendosi in sede di opposizione all'esecuzione contestare la liquidazione operata sia nell'an che nel quantum (Cass. n. 3069/2013; Cass. S.U., n. 13620/2012; Cass. n. 15592/2009). La perdita del compenso e del rimborso spese e la riduzione di essiL'art. 813-ter, comma 6, c.p.c., stabilisce, come si è detto, che, in caso di responsabilità dell'arbitro, non gli è dovuto il compenso ed il rimborso delle spese, mentre, nel caso di nullità parziale del lodo, sono soggetti a riduzione. La norma, che è stata intesa quale applicazione del principio inadimplenti inadimplendum sancita dall'art. 1460 c.c. (Auletta, 762) riflette un'opinione già manifestata prima della riforma del 2006 (Dimundo, 507). La norma fa discendere la perdita del diritto al compenso ed al rimborso delle spese dall'annullamento del lodo attribuibile a responsabilità dell'arbitro, sicché non rileva la misura dei danni cagionati (Auletta, 761). Con riguardo alla riduzione del compenso e del rimborso spese, in mancanza di indicazione normative sul quantum del taglio, si è affermato che il giudice deve provvedere in base ad una valutazione equitativa avuto riguardo alla gravità della violazione ed alla sua incidenza sulla complessiva attività prestata (Barbieri-Bella, 167) In giurisprudenza si è osservato che l'arbitro che rifiuti di partecipare alla deliberazione del lodo arbitrale, così determinandone la nullità, è responsabile per inadempimento del mandato collettivo ricevuto, con conseguente perdita del diritto al compenso ed obbligo di risarcire il danno, salva la possibilità di esser sostituito, ai sensi dell'art. 813, terzo comma c.p.c. (Cass. n. 6115/2001). Configurabilità di ipotesi atipiche di responsabilitàCi si è chiesti, in dottrina, se si possano ipotizzare ulteriori fattispecie di responsabilità degli arbitri al di fuori del dettato legislativo (Zumpano, 148). In particolare, ci si è soffermati sul quesito se una responsabilità degli arbitri possa poggiare su una violazione, da parte loro, di un obbligo di disclosure (ossia di un obbligo di rendere note situazioni tali da poter astrattamente incidere sulla sua posizione di terzietà) che, pur non previsto in generale dall'ordinamento, grava tuttavia su determinate categorie di professionisti (in particolare gli avvocati) per ragioni deontologiche. Si è al riguardo affermato che la violazione dell'obbligo di disclosure, se è certamente sanzionabile sul piano disciplinare nell'ambito degli ordini professionali, di per sé non comporta un vizio del lodo, che possa quindi condurre all'annullamento del lodo stesso. Ove la parte interessata venga a sapere in uno stato avanzato del giudizio arbitrale di una situazione di carenza di terzietà dell'arbitro che possa giustificare una tardiva istanza di ricusazione e poi, sulla base dell'effetto prenotativo di questa, possa, rigettata l'istanza di ricusazione, fondare in un momento successivo una fondata impugnativa del lodo, con ciò l'annullamento del lodo è causato dalla lesione del diritto della parte alla terzietà dell'arbitro e non direttamente dalla violazione da parte dell'arbitro di un suo obbligo di trasparenza. Insomma, l'annullamento del lodo, anche quando è ipotizzabile un aggiuntivo obbligo di disclosure in capo agli arbitri, è fondato, non sulla violazione di questo obbligo, che di per sé non vizia il lodo, bensì sulla vulnerazione del diritto della parte alla terzietà dell'arbitro. Ma, se l'interprete deve attenersi al principio per cui, dopo la conclusione del giudizio arbitrale un'ipotesi di responsabilità degli arbitri è configurabile solo dopo l'annullamento del lodo e unicamente per il motivo che ha fondato detto annullamento, evidentemente non si può dire che la violazione dell'obbligo di disclosure, ove configurabile, sia fonte di responsabilità degli arbitri, per il semplice fatto che esso, per così dire da sé solo, non può fondare l'annullamento del lodo (Bove, 265). Secondo altri può ipotizzarsi una responsabilità in capo all'arbitro il quale, avendo violato il suo obbligo di disclosure, abbia provocato un ritardo nel procedimento per una ritardata istanza di ricusazione (Auletta, 754). L'arbitro che ometta la segnalazione della situazione tale da compromettere la sua terzietà sarebbe cioè responsabile per i danni cagionati alle parti quanto meno sotto il profilo del ritardo causato con la propria condotta reticente (Rubino Sammartano, 491). È stato inoltre esaminato il caso della mancata comunicazione del lodo nel termine previsto dall'art. 824 c.p.c. e si è detto che non potrebbe escludersi la detta ipotesi di responsabilità in capo agli arbitri (Punzi, 499). Tale soluzione finisce per creare un'eccezione al principio per cui, se è stato pronunciato il lodo, «l'azione di responsabilità può essere proposta soltanto dopo l'accoglimento dell'impugnazione con sentenza passata in giudicato e per i motivi per cui l'impugnazione è stata accolta ». Ma l'eccezione deve essere ammessa, trattandosi di un caso di responsabilità in capo agli arbitri proprio perché il loro comportamento doloso o gravemente colposo ha causato l'impossibilità di giungere all'annullamento del lodo (Bove, 265). Secondo alcuni la responsabilità degli arbitri può derivare dalla violazione del dovere di riservatezza, avuto riguardo al precetto di cui all'art. 52, comma 6, d.lgs. n. 196/2003, secondo cui le parti possono formulare istanza agli arbitri affinché, in caso di divulgazione del lodo, vengano omesse le generalità e ogni altro dato identificativo comunque riferibile alle parti medesime. Si è ritenuto che la violazione di tale obbligo può fondare la responsabilità risarcitoria degli arbitri ex art. 15 del cittao decreto legislativo. Responsabilità degli arbitri nell'arbitrato irritualeSecondo alcuni l'art. 813-ter c.p.c. troverebbe applicazione anche in caso di arbitrato irrituale giacché gli aspetti distintivi tra i due arbitrati rituale ed irrituale non avrebbero alcuna incidenza sullla questione della responsabilità risarcitoria degli arbitri (Auletta, 767). Altri replicano che la disciplina della responsabilità degli arbitri irrituali andrebbe tratta dagli artt. 1349, 1710 e 2236 c.c., in considerazione della menzionata natura negoziale del procedimento (Verde, 161). BibliografiaAuletta, Arbitri e responsabilità civile, in Riv. arb. 2006, 750; Bove, Responsabilità degli arbitri, in Riv. arb. 2014, 265; Cecchella, Il contratto di mandato agli arbitri, in Cecchella (a cura di), L'arbitrato, Torino, 2005; Dimundo, in Alpa (a cura di), L'arbitrato. Profili sostanziali, Torino, 1999; Garbagnati, Sull'ordinanza di liquidazione dell'onorario degli arbitri, in Giur. it. 1968, I, 1, 676; Giovannucci-Orlandi, in Carpi (a cura di), Arbitrato, Bologna, 2001; Mirabelli, Contratti nell'arbitrato, in Riv. arb. 1990, 1; Punzi, Disegno sistematico dell'arbitrato, I, Padova, 2012; Rubino Sammartano, Il diritto dell'arbitrato, Padova, 2006; Schizzerotto, Dell'arbitrato, Milano, 1988; Vecchione, L'arbitrato nel sistema del processo civile, Milano, 1971; Verde (a cura di), Diritto dell'arbitrato, Torino, 2005; Zumpano, Art. 813 ter, in Menchini (a cura di), La nuova disciplina dell'arbitrato, Padova, 2010. |