Codice di Procedura Civile art. 96 - Responsabilità aggravata1.

Rosaria Giordano

Responsabilità aggravata1.

[I]. Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza.

[II]. Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare [669-duodecies], o trascritta domanda giudiziaria [2652 ss., 2690 ss. c.c.], o iscritta ipoteca giudiziale [2818 c.c.], oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.

[III]. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata2 .

[IV]. Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.0003.

 

[1] In tema di equa riparazione, v. art. 2, comma 2-quinquies lett. a), l. 24 marzo 2001, n. 89, ai sensi del quale, in favore della parte soccombente condannata a norma del presente articolo, non è riconosciuto alcun indennizzo.

[2] Comma inserito dall'art. 45, comma 12, della l. 18 giugno 2009, n. 69 (legge di riforma 2009), con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009, per i giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore.

[3] Comma aggiunto dall'art. 3, comma 6, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022, il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale) . Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo sostituito dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n. 197,  che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.".

Inquadramento

Alla problematica dell'abuso del processo, tanto più attuale stante la cronica incapacità degli uffici giudiziari di assicurare giustizia entro termini ragionevoli anche per il carico eccessivo dei ruoli e la carenza di risorse, va ricondotta la responsabilità processuale aggravata disciplinata dall'art. 96 c.p.c. nei commi primo e terzo, attenendo le fattispecie tassativamente previste dal secondo comma alla diversa problematica del difetto di normale prudenza

In particolare, il primo comma dell'art. 96 c.p.c. in tema di responsabilità per lite temeraria configura un'ipotesi specifica di responsabilità extracontrattuale con le relative conseguenze per il richiedente in termini di dimostrazione sia dello stato soggettivo del soccombente che della sussistenza di un danno (e dell'entità dello stesso).

Tali gravosi oneri probatori che rendevano in concreto quasi impossibile ottenere una condanna per lite temeraria e la crisi sempre più grave della giustizia civile hanno indotto il legislatore ad introdurre con la legge 18 giugno 2009 n. 69 una nuova forma di responsabilità aggravata, i cui rapporti con la fattispecie disciplinata dal primo comma sono oggetto di un vivace dibattito in dottrina e nella prassi applicativa.

Premessa

Anche nel nostro ordinamento, l'incapacità degli uffici giudiziari di assicurare giustizia in tempi ragionevoli è diretta conseguenza soprattutto dell'eccessivo carico di lavoro degli stessi, a propria volta determinato negli ultimi decenni nella maggior parte dei sistemi processuali da alcuni fattori economici e sociali che hanno provocato una crisi strutturale della giustizia civile (cfr. Zuckermann 1 ss.).

Il diritto di accesso al giudice per la tutela delle proprie posizioni giuridiche soggettive è, tuttavia, un diritto fondamentale di ciascun individuo, oggi riconosciuto come tale non soltanto dalla nostra e da altre Costituzioni nazionali, ma anche dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. In realtà, nonostante l'art. 6 Cedu non faccia espresso riferimento, nel momento in cui enuclea le garanzie dell'equo processo al diritto di accesso al giudice, la Corte di Strasburgo ha ben presto chiarito che tale garanzia è implicita nel riconoscimento delle altre, le quali, altrimenti, sarebbero prive di ogni significato (Corte Edu, 21 febbraio 1975, Golder c. Royaume Uni, disponibile, come le altre decisioni della Corte, nelle lingue ufficiali inglese e francese, in www.echr.coe.int).

Appare pertanto comprensibile l'esigenza del legislatore di contemperare il diritto di ciascuno di adire un Tribunale per tutelare i propri diritti con quella di evitare che l'eccessivo carico del ruolo rispetto alle risorse spesso esigue messe a disposizione metta a repentaglio la possibilità di assicurare giustizia in tempi accettabili e comportando, quindi, un autentico diniego di giustizia.

Occorre inoltre considerare un aspetto solo in apparenza diverso da quello ora evidenziato: proprio l'opportunità di assicurare che il processo abbia una ragionevole durata rende necessario che tutti gli attori del processo cooperino tra loro affinché lo stesso non divenga la sede per lo svolgimento di attività meramente defatigatorie, finalizzate ad allontanare il più possibile il momento della decisione finale.

Di ciò è consapevole, del resto, la stessa Corte europea dei diritti dell'uomo la quale ha da lungo tempo sottolineato che, onde apprezzare la ragionevole durata di un processo, il giudice deve tener conto anche del comportamento delle parti all'interno dello stesso. Secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo, infatti, il comportamento delle parti in causa costituisce un elemento oggettivo che deve essere valutato per verificare se vi è stata violazione dell'art. 6 Cedu (Corte Edu 30 ottobre 1991, Wiesinger c. Austria,). Tra i comportamenti delle parti che secondo la Corte hanno portata meramente defatigatoria ed incidono negativamente sulla durata del processo è stato, ad es., annoverati l'esperimento di diversi ricorsi nel corso del giudizio, quali istanze di ricusazione, di rinvio ad altro giudice, la proposizione di questioni pregiudiziali demandate alla decisione di un diverso giudice (cfr. Corte Edu 8 giugno 1995, § 66 casi Yagci e Sargin c. Turchia; 29 marzo 1989, § 41, Bock c. Germania; 8 luglio 1987, § 53, Baraona c. Portogallo).

Le premesse sinora svolte ci consentono di meglio enucleare il tema di cui alla norma in esame, ossia la relazione tra la responsabilità delle parti per le spese ed i danni processuali e l'abuso del processo. Invero, a fronte dell'instaurazione di un giudizio ovvero della resistenza all'interno dello stesso con dolo, mala fede o colpa grave di un'azione del tutto pretestuosa o irrituale è stata tradizionalmente prevista la possibilità, per l'altra parte, di chiedere ed ottenere il risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.

Né, peraltro, appare casuale, in ragione delle generali considerazioni sinora effettuate, che l'ambito applicativo di tale previsione normativa sia stato significativamente esteso con la riforma realizzata dalla legge 18 giugno 2009 n. 69 che ha introdotto un nuovo terzo comma nell'art. 96 c.p.c. secondo cui «in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91 c.p.c., il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».

Responsabilità aggravata per lite temeraria

L'art. 96, comma 1, prevede la possibilità del Giudice, su domanda di parte, di condannare al risarcimento del danno per responsabilità aggravata colui che agisce o resistente temerariamente in giudizio con dolo, mala fede o colpa grave

In accordo con una tesi risalente, la disciplina posta dall'art. 96 c.p.c. sarebbe limitata alle ipotesi di responsabilità per procedure ingiuste (ovvero quelle instaurate nonostante la palese inesistenza del diritto sostanziale tutelato (cfr. Bongiorno, 1991, 2 ss.), mentre i danni arrecati da processi condotti senza il rispetto di forme e termini di rito sarebbero regolati dalla norma generale sulla responsabilità civile di cui all'art. 2043 c.c. (Andrioli I, 372).

Più di recente, si è andato invece affermando il diverso orientamento interpretativo per il quale l'art. 96 c.p.c. contiene la disciplina integrale e completa della responsabilità processuale aggravata e si pone con carattere di specialità rispetto all'art. 2043 c.c.

Questa prospettazione, condivisa dalla dottrina prevalente la quale ricostruisce in termini di genere a specie il rapporto tra la responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. e quella per responsabilità aggravata (cfr. Grasso, 1959, 270 ss; Grasso, 1961, I, 1, 93; Satta, 1959, 295 ss; Bongiorno, 1 ss), è stata contestata da Calvosa, 1954, 378 ss, per il quale esiste, invece, una contrapposizione tra l'art. 96 c.p.c. e l'art. 2043 c.c., fondata sull'impossibilità di equiparare la responsabilità processuale ad un fatto illecito (negandosi, altrimenti, il diritto di ciascuno ad agire e resistere in giudizio per la tutela dei propri diritti).

In giurisprudenza appare peraltro ormai consolidata l'impostazione per la qualela responsabilità processuale aggravata per lite temerariacostituisce una forma speciale di responsabilità generale per fatti illeciti, la quale ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sebbene relative all'irrituale esercizio di un'azione, sotto la disciplina dell'art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità (v., ex multis, Cass. VI, n. 12029/2017; Cass. n. 5069/2010; Cass. n. 13455/2004, la quale ha dichiarato inammissibile l'azione di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. proposta dall'esecutato per il ristoro del pregiudizio derivante da attività processuale ingiusta, restando indifferente, a tal fine, che detta attività sia tale perché non sorretta da titolo legittimo o perché svolta in forma non rituale; Cass. n. 15551/2003; Cass. n. 3573/2002). La domanda di responsabilità processuale aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. è pertanto caratterizzata da una propria causa petendi che deve essere specificata dalla parte che intenda ottenere la relativa condanna della controparte e deve quindi escludersi che la stessa possa essere compresa nella generica richiesta di risarcimento danni proposta dalla parte (Cass. 21590/2009).

Inoltre l'esigenza di evitare che le parti utilizzino alcuni strumenti processuali predisposti per finalità legittime in via meramente defatigatoria, ha da tempo indotto la giurisprudenza ad individuare alcune peculiari ipotesi di responsabilità ex art. 96 c.p.c. le quali si ricollegano anche all'uso di determinati mezzi processuali per finalità diverse rispetto a quelle previste dal legislatore. In questo caso l'illecito può definirsi plurioffensivo, in quanto tali condotte non soltanto pregiudicano l'altra parte ma sono idonee anche ad arrecare danno all'amministrazione della giustizia comportando, ad es., lo svolgimento di attività processuale inutile (DondiGiussani, Appunti sul problema dell'abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 193 ss).

È soprattutto in relazione a tali prassi che, il parametro della soccombenza tende ad assumere un nuovo ruolo, ovvero quello di indizio della cattiva gestione dello strumento processuale (Picardi, 2013) che, laddove abusiva e recante un pregiudizio all'altra parte, può giustificare la condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96 c.p.c.

Ad esempio, sino alla riforma realizzata dalla l. n. 353/1990, lo strumento della responsabilità aggravata per lite temeraria si è rivelato estremamente importante per la S.C. quale baluardo per evitare la proposizione di regolamenti preventivi di giurisdizione del tutto pretestuosi ed aventi finalità meramente dilatorie.

Occorre, infatti, ricordare che nell'assetto previgente alla c.d. novella dell'art. 367 c.p.c. ad opera della l. n. 353/1990, la proposizione del regolamento preventivo determinava automaticamente la sospensione del processo in corso e, pertanto, la Corte di Cassazione, onde arginare tale prassi, iniziò a sanzionare con la responsabilità aggravata i casi di abuso più evidente del regolamento, proposto per finalità esclusivamente dilatorie, soprattutto in alcune materie, nelle quali coloro che volevano procrastinare l'emanazione di una decisione di merito sfavorevole consapevoli del fatto che la tardiva emanazione avrebbe privato la stessa di ogni efficacia pratica (cfr. Picardi, 63, per l'efficace esempio del contenzioso in materia elettorale) (v., tra le altre, Cass. S.U., n. 3199/1989, per la quale nei riguardi del cittadino elettore, che impugni il risultato delle elezioni amministrative, e poi veda ritardare la decisione, in relazione al regolamento preventivo di giurisdizione da altri pretestuosamente proposto a fini dilatori, non può negarsi il verificarsi di un danno risarcibile, ai sensi dell'art. 96, comma primo, c.p.c., essendo tale danno identificabile, pur in difetto di una posizione di diritto soggettivo suscettibile di essere incisa da detto ritardo, nei maggiori oneri provocati con riguardo alla impugnativa, per cui era legittimato, dalla temeraria iniziativa processuale della controparte; Cass. n. 365/1992).

La riforma, peraltro, non ha costituito un argine assoluto rispetto all'affermazione della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. a fronte della proposizione del tutto pretestuosa di un regolamento preventivo di giurisdizione. La Corte di Cassazione non ha esitato, invero, ad emanare pronunce di condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria in ragione della proposizione di regolamenti preventivi di giurisdizione nella consapevolezza o l'ignoranza gravemente colpevole circa l'inammissibilità degli stessi. Il caso di scuola è rappresentato dalla proposizione del regolamento, deducendo un problema di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in una controversia tra privati cui è del tutto estranea la Pubblica Amministrazione (Cass.S.U., n. 2420/2002). La proposizione del regolamento di giurisdizione è, inoltre, considerata temeraria dalla S.C. laddove la questione controversa alla base dello stesso non attenga alla giurisdizione bensì al merito. Proprio sull'assunto per il quale la questione relativa all'assoggettabilità o meno al fallimento di un imprenditore attiene al merito e non alla giurisdizione, non potendo essa implicare un ipotetico difetto di giurisdizione del tribunale fallimentare adito nemmeno nel caso in cui si prospetti l'assoggettabilità dell'imprenditore stesso a liquidazione coatta amministrativa, poiché l'eventuale fondatezza di tale ipotesi sarebbe destinata ad incidere soltanto sul contenuto della pronuncia del tribunale, la Corte di Cassazione ha invero condannato il ricorrente al risarcimento danni per responsabilità aggravata in quanto la proposizione di un regolamento di giurisdizione privo del riscontro preventivo nell'esercizio di un minimo di elementare diligenza dell'erroneità della propria tesi alla stregua della disciplina positiva e dello stato della giurisprudenza, integrando tale difetto di diligenza gli estremi di un comportamento processuale tanto funzionale ad un uso distorto del regolamento — evidentemente introdotto a fini meramente dilatori — quanto gravido di conseguenze pregiudizievoli per la controparte (Cass. S.U., n. 12248/2002).

La ricostruzione della responsabilità processuale c.d. aggravata quale forma speciale di illecito civile rispetto al modello generale contemplato dall'art. 2043 c.c. comporta, in primo luogo, per la configurabilità della stessa, la necessaria sussistenza di un peculiare stato soggettivo del soccombente che abbia invero resistito in giudizio con dolo, mala fede o colpa grave. A riguardo, la S.C. ha evidenziato che la condanna per responsabilità processuale aggravata, per lite temeraria, quale sanzione dell'inosservanza del dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è tenuta, non può derivare dal solo fatto della prospettazione di tesi giuridiche riconosciute errate dal giudice, occorrendo che l'altra parte deduca e dimostri nell'indicato comportamento dell'avversario la ricorrenza del dolo o della colpa grave, nel senso della consapevolezza, o dell'ignoranza, derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell'infondatezza delle suddette tesi (Cass. n. 15629/2010). Più di recente, si è evidenziato che, in tema di responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., il carattere temerario della lite, che costituisce presupposto della condanna al risarcimento dei danni, va ravvisato nella coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta consapevolezza, non già nella mera opinabilità del diritto fatto valere. (Cass. I, n. 3464/2017).

Comunque sia, la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale al momento della proposizione della lite esclude, ab origine, la mala fede o la colpa grave della parte processuale e comunque la sussistenza dei presupposti per la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. (Cass. 3 maggio 2011 n. 9697). La condanna al risarcimento del danno per lite temeraria postula quindi una condotta processuale dalla quale emerga, al di là di ogni ragionevole dubbio, la malafede, la strumentalità dell'attività processuale ovvero un'inescusabile negligenza oggettiva (cfr., tra le altre, App. Roma, sez. III, 1 marzo 2011 n. 842). Peraltro, l''accertamento, ai fini della condanna al risarcimento dei danni da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., dei requisiti dell'aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (comma primo) ovvero del difetto della normale prudenza (comma secondo) implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità se la sua motivazione in ordine alla sussistenza o meno dell'elemento soggettivo ed all'an ed al quantum dei danni di cui è chiesto il risarcimento risponde ad esatti criteri logico-giuridici (Cass. n. 327/2010).

Applicando i superiori principi generali si è ritenuto, ad esempio, che incorre in responsabilità aggravata ex art. 96, comma primo, c.p.c., il creditore il quale chieda ed ottenga un provvedimento monitorio nei confronti del debitore dopo che quest'ultimo abbia pagato l'intera sorte capitale, a nulla rilevando che, nel successivo giudizio di opposizione, il debitore stesso venga condannato — previa revoca del decreto ingiuntivo — al pagamento degli interessi moratori (Cass. n. 9033/2010). Secondo la giurisprudenza anche recente delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione costituisce causa di responsabilità processuale aggravata, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 96 c.p.c., la proposizione di regolamento di giurisdizione senza il riscontro preventivo — nell'esercizio di un minimo di elementare diligenza — dell'erroneità della propria tesi alla stregua della disciplina positiva e della giurisprudenza, costituendo tale difetto di diligenza un elemento rivelatore di un uso distorto del regolamento ai fini meramente dilatori, oltre che, secondo nozioni di comune esperienza, fonte di conseguenze pregiudizievoli per le controparti (cfr. Cass.S.U. n. 3057/2009, con un principio affermato con riguardo al ricorso per regolamento erroneamente diretto ad ottenere la declaratoria del difetto della giurisdizione italiana sulla istanza di fallimento contro società avente sede in Italia al momento del deposito di tale atto e successivamente trasferitasi in Stato extracomunitario).

Peraltro, nella prassi l'ostacolo più rilevante al riconoscimento della responsabilità aggravata del litigante temerario è sempre stato quello correlato alla ricostruzione di tale responsabilità quale fattispecie speciale rispetto all'art. 2043 c.c., con conseguente necessità per il richiedente di dimostrare non soltanto la temerarietà della lite ma anche di avere subito uno specifico danno-conseguenza a causa della stessa. Ricorrente nella giurisprudenza di legittimità è invero l'affermazione del principio per il quale in tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, che ha natura extracontrattuale, la domanda di cui all'art. 96 c.p.c. richiede pur sempre la prova incombente alla parte istante sia dell' an , sia del quantum debeatur o che, pur essendo la liquidazione effettuabile d'ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa (v., tra le molte, Cass. n. 13395/2007).

In tale direzione, già prima dell'introduzione del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., si era peraltro registrata una significativa evoluzione in quella parte della giurisprudenza di merito che aveva ritenuto di attenuare la richiesta prova del pregiudizio subito da parte del danneggiato evidenziando, premesso che la parte la quale debba sostenere una lite va incontro ad una serie di disagi quali, a titolo di esempio, l'apprensione connessa all'esito del giudizio, la perdita di tempo e di danaro per la ricerca della documentazione probatoria e per la consultazione del proprio legale, e via discorrendo, qualora tali aggravi non siano quelli normali, frutto di una normale dialettica processuale, ma, al contrario, quelli particolarmente ampliati e odiosi connessi ad una subita aggressione con una lite del tutto temeraria, ben risulta fondata la richiesta di risarcimento ex art. 96 c.p.c. e, in mancanza di una precisa prova sull'ammontare del danno, questo può sicuramente essere liquidato secondo equità avendo riguardo ai parametri relativi all'indennizzo per l'irragionevole durata del processo (Trib. Milano VIII, 22 marzo 2006 n. 3662, in Corr. mer., 2006, n. 11, 1263, con nota di Gradi; Trib. Milano, 14 maggio 2003, in Foro pad., 2003, I, 424, con nota di Marchesi; App. Firenze, sez. I, 3 marzo 2006, in Resp. civ. prev., 2006, n. 11, 1915, con nota di Pucci). Si è precisato che ciò non comporta il riconoscimento di un danno in re ipsa, che sarebbe contrario alla logica della necessaria individuazione del danno come danno-conseguenza, bensì di prendere atto, secondo nozioni di comune esperienza, che il subire iniziative giudiziarie e/o resistenze temerarie a pretese giudiziali, comporta, per il fisiologico «scarto» fra la liquidazione delle spese giudiziali — che obbedisce a tariffe predeterminate e, per gli onorari, contempla una discrezionalità del giudice nella liquidazione, sia pure sulla base di elementi del caso concreto — e quanto normalmente riconosciuto nel rapporto tra cliente e difensore. In questa ottica, una volta riconosciuta la temerarietà della lite, in mancanza di dimostrazione di concreti e specifici danni patrimoniali conseguiti al suo svolgimento, è giustificabile che il giudice, avuto riguardo a tutti gli elementi della controversia ed anche alle spese giudiziali che concretamente comporterebbero alla parte vittoriosa, attribuisca alla parte vittoriosa il riconoscimento di un danno patrimoniale procedendo alla sua liquidazione in via equitativa (cfr. Trib. Bari II, 24 febbraio 2011 n. 704).

Tuttavia, la domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. non può trovare accoglimento tutte le volte in cui la parte istante non abbia assolto all'onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (Trib. Pisa, 12 ottobre 2016, n. 1257).

Tale impostazione è stata peraltro condivisa anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione la quale ha affermato che relativamente all'entità del danno sofferto per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., se l'esistenza e la prova devono essere offerte dall'istante sia per quanto concerne l'an sia per il quantum debeatur (v., in senso rigoroso, Cass. sez. lav., n. 9080/2013), il pregiudizio derivante da condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, può desumersi da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111, comma secondo, Cost.) e della legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l'id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali, causano ex se anche danni di natura psicologica che, per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass. n. 3993/2011, in Il civilista, 2011, n. 5, 18, con nota di Buffone). Analogamente, si è affermato che, una volta riconosciuta la temerarietà della lite, in mancanza di dimostrazione di concreti e specifici danni patrimoniali conseguiti al suo svolgimento, è giustificabile che il giudice, avuto riguardo a tutti gli elementi della controversia, ed anche alle spese giudiziali che concretamente competerebbero alla parte vittoriosa, attribuisca alla parte vittoriosa il riconoscimento di un danno patrimoniale procedendo alla sua liquidazione in via equitativa (Cass. n. 20995/2011). Resta tuttavia fermo che, come ribadito anche di recente, la domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.non può trovare accoglimento tutte le volte in cui la parte istante non abbia assolto all'onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (Cass. III, n. 21798/2015; Cass. S.U., n. 7583/2004).

Sotto altro aspetto, va ricordato che proprio perché l'art. 96 c.p.c. si pone in rapporto di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando nella generale responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del citato art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra le due fattispecie, risultando conseguentemente inammissibile la proposizione di un autonomo giudizio di risarcimento per i danni asseritamente derivati da una condotta di carattere processuale, i quali devono essere chiesti esclusivamente nel relativo giudizio di merito (v., da ultimo, Cass. III, n. 36593/2023).

Ai fini della condanna del soccombente al risarcimento dei danni subiti dall'altra parte per effetto della temerarietà della lite ex art. 96, primo comma, c.p.c. è sempre necessaria una domanda di tale parte. A riguardo, è opportuno ricordare che la Corte Costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 96, comma primo, c.p.c., censurato, in riferimento agli art. 3,24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che la condanna per lite temeraria necessita della istanza di parte, evidenziando che non sussiste violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della diversità di trattamento rispetto alla disciplina delle spese processuali, poiché trattasi di ipotesi ontologicamente differenziate, collocandosi la responsabilità aggravata nell'area della responsabilità civile, con conseguenti profili risarcitori, in relazione ai quali si pongono problemi di onere probatorio a carico del richiedente, e ritenendo inconferente il richiamo operato dall'ordinanza di rimessione agli artt. 24 e 111 Cost., i quali hanno riguardo al diritto alla tutela giurisdizionale ed al giusto processo, che, invece, non vengono in discussione nel sistema delineato dall'art. 96 c.p.c., che ha finalità risarcitoria e sanzionatoria (Cass. n. 435/2008). Tuttavia, si ritiene comunemente che la domanda di condanna ex art. 96 c.p.c. sfugga alle ordinarie preclusioni, essendo correlata, peraltro, anche all'andamento del giudizio e, pertanto, che possa essere proposta in sede di comparsa conclusionale ed anche in appello. Sotto quest'ultimo profilo, è stato nondimeno precisato, in sede di legittimità, che la domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta per la prima volta nella fase di gravame solo con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio, quali la colpevole reiterazione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero la proposizione di censure la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame, e non è soggetta al regime delle preclusioni previste dall'art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all'agire od al resistere in giudizio, sicché non può essere esercitato in via di azione autonoma (Cass. VI, n. 1115/2016). Analogamente, è stato chiarito che l'istanza di condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta anche nel giudizio di legittimità per il risarcimento dei danni causati dal ricorso per cassazione, purché essa sia formulata nel controricorso con una prospettazione della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso, essendo altrimenti impedito alla Corte l'accertamento complessivo della soccombenza dolosa o gravemente colposa, la quale deve valutarsi riguardo all'esito globale della controversia e, quindi, rispetto al ricorso nella sua interezza (Cass. V, n. 21805/2012).

La S.C. ha più volte ribadito che il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, di cui all'art. 96 c.p.c., a fronte dell'integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un'ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicchè non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell'art. 92 c.p.c. (cfr. Cass. II, n. 18036/2022; Cass. VI, n. 9532/2017).

Sempre sul piano processuale, quanto alla competenza a conoscere della domanda ex art. 96 c.p.c. è consolidata la tesi per la quale la stessa spetta allo stesso giudice investito della controversia di merito. A riguardo, si è precisato, in sede di legittimità, che in tema di responsabilità aggravata, la norma dell'art. 96 c.p.c, nell'affidare al giudice avanti al quale si è agito o resistito ed a quello che ha compiuto l'accertamento dell'inesistenza del diritto il compito di essere investito della relativa istanza, non pone una regola di competenza, cioè non indica avanti a quale giudice si può esercitare un'azione di cui l'istanza è espressione, ma disciplina un fenomeno che si colloca all'interno di un processo già pendente e che si esprime nell'esercizio da parte del litigante di un potere all'interno di esso — quello di formulazione di un'istanza (e non della proposizione di un'azione) — il cui esercizio impone al giudice di provvedere sull'oggetto della richiesta, la quale, dunque, è strettamente collegata e connessa all'agire o al resistere in giudizio, di talché il potere di rivolgere l'istanza — essendo previsto come potere endoprocessuale collegato e connesso all'azione o alla resistenza in giudizio — non può essere considerato (salvo il caso eccezionale che il suo esercizio sia rimasto precluso in quel processo da ragioni attinenti alla sua struttura e non dipendenti dall'inerzia della parte) come potere esercitabile al di fuori del processo e, quindi, suscettibile di essere esercitato avanti ad altro giudice, cioè in via di azione autonoma (il che potrebbe determinare anche il rischio di un conflitto di giudicati: Cass. n. 26004/2010). Pertanto, quando tale esercizio avvenisse non ricorrerebbe una situazione di esercizio di un'azione davanti a un giudice diverso da quello che sarebbe stato competente, bensì l'esercizio di un'azione per un diritto non previsto dall'ordinamento, il quale appunto prevede il diritto di vedersi liquidare il danno da responsabilità aggravata (nelle due ipotesi previste dai due commi dell'art. 96) soltanto come espressione del diritto di azione esercitato in un processo a tutela della situazione giuridica soggettiva principale che vi sia dedotta e, quindi, come diritto che di tale situazione è conseguenza e che, perciò, lo è anche dell'azione con cui essa è fatta valere (in via attiva o passiva) (Cass. n. 2333/2011).

In tale prospettiva, si è ritenuto, ad esempio, che l'opposizione alla dichiarazione di fallimento e l'azione di responsabilità aggravata, introdotta ai sensi dell'art. 96 c.p.c., con riguardo all'iniziativa assunta con l'istanza di fallimento, sono legate da un nesso d'interdipendenza da cui consegue la competenza funzionale, esclusiva ed inderogabile del giudice della predetta opposizione su entrambe e l'improponibilità in separato giudizio dell'azione risarcitoria (Cass. n. 10230/2010).

Analogamente, si è affermato che competente a decidere sull'an e sul quantum della domanda ex art. 96 c.p.c., qualora riguardi l'instaurazione illegittima di un procedimento di esecuzione forzata, è il giudice dell'opposizione alla stessa (Cass. n. 24538/2009).

Tuttavia, è stato recentemente precisato che l'azione di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. non può, di regola, esercitarsi in un giudizio separato ed autonomo rispetto a quello da cui la responsabilità stessa ha origine, salvo che la sua proposizione sia stata preclusa per l'evoluzione propria dello specifico processo da cui detta responsabilità è scaturita, ovvero per ragioni non dipendenti dalla inerzia della parte. (Cass. VI, n. 12029/2017, con nota di Agnino ; Cass. I, n. 10518/2016, in una fattispecie nella quale la ricorrente aveva proposto la domanda risarcitoria nel giudizio di opposizione all'esecuzione, poi rinunciandovi per non ostacolarne la rapida definizione e reiterandola in quello di opposizione a decreto ingiuntivo per paralizzare, almeno parzialmente, la domanda della controparte). Salvo tale profilo, resta ferma la regola generale secondo cui la domanda di risarcimento danni ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. deve essere formulata necessariamente nel giudizio che si assume temerariamente iniziato o contrastato, non potendo essere proposta in via autonoma, riguardando un'attività processuale che come tale va valutata nel giudizio presupposto da parte del medesimo giudice, anche per esigenze di economia processuale e per evitare pronunce contraddittorie nei due giudizi (cfr. Cass. n. 32029/2019).

Sempre in tema di competenza sulla domanda di responsabilità processuale aggravata, le Sezioni Unite hanno sancito il principio in virtù del quale il giudice tributario può conoscere anche la domanda risarcitoria proposta dal contribuente ai sensi dell'art. 96 c.p.c., potendo, altresì, liquidare in favore di quest'ultimo, se vittorioso, il danno derivante dall'esercizio, da parte dell'Amministrazione finanziaria, di una pretesa impositiva «temeraria», in quanto connotata da mala fede o colpa grave, con conseguente necessità di adire il giudice tributario, atteso che il concetto di responsabilità processuale deve intendersi comprensivo anche della fase amministrativa che, qualora ricorrano i predetti requisiti, ha dato luogo all'esigenza di instaurare un processo ingiusto (Cass.S.U. ord. n. 13899/2013).

E' stato da ultimo ribadito che il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, di cui all'art. 96 c.p.c., a fronte dell'integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un'ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicchè non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell'art. 92 c.p.c.(Cass. n. 18036/2022, fattispecie nella quale la S.C., confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto che il pieno accoglimento in favore della odierna parte resistente della domanda di usucapione rispetto al rigetto di quella per lite temeraria fa escludere la contrapposizione di una pluralità di domande tale da giustificare la reciproca soccombenza).

Responsabilità per difetto di normale prudenza

Il comma 2 della norma in esame prevede che il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziaria, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata, condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza (in arg., tra gli altri, Carnelutti, 1925, II, 199 ss.; Coniglio, 365 ss.).

Tale previsione normativa, avendo carattere eccezionale, trova applicazione con limitato riguardo alle fattispecie contemplate espressamente dalla stessa e che devono in sostanza ricondursi all'incauto compimento di attività di natura latamente esecutiva ai danni della parte a seguito dell'accertamento dell'insussistenza del diritto in base al quale tale attività era stata posta in essere.

Ai fini dell'assenza di normale prudenza, peraltro, la giurisprudenza è incline a richiedere esclusivamente la sussistenza della colpa lieve (Cfr. Cass. n. 6808/2002, con riferimento alla fattispecie di esecuzione di un sequestro nei confronti di un soggetto privo di legittimazione passiva).

Con riferimento, in primo luogo, alla responsabilità aggravata correlata all'accertamento dell'inesistenza di un diritto rispetto al quale la parte apparentemente titolare dello stesso abbia posto in essere un'attività di carattere esecutiva o attuativa in senso lato, occorre evidenziare, in termini generali, chela giurisprudenza ha interpretato estensivamente la nozione di inesistenza del credito, ritenendo corrispondente alla stessa la situazione nella quale il credito accertato sia di gran lunga inferiore, ad esempio eccedendo di un terzo, rispetto ai beni pignorati, ipotecati o oggetto di un provvedimento cautelare come il sequestro conservativo (v., tra le altre, Cass. n. 21263/2009; Cass. n. 1037/1994).

Andando a considerare la recente esperienza applicativa, 

la S.C. ha affermato che, in caso di iscrizione di ipoteca giudiziale su beni il cui valore sia eccedente rispetto all'importo del credito vantato, il creditore può essere chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 2043 c.c. per il danno subìto dal debitore consistente nella difficoltà o impossibilità della negoziazione dei beni medesimi ovvero nella difficoltà di accesso al credito; invero, la previsione della speciale responsabilità processuale ex art.96 c.p.c. - quale responsabilità del soccombete che abbia abusato del diritto di agire o resistere in giudizio - non esclude l'applicabilità della disciplina generale dell'illecito civile, atteso che il creditore è tenuto ad una condotta prudente e diligente, nonché informata al rispetto dei principi di buona fede e correttezza, non solo in caso di ricorso a rimedi processuali, bensì, ancor prima, nell'attuazione dei propri diritti contrattuali o negoziali, e dunque anche del diritto di garanzia, il quale deve essere esercitato in termini consentanei con la sua funzione di mezzo volto a creare una situazione di preferenza rispetto agli altri creditori, e non per determinare situazioni di discredito sociale e professionale e, conseguentemente, di blocco del patrimonio e dell'attività del debitore (Cass. III, n. 39441/2021).

La S.C. precedentemente aveva affermato il principio per il quale l'iscrizione d'ipoteca giudiziale in base ad un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo può essere fonte di responsabilità processuale aggravata ai sensi del comma secondo dell'art. 96 c.p.c., esclusivamente nell'ipotesi d'inesistenza del credito (v., più di recente, in termini generali, Cass. I, n. 23271/2016, ma non quando il valore dei beni assoggettati ad ipoteca sia largamente superiore all'ammontare del credito azionato in via monitoria, atteso che il creditore non incontra alcun limite quantitativo alla sua possibilità d'iscrivere ipoteca su tutti i beni costituenti, ai sensi dell'art. 2740 c.c., il patrimonio con il quale il debitore è tenuto all'adempimento delle sue obbligazioni (Cass. n. 13107/2010). La Corte di Cassazione ha quindi precisato che nell'ipotesi di pignoramento eseguito in modo da sottoporvi beni di valore eccedente il credito per cui si procede, non è possibile ravvisare un caso di esercizio dell'azione esecutiva per un credito inesistente, essendo il mezzo per dolersi di tale eccesso non già una domanda da proporsi al giudice della cognizione, bensì una domanda di riduzione da presentare al giudice dell'esecuzione. Infatti, quando non si sia in presenza dell'esercizio di azione esecutiva in assenza di credito, non è configurabile una responsabilità processuale aggravata per colpa, in base al comma secondo dell'art. 96 c.p.c., potendosi al più discutere di responsabilità ai sensi del comma 1 di detto articolo dinanzi al giudice dell'esecuzione chiamato a provvedere sulla domanda di riduzione (Cass. n. 13107/2010, cit.).

La responsabilità processuale aggravata ex art. 96, comma 2, c.p.c., con riferimento all'iscrizione dell'ipoteca giudiziale sussiste quando è inesistente il diritto per il quale l'iscrizione è avvenuta, avendo come presupposto l'ingiustizia dell'iscrizione e non la semplice sua illegittimità: ne consegue che detta responsabilità si deve escludere quando il diritto sussista e ciò anche se il titolo in base al quale si è proceduto all'iscrizione sia stato formato illegittimamente (Cass. I, n. 23271/2016; Trib. Roma IV, 8 febbraio 2017, n. 2498).

Non si può trascurare, sotto un distinto profilo, che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito, risolvendo il contrasto precedentemente invalso nella giurisprudenza di legittimità, che qualora la parte che ha promosso un giudizio avente ad oggetto beni immobili abbia proceduto alla trascrizione della domanda giudiziale al di fuori dei casi di cui agli artt. 2652 e 2653 c.c., cioè compiendo una trascrizione illegittima, in assenza di una specifica previsione legislativa che radichi presso il medesimo giudice, ai sensi dell'art. 96 c.p.c., la competenza a decidere anche la domanda di risarcimento danni promossa dalla controparte in conseguenza di tale illegittima trascrizione, deve ritenersi che quest'ultima domanda possa essere proposta anche in un diverso giudizio, ai sensi dell'art. 2043 c.c. Secondo le Sezioni Unite, in questo caso, infatti, l'accertamento che il giudice è chiamato a compiere — relativo alla verifica dell'esistenza di una norma sostanziale che consenta o meno la trascrizione della domanda giudiziale — ha per oggetto un fatto diverso da quello dell'altro giudizio; tale lettura del sistema, idonea alla maggiore tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantito, consente al danneggiato di ottenere il risarcimento anche in ipotesi di colpa lieve, che rimarrebbero escluse ove la domanda risarcitoria fosse proponibile solo in base all'art. 96 c.p.c. (Cass.S.U., n. 6597/2011). In altri termini, l'azione di risarcimento del danno subito in conseguenza della trascrizione di una domanda giudiziale trova il suo titolo giuridico nell'art. 2043 c.c. nell'ipotesi di domanda non trascrivibile, in quanto non ricompresa in nessuno dei casi previsti dagli art. 2652 e 2653 c.c., dovendosi ravvisare nella formalità eseguita contra legem, un vero e proprio fatto illecito, di talché la domanda di risarcimento dei danni può, in tale fattispecie, essere proposta in un separato processo e non soltanto nel corso del giudizio relativo alla pronuncia di merito, mentre l'azione risarcitoria trova invece fondamento nell'art. 96, comma secondo, c.p.c., che disciplina la responsabilità processuale aggravata, nell'ipotesi di domanda che, pur essendo astrattamente suscettibile di trascrizione, in concreto non poteva esserlo, non sussistendo il diritto che con quella domanda viene fatto valere (trascrizione ingiusta), sicché solo in tale evenienza è preclusa la possibilità di accertare il danno in un giudizio autonomo.

Nell'affermare l'orientamento sopra richiamato, le Sezioni Unite hanno disatteso la tesi, in precedenza prevalente nella medesima giurisprudenza di legittimità (Cfr., in omaggio all'insegnamento di Cass.S.U. n. 874/1984, in Foro it., 1984, I, 1892, con nota di Pioli, In tema di art. 96 c.p.c. e di giudizi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo, Cass. n. 5069/2010; Cass. n. 28226/2008; Cass. n. 16308/2007; Cass. n. 13455/2004), per la quale la trascrizione illegittima rientrerebbe nel campo di applicazione dell'art. 96, comma primo, c.p.c. mentre la trascrizione ingiusta sarebbe contemplata dal comma secondo della medesima norma, circostanza da cui discenderebbe che, nel caso di trascrizione di domanda al di fuori delle ipotesi normativamente previste, l'applicabilità dell'art. 96, comma primo, c.p.c. precluderebbe la possibilità di invocare i principi generali della responsabilità per fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c. e, di conseguenza, la possibilità di agire in separato giudizio per il relativo risarcimento del danno, a prescindere dal passaggio in giudicato della sentenza che rigetta la domanda illegittimamente trascritta (così, ex ceteris, Cass. n. 18344/2010; Cass. n. 24538/2009; Cass. n. 9297/2007).

Stante la generale coincidenza tra il giudice che decide sull'inesistenza del diritto e quello chiamato a delibare sulla domanda di risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96, secondo comma, c.p.c., la S.C. ha ribadito, anche di recente, che colui il quale intende richiedere il risarcimento del danno per l'eseguita esecuzione forzata illegittima può agire soltanto, ai sensi dell'art. 96, comma secondo, c.p.c. (quale norma speciale rispetto all'art. 2043 c.c.), dinanzi al giudice dell'opposizione all'esecuzione, funzionalmente competente sia sull'an che sul quantum, con la conseguente inammissibilità di una domanda di condanna generica, con riserva di agire in un separato giudizio per il quantum, che, per espressa previsione normativa, può essere liquidato anche d'ufficio (Cass. n. 10960/2010; in senso conforme, tra le altre, Cass. n. 8239/2003; Cass. n. 4030/1995; cfr., in sede di merito, Trib. Modena I, 30 gennaio 2009 n. 112).

Condanna del soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata

Il comma 3 dell'art. 96 c.p.c., introdotto dalla l. n. 69 del 2009, prevede che «in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».

Tale previsione appare innovativa rispetto al tradizionale sistema della responsabilità processuale aggravata sotto diversi profili.

In primo luogo, invero, occorre osservare che la stessa prevede la possibilità che la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a carico del soccombente venga comminata anche dal giudice d'ufficio, ossia a prescindere da qualsiasi istanza dell'altra parte [Cecchella, 89; Giordano (-Asprella), 16], in ciò discostandosi evidentemente dalle fattispecie dei due precedenti commi che, sono correlate ad una domanda di parte. La condanna alla pena pecuniaria prevista dal terzo comma dell'art. 96 c.p.c. avvicina, quindi, in tale direzione l'art. 96 c.p.c. alla condanna alle spese di lite, che deve essere comminata dal Giudice anche d'ufficio quando chiude il processo dinanzi a sé (cfr. Graziosi, § 2).

Inoltre, almeno secondo l'opinione prevalente tra i commentatori della riforma, basata su un'interpretazione letterale del dettato normativo, la condanna di cui all'odierno terzo comma dell'art. 96 c.p.c. si discosta nettamente dalle ipotesi tradizionali di responsabilità processuale aggravata poiché, ai fini della comminatoria della stessa, non è necessario che la parte vittoriosa abbia subito un danno a causa del processo, i.e. che dimostri, anche in via presuntiva, di aver subito un pregiudizio (Ghirga, 441 ss.).

In considerazione della difficoltà nel dimostrare l'esistenza di un danno correlato all'instaurazione e conduzione del processo, che, come già evidenziato, rendeva molto rare le ipotesi di condanna ex art. 96 c.p.c., sarebbe quindi stata introdotta una sorta di responsabilità processuale oggettiva del soccombente (Cecchella, 89), correlata ad un'incauta instaurazione del giudizio volta ad evitare processi pretestuosi, che prescinde sia nell'an che nel quantum dall'eventuale danno subito per questo dall'altra parte (Ghirga, 441 ss.).

Sotto un distinto profilo, sembra dalla lettera del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., che si apre invero con l'incipit «in ogni caso», la nuova forma di responsabilità processuale aggravata prescinda anche dalla sussistenza di un illecito, caratterizzato sul piano soggettivo da dolo o colpa grave, in capo alla parte condannata (Cecchella, 89; Ghirga, 459). In tale prospettiva, obiettivo precipuo della nuova previsione sarebbe porre un freno alle controversie che, sebbene non «temerarie», siano comunque prive di reale contenuto o semplicemente esplorative o intimidatorie [Bucci (-Soldi), 78].

Peraltro, una parte della dottrina ha a riguardo evidenziato che sarebbe necessario rendere l'art. 96, terzo comma, c.p.c. oggetto di un'interpretazione costituzionalmente orientata, allo scopo di evitare che il nuovo istituto si trasformi in un illegittimo limite all'esercizio dei diritti processuali sanciti dall'art. 24 Cost., temperando il drastico «in ogni caso» posto in apertura dello stesso, e valorizzando, invece, l'inserzione della previsione normativa in esame nell'art. 96 c.p.c., disposizione che esige anche requisiti soggettivi e quindi comportamenti imputabili, almeno sotto il profilo della colpa lieve, come presupposto dell'applicazione dei primi due commi (Graziosi, § 2).

In senso analogo si è espressa anche una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Terni 17 maggio 2010, in Giur. merito, 2010, n. 7-8, 1834, con nota di Porreca, La riforma dell'art. 96 c.p.c. e la disciplina delle spese processuali nella legge n. 69 del 2009; Trib. Roma, sez. dist. Ostia, 9 dicembre 2010, inedita).

A riguardo, ancora più contraria ad un'interpretazione letterale del terzo comma dell'art. 96 c.p.c. si è mostrata autorevole dottrina la quale ha proposto un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'inciso «in ogni caso» quale mero richiamo alla possibilità per il giudice di disporre la condanna al risarcimento per responsabilità processuale aggravata senza necessità di un'istanza di parte, ferma restando la necessità di una mala fede o colpa grave della parte nei confronti della quale la condanna viene disposta (cfr. Scarselli, 263, il quale a fondamento della propria tesi richiama anche la contestuale abrogazione del quarto comma dell'art. 385 c.p.c. che, in tema di giudizio di Cassazione, consentiva alla Corte, a partire dalla riforma realizzata dal d.lgs. n. 40/2006, quando pronunciava sulle spese, di disporre la condanna del soccombente che avesse agito o resistito in sede di legittimità con dolo o colpa grave ad una somma non superiore al doppio dei massimi tariffari).

In coerenza con la natura di pena privata propria della stessa, la condanna di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c. deve essere posta a vantaggio della parte vittoriosa, pur essendo prevista per tutelare un interesse di rilevanza pubblicistica (Graziosi, § 2).

Sulla questione, la S.C. ha statuito che la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., aggiunto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, ha natura sanzionatoria e officiosa, sicché essa presuppone la mala fede o colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un diritto di azione della parte vittoriosa (Cass. VI, ord. n. 3003/2014).

Invero, la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., aggiunto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, presuppone l'accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile (Cass. VI, ord. n. 21570/2012).

In senso analogo, in sede applicativa, si è evidenziato che In tema di lite temeraria, la legge 18 giugno 2009, n. 69, inserendo l'attuale comma 3 nell'art. 96 c.p.c. ha introdotto nell'ordinamento processuale civile una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell'avversario. Tuttavia, al fine di fugare qualunque dubbio di letture incostituzionali o, quanto meno, fortemente asistematiche della norma, quali quelle che, istituendo una semplice correlazione obiettiva tra soccombenza nella lite e condanna ex art. 96, comma 3, cpc comportino una responsabilità puramente oggettiva del soccombente, rimessa soltanto al discrezionale apprezzamento del giudice, ciò che sembra necessario è che quest'ultimo, nel valutare la ricorrenza dei presupposti applicativi della norma citata, non prescinda mai dalla verifica del profilo soggettivo, ossia dall'accertamento della rimproverabilità del comportamento della parte perdente in termini di dolo o colpa grave (Trib. Bari, 3 marzo 2017, n. 1169).

Sulla portata del comma 3 dell’art. 96 c.p.c. sono peraltro ormai intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, sancendo il principio per il quale la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all'esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall'art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della "potestas agendi" con un'utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte, con la conseguenza che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l'accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell'infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell'ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell'iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. S.U., n. 22405/2018, la quale ha cassato la sentenza di appello, che aveva escluso la condanna, nonostante l'artificiosa evocazione in giudizio di una parte, peraltro senza proporre domanda contro di essa, finalizzata a "bloccare" le azioni promosse all'estero, in quanto la pretestuosità sarebbe dovuta essere eccepita dalla stessa parte invece rimasta contumace).

Più di recente, tuttavia, la S.C. ha meglio delineato ed in senso diverso i presupposti della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., sottolineando che la stessa si configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c. p. c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente (Cass. lav., n. 3830/2021).

L'entità della sanzione non è determinata dal legislatore, che fa invero generico riferimento ad una somma «equitativamente determinata» dal giudice. Diversamente, in un primo momento dell'iter parlamentare, la sanzione comminabile era stata individuata in una somma non inferiore alla metà e non superiore al doppio dei massimi tariffari ed in un momento successivo era stata quindi determinata in una somma non inferiore a euro 1.000 e non superiore a euro 20.000 (Demarchi 50).

Anche sotto quest'ultimo profilo, peraltro, dovrebbe opportunamente imporsi nella prassi una lettura costituzionalmente orientata della disposizione in esame, in modo da individuare criteri idonei a limitare l'ampia discrezionalità attribuita al giudice sulla determinazione dell'an e del quantum della sanzione, sia recuperando un elemento oggettivo sanzionabile in via analogica dalle condotte descritte nei precedenti commi dello stesso art. 96 c.p.c., sia tenendo conto della durata della causa, in rapporto al valore della stessa ed al tipo di condotta processuale adottato dal soccombente [Graziosi § 2; Lombardi (-Giordano) 145]. Criterio adeguato sarebbe, si è osservato, quello di utilizzare la norma quale strumento volto ad evitare che in alcuni casi la mancanza di una prova specifica sul quantum del danno subito dalla parte valga ad evitare la condanna della parte per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. (Scarselli, 264).

In tale prospettiva, in giurisprudenza si è evidenziato che i criteri di determinazione della somma da liquidare, ex art. 96, comma terzo, c.p.c., in virtù della attribuita funzione sanzionatoria, possono essere ricavati dall'intensità dell'elemento soggettivo e dalla gravità della condotta di abuso del processo e di incidenza sulla sua durata (cfr. Trib. Rovigo 7 dicembre 2010, in Il civilista, 2011, n. 6, 10, con nota di Buffone, con riferimento ad una fattispecie nella quale l'elemento soggettivo era costituito dalla dolosa inattuazione del provvedimento possessorio e colposa introduzione del presente giudizio e quello oggettivo dalla gravità dell'abuso, consistente nell'impossibilità per il convenuto di accedere, per un periodo di tre anni, alla sua proprietà).

Sempre in sede applicativa si è affermato, peraltro, che la mancata predeterminazione degli indici di liquidazione della sanzione prevista dall'art. 96, comma terzo, c.p.c. non costituisce violazione del principio di legalità, in considerazione del fatto che tale modalità di costruzione della norma assolve alla necessità di non vincolare il giudice a fronte di situazioni che per la loro mutevolezza non possono essere previamente determinate ed alla necessità di adeguare quanto più compiutamente il fatto concreto alla norma astratta (Trib. Minorenni Milano, 4 marzo 2011, in Foro it., 2011, n. 7-8, 2184).

Sulla questione è intervenuta la S.C. affermando il principio in virtù del quale, in tema di responsabilità aggravata, la determinazione equitativa della somma dovuta dal soccombente alla controparte in caso di lite temeraria non può essere parametrata all'indennizzo di cui alla legge n. 89 del 2001 - il quale, ha natura risarcitoria ed essendo commisurato al solo ritardo della giustizia, non consente di valutare il comportamento processuale del soccombente alla luce del principio di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c., laddove la funzione prevalente della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è punitiva e sanzionatoria -, potendo essere calibrata su una frazione o un multiplo delle spese di lite con l'unico limite della ragionevolezza (Cass. n. 17902/2019).

Sulla scorta dell'incipit «in ogni caso» posto in apertura della norma in commento, si è inoltre evidenziato che, qualora l'istante fornisca la prova della responsabilità della controparte per una delle fattispecie disciplinate dai precedenti commi dell'art. 96 c.p.c., il giudice potrebbe cumulare i due risarcimenti (in tal senso Demarchi 52; Lombardi (-Giordano), 145).

Questa posizione trova conforto in quella recente giurisprudenza di legittimità secondo cui la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente (Cass. n. 29812/2019).

La medesima posizione è stata talvolta sostenuta nella giurisprudenza di merito. In particolare, si è a riguardo evidenziato che in tema di responsabilità aggravata, è ammessa l'applicazione congiunta del primo e del terzo comma dell'art. 96 c.p.c. in quanto si tratta di fattispecie distinte che presuppongono comportamenti diversi: il comma 1 prevede una condanna per la parte soccombente che abbia attivato lo strumento processuale oppure resistito alla pretesa di controparte con dolo o colpa grave; il terzo comma, invece, è volto a colpire la parte che, oltre ad essere soccombente nel merito, ha altresì tenuto una condotta scorretta all'interno del processo (Trib. Genova, 28 ottobre 2016).

La disposizione introdotta mediante il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. sinora esaminata trova applicazione soltanto nelle controversie introdotte dopo la data del 4 luglio 2009, di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009 n. 69, in applicazione della norma transitoria di cui al primo co. dell'art. 58 della stessa legge (Cass. n. 10846/2011).

Su un piano generale, la S.C. ha sottolineato che ai fini dell'applicabilità dell'art. 96, comma 3, c.p.c., la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione, suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati (Cass. sez. lav., n. 7726/2016).

Casistica

Ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce abuso del diritto all'impugnazione, integrante «colpa grave», la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, giacché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, ovvero perché assolutamente irrilevanti o generici, o, comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata; in tali casi il ricorso per cassazione integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, risultando piegato a fini dilatori e destinato, così, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti, donde la necessità di sanzionare tale contegno ai sensi della norma suddetta (Cass. III, n. 19285/2016).

Ai fini della responsabilità aggravata ex art. 96, il ricorso per cassazione può considerarsi temerario solo allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, appalesi consapevolezza della non spettanza della prestazione richiesta o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali (Cass. II, n. 27646/2018). In particolare, integra un'ipotesi di impiego pretestuoso e strumentale — e quindi di abuso — del diritto di impugnazione, l'aver prospettato, quale unico motivo di ricorso per cassazione, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato con riferimento al mero accoglimento parziale di una domanda. (cfr. Cass. III, n. 15017/2016, la quale, in applicazione del principio, ha disposto la condanna al pagamento di somma equitativamente determinata a carico del ricorrente in cassazione che aveva impugnato, per asserita violazione dell'art. 112 c.p.c., la pronuncia del giudice di merito — resa ai sensi dell'art. 549 c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 1, comma 20, della l. n. 228/2012 — di accertamento dell'esistenza dell'obbligo del terzo per un importo inferiore al credito azionato, ravvisando in tale comportamento un semplice tentativo di procrastinare la pendenza del giudizio di accertamento e della correlata sospensione del processo di espropriazione di crediti intentato dalla creditrice).

In tema di spese giudiziali, va condannata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., aggiunto dalla l. n. 69/2009, la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione e comunque abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso (Cass. V, n. 18057/2016).

Nel giudizio di appello incorre in colpa grave, giustificando la condanna ai sensi dell'art. 96, terzo comma, c.p.c., la parte che abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall'appellante in modo da evitare il gravame (Cass. VI, n. 24546/2014).

Qualora l'opposizione a precetto sia stata rigettata per manifesta infondatezza dei motivi di opposizione, è legittima la condanna dell'opponente al pagamento di una somma ex art. 96, terzo comma, c.p.c., ove abbia insistito in ragioni di censura dell'azione esecutiva valutabili, secondo l'ordinaria diligenza, come giuridicamente inconsistenti, sicché l'opposizione a precetto risulti del tutto pretestuosa (Cass. III, n. 27534/2014).

La proposizione di un ricorso per dichiarazione di fallimento al solo fine di ottenere il più rapidamente possibile il soddisfacimento di un credito giustifica la condanna del ricorrente per responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. (Cass. I, n. 17078/2016).

Sull'assunto per il quale in tema di responsabilità aggravata, l'art. 96 c.p.c., comma 3, prevede una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte sia dalla prova del danno causalmente derivato dalla condotta processuale dell'avversario, è stata riconosciuta la responsabilità aggravata di un soggetto il quale aveva ricevuto dieci e-mail indesiderate di contenuto pubblicitario nell'arco di tre anni e per tale modesto disagio o fastidio connesso ad un uso ordinario del computer, aveva chiesto un risarcimento di 360 euro pur trattandosi di un danno non patrimoniale ipotetico e futile, in ogni caso non risarcibile in quanto di lieve entità e quindi tollerabile in virtù del principio di solidarietà secondo una giurisprudenza consolidata, così abusando dello strumento processuale percorrendo tutti i gradi di giudizio (Cass. I, n. 3311/2017).

Il ricorso straordinario per cassazione proposto avverso un'ordinanza finalizzata alla prosecuzione del processo, che non assume alcun carattere decisorio e non può qualificarsi definitiva, concretizza un vero e proprio abuso del processo in quanto la sua proposizione ha indotto il sistema giurisdizionale a un dispendio inutile di tempi e energie, e giustifica la condanna — ex officio — del ricorrente al pagamento della sanzione di cui all'art. 96, comma 3, c.p.c. in favore di ciascuno dei controricorrenti (Cass. III, n. 1292/2017).

Sussiste la responsabilità aggravata del ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la redazione da parte del suo difensore di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell'art. 366 c.p.c., rispondendo il cliente delle condotte del proprio avvocato, ex art. 2049 c.c., ove questi agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella dell'avvocato cassazionista (Cass. VI, n. 15333/2020, fattispecie nella quale la S.C. ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione, che si limitava a ripetere l'atto di citazione in appello, a sua volta riproducente la comparsa conclusionale del primo grado).

Va sanzionata con la condanna pronunciata ai sensi del comma 3 dell'art. 96 c.p.c. la mancata risposta all'invito alla negoziazione assistita (Trib. Torino, III, 18 gennaio 2017; Trib. Torino 7 giugno 2017, con nota di M. Di Marzio).

Va condannato per lite temeraria, l'attore che dopo aver trovato un accordo transattivo con il convenuto, lo cita in giudizio per richiedergli il risarcimento dei danniexart. 2043 c.c. per il fatto di essere stato influenzato nelle trattative e di essere stato vittima di una sorta di “truffa” senza provare il fondamento delle proprie pretese (Trib. Milano X, 13 gennaio 2011).

Le ammissioni contenute in scritti difensivi sottoscritti unicamente dal procuratore “ad litem”, pur non avendo valore confessorio, costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento nonché ai fini della responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. (Trib. Modena I, n. 1022/2011).

Il comportamento della parte che propone la medesima domanda cautelare a due giudici diversi o che ripropone la domanda cautelare ad un giudice diverso da quello competente per il giudizio di reclamo integra un abuso dello strumento processuale, sanzionabile ex art. 96, comma 3, c.p.c. (Trib. Milano, sez. spec. impresa, 12 marzo 2016).

Deve essere condannato, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore del convenuto l'attore che, con mala fede, abbia disconosciuto il documento prodotto dal convenuto in giudizio, affermando di non averlo mai firmato, quando l'autenticità della sottoscrizione risulti accertata in altro giudizio (Trib. Cosenza, 17 novembre 2016, in Foro it., 2016, I, 3953).

La formulazione di eccezioni processuali palesemente infondate integra responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. (Trib. Modena I, 4 gennaio 2016, n. 1: nel caso di specie, le eccezioni riguardavano il disconoscimento di documenti e di sottoscrizioni).

In tema di procedimento civile, non può non ravvisarsi la male fede e/o colpa grave quando si sia resistito in giudizio per finalità meramente dilatorie — come previsto dall'art. 96 c.p.c. — senza il benché minimo fondamento giuridico e sulla base di pronunzie giurisprudenziali consolidate ed appositamente ignorate (Trib. Roma, 3 gennaio 2017).

In tema di opposizione all'esecuzione, ove l'azione risulti essere stata intrapresa in base non solo ad allegazioni difensive manifestamente generiche e vaghe, ma anche a prove documentali gravemente carenti su punti decisivi della domanda, la palese e consapevole inesistenza del diritto sostanziale invocato, quale il diritto di proprietà sul bene pignorato, fa sì che possono ritenersi esistenti gli estremi della responsabilità per lite temeraria di cui all'art. 96 c.p.c., fermo restando che la soccombenza conseguente ad una lite temeraria non esclude la responsabilità della parte, comportando solo quella del difensore, giacché questi è il mandatario della stessa parte, la quale risponde per il fatto doloso o colposo del difensore nei confronti dei terzi (Trib. S. Maria Capua Vetere, 15 novembre 2012).

La pretestuosità dell'opposizione a decreto ingiuntivo ed il fine palesemente dilatorio della stessa, evincibile non solo dalla genericità delle eccezioni sollevate in citazione ma anche dalla fissazione della prima udienza a considerevole distanza di tempo dalla notifica dell'atto danno ragione della condanna dell'opponente ai sensi dell'art. 96 ultimo comma c.p.c. (Trib. Napoli II, 11 marzo 2016, n. 3214).

All'opposizione a decreto ingiuntivo l'atteggiamento processuale dell'opponente di costituirsi in giudizio con una comparsa contenente motivi generici non comprovati da alcun documento e né da alcuna istanza istruttoria e la successiva condotta, una volta subìto il provvedimento di concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto, di astenersi da ogni attività processuale, costituiscono evidenti indici del carattere dilatorio dell'opposizione e sintomi di una grave negligenza nell'utilizzo dello strumento processuale medesimo che rendono applicabile la condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c. (Trib. Milano IV, 31 dicembre 2014, n. 14430).

Può essere condannato al pagamento di una somma di denaro ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.colui che ha proposto opposizione a decreto ingiuntivo deducendo, con riferimento all'esecuzione dell'opera, l'esistenza di vizi non denunciati tempestivamente, e che, prima dell'instaurazione del giudizio, ha accettato l'opera pur avendo tutti gli strumenti conoscitivi per rilevare detti presunti vizi (Trib. Lamezia Terme, 15 giugno 2011, n. 776).

Può essere condannata al pagamento di una somma di denaro ai sensi dell'art. 96 comma 3 c.p.c.la società che abbia proposto opposizione a decreto ingiuntivo deducendo, con riferimento alla firma di contratti di acquisto di spazi pubblicitari sugli elenchi telefonici della parte opposta, la pretesa inefficacia degli stessi perché sottoscritti da persona asseritamente priva dei poteri di rappresentanza della società opponente mentre, da visura camerale, la stessa persona risulti membro del consiglio di amministrazione e dotata di poteri di rappresentanza in base a espressa disposizione statutaria (Trib. Torino, sez. II, 24 marzo 2011, in Giur. Merito, 2011, n. 11, 2697, con nota di Barreca).

Ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., deve essere condannata al pagamento di una sanzione pari a diecimila euro, la società che interpone opposizione a decreto ingiuntivo per la consegna di un macchinario, la quale sia colpevolmente manifestamente infondata, essendo la parte perfettamente a conoscenza della natura del contratto di comodato e del proprio impegno a restituire il bene oggetto di cosiddetto prestito d'uso, come risulta da una dichiarazione sottoscritta dall'amministratore della società opponente. (Trib. Varese I, 22 gennaio 2011, n. 98).

L'introduzione di un procedimento cautelare palesemente infondato, e la sua coltivazione dopo l'eventuale sollecito giudiziale, va ricondotta a meri intenti defatigatori, e dunque a colpa grave, e si risolve – in buona sostanza – in un abuso del processo che impone l'affermazione della responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, cpc. Non si può infatti sottacere che la condotta processuale del ricorrente che abusi dello strumento processuale, nell'attuale contesto di limitate risorse destinate agli uffici giudiziari, e dei ripetuti sforzi legislativi volti a contenere la durata dei processi, comporta un dispendio di energie processuali allungando inevitabilmente i tempi di trattazione generale delle liti, sia relativamente agli altri procedimenti d'urgenza, sia riguardo alle controversie a cognizione ordinaria (Trib. Milano VIII, 13 giugno 2012).

La riproposizione di un ricorso cautelare affetto dai medesimi difetti di presupposti di inammissibilità di un precedente specifico è sanzionabile ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. (Trib. Modena II, 5 giugno 2015).

Chi volutamente ostacoli il ricorso al modulo procedurale previsto dall'art. 702bisc.p.c., strumentalizzando le proprie richieste istruttorie al fine di frustrarne lo svolgimento tiene una condotta non conforme ai principi del giusto processo, come cristallizzati dall'art. 111 Cost., suscettibile di sanzione ex art. 96, u.c., c.p.c. (Trib. Lamezia Terme, 12 luglio 2011, in Resp. civ. prev., 2011, n. 12, 2604).

La proposizione, avverso l'ordinanza emessa nell'ambito di un giudizio possessorio, di un reclamo evidentemente infondato e contenente una “causa petendi” diversa da quella originaria giustifica l'applicazione dell'art. 96, comma 3, c.p.c. (Trib. Pisa, 24 ottobre 2011, in Foro it., 2011, I, 3455).

Il ricorso per la modifica delle condizioni di separazione si ritiene introdotto con grave imprudenza, comportando quindi responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., quando le circostanze che dovrebbero costituire la sopravvenienza di nuovi elementi siano già state espressamente considerate dal giudice della separazione: infatti risultano manifestamente fondate le difese della parte vittoriosa, comportando soccombenza qualificata della parte ricorrente, quando risulti particolarmente agevole dimostrare che non è stato provato in alcun modo l'insorgere di nuove circostanze e al contrario risulti evidente il tentativo del ricorrente di utilizzare una forma anomala di appello contro la decisione che, erroneamente, non ha sottoposto al giudice naturale di secondo grado (Trib. Milano IX, 24 giugno 2015, in Ilfamiliarista, 27 dicembre 2016, con nota di Logli).

È condannabile ex art. 96, comma 3, c.p.c. la madre che, pur avendo posto in essere comportamenti alienanti e accertati nei confronti del padre, ha proposto ricorso ex art. 709-ter c.p.c. contro di lui per questioni relative alla figlia minore (Trib. Milano IX, 11 marzo 2017, in Ilfamiliarista.it, 30 marzo 2017).

Il comportamento processuale della parte resistente la quale, non fornendo elementi a sostegno della sua domanda, mantiene ferma la richiesta di affidamento esclusivo della propria figlia, limita fortemente il libero esplicarsi del diritto del ricorrente ad allevare la stessa ed è contrario ai doveri di lealtà e probità espressi dall'art. 88 c.p.c. in considerazione dei tempi di definizione del procedimento; ciò legittima l'esercizio ex officio del potere concesso, in capo al tribunale; dal combinato disposto degli art. 155 bis c.c. e 96, comma 3, c.p.c. (Trib. Milano, 4 marzo 2011, in Foro it., 2011, n. 7-8, 2184).

La clausola compromissoria di devoluzione ad un collegio arbitrale di ogni eventuale controversia concernente l'interpretazione ed esecuzione del contratto comporta l'accoglimento dell'eccezione pregiudiziale di improponibilità della domanda di inadempimento contrattuale sollevata dalla parte evocata nel relativo giudizio e la condanna dell'attore per lite temeraria ex art. 96, comma 3, c.p.c. per avere insistito nel sostenere la proponibilità della domanda, quantunque avesse la possibilità di aderire all'eccezione di controparte (Trib. Verona, sez. IV, 22 novembre 2012, in Riv. arb., 2013, n. 2, 443, con nota di Amendolagine).

Ricorrono gli estremi per l'applicazione della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.cquando un coerede impugna un testamento olografo assumendone la falsità della sottoscrizione successivamente ed in relazione all'esito del procedimento penale nel quale non era stata accolta la sua denuncia senza tuttavia introdurre alcun ulteriore significativo elemento di prova nonché procede a trascrivere la domanda sull'immobile pervenuto alle altre coeredi in relazione alla successione oggetto di causa ostacolandone quindi l'alienazione (Trib. Savona, 8 dicembre 2016).

Sussistono i presupposti per la condanna al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. nell'avere resistito ed a sua volta agito in riconvenzionale in modo manifestamente temerario, senza un minimo di diligenza, negando un titolo (comodato) che, invece, stragiudizialmente aveva espressamente riconosciuto, ed affermando una pretesa (quella relativa all'acquisto per usucapione) incompatibile con il contegno tenuto prima dell'instaurazione della lite (Trib. Bari III, 5 marzo 2014, n. 1167).

L'affittuario di un'azienda va condannato al pagamento della sanzione di cui alla nuova previsione dell'art. 96 comma 3 c.p.c., quando, pur non pagando al proprietario, senza alcun giustificato motivo, né il canone e né gli oneri accessori e continuando a godere del bene affittato, si è opposto (con evidente colpa grave ex art. 96 c.p.c.) all'avversa e totalmente legittima pretesa di rientrare nella disponibilità dell'immobile in questione con argomenti di merito inconsistenti, tanto da rendersi, in tal modo, responsabile di un abuso del processo per difesa temeraria (Trib. Pescara, 30 settembre 2010, in Giur. Merito, 2011, n. 9, 2138).

L'amministratore è tenuto alla consegna delle tabelle millesimali al creditore del condominio che gliene fa richiesta, al fine di dare attuazione alla natura parziaria delle obbligazioni condominiali, potendo una sua colpevole inerzia esporlo anche alla condanna al pagamento della pena pecuniaria di cui all'art. 96 comma 3 c.p.c. (Trib. S. Angelo dei Lombardi, 5 ottobre 2011, in Giur. Merito, 2013, n. 3, 574, con nota di Scarpa).

Il gestore telefonico che sospende il servizio per una bolletta non saldata (in realtà pagata) e poi imprudentemente resiste nel giudizio intentato dall'utente per la refusione dei danni, è punibile di condanna al risarcimento ex art. 2056 c.c. per l'interruzione del servizio e per la responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. (Trib. Varese I, 2 ottobre 2012, n. 27).

Costituisce condotta integrante responsabilità processuale ex art. 96, comma 3, c.p.c. quella del ricorrente connotata da colpa grave per avere il correntista agito incautamente,senza neanche produrre gli estratti conto, che non erano stati preventivamente richiesti alla Banca, e tale omissione non si è potuta aggirare con l'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. poichè tale ordine non può supplire al mancato assolvimento dell'onere della prova a carico della parte istante, ne conseguiva il mancato espletamento della CTU contabile disposta la quale, contrariamente a quanto pretestuosamente sostenuto, aveva accertato la piena regolarità della documentazione contrattuale della Banca e la totale infondatezza della domanda risarcitoria per l'illegittima segnalazione a sofferenza presso la Centrale Rischi della Banca d'Italia (Trib. Busto Arsizio III, 30 maggio 2017, n. 845).

L'operazione eseguita da un istituto di credito di sommare il valore del tasso d'interesse corrispettivo e quello del tasso di mora è inspiegabile, nonché errata dal punto di vista logico-matematico, in quanto si sommano due entità tra loro eterogenee che si riferiscono a due basi di calcolo differenti, per cui è integrata la colpa grave che consente il risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. (Trib. Milano VI, 6 ottobre 2015).

In tema di responsabilità della struttura sanitaria, data la natura contrattuale della stessa ed il conseguente riparto dell'onere della prova, è idonea ad integrare un'ipotesi di responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3 c.p.c., la condotta processuale della Ausl convenuta che si è limitata ad eccepire l'insussistenza della propria responsabilità per la prestazione professionale eseguita da un proprio medico, in palese violazione del disposto di cui all'art. 1228 c.c., omettendo di formulare le istanze istruttorie, nonostante l'espressa richiesta di concessione dei termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. e di presenziare alle operazioni peritali, anche per il tramite di un proprio consulente, con conseguente condanna al risarcimento del danno, quantificato mediante riferimento al parametro di cui all'art. 2 bis, l. n. 89/2001 in relazione alla durata del giudizio (Trib. Napoli VIII, 2 novembre 2015, n. 13389, in Ridare, 28 aprile 2016, con nota di Boschetti).

Nell'ipotesi di falsa denuncia di rapina di autovettura, qualora il proprietario del veicolo abbia convenuto in giudizio la compagnia di assicurazione per chiederne il risarcimento, il giudice deve applicare, ex art. 96, ultimo comma, c.p.c., i principi della lite temeraria e, pertanto, condannare il proprietario a risarcire una somma doppia di quella in contestazione (Trib. Busto Arsizio, 24 novembre 2011, n. 160, in Arch. giur. circol. sin., 2013, n. 3, 301).

L'art. 96, comma 3, c.p.c.è applicabile anche ai procedimenti per la dichiarazione di fallimento atteso che l'art. 22, l. fall. richiama integralmente l'art. 96 c.p.c. e che tale disposizione si ricollega all'art. 91 c.p.c. il quale, pure, è espressamente richiamato dall'art. 22 l. fall. (Trib. Vercelli, sez. fall., 14 aprile 2016, in Ridare, 12 settembre 2016, con nota di Fiengo).

È inapplicabile alla Curatela fallimentare la sanzione di cui all'ultimo comma dell'art. 96 c.p.c.: l'iniziativa giudiziaria di quest'ultima, infatti, deve essere preceduta dall'autorizzazione del giudice delegato, ai sensi dell'art. 25, comma 6, l. fallimentare. Trattasi di controllo che la stessa legge prevede a tutela degli interessi dei creditori e della massa fallimentare, al fine di evitare che siano intraprese iniziative avventate e pregiudizievoli per le stesse casse del fallimento. A riprova del vaglio che il giudice delegato è chiamato a compiere vi è l'incompatibilità del medesimo magistrato a trattare i giudizi che abbia autorizzato, sancita dalla riforma del 2006 (d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5), evidentemente sul presupposto di un apprezzamento, sia pur sommario, sul merito della lite che il giudice delegato deve compiere in sede di autorizzazione. Pertanto, deve ritenersi che nelle cause intraprese dalla Curatela vi sia già a monte un controllo diretto ad evitare possibili abusi dello strumento processuale, tale da rendere superfluo l'ulteriore vaglio di cui all'art. 96 c.p.c., che andrebbe a colpire non una condotta processuale di parte bensì una valutazione della stessa autorità giudiziaria (Trib. Lamezia Terme, 11 giugno 2012).

Condanna al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende

La riforma c.d. Cartabia ha introdotto, per le controversie promosse dal 28 febbraio 2023, un nuovo comma (l'ultimo) all'interno della norma in esame, allo scopo di ridurre il carico di lavoro “in entrata” degli uffici giudiziari rispetto alle pretese manifestamente infondate (ovvero di evitare resistente in giudizio temerarie).

Si prevede, infatti, che il giudice debba, tutte le volte che condanni la parte per responsabilità processuale aggravata in virtù dei commi precedenti dello stesso art. 96, disporre a carico della parte anche il pagamento di una somma pari ad un importo ricompreso tra 500 e 5.000 euro in favore della Cassa delle ammende.

Si tratta di una misura di carattere sanzionatorio (cfr. Corte Cost. n. 145 del 2020), che tuttavia deriva ex se dalla condanna in virtù del commi precedenti.

Bibliografia

Andrioli, Commento al Codice di procedura civile, I, Napoli 1968; Barreca, Rassegna sull'art. 96, terzo co., c.p.c., in Giur. mer. 2011, n. 11, 2697; Bongiorno, Responsabilità aggravata, in Enc. giur., XXVI, Roma, 1991, 2 ss.; Calvosa, La condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, 378 ss.; Carnelutti, Sulla responsabilità per esecuzione del sequestro, in Riv. dir. proc. 1925, II, 199 ss.; Coniglio, In tema di responsabilità per danni nel sequestro, in Studi di diritto processuale civile in onore di Chiovenda, Padova 1927, 365 ss.; Cordopatri, L'abuso del processo e la condanna alle spese, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2005, 249 ss.; Demarchi, Il nuovo processo civile, Milano, 2009, 50; Dondi-Giussani, Appunti sul problema dell'abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2007, 193 ss.;Giordano, Spese del processo, Milano 2012, 73 ss.; Giordano, Abuso del processo e responsabilità per le spese e i danni, in AA.VV., Abuso del diritto e abuso del processo, Suppl. a Giur. mer. 2007, n. 12; Grasso, Note sui danni da illecito processuale, in Riv. dir. proc., 1959, 270 ss; Grasso, Individuazione delle fattispecie di illecito processuale e sufficienza della disciplina dell'art. 96 c.p.c., in Giur. it., 1961, I, 1, 93; Graziosi, Alcune notazioni sulla riforma del 2009, in Giur. mer. 2010, n. 5, 1347 ss.; Lombardi (-Giordano), Il nuovo processo civile, Roma, 2009, 140 ss.; Picardi, Manuale del processo civile, Milano 2013; Scarselli, Le modifiche in tema di spese, in Foro it., 2009, V, 258.

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