Decreto legislativo - 3/04/2006 - n. 152 art. 299 - (Competenze ministeriali)

Francesco Agnino

(Competenze ministeriali)

1. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio esercita le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in materia di tutela, prevenzione e riparazione dei danni all'ambiente [, attraverso la Direzione generale per il danno ambientale istituita presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio dall'articolo 34 del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, e gli altri uffici ministeriali competenti ] 1.

2. L'azione ministeriale si svolge normalmente in collaborazione con le regioni, con gli enti locali e con qualsiasi soggetto di diritto pubblico ritenuto idoneo.

3. L'azione ministeriale si svolge nel rispetto della normativa comunitaria vigente in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, delle competenze delle regioni, delle province autonome di Trento e di Bolzano e degli enti locali con applicazione dei principi costituzionali di sussidiarietà e di leale collaborazione.

4. Per le finalità connesse all'individuazione, all'accertamento ed alla quantificazione del danno ambientale, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio si avvale, in regime convenzionale, di soggetti pubblici e privati di elevata e comprovata qualificazione tecnico-scientifica operanti sul territorio, nei limiti delle disponibilità esistenti.

5. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, con proprio decreto, di concerto con i Ministri dell'economia e delle finanze e delle attività produttive, stabilisce i criteri per le attività istruttorie volte all'accertamento del danno ambientale [ e per la riscossione della somma dovuta per equivalente patrimoniale ] ai sensi del titolo III della parte sesta del presente decreto. I relativi oneri sono posti a carico del responsabile del danno 2.

6. Ai fini dell'attuazione delle disposizioni contenute nel presente articolo, il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le necessarie variazioni di bilancio.

Inquadramento

L'articolo in commento attribuisce al Ministero dell'Ambiente generali e pregnanti poteri a presidio del bene ambiente, compresa ogni azione a ripristino e risarcimento del danno, ma non esclude una competenza concorrente o quantomeno sussidiaria di enti territoriali e locali in ordine a eventi dannosi incidenti sui rispettivi territori, come è logicamente desumibile dallo stesso art. 299, comma 2.

Rapporti tra Stato e regioni in materia ambientale

Non è fondata, in riferimento all'art. 117 Cost. e al principio di leale collaborazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 299, comma 5, d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, il quale prevede che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con quelli dell'economia e delle attività produttive, fissa i criteri per le attività istruttorie volte all'accertamento del danno ambientale e per la riscossione della somma dovuta per equivalente patrimoniale.

Premesso che i rapporti tra la competenza legislativa esclusiva statale in materia di «tutela dell'ambiente» e le competenze regionali su altre materie, sulle quali la disciplina statale ambientale può incidere, sono nel senso che la disciplina unitaria del bene ambiente prevale su quella regionale, rappresentando, per quest'ultima, un limite, salva la facoltà per le regioni di dettare norme di tutela ambientale più elevate, nell'esercizio di competenze loro proprie, lo Stato può dettare, in questo ambito, una disciplina inderogabile in peius, che si impone all'autonomia delle regioni e le vincola, non potendosi ravvisare, in particolare nella specifica materia del danno ambientale, una «interferenza» fra competenze, che invece costituisce il presupposto dell'applicazione del principio di leale collaborazione (Corte cost. n. 235/2009).

Sul versante del riparto di competenza legislativo, quindi, la Corte costituzionale afferma in modo netto che spetta allo Stato «la tutela e la conservazione dell'ambiente mediante la fissazione di livelli di tutela» mentre alle Regioni spetta solo «essenzialmente» il potere di regolare la fruizione dell'ambiente ci dice qualcosa di assolutamente condivisibile.

Si ribadisce che lo Stato deve provvedere a definire il bene ambiente nei suoi contenuti (es. cosa s'intende acqua potabile, cosa s'intende per elettromagnetismo compatibile) mentre le Regioni devono occuparsi di «come» tale bene può e deve essere goduto dal pubblico e dai vari soggetti.

La Corte interpreta, quindi, in questo senso le due disposizioni costituzionali che si contendono il campo: da una parte l'art. 117, comma 2, lett. s) per il quale spetta alla competenza esclusiva dello Stato «la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali» e, dall'altra, l'attribuzione alla competenza concorrente delle Regioni della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» di cui all'art. 117, comma 3.

E l'interpretazione adottata dalla Corte trova il conforto di quella dottrina che di recente aveva affermato che la tutela attiene ad attività quali la predisposizione di norme di principio, la sottoposizione al regime vincolistico, la protezione, la conservazione, l'individuazione e la classificazione dei beni, la vigilanza sui medesimi e l'irrogazione delle sanzioni, mentre la valorizzazione riguarda aspetti quali la fruizione, la promozione, la pianificazione ed il regime autorizzatorio (Rossi, 45).

La nozione di ambiente nella giurisprudenza della Corte costituzionale

Il Giudice delle Leggi ha affermato con chiarezza che l'ambiente deve essere qualificato come bene unitario e materiale.

In particolare, si è sostenuto che la tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso e unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario e assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali (Corte cost. n. 367/2007); ed ancora sovente l'ambiente è stato considerato come bene immateriale, sennonché quando si guarda all'ambiente come ad una materia di riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti (Corte cost. n. 378/2007).

In tali sentenze si è sviluppato quella tesi dottrinaria secondo la quale esistono due criteri giuridici per affermare la qualità di bene giuridico di una cosa: un criterio tradizionale secondo il quale è bene la cosa che può diventare oggetto di un diritto ed un criterio, ben noto in campo penalistico, secondo il quale è la tutela diretta della cosa che determina la natura di bene in senso giuridico: si parla in altri termini di bene giuridico in senso stretto, nel primo caso, e di bene giuridico in senso lato, nel secondo caso. L'ambiente è dunque un bene giuridico in senso lato (De Leonardis, 1458).

Nelle sentenze Cass. n. 367/2007 e Cass. n. 378/2007 era dunque chiarissima l'inversione di tendenza rispetto alla linea interpretativa affermatasi giusto a ridosso della riforma del Titolo V della Costituzione per la quale l'ambiente veniva considerato come una «non materia» o una «materia trasversale» o «un valore»: nelle sentenze del 2007 era, dunque, palese che, diversamente da quanto si era ritenuto in passato, per la Corte l'ambiente è un «bene» unitario e materiale e che la competenza alla definizione di esso spetta allo Stato.

L'evoluzione giurisprudenziale del concetto di bene ambientale e relativa tutela

Relativamente alla interpretazione dell'art. 18 l. n. 349/1986 – norma che dava attuazione al principio fondamentale di diritto internazionale del pollueur-payeur, ossia «chi inquina, paga» – si è assistito ad una evoluzione giurisprudenziale da parte della Corte di Cassazione.

In un primo approccio metodologico è stata evidenziata la specialità della disciplina da esso introdotta rispetto alla previsione generale dell'art. 2043 c.c., individuando le differenze formali e sostanziali rispetto al regime codicistico e sottolineando la natura «adespota» dell'ambiente, quale bene immateriale, e, conseguentemente, l'irrilevanza del profilo dominicale (pubblico o privato) delle sue componenti naturali (Cass. S.U., n. 440/1989).

In seguito, la disciplina della l. n. 349/1986, art. 18, è stata innestata nel regime ordinano della responsabilità, con riferimento all'art. 2043 c.c. (ed all'art. 2050 c.c., per le attività pericolose), configurando una sorta di «regime misto» che ha mutuato dalla disciplina codicistica la responsabilità aggettiva per le attività pericolose e la solidarietà dei responsabili e dalla disciplina speciale il profilo della rilevanza autonoma del danno- evento (la lesione in sé del bene ambientale), sostituito al «danno- conseguenza» considerato dal codice, e parametrando il danno medesimo non al pregiudizio patrimoniale subito ma alla gravità della colpa del trasgressore, al profitto conseguito dallo stesso ed al posto necessario al ripristino« (Cass. n. 9211/1995).

Infine, si è affermato che la stessa configurabilità del bene-ambiente e la risarcibilità del danno ambientale, pur specificamente regolato dalla l. n. 349/1986, art. 18, trovano la fonte genetica direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente e come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (artt. 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l'individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale e ambientale« ed ha ritenuto, pertanto, che, anche prima della l. n. 349/1986, la Costituzione e la norma generale dell'art. 2043 c.c., apprestavano all'ambiente una tutela organica (Cass. n. 5650/1996, relativa alla catastrofe del Vajont del 1963).

In tale direzione, il bene ambientale oggetto materiale del reato si identifica, nelle acque in genere e nell'aria (senza alcuna limitazione quantitativa o dimensionale, di fatto difficilmente individuabile), nonché nel suolo o sottosuolo, il cui degrado, invece, deve interessarne porzioni estese o significative. È tuttavia evidente che, in ogni caso, l'estensione e l'intensità del fenomeno produttivo di inquinamento deve avere comunque una sua incidenza, difficilmente potendosi definire significativo quello di minimo rilievo, pur considerandone la più accentuata diffusività nell'aria e nell'acqua rispetto a ciò che avviene sul suolo e nel sottosuolo (Cass. pen. n. 46170/2016).

Peraltro, ai fini della configurabilità dell'elemento materiale del reato, i requisiti della significatività e della misurabilità che devono connotare la compromissione o il deterioramento dell'aria, delle acque, del suolo o del sottosuolo, connotano la condotta di un elevato livello di lesività, escludendo i fatti di minore rilievo: in ogni caso, l'assenza di espliciti riferimenti ai limiti imposti da specifiche disposizioni o a particolari metodiche di analisi consente di escludere l'esistenza di un vincolo assoluto per l'interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore, il cui superamento non implica necessariamente una situazione di danno o di pericolo per l'ambiente, potendosi peraltro presentare casi in cui, pur in assenza di limiti imposti normativamente, tale situazione sia di macroscopica evidenza o, comunque, concretamente accertabile (Cass. pen. n. 46170/2016).

La legittimazione processuale degli enti locali

Il d.lgs. n. 152/06 ha previsto la legittimazione esclusiva del Ministro dell'Ambiente a far valere in giudizio il danno ambientale (art. 311), attribuendo al medesimo anche penetranti poteri di intervento e di tutela dell'ambiente, sia in via preventiva e ripristinatoria (artt. 304-310), che in via sanzionatoria e riparatoria (artt. 311-316).

Per il che, è venuta meno la legittimazione degli enti territoriali (Regioni, Province e Comuni) a promuovere l'azione risarcitoria — e, quindi, la connessa tutela preventiva cautelare — per il risarcimento del danno ambientale, essendo stata conferita agli stessi una mera funzione di collaborazione con lo Stato (v. art. 299, comma 2).

Dalla lettura delle norme di cui agli artt. 299 ss. del d.lgs. n. 152/2006 si desume, pertanto, una sorta di riserva di legge a favore dello Stato (rectius, del Ministero dell'Ambiente e del territorio per il tramite della Direzione Generale per il danno ambientale appositamente istituita) circa i poteri di tutela preventiva e riparatoria di siffatto danno, in ragione della sua funzione a tutela della collettività, ferma restando la (riserva di) legittimazione diretta dei singoli soggetti danneggiati dal fatto produttivo del degrado ad agire in giudizio, innanzi al G.O. ex art. 2043 c.c., avverso il responsabile a tutela della loro salute o dei beni in loro proprietà (art. 313, comma 7).

In tale evenienza, dal punto di vista più squisitamente processuale, se da un torto ecologico dovessero derivare sia un danno prettamente patrimoniale ai singoli beni sia un danno all'ambiente (bene di natura pubblicistica, unitario e immateriale), il risarcimento dell'uno o dell'altro, benché entrambi rientranti nella tutela aquiliana, costituirebbero comunque oggetto di domande diverse, i cui attori sono titolari di autonome posizioni giuridiche soggettive (Cass. n. 1087/1998).

Si è però osservato che il pregiudizio all'ambiente è nozione complessa, che ricomprende nel suo ambito una triplice dimensione, e che non può, pertanto, considerarsi come pertinente esclusivamente allo Stato, e precisamente una dimensione: a) personale, quale lesione del fondamentale diritto all'ambiente salubre, facente capo a ciascun individuo; b) sociale, quale lesione del diritto all'ambiente nelle articolazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità umana; c) pubblica, quale lesione del diritto-dovere pubblico (funzione) sui bene ambientali (Cass. pen. n. 22539/2002).

In dottrina si è osservato che l'illecito ambientale può manifestarsi con una condotta plurioffensiva dell'interesse della collettività e dell'interesse dei singoli (Malinconico, 315; Maddalena, 479).

Quindi, è del tutto evidente che compete ai Comuni, come — del resto — a ciascun cittadino, la legittimazione ad agire in giudizio per far valere, anche in via cautelare e d'urgenza ex art. 700 c.p.c., il danno non solo alla salute dei cittadini, ma anche all'ambiente salubre (Cass. n. 12133/1990; Cass. n. 400/1991), attesa il riflesso che quest'ultimo può avere sul primo, costituendo l'ambiente la dimensione spaziale della vita e delle attività personali e sociali dei singoli cittadini.

Pertanto, persone, gruppi, associazioni ed anche gli enti territoriali quando agiscono a tutela dell'ambiente non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed agiscono in forza di una autonoma legittimazione, in ragione del fatto che il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale, quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente appartenente ad ogni soggetto; sociale, quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana, ex art. 2 Cost.; pubblica, quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze (Cass. pen. n. 16575/2007; Cass. n. 5650/1996; Trib. Salerno, 28 aprile 2007; Tar Sicilia n. 1254/2007; App. Milano, 15 aprile 1994).

Bibliografia

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