Decreto legislativo - 3/04/2006 - n. 152 art. 300 - (Danno ambientale)

Francesco Agnino

(Danno ambientale)

1. È danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima.

2. Ai sensi della direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato:

a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, che recepisce le direttive 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE della Commissione del 6 marzo 1991 ed attua le convenzioni di Parigi del 18 ottobre 1950 e di Berna del 19 settembre 1979, e di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, recante regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, nonché alle aree naturali protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394, e successive norme di attuazione;

b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo su:

1) lo stato ecologico, chimico o quantitativo o il potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE, fatta eccezione per gli effetti negativi cui si applica l'articolo 4, paragrafo 7, di tale direttiva, oppure;

2) lo stato ambientale delle acque marine interessate, quale definito nella direttiva 2008/56/CE, nella misura in cui aspetti particolari dello stato ecologico dell'ambiente marino non siano già affrontati nella direttiva 2000/60/CE1;

c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali;

d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell'introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l'ambiente.

Inquadramento

La norma contenuta nell'art. 300 d.lgs. n. 152/2006 (l'unica ad essere rubricata come «danno ambientale») deve essere considerata centrale nella nuova architettura della disciplina della responsabilità ambientale, indicando cosa si debba intendere per danno all'ambiente in generale, nonché stabilendo quali siano le risorse naturali che ne fanno parte. La norma riprende alla lettera le indicazioni (non tutte in verità) che ci provengono dalla direttiva 2004/35/CE, ma non spiega quali debbano essere i rapporti con l'altra disposizione, che pur contiene una diversa fattispecie di danno all'ambiente, prevista al secondo comma dell'art. 311.

Pertanto, la definizione di danno ambientale è contenuta nell'art. 300 d.lgs. n. 152/2006, che cerca di tener conto delle definizioni di «danno» e «danno ambientale» fornite dalla direttiva.

L'art. 300, comma 1, definisce «danno ambientale» qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima (si tratta quindi di una definizione che riproduce, nella sostanza, quella di «danno» dettata dalla direttiva).

Tale norma riporta in termini puntuali la nozione comunitaria di «danno ambientale» posta dalla direttiva 2004/35/CE, sostituendo l'espressione «mutamento negativo misurabile» con quella di «deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto».

L'art. 300, comma 2, dispone poi che, ai sensi della direttiva 2004/35/CE, costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria; alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate; alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali; al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell'introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l'ambiente (si tratta quindi di una definizione in linea con quella europea di «danno ambientale»).

Peraltro, la categoria generale del danno ambientale può suddividersi in: danno ambientale in senso stretto (altrimenti detto, danno ambientale diretto o danno urbanistico-ambientale), la cui giurisdizione spetta al G.O. e danno ambientale indiretto, quando a seguito di una condanna emessa dal giudice ordinario l'amministrazione deve risarcire il danno a causa di condotte illecite tenute da dipendenti e/o amministratori pubblici (Perin): conseguenza immediata di tale opzione giurisprudenziale è che tali comportamenti possono (eventualmente) dar luogo ad ipotesi di danno c.d. erariale, con conseguente competenza decisoria della Corte dei conti.

Pertanto, la definizione di danno ambientale contenuta nell'art. 300 d.lgs. n. 152/2006, con l'espressa limitazione, quali componenti interessate, alle specie e habitat protetti, alle aree protette, alle acque ed al terreno, esclude dalla disciplina della parte VI quei profili legati ad aspetti meramente culturali ed estetici, nei quali vengono in evidenza attività di trasformazione della bellezza naturale dei luoghi protetti che alterano, sotto il profilo morfologico, il paesaggio, compromettendo il godimento che la collettività ed i singoli possono ricavarne e non anche la salubrità ambientale.

La netta distinzione tra tutela del paesaggio e tutela dell'ambiente è stata affermata anche dal giudice comunitario, che si è dichiarato incompetente sulla questione pregiudiziale, sollevata dal Tar Palermo, relativa alla compatibilità, con l'articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ed il principio di proporzionalità come principio generale del diritto dell'Unione, dell'articolo 167, comma 4, lettera a), d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), affermando la netta distinzione tra tutela del paesaggio e tutela dell'ambiente. In pratica, né le disposizioni dei Trattati UE e Fue richiamati dal giudice del rinvio, né la normativa relativa alla Convenzione di Aarhus, né le direttive 2003/4 e 2011/92 impongono agli Stati membri obblighi specifici di tutela del paesaggio, come fa invece il diritto italiano (Corte di Giustizia UE, 6 marzo 2014, causa C-206/13).

Il danno risarcibile

In termini di garanzia unitaria e generale (artt. 2,9,32 e 117 Cost.), potendo il diritto all'ambiente essere incluso tra i diritti inviolabili dell'uomo e quindi identificarsi nella lesione dell'interesse alla conservazione, alla razionale gestione ed al miglioramento delle condizioni naturali, all'esistenza e preservazione dei patrimoni genetici terrestri o marini e di tutte le specie che vivono allo stato naturale, è stato riconosciuto in favore dello Stato e degli Enti territoriali, sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo, il diritto al risarcimento.

Correlativamente, è stato previsto, in chiave logica civilistica, in capo al danneggiante il preciso obbligo di porre in essere tutte le azioni, possibili, di riparazione del danno arrecato. Il nocumento rappresenta, pertanto, il fatto costitutivo (eteroindividuazione) delle situazioni giuridiche disciplinate dall'ordinamento e determina, contestualmente, causa petendi e petitum nonché la legittimazione (autoindividuazione) ad agire in virtù ed in funzione dell'interesse pubblico (Basso, 60).

Sulla scia non solo delle argomentazioni della giustizia contabile, secondo cui la lesione dell'ambiente rappresenta un danno per lo Stato sia sotto il profilo del depauperamento di un bene che costituisce patrimonio della collettività, sia sotto il profilo degli oneri finanziari che lo Stato stesso può essere chiamato a sostenere in dipendenza dell'evento lesivo (Corte conti n. 61/1979), ma anche ed in particolar modo della Consulta (Corte cost. n. 641/1987) che − nel conferire al danno de quo una rilevanza patrimoniale indiretta − ritiene «il danno risarcibile come perdita subita, indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori», la Corte di Cassazione ha precisato che per integrare il fatto illecito (e dar luogo, quindi, al risarcimento) non è necessario che l'ambiente venga compromesso, ma è sufficiente una condotta − sia pure soltanto colposa in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge − che ex art. 18 risulti specificamente idonea a compromettere l'ambiente (Cass. n. 16575/2007). In altri termini, la lesione del valore giuridico ambiente può essere anche solo presunta.

Infatti, nella tematica ecologica una piena prova del danno è − molto spesso − difficilissima se non proprio impossibile, dato che gran parte degli effetti dannosi si manifesta in tutta la sua potenzialità solo con il decorrere del tempo (Greco, 1270).

In conformità al quadro normativo sopra delineato, la perdita non andrebbe intesa in senso strettamente economico-finanziario, vale a dire quale variazione contabile negativa nel bilancio dell'Ente pubblico colpito dal danno, commisurata ai costi di ripristino ovvero alla riduzione di valore della risorsa danneggiata. Infatti, nonostante la chiara previsione della direttiva comunitaria, secondo cui l'operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile (cioè obbligato a sostenere i costi del ripristino ed ogni altro onere sostenuto dalla P.A. nonché a risarcire i danni patiti dalla collettività o da soggetti direttamente lesi dalla condotta inquinante), la reale operatività del principio «chi inquina paga» sulla base del quale è attribuita la suddetta responsabilità, si ottiene soltanto con l'effettivo risanamento dell'ambiente, indipendentemente dalla corresponsione da parte del responsabile di una somma di denaro quale «compensazione» del danno ambientale (Scardina, 818).

Le Sezioni Unite, in tema di responsabilità ambientale, hanno affermato che a carico del proprietario/gestore del sito inquinato che non abbia direttamente causato l'inquinamento, non può essere imposto l'obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza (c.d. “m.i.s.e.”) e di bonifica, in quanto gli effetti in capo al proprietario incolpevole sono limitati a quanto previsto dall'art. 253 c. amb. in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari, possedendo le misure anzidette una connotazione ripristinatoria di un danno già prodottosi che le rende non assimilabili alle misure di prevenzione che, viceversa, il proprietario del sito è obbligato ad assumere in quanto idonee a contrastare un evento recante una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile; al proprietario che non abbia causato l'inquinamento sono, altresì, inapplicabili i criteri di imputazione della responsabilità di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c., dal momento che la disciplina definita nella parte quarta del c. amb. per la bonifica dei siti contaminati ha carattere di specialità rispetto alle norme del codice civile, contemplando, a tale proposito, la specifica posizione del proprietario/gestore incolpevole e trovando applicazione nei confronti del responsabile dell'inquinamento (in base al principio “chi inquina paga” di cui alla Direttiva 2004/35/CE), a titolo di dolo o colpa; ne consegue che l'obbligo di adottare le misure utili a fronteggiare la situazione di inquinamento rimane unicamente a carico di colui che di tale situazione sia stato responsabile per avervi dato colposamente o dolosamente causa, non potendosi addossare al proprietario incolpevole dell'inquinamento alcun obbligo né di bonifica, né di messa in sicurezza (Cass., S.U., n. 3077/2023).

Dalla responsabilità «finanziaria» discende, a carico del danneggiante, in via primaria, l'obbligo di «riparare» il danno ambientale sostenendo i costi necessari per ripristinare lo status quo ante e soltanto, in via secondaria, cioè nell'ipotesi in cui la condotta provochi danni all'ambiente non eliminati dalle misure riparatorie, obblighi risarcitori nei confronti di chi provi di aver subito un danno ambientale o patrimoniale.

La perdita dovrebbe, quindi, essere considerata in senso giuridico, ossia come lesione degli interessi all'equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio, o meglio dell'ambiente, di cui è portatrice la collettività (Corte cost. n. 641/1987) e di cui lo Stato è tutore attraverso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.

Secondo autorevole dottrina economica (Franzini, 362), del resto, il danno ambientale è costituito da «una perdita di benessere rispetto al livello assicurato dalla preesistente qualità dell'ambiente». Appunto per questo esso non produce effetti soltanto sul reddito, sul patrimonio o sull'occupazione, ma anche, ad esempio, sulla «fruizione di beni collettivi» (nei quali rientrano i beni ambientali) ovvero si concretizza nella semplice «consapevolezza del degrado ambientale». Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, la valutazione del danno ambientale richiede non solo la quantificazione economica dei costi di ripristino, ma anche dell'indennizzo per la perdita di un determinato livello di benessere cui la collettività è costretta a rinunciare e, conseguentemente, l'attribuzione di un valore monetario alle componenti ambientali, il cui danneggiamento provoca un costo o una perdita alla collettività.

Peraltro, il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dell'ambiente, non presuppone che il responsabile sia condannato per reato ambientale, in quanto il danno non patrimoniale, conseguente all'ingiusta lesione di un interesse costituzionalmente garantito, quale è l'ambiente, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p. e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, in tema di diritti inviolabili relativi alla persona non aventi natura economica (Cass. n. 25010/2008).

In tale direzione si è rilevato che in tema di gestione di rifiuti, l'accertata presenza in discarica di rifiuti di tipologia diversa e maggiormente inquinante rispetto a quelli che la discarica stessa, per caratteristiche costruttive e operative, sia in grado di accogliere, è idonea a configurare un danno ambientale ex art. 300 comma 2 lett. d) d.lgs. n. 152 del 2006 (Cass. pen. n. 36818/2011; Cass. pen. n. 42465/2013; Cass. pen. n. 33228/2014; Cass. pen. n. 44638/2015).

Invero, l'art. 300, comma 2, lett. d) d.lgs. n. 152/2006 configura quale danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato «al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell'introduzione nel suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l'ambiente». Ciò che rileva, ai fini della configurabilità oggettiva del danno ambientale, è dunque, non il livello di inquinamento in senso assoluto, ma l'incremento dell'inquinamento rispetto alle condizioni originarie.

Ciò che rileva ai fini della configurabilità oggettiva del danno ambientale è, dunque, non il livello di inquinamento in senso assoluto, ma l'incremento dell'inquinamento rispetto alle condizioni originarie; incremento che nel caso in esame si è certamente verificato, per la presenza in discarica di rifiuti maggiormente inquinanti rispetto a quelli che la discarica, in base alle sue caratteristiche costruttive e operative, è in grado di accogliere.

La l. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18 (istitutiva del Ministero dell'ambiente) ha introdotto, quindi, nel nostro ordinamento, quale forma particolare di tutela, l'obbligo di risarcire il danno cagionato all'ambiente (alterazione, deterioramento o distruzione anche parziale) a seguito di una qualsiasi attività, dolosa o colposa, compiuta in violazione di un dispositivo di legge o di un provvedimento adottato in base a legge.

È stata così prevista una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale (aquiliana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno «ingiusto» all'ambiente, dove l'ingiustizia è stata correlata alla violazione di una disposizione di legge e dove il soggetto titolare del risarcimento è stato individuato nello Stato.

In particolare, per una esatta determinazione del contenuto del danno all'ambiente e conseguentemente del risarcimento − è necessario effettuare un distinguo tra la lesione in sé del bene ambientale, considerato in senso unitario (riconducibile alla categoria del c.d. danno evento) e (l'eventuale) danno ai singoli beni (di proprietà pubblica o privata) che ne fanno parte (c.d. danno conseguenza), di natura più propriamente patrimoniale (es. riduzione del valore di mercato di una proprietà).

Analogamente una concezione atomistica del danno ambientale potrebbe dirsi esclusa, alla luce se non altro dei principi generali sull'unitarietà del danno non patrimoniale elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass.S.U., n. 26972/2008).

Da tale corollario discenderebbe senz'altro l'erroneità dell'esclusione, da tali criteri, dei costi di ripristino allorché questo sia escluso, o per obiettiva impossibilità o per libera determinazione del danneggiato: il bene giuridico costituito dall'ambiente rimane oggettivamente danneggiato anche se il titolare di quello ritenga impossibile o non conveniente il ripristino, sicché il controvalore di tale diminuzione spetta comunque al danneggiato, in base a principi affatto generali della responsabilità civile. Né sussisterebbe alcuna locupletazione e tanto meno ingiusta: spetta incoercibilmente al danneggiato, che abbia conseguito un risarcimento per equivalente, ogni determinazione sulla sua concreta destinazione al ripristino effettivo della situazione preesistente, ovvero sul trattenimento ed il reimpiego di quella riparazione — attesa appunto l'assoluta fungibilità del denaro in cui essa consiste — mediante sua destinazione al soddisfacimento di fini ritenuti egualmente satisfattivi (Cass. n. 6551/2011).

Così, in tema di smaltimento di rifiuti si è rilevato che: non danno luogo a risarcimento — di regola — violazioni meramente formali. La stessa lesione dell'immagine dell'ente, il quale, dalla commissione di reati vede compromesso il prestigio derivante dall'affidamento di compiti di controllo o gestione, costituisce danno non risarcibile autonomamente, in tal caso il risarcimento deve essere riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il suddetto danno ambientale, al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente (Cass. pen. n. 1145/2002, a mente della quale non danno luogo a risarcimento − di regola − violazioni meramente formali. La stessa lesione dell'immagine dell'Ente, il quale, dalla commissione di reati vede compromesso il prestigio derivante all'affidamento di compiti di controllo o di gestione, costituisce danno non risarcibile autonomamente, in tal caso il risarcimento deve essere riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il suddetto danno ambientale, al quale sia collegata come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'Ente).

Analogamente, si è osservato che dallo stesso fatto lesivo può derivare, oltre che un danno ambientale nei termini descritti dall'art. 300 d.lg. n. 152 del 2006, anche un danno all'immagine dell'ente territoriale in relazione alla lesione che lo stesso può indirettamente subire, sul piano del prestigio e della reputazione, nei confronti della collettività, con riferimento all'efficacia dell'azione, ad esso demandata, di custodia e valorizzazione di beni ambientali di particolare rilievo (Cass. n. 44228/2018).

Le perdite provvisorie

Le perdite temporanee trovano adesso specifica collocazione normativa nel d.lgs. n. 152/2006 che ha dato attuazione alla previgente direttiva comunitaria 2004/35/CE.

L'articolo 1 dell'Allegato II della stessa direttiva testualmente prevede che sono temporanee le perdite risultanti dal fatto che le risorse e/o i servizi naturali danneggiati non possono svolgere le loro funzioni ecologiche o fornire i servizi ad altre risorse naturali o al pubblico fino a che le misure primarie o complementari non abbiano avuto effetto«. Il testo unico 152/2006 nell'Allegato 3 (Parte sesta), riproducendo la definizione [punto 1 lettera d)], si esprime negli stessi termini prevedendo: il medesimo criterio risarcitorio [punto 1 lettera c)], c.d. riparazione »compensativa«; le stesse finalità riparatorie (punto 1.1.3.) e i criteri da adottare per la individuazione delle misure di riparazione compensativa (punti 1.2.2. e 1.2.3.).

Pertanto, integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. perdite provvisorie, previste espressamente come componente del danno risarcibile dalla direttiva 2004/3 5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) approvata il 21.4.2004 e già considerate risarcibili dalla giurisprudenza di legittimità sotto forma di modifiche temporanee dello stato dei luoghi (Cass. n. 13716/1999).

La risarcibilità delle perdite temporanee è giustificata dal fatto che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita, danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.

Inoltre, è attribuita rilevanza alle c.d. perdite provvisorie; e segnatamente, come scandisce la Corte di Cassazione, integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. «perdite provvisorie» previste espressamente come componente del danno risarcibile dalla direttiva 2004/35/CE (Cass. pen. n. 16575/2007), la cui risarcibilità è giustificata dal fatto che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita: danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo (Palomba).

Parificazione tra perdite temporanee e perdite provvisorie?

La direttiva 2004/35/CE sembra assimilare le perdite temporanee alle c.d. perdite provvisorie tanto da assoggettarle alla medesima disciplina. Ciò determinerebbe, conseguentemente, l'irrisarcibilità delle perdite temporanee in quanto, così come le perdite provvisorie, costituirebbero espressione di un danno ambientale «non significativo» e, pertanto, non suscettibile di risarcimento ai sensi dell'art. 2, n. 1, della direttiva 2004/35/CE. Tale conclusione sembra confermata dall'Allegato I alla direttiva CE, recepito dall'Allegato 4 alla Parte sesta del T.U., secondo cui non è risarcibile un «danno a specie o habitat [...] che si ripristineranno entro breve tempo e senza interventi, o nelle condizioni originarie o in uno stato che, unicamente in virtù della dinamica della specie o dell'habitat, conduca a condizioni ritenute equivalenti o superiori alle condizioni originarie».

Le perdite provvisorie sono, infatti, annoverate dalla direttiva 2004/35/CE (e dal T.U.) fra i danni «non significativi», ossia tra i danni i cui effetti, una volta cessata la condotta illecita, sono rimossi dalla stessa risorsa ambientale «offesa» attraverso un celere processo di autoriparazione che ripristina (o addirittura migliora) le condizioni preesistenti all'illecito, senza che occorra l'ausilio di un intervento esterno.

La definizione normativa sembrerebbe quindi escludere la risarcibilità del danno ambientale consistente nella mera alterazione temporanea della risorsa naturale destinata a risolversi per effetto dei naturali processi di autoriparazione. Secondo parte della dottrina (Schiesaro, 123), tuttavia, tale restrittiva impostazione sembrerebbe contrastare con l'intento perseguito dal legislatore comunitario e con alcuni suoi principi fondamentali sanciti in materia di tutela risarcitoria del danno ambientale, e primo fra tutti, con il principio «chi inquina paga» (considerando 2 della direttiva 2004/35/CE), sulla base del quale, coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile, dovrebbero essere attuate la prevenzione e la riparazione del danno ambientale.

Invero, anche il dato letterale sembrerebbe militare a favore di una distinzione tra le perdite temporanee e le perdite provvisorie in quanto le perdite temporanee si caratterizzerebbero per il fatto che la loro durata è limitata al tempo occorso per l'intervento di ripristino. Per le perdite provvisorie, invece, è esclusa la necessità di un intervento esterno e la loro provvisorietà sarebbe determinata dalla capacità di autoriparazione della risorsa naturale che non richiede alcun tipo di intervento antropico.

L'analisi delle caratteristiche sopra indicate induce a preferire la tesi che distingue le due tipologie di perdite, escludendo dall'applicazione della normativa ambientale in materia di risarcimento soltanto quelle provvisorie in quanto carenti del requisito della significatività richiesto per la configurazione del danno ambientale, e riconoscendo, invece, la piena risarcibilità di quelle c.d. temporanee, prescindendo, se non ai limitati fini della misura dell'indennizzo, dalla durata del protrarsi degli effetti dannosi.

Tale distinzione, però, non sembra essere condivisa, o, comunque, non assume il necessario rilievo, nella giurisprudenza di legittimità che annovera tra i danni risarcibili, considerandole probabilmente sinonimi delle perdite temporanee, anche le c.d. perdite provvisorie, quali danni derivanti medio tempore dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta (Cass. pen. n. 16575/2007). Secondo la sentenza, infatti, ai fini della risarcibilità rileva soltanto il dato obiettivo della sottrazione della risorsa ambientale alla piena fruibilità. Appunto per questo, assumono un rilievo del tutto marginale, tanto da risultare ininfluenti, l'intensità ovvero la durata degli effetti provocati dall'evento; non assumono, invece, alcun rilievo né il tempo necessario per il ripristino, né le relative modalità (autorigenerazione o intervento antropico).

La probabile assimilazione che la Suprema Corte ha fatto delle perdite provvisorie alle perdite temporanee che, in base ad una interpretazione letterale del dato normativo, avrebbe dovuto decretare la irrisarcibilità di entrambe, determina, invece, un ampliamento della tutela del bene ambientale dal momento che i giudici di legittimità hanno voluto accertare, con ogni probabilità, soltanto la sussistenza o meno di danni derivanti dalla impossibilità di fruire della risorsa naturale.

Diversamente, se, come affermato dalla autorevole dottrina sopra richiamata, la Corte non avesse assimilato pienamente perdite provvisorie e perdite temporanee, avrebbe dovuto in primo luogo soffermarsi sulla non facile distinzione, soprattutto in presenza, come nel caso in esame, di un danno ad una risorsa naturale che si caratterizza per il suo forte potere di autodecantazione, fra le due tipologie di perdita; conseguentemente avrebbe ritenuto suscettibili di risarcimento soltanto le perdite temporanee, con l'effetto di limitare notevolmente la tutela riconosciuta all'ambiente.

L'obiettivo della Suprema Corte di voler garantire il massimo livello di tutela del bene ambientale, così come era stato assicurato nella vigenza della l. n. 349/1986, sembrerebbe trovare ulteriore conferma nell'operato richiamo alle «conclusioni alle quali si è pervenuti − in materia di risarcimento per equivalente patrimoniale − nell'interpretazione della l 349/1986 art. 18», ora quasi del tutto abrogato.

La Suprema Corte, infatti, giungendo ad una soluzione pressoché analoga a quella oggi esaminata, prima dell'emanazione della direttiva comunitaria, riconosceva la risarcibilità delle perdite temporanee ritenute come modifiche temporanee dello stato dei luoghi dalle quali deriva un pregiudizio qualificabile come danno ambientale (Cass. pen. n. 1317671999).

La tesi si basava, sostanzialmente, su di un inquadramento prettamente risarcitorio e sanzionatorio (Bozzo, 170) della normativa previgente, e forse sul condivisibile presupposto che anche l'alterazione di una caratteristica qualitativa della risorsa (in altre parole una modificazione temporanea della risorsa non necessariamente peggiorativa o irreversibile) ovvero della integra fruibilità dell'ambiente danneggiato costituisce una grave lesione dell'ambiente, a nulla rilevando la sua transitorietà e l'assenza apparente di conseguenze durature (Trib. Venezia, 27 novembre 2002, n. 1286, a mente del quale l'alterazione del bene ambiente costituisce una grave lesione, a nulla rilevando la sua transitorietà e l'assenza apparente di conseguenze durature se comunque le concrete modalità dell'evento hanno raggiunto una intensa ed evidente criticità; pretendere che si possa parlare di un danno ambientale solo in presenza di un'apprezzabile e duratura compromissione significa assimilare il danno solo a tragedie o scenari apocalittici).

La prova del danno ambientale

Il regime di imputazione del fatto presuppone la prova del danno.

Al riguardo, l'orientamento prevalente è nel senso che, una volta accertata la compromissione dell'ambiente in conseguenza di un fatto riferibile ad un determinato soggetto, la prova del danno ambientale deve ritenersi in re ipsa e, quindi, può essere anche fornita tramite presunzioni (Cass. n. 25010/2008; Cass. n. 5705/2013).

Si pensi all'ipotesi in cui risulti che i rifiuti pericolosi siano venuti a contatto con il suolo senza adeguate impermeabilizzazioni e coperture, essendo noto che, in tale evenienze, essi interagiscono con le componenti ambientali per il solo fatto di essere accumulati in un luogo senza precauzioni (Cass. pen. n. 4261/1991) o al caso di accertata violazione di norme anti-inquinamento, penalmente sanzionate (Cass. pen. n. 6190/1994).

Non mancano, però, decisioni che negano autosufficienza all'allegazione del semplice dato obbiettivo dell'evento generatore del danno ambientale e richiedono che questo sia specificamente provato tramite prove documentali o testimoniali, senza possibilità di surroga da parte di una Ctu (Cass. n. 1087/1998).

In verità, anche nella prima prospettiva, il danno più che «in re ipsa», è presunto, in considerazione della natura dell'evento lesivo dell'ambiente e delle conseguenze ad esso collegabili alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica).

La liquidazione del danno

La Corte di Cassazione ha evidenziato la peculiarità del danno ambientale, pur nello schema della responsabilità civile, rilevando che esso consiste nell'alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte dell'ambiente, inteso quale insieme che, pur comprendendo vari beni appartenenti a soggetti pubblici o privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che costituisce, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento (Cass. n. 4362/1992).

Per la valutazione del danno ambientale, dunque, non può farsi ricorso ai parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi conto della natura di bene immateriale dell'ambiente, nonché della particolare rilevanza del valore d'uso della collettività che usufruisce e gode di tale bene.

Da ciò discende il superamento della funzione compensativa del risarcimento.

Del resto, la Corte costituzionale conferisce al danno ambientale una rilevanza patrimoniale indiretta, nel senso che la tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di scambio del bene. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo (Corte cost. n. 641/1987).

Consentono di misurare l'ambiente in termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui: la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali. E per tutto questo l'impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetali il tutto consente di dare all'ambiente e quindi al danno ambientale un valore patrimoniale.

Per il giudice delle leggi, risulta superata la considerazione secondo cui il diritto al risarcimento del danno sorge solo a seguito della perdita finanziaria contabile nel bilancio dell'ente pubblico, cioè della lesione del patrimonio dell'ente, non incidendosi su un bene appartenente allo Stato. La legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti minori, non trova fondamento nel fatto che essi hanno affrontato spese per riparare il danno, o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica ma nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all'equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo (Corte cost. n. 641/1987).

Lo schema di azione adottato — riconducibile al paradigma dell'art. 2043 c.c. — porta ad identificare il danno risarcibile come perdita subita, indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori.

La Corte di Cassazione ha stabilito che, con riguardo ad azione di risarcimento del danno ambientale, promossa da un Comune a norma della l. n. 349 del 1986, art. 18, nella prova dell'indicato danno bisogna distinguere tra danno ai singoli beni di proprietà pubblica o privata, o a posizioni soggettive individuali, che trovano tutela nelle regole ordinarie, e danno all'ambiente considerato in senso unitario, in cui il profilo sanzionatorio, nei confronti del fatto lesivo del bene ambientale, comporta un accertamento che non è quello del mero pregiudizio patrimoniale, bensì della compromissione dell'ambiente, vale a dire della lesione in sé del bene ambientale (Cass. n. 9211/1995: il concetto di danno ambientale (...) accoglie il concetto di «compromissione o torto ambientale», consistente nell'alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente. In altri termini non basta la violazione puramente formale della normativa in materia di inquinamento, (...), ma occorre che lo Stato o gli Enti territoriali, (...), deducano l'avvenuta compromissione dell'ambiente).

Pertanto si può verificare sia un danno prettamente patrimoniale ai singoli beni, pubblici o privati, sia un danno all'ambiente, bene di natura pubblicistica, unitario e immateriale (Cass. n. 10118/2008, ove si è altresì precisato che quanto all'entità della somma liquidata è evidente che si tratta di valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità).

Peraltro, il criterio principale di risarcimento del danno ambientale è quello ripristinatorio, mentre quello risarcitorio resta come criterio residuale

Ad ogni modo, qualora non sia possibile una precisa quantificazione di un danno siffatto, il giudice — per espressa previsione della citata della l. n. 349/1986, art. 18 — procedeva in via equitativa, tenendo presenti parametri che prescindevano da termini di ristoro soggettivo quali la gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo del bene ambientale (Cass. pen. n. 22539/2002).

Infine, con specifico riferimento alla quantificazione dell'indennizzo è, inoltre, utile considerare che i prezzi di mercato non compensano la perdita di benessere connessa ai valori d'uso e di non uso della risorsa ambientale danneggiata. Per evitare, quindi, una sottostima del danno ambientale, dovrebbero essere valutati, e conseguentemente indennizzati gli «svantaggi» subiti tanto da coloro che fruiscono direttamente ovvero consumano la risorsa naturale danneggiata (valori d'uso), quanto da coloro che, malgrado non intendano fruire in futuro della risorsa, hanno percepito la riduzione di benessere scaturente dal danno ambientale, valori di non uso (Franzini, 365).

Danno ambientale ed associazioni ambientaliste

La normativa speciale dal danno ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, sicché le associazioni ambientaliste — pure dopo l'abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale (d.lgs. n. 267/2000, art. 9, comma 3, abrogato dal d.lgs. n. 152/2006, art. 318) — sono legittimate alla costituzione di parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all'ambiente, per il risarcimento non del danno all'ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell'ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale (Cass. pen. n. 36514/2006; Cass. pen. n. 14828/2010).

Le associazioni ambientaliste, dunque, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l'interesse all'ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato.

Pertanto, le associazioni ambientaliste sono legittimate a costituirsi parti civili proprio nel processo per reati ambientali, sia come titolari di un diritto della personalità connesso al perseguimento delle finalità statutarie, sia come enti esponenziali del diritto alla tutela ambientale — anche per i reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell'ambiente e del territorio, finalità che costituiscono la ragione sociale delle predette associazioni (Cass. pen. n. 7015/2015, fattispecie in cui l'oggetto dell'imputazione era costituito, oltre che da illeciti urbanistici, anche da delitti di falso ed abuso preordinati e commessi proprio allo scopo di rendere possibile l'abuso edilizio).

La possibilità di risarcimento in favore dell'associazione ambientalista, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043 c.c., poiché l'art. 185 c.p., comma 2, — che costituisce l'ipotesi più importante «determinata dalla legge» per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. — dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi «danneggiato» per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo.

Il danno, necessariamente diverso da quello della lesione dell'ambiente come bene pubblico, risarcibile in favore delle associazioni ambientaliste costituite parti civili nei procedimenti per reati ambientali, può avere natura, oltre che patrimoniale, anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all'attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo (Cass. pen. n. 19439/2012; Cass. pen. n. 34761/2011 ove si è affermato che le associazioni ambientaliste, costituite parte civile nei procedimenti per reati che offendono il bene ambientale, hanno diritto, con riferimento all'attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio aggredito dalle conseguenze delle condotte illecite, al risarcimento del danno non solo patrimoniale ma anche morale).

Altre sentenze hanno evidenziato che spetta solo allo Stato, e per esso al Ministero dell'ambiente, la legittimazione alla costituzione di parte civile nel procedimento per reati ambientali, al fine di ottenere il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse pubblico e generale all'ambiente e precisa, in motivazione, che tutti gli altri soggetti, ivi comprese le Regioni e gli Enti pubblici territoriali minori, possono agire ai sensi dell'art. 2043 c.c. per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto da essi subito, diverso da quello ambientale (Cass. pen. 41015/2010; Cass. pen. n. 633/2011, ove si specifica che spetta esclusivamente allo Stato la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati contro l'ambiente per ottenere il risarcimento del danno ambientale, inteso come interesse alla tutela dell'ambiente in sé considerato; anche la giurisprudenza di merito si è conformata a tale linea interpretativa: a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, e in particolare degli art. 300 e ss., la legittimazione a chiedere il risarcimento del danno ambientale, in forma specifica o per equivalente, per fatti commessi dopo l'entrata in vigore del medesimo t.u. (in data 29 aprile 2006), spetta esclusivamente al Ministro dell'ambiente, Ufficio Indagini preliminari Pescara, 30 aprile 2010).

Altra sentenza, precisa che anche a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (testo unico ambientale) che ha attribuito in via esclusiva la richiesta risarcitoria per danno ambientale al Ministero dell'ambiente, le associazioni ecologiste sono legittimate a costituirsi parte civile al solo fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti dal sodalizio a causa del degrado ambientale, mentre non possono agire in giudizio per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica (Cass. pen. 14828/2010).

Ancora, all'interno di un procedimento penale relativo a reati ambientali è ammissibile la costituzione di parte civile del Wwf in proprio, in quanto tale ente è titolare di autonome posizioni giuridiche lese da tali reati. Inoltre, se tali reati risultano commessi in data antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006, in applicazione della disciplina transitoria prevista da tale decreto è, altresì, ammissibile la costituzione di parte civile del Wwf in sostituzione degli enti territoriali sul cui territorio i reati sono stati commessi (Trib. Tolmezzo, 9 marzo 2007).

La risarcibilità del danno alla persona da illecito ambientale

In caso di compromissione dell'ambiente a seguito di reato (nella specie disastro colposo ex art. 449 c.p.), è in sé risarcibile il patema d'animo che il singolo provi di aver sofferto per il timore di danni alla salute a seguito del fatto di inquinamento, senza che rilevi la qualifica come danno esistenziale operata dal giudice di merito, in quanto, pur non essendo configurabile tale autonoma categoria di danno, la sofferenza morale è comunque suscettibile di ristoro quale pregiudizio non patrimoniale conseguente al reato (Cass. n. 11059/2009).

Tale posizione riprende quanto affermato dalle sezioni unite che con riferimento allo stesso fatto di inquinamento, qualificati tali pregiudizi come danno morale, si occupò della loro risarcibilità anche in assenza di danno biologico (gli interessati, infatti, non avevano subito danni alla salute, ma avevano a lungo vissuto nel timore che ciò si verificasse), la risposta fu che: in caso di compromissione dell'ambiente a seguito di disastro colposo (art. 449 c.p.), il danno morale soggettivo lamentato dai soggetti che si trovano in una particolare situazione (in quanto abitano e/o lavorano in detto ambiente) e che provino in concreto di avere subito un turbamento psichico (sofferenza e patemi d'animo) di natura transitoria a causa dell'esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamente anche in mancanza di una lesione all'integrità psico-fisica (danno biologico) o di altro evento produttivo di danno patrimoniale, trattandosi di reato plurioffensivo che comporta, oltre all'offesa dell'ambiente ed alla pubblica incolumità, anche l'offesa ai singoli, pregiudicati nella loro sfera individuale (Cass. S.U., n. 2515/2002).

Le Sezioni Unite con il proprio dictum superarono la tesi del necessario collegamento con il danno biologico seguita in precedenza (Cass. n. 4631/1997; Cass. n. 5530/1997, ove si era affermato che il danno morale soggettivo inteso quale transeunte turbamento psicologico è, al pari del danno patrimoniale in senso stretto, danno-conseguenza, risarcibile solo ove derivi dalla menomazione dell'integrità fisica dell'offeso o da altro tipo di evento produttivo di danno patrimoniale. Pertanto nel caso di compromissione anche grave della salubrità dell'ambiente, derivante da immissioni di una sostanza altamente tossica (nella specie, diossina) a seguito di disastro colposo, il turbamento psichico subito dalla generalità delle persone costrette a sottoporsi a periodici controlli sanitari a seguito dell'esposizione a quantità imprecisate della detta sostanza, con conseguente limitazione della propria libertà di azione e di vita, non è risarcibile in via autonoma quale danno morale sopportato in eguale misura da ciascuno dei soggetti coinvolti nel disastro, ove non costituisca conseguenza della menomazione specificamente subita da ciascuno di essi nella propria integrità psicofisica).

Tale orientamento è stato appunto superato, evidenziando che la dicotomia danno-evento e danno-conseguenza appariva quantomeno per la tematica di cui trattasi, una mera sovrastruttura teorica, dal momento che l'art. 2059 c.c. pone come unico presupposto di risarcibilità del danno morale la configurabilità di un fatto-reato, rinviando all'art. 185 c.p. che, a sua volta, rimanda alle singole fattispecie delittuose ed oltre al turbamento psichico della vittima non pone altre condizioni, tanto meno la presenza di un distinto evento di danno (Cass. S.U., n. 2515/2002).

Il giudice della nomofilachia ha ritenuto decisiva per la soluzione della questione la natura del reato ex art. 449 c.p.: delitto colposo di pericolo presunto (nel senso che il pericolo è implicito nella condotta e nessuna ulteriore dimostrazione deve essere fornita circa l'insorgenza effettiva del rischio per la pubblica incolumità) ma, soprattutto, delitto plurioffensivo, in quanto con l'offesa al bene pubblico immateriale ed unitario dell'ambiente [...], di cui è titolare l'intera collettività, concorre sempre l'offesa per quei soggetti singoli i quali, per la loro relazione con un determinato habitat (nel senso che ivi risiedono e/o svolgono attività lavorativa), patiscono un pericolo astratto di attentato alla loro sfera individuale.

Con la conseguenza che essendo pacifica la risarcibilità del danno morale nel caso di reati di pericolo o plurioffensivi, non sussiste alcuna ragione, logica e/o giuridica, per negare tale risarcibilità ove il soggetto offeso, pur in assenza di una lesione alla salute, provi di avere subito un turbamento psichico (che si pone anch'esso come danno-evento, alla pari dell'eventuale danno biologico o patrimoniale, nella specie non ravvisati).

Tuttavia, non tutti gli illeciti ambientali hanno l'effetto di compromettere la salute del singolo (come nel caso di fatti di inquinamento delle acque o dell'atmosfera, ovvero di contaminazione dei siti), o di metterla in pericolo.

In questi casi, in verità prevalenti, si ha la compromissione della salubrità ambientale (Cass. n. 5172/1979 che sottolineò come il diritto alla salute non rileva tanto come mero diritto alla vita e all'incolumità fisica, quanto come diritto all'ambiente salubre, fondato sugli art. 2 e 32 Cost., azionabile da parte di qualsiasi cittadino in forza dell'art. 2043 c.c., con la conseguenza che il risarcimento del danno non può essere limitato alle conseguenze che incidono sull'attitudine a produrre reddito, ma deve autonomamente comprendere anche il c.d. danno biologico, inteso come la menomazione dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica, per come precisato da Cass. n. 2396/1983).

Tuttavia, il tema della salubrità ambientale non esaurisce le possibili relazioni uomo-ambiente.

Possono, infatti, venire in evidenza aspetti in cui l'ambiente ha rilevanza nella vita delle persone per profili ulteriori rispetto a quelli incidenti sull'integrità fisica, quali: a) il «valore d'uso», che è sicuramente il più importante motivo di apprezzamento economico delle risorse ambientali, legato all'utilità percepita dai consumatori con la fruizione.

Il valore d'uso di un parco, di un'opera d'arte o di un fiume si forma infatti durante una visita, oppure durante l'esercizio di un hobby quale la fotografia, la pesca, il nuoto, il canottaggio, (Pericola, 3); b) il «valore di opzione», legato al desiderio di assicurarsi la disponibilità del bene per poterne fruire in futuro. Il valore di opzione assume rilevanza quando vi sono situazioni di incertezza sulla disponibilità futura della risorsa ambientale; riguarda, dunque, beni irriproducibili o beni la cui offerta non è in grado di adeguarsi alle variazioni della domanda, come i parchi e le opere d'arte; c) il «valore di lascito», che ha come preciso riferimento la possibilità di usufruire di un determinato bene da parte delle generazioni future. Questo si identifica con l'utilità derivante dalla consapevolezza che, grazie al proprio interessamento, anche le generazioni future potranno godere di determinate risorse ambientali; d) il «valore di esistenza» o «intrinseco», legato alla possibilità di preservare il bene da una possibile distruzione a prescindere da qualunque considerazione legata all'uso attuale o futuro di tale risorsa. Il valore di esistenza si riferisce, infatti, all'utilità percepita dai soggetti per il solo fatto che le risorse continuano ad esistere, indipendentemente dalla possibilità di trarne un beneficio dall'uso. Tale valore, che viene misurato dalla disponibilità a pagare per l'esistenza o la salvaguardia di determinati beni, è quindi indipendente da qualsiasi uso presente o futuro: è, quindi, riconducibile a posizioni di tipo etico, morale o ideologico».

In questi casi l'illecito ambientale non incide necessariamente sulla salubrità del contesto nel quale vive la persona interessata (a meno che non si voglia estendere questo concetto fin quasi a coincidere con quelli di «benessere» o simili) e, quindi, può non lederne il diritto alla salute, in quanto non reca ad esso danno, né crea una situazione di pericolo. Si pensi al taglio di un bosco costituente bellezza naturale; alla edificazione abusiva in area protetta; alla alterazione di bellezze naturali e paesaggistiche; a varie forme di attentato alla biodiversità; alla compromissione del patrimonio artistico e culturale: anche se non è in questione il danno, o il pericolo, per l'integrità fisica (Dell'Anno, 585), l'illecito certamente incide negativamente sulla vita delle persone che vivono nel contesto interessato o che con esso si relazionano, o ne fruiscono (Cordini, 700).

Condizioni per la risarcibilità

I pregiudizi connessi alla perdita della sola «fruibilità ambientale» senza ripercussioni, in termini di danno o di pericolo, sulla salute, non attenendo ad un diritto costituzionalmente inviolabile, ma soltanto ad un interesse costituzionalmente rilevante, sono risarcibili soltanto se il fatto che li ha determinati sia previsto come reato (Fimiani, 101).

Tuttavia, devono però ricorrere le seguenti condizioni.

La prima è che l'interesse leso sia differenziato e specifico rispetto a quello generico (adespota) alla conservazione dell'ambiente. Quanto all'individuazione dei criteri per attribuire natura specifica all'interesse, la Suprema Corte, ha riconosciuto l'esistenza di un diritto soggettivo all'uso dell'ambiente, affermando che il potere di fruizione da parte del singolo del bene costituito dall'ambiente può assumere la configurazione del diritto soggettivo quando sia collegato alla disponibilità esclusiva di un bene, la cui conservazione, nella sua attuale potenzialità di recare utilità al soggetto, sia inscindibile dalla conservazione delle condizioni ambientali, come si verifica nell'ipotesi di proprietà (o di titolarità di altri diritti che assicurino l'utilizzazione) di beni immobili, i quali traggano dall'ambiente il loro pregio particolare, quanto a produttività, amenità od altro (Cass. n. 2959/1996).

È inoltre necessario che ricorrano tutti gli elementi dell'illecito aquiliano e precisamente: a) che sia accertato il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta dell'autore del fatto e il danno ambientale, alla stregua delle regole dettate dagli art. 41 e 42 c.p., secondo i criteri della c.d. causalità di fatto o naturale, impostati sul principio della condizione sine qua non o della equivalenza, con il correttivo del criterio della causalità efficiente (Cass. n. 18094/2005; Cass. n. 12431/2001; Cass. n. 8259/1997; Cass. n. 8348/1996); b) che si proceda, una volta risolto il problema dell'imputazione dell'evento, alla ricerca del collegamento giuridico tra il fatto lesivo per l'ambiente e le sue conseguenze dannose per i singoli, selezionando quelle risarcibili, rispetto a quelle non risarcibili, in base ai criteri della causalità giuridica, alla stregua di quanto prevede l'art. 1223 c.c. (richiamato dall'art. 2056, comma 1, c.c.), che limita il risarcimento ai soli danni che siano conseguenza immediata e diretta dell'illecito, ma che viene inteso, secondo costante giurisprudenza, nel senso che la risarcibilità deve essere estesa ai danni mediati ed indiretti, purché costituiscano effetti normali del fatto illecito, secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale.

Circa l'elemento soggettivo, non può affermarsi che, essendo necessaria la prevedibilità dell'evento al fine di ritenere sussistente la colpa, il soggetto che ha posto in essere la condotta che ha causato oltre al danno ambientale, anche la lesione della sfera individuale a rilevanza non patrimoniale, non dovrebbe rispondere del danno subito da questi per difetto di prevedibilità degli eventi ulteriori, tra i quali rientra la privazione, in danno dei soggetti stessi, del pieno ed armonico rapporto con l'ambiente. É agevole opporre che la prevedibilità dell'evento dannoso deve essere valutata in astratto e non in concreto; che l'evento dannoso è costituito dalla lesione dell'interesse all'intangibilità delle relazioni uomo-ambiente; che tale lesione deve ritenersi prevedibile, rientrando nella normalità che un contesto ambientale sia oggetto di fruizione da parte del pubblico.

Per quanto concerne, infine, il profilo probatorio, va premesso il danno non patrimoniale da perdita della fruibilità ambientale (conseguente a reato), non coincide con la lesione dell'interesse protetto, ma consiste nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del rapporto con l'ambiente, nella preclusione della possibilità di relazionarsi con esso e, in definitiva, della compressione della possibilità di pieno sviluppo ed esplicazione della personalità umana; compressione che costituisce conseguenza della lesione dell'interesse protetto.

Non vale pertanto l'assunto secondo cui il danno sarebbe in re ipsa, nel senso che sarebbe coincidente con la lesione dell'interesse. Deve affermarsi invece che dalla lesione dell'interesse scaturiscono, o meglio possono scaturire, le suindicate conseguenze le quali, in relazione alle varie fattispecie, potranno avere diversa ampiezza e consistenza, in termini di intensità e protrazione nel tempo.

Il danno in questione deve quindi essere allegato e provato. Trattandosi tuttavia di pregiudizio che si proietta nel futuro (diversamente dal danno morale soggettivo contingente), dovendosi aver riguardo al periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente esplicato il godimento dell'ambiente che l'illecito ha invece reso impossibile, sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire.

La sua liquidazione, vertendosi in tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali privi di contenuto economico, non potrà che avvenire in base a valutazione equitativa (art. 1226 e 2056 c.c.), tenuto conto di tutti gli elementi della fattispecie e pertanto, a fini esemplificativi: a) della personalità del soggetto leso; b) dell'interesse violato; c) dell'attività svolte dalla vittima; d) delle ripercussioni del fatto illecito sulla personalità del soggetto leso; e) delle alterazioni, provocate dal fatto illecito, anche nell'ambito familiare e sociale del danneggiato.

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