Legge - 24/03/2001 - n. 89 art. 5 quater - (Sanzioni processuali) 1

Rosaria Giordano

(Sanzioni processuali)  1

1. Con il decreto di cui all' articolo 3, comma 4 , ovvero con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, quando la domanda per equa riparazione e' dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, puo' condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro10.000.

[1] Articolo inserito dall'articolo 55, comma 1, lettera f), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, con la decorrenza di cui al comma 2 del medesimo decreto.

Inquadramento

Nel procedimento di equa riparazione trovano applicazione, in primo luogo, nel silenzio del legislatore, come chiarito da una giurisprudenza ormai consolidata, gli artt. 91 e ss. c.p.c. sulle spese di lite.

Tali norme opereranno in particolare nella fase di opposizione dove, in presenza di una soccombenza reciproca o degli altri presupposti indicati dall'art. 92, secondo comma, c.p.c., potranno anche essere compensate.

La norma in esame prevede inoltre la possibilità, per l'ipotesi di declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza della domanda monitoria ovvero di quella di opposizione che la parte soccombente sia condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria.

Statuizione sulle spese

La legge n. 89 del 2001, non reca nessuna specifica norma in ordine al regime delle spese all'esito dello svolgimento del processo camerale di opposizione. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che in virtù del richiamo ivi effettuato, si applicano sul punto le norme del codice di procedura civile, ossia, in particolare, le disposizioni degli art. 91 e ss. c.p.c. in tema di spese processuali che, invero, trovano applicazione in linea generale nel procedimento camerale nel caso in cui questo statuisca su posizioni soggettive in contrasto, come accade nell'ipotesi di controversia in tema di equa riparazione del danno subito dal cittadino per l'irragionevole durata di un processo.

A riguardo, non si può trascurare che in ordine alla sussistenza all'esito del procedimento camerale del potere/dovere del giudice di statuire in ordine alle spese di lite sulla scorta della generale previsione contenuta nell'art. 91 c.p.c., il criterio principale adottato – pur ferme talune incertezze emerse in dottrina come nella giurisprudenza di legittimità anche in ragione della complessità della materia – è quello della sussistenza o meno di una contrapposizione di interessi tra le parti nell'ambito dei procedimenti camerali di carattere bilaterale (Asprella 44 ss.; Giordano 217 ss.; Pigari 573; Santarsiere 1694).

La S.C. ha a riguardo affermato che le disposizioni degli art. 91 e ss. c.p.c., in tema di spese processuali, trovano applicazione analogica nei procedimenti camerali, ove il provvedimento che li definisca non si esaurisca in un intervento del giudice di tipo sostanzialmente amministrativo, ma statuisca su posizioni soggettive in contrasto (Cass. n. 1416/1989). Analogamente, in sede di merito, si è evidenziato che i procedimenti di volontaria giurisdizione assumono le caratteristiche del giudizio contenzioso se vi partecipano soggetti che contrastano la domanda del ricorrente, il cui accoglimento pregiudicherebbe i loro interessi, sicché deve svolgersi in contraddittorio ed il decreto conclusivo è sostanzialmente una sentenza, che deve pronunciare sulle spese secondo il principio della soccombenza (Trib. Milano, 23 dicembre 1988, in Giust. Civ., 1989, I, 1693, con nota di Santarsiere).

Diversamente, le spese del procedimento di volontaria giurisdizione, nel quale non è ravvisabile un contrasto di posizioni soggettive, concorrendo le parti al perseguimento di un interesse comune, si sottraggono alla disciplina dettata dagli art. 91 ss. c.p.c. (Cass. n. 650/2003; App. Milano, 15 dicembre 2004).

La stessa S.C. ritiene, sotto altro profilo, che nessun ostacolo all'applicazione di detta normativa provenga dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo, ovvero dal Protocollo aggiuntivo alla stessa, restando esclusa l'applicazione analogica delle disposizioni sulle spese vigenti per i procedimenti innanzi alla Corte di Strasburgo, poiché dalla Cedu non discende un obbligo, a carico del legislatore nazionale, di conformare il processo per l'equa riparazione da irragionevole durata negli stessi termini previsti, quanto alle spese, per il procedimento dinanzi agli organi istituiti in attuazione della Convenzione, dovendosi escludere che l'assoggettamento del procedimento alle regole generali nazionali, e quindi al principio della soccombenza, possa integrare un'attività dello Stato che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti dalla Convenzione o ad imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione (Cass. n. 22305/2009).

L'operatività degli artt. 91 e ss. c.p.c. per la liquidazione delle spese anche nell'ambito della fase contenziosa del procedimento per l'equa riparazione del danno derivante da irragionevole durata del processo comporta, su un piano generale, che il Giudice debba porre in linea di principio l'onere delle spese a carico della parte soccombente, salva la possibilità di compensare le stesse per gravi ed eccezionali ragioni ex art. 92, secondo comma, c.p.c. (Giordano, 43 ss.).

In accordo con il principio di soccombenza è tenuta a rimborsare le spese di giudizio la parte la quale, nel dare inizio alla causa, nel proseguirla o nel resistervi, sia ricorsa ad argomentazioni non conformi a diritto, originando o prolungando il processo, tanto per ragioni di rito che per ragioni di merito. In tale direzione è stato quindi precisato, aderendo ad una teoria «oggettiva» della concezione di soccombenza, che il fondamento del principio in virtù del quale le spese competono alla parte soccombente non va, infatti, ricercato nella « colpa » di avere sostenuto il proprio diritto od interesse, risultato a posteriori in tutto o in parte inesistente, bensì nella circostanza obiettiva della soccombenza medesima (Cass. n. 7182/2000; Cass. n. 9537/2005). Tuttavia, con riguardo ai procedimenti in cui è parte, l'ufficio del p.m. non può essere condannato al pagamento delle spese del giudizio nell'ipotesi di soccombenza trattandosi di un organo propulsore dell'attività giurisdizionale, che ha la funzione di garantire la corretta applicazione della legge, con poteri meramente processuali, diversi da quelli svolti dalle parti, esercitati per dovere di ufficio e nell'interesse pubblico (v., tra le tante, Cass. n. 3284/2010).

La possibilità di compensare le spese processuali tra le parti costituisce la più significativa eccezione, nel nostro ordinamento, al principio c.d. di soccombenza, in quanto la compensazione delle spese nell'ipotesi di soccombenza c.d. reciproca, prevista dallo stesso capoverso dell'art. 92 c.p.c., non è altro che un'ovvia specificazione del più generale principio di soccombenza. Non è superfluo ricordare in questa sede che la dottrina ha diversamente individuato il fondamento del potere del giudice di compensare le spese processuali tra le parti.

Secondo l'orientamento tradizionale, in particolare, l'istituto si riconnette al principio di causalità, la cui applicazione comporta che sia condannata alle spese la parte che, attraverso il proprio comportamento antigiuridico, cioè posto in essere in violazione di norme di diritto sostanziale ovvero per la realizzazione esclusiva di un proprio interesse senza che ciò fosse immediatamente determinato da una controversia attuale ha provocato la necessità del processo (v., tra gli altri, Bongiorno, 4).

In accordo con un'altra impostazione, invece, la compensazione delle spese sarebbe legata ad una responsabilità di natura esclusivamente processuale della parte, ovvero, più precisamente, ad una condotta processuale o pre-processuale tale da a concretare un vero e proprio abuso del processo (Cordopatri, 620 ss.).

L'operatività degli artt. 91 e ss. in ordine alla disciplina delle spese processuali anche nel procedimento in esame implica, quindi, che il giudice possa compensare le spese, salva l'ipotesi di soccombenza reciproca, nelle diverse ipotesi nelle quali, secondo la disciplina applicabile ratione temporis, l'art. 92, secondo comma, c.p.c. lo consente.

In conseguenza di ciò, si è ad esempio ritenuto che la mancata costituzione in giudizio dell'Amministrazione convenuta, non implicando acquiescenza alla pretesa dell'attore, non è sufficiente di per sé a giustificare la compensazione delle spese processuali, la quale postula che il giudice motivi adeguatamente la propria decisione in tal senso, dal momento che è pur sempre da una colpa organizzativa dell'Amministrazione della giustizia che dipende la necessità per il privato di ricorrere al giudice (Cass. n. 1101/2010).

È stato invece chiarito che la liquidazione dell'indennizzo in misura inferiore a quella richiesta dalla parte, per l'applicazione, da parte del giudice, di un moltiplicatore annuo diverso da quello invocato dall'attore, non integra un'ipotesi di accoglimento parziale della domanda che legittima la compensazione delle spese, ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c., poiché, in assenza di strumenti di predeterminazione anticipata del danno e del suo ammontare, spetta al giudice individuare in maniera autonoma l'indennizzo dovuto, secondo criteri che sfuggono alla previsione della parte, la quale, nel precisare l'ammontare della somma richiesta a titolo di danno non patrimoniale, non completa il «petitum» della domanda sotto il profilo quantitativo, ma soltanto sollecita, a prescindere dalle espressioni utilizzate, l'esercizio di un potere ufficioso di liquidazione (Cass. n. 14976/2015).

Peraltro, la differenza fra il "quantum" richiesto e quello ottenuto può assurgere a sintomo di quelle "gravi ed eccezionali ragioni" che giustificano la compensazione totale o parziale (Cass. n. 22021/2018).

L'attuale configurazione del procedimento ex lege Pinto secondo lo schema monitorio/giudizio di opposizione non è peraltro priva di rilevanza ai fini della problematica del riparto delle spese di lite tra le parti sulla scorta del generale principio di soccombenza ex art. 91 e ss. c.p.c. (Giordano, 167 ss.).

A riguardo, la prima e più semplice situazione da considerare è quella del rigetto dell'opposizione, ipotesi nella quale si avrà un'implicita conferma del decreto ingiuntivo, che resterà il titolo emesso in favore del creditore, anche in relazione alle spese liquidate nella fase monitoria, mentre le spese del giudizio di opposizione dovrebbero essere di regola accordate, in base al principio c.d. di soccombenza, al creditore opposto. Pertanto, nella fattispecie che ne occupa se, emesso il decreto in favore del ricorrente privato, l'Amministrazione propone opposizione che viene disattesa, le spese dovranno essere poste a carico della stessa mentre, per converso, se la domanda monitoria era stata in tutto o in parte rigettata, le spese dovranno essere poste a carico del ricorrente opponente.

In omaggio ai principi generali vigenti in materia, qualora il giudice riconosca fondata, anche solo parzialmente, l'opposizione, dovrà comunque revocare in toto il decreto opposto e statuire in merito al pagamento di eventuali importi residui del credito, in quanto la relativa decisione di condanna si sostituisce all'originario decreto ingiuntivo (Cass. n. 12256/2007). Ne deriva che, nello stesso procedimento in esame, se l'opposizione avverso il provvedimento emesso nella prima fase monitoria inaudita altera parte viene anche soltanto in parte accolta, il decreto stesso dovrà essere revocato e sostituito dal decreto emanato dalla Corte d'Appello in sede di decisione dell'opposizione.

Revocato il decreto ingiuntivo, nell'ipotesi di accoglimento, totale o parziale, dell'opposizione, il Giudice dovrà provvedere anche sulle spese della fase monitoria. Il principio applicabile è quello per il quale, atteso che nel procedimento per ingiunzione, la fase monitoria e quella di cognizione, che si apre con l'opposizione, fanno parte di un unico processo, nel quale l'onere delle spese è regolato, secondo il c.d. principio di globalità, in base all'esito finale del giudizio (Cass. n. 17469/2007), l'accoglimento parziale dell'opposizione avverso il decreto ingiuntivo, sebbene implichi la revoca dello stesso, non comporta necessariamente il venir meno della condanna dell'ingiunto, poi opponente, al pagamento delle spese della fase monitoria, potendo le stesse essere poste legittimamente a suo carico, qualora alla revoca del decreto ingiuntivo si accompagni una condanna nel merito (Cass. n. 14764/2007).

Questa impostazione interpretativa ha ricevuto l'espresso conforto della recente giurisprudenza di legittimità per la quale, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, il rigetto della domanda proposta in via monitoria osta ad una statuizione sulle spese attesa la mancata instaurazione del contraddittorio, mentre ove la medesima domanda venga successivamente accolta in seguito ad opposizione ex art. 5-ter della l. n. 89 del 2001, la condanna riguarda necessariamente le spese dell'intero giudizio, senza possibilità di una distinta liquidazione per la fase monitoria attesa l'unitarietà del procedimento e la non assimilabilità dell'opposizione all'appello (Cass. n. 18200/2015).

Tuttavia, la S.C. ha di recente condivisibilmente precisato che l'operare del principio di globalità nella condanna alle spese processuali, comporta che, laddove la somma chiesta con il ricorso sia riconosciuta solo parzialmente dovuta, non contrasta con gli art. 91 e 92 c.p.c. la pronuncia di compensazione delle spese processuali, in quanto l'iniziativa processuale dell'opponente, pur rivelandosi necessaria alla sua difesa, non ha avuto un esito totalmente vittorioso, così come quella dell'opposto, che ha dovuto ricorrere al giudice per ottenere il pagamento della parte che gli è riconosciuta (Cass. n. 19120/2009).

Le peculiarità del procedimento monitorio e della successiva fase di opposizione nell'ambito della legge Pinto così come modificata dalla legge n. 134/2012 non consentono, tuttavia, di applicare sempre quest'ultimo principio nell'ipotesi di accoglimento solo parziale, anche all'esito del giudizio di opposizione, della domanda formulata in sede monitoria dal ricorrente se non nell'ipotesi in cui a fronte dell'emanazione del decreto in favore del privato l'opposizione dell'Amministrazione sia stata accolta soltanto in parte.

In tale prospettiva, nella recente giurisprudenza di legittimità, la liquidazione dell'indennizzo in misura inferiore a quella richiesta dalla parte, per l'applicazione, da parte del giudice, di un moltiplicatore annuo diverso da quello invocato dall'attore, non integra un'ipotesi di accoglimento parziale della domanda che legittima la compensazione delle spese, ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c., poiché, in assenza di strumenti di predeterminazione anticipata del danno e del suo ammontare, spetta al giudice individuare in maniera autonoma l'indennizzo dovuto, secondo criteri che sfuggono alla previsione della parte, la quale, nel precisare l'ammontare della somma domandata a titolo di danno non patrimoniale, non completa il "petitum" della domanda sotto il profilo quantitativo, ma soltanto sollecita, a prescindere dalle espressioni utilizzate, l'esercizio di un potere ufficioso di liquidazione, fermo restando che  la differenza fra il "quantum" richiesto e quello ottenuto può assurgere a sintomo di quelle "gravi ed eccezionali ragioni" che giustificano la compensazione totale o parziale. (Cass. n. 22021/2018, la quale ha conseguentemente ritenuto che il riconoscimento di pochi mesi di esubero rispetto alla durata standard del processo rientrasse tra le "gravi ed eccezionali ragioni" rilevanti ex art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo "ratione temporis" applicabile).

Quanto ai criteri per la liquidazione delle spese processuali, prima dell'abrogazione delle stesse ad opera del decreto legge n. 1/2012 e l'introduzione dei parametri di cui al d.m. 140/2012, era stato chiarito che nei giudizi di equa riparazione la liquidazione delle spese processuali della fase avanti alla Corte di appello deve essere effettuata in base alle tariffe professionali previste dall'ordinamento italiano, senza tenere conto degli onorari liquidati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Cass. n. 1993/2010).

È stato in particolare affermato che, ai fini della liquidazione delle spese processuali, il processo camerale per l'equa riparazione del diritto alla ragionevole durata del processo deve essere considerato quale procedimento avente natura contenziosa (così anche, in sede di merito, App. Napoli, 3 novembre 2008, in Foro it., 2009, I, 1476), né rientra tra quelli speciali di cui alla tabelle A) e B) allegate al citato Decreto del Ministro della giustizia 8 aprile 2004, n. 127, per tali dovendo intendersi, ai sensi dell'art. 11 della tariffa allegata a detto decreto ministeriale, i procedimenti in camera di consiglio ed in genere i procedimenti non contenziosi (Cass. n. 25352/2008; Cass. n. 724/2013, la quale ha applicato i nuovi parametri introdotti dal d.m. n. 140/2012, riducendo alla metà il compenso minimo previsto per lo scaglione di valore di riferimento).

Tale impostazione è stata ripetutamente confermata nella giurisprudenza più recente, la quale ha precisato che, ai fini della liquidazione delle spese processuali, la natura contenziosa del processo camerale per l'equa riparazione, già affermata in relazione alla previgente tariffa di cui al d.m. n. 127 del 2004, deve essere ribadita anche in relazione alla tariffa di cui al d.m. n. 55 del 2014 (Cass. n. 23187/2016).

Sotto altro profilo, la S.C. ha tuttavia precisato che nei giudizi di equa riparazione per irragionevole durata del processo, il giudice, purché non scenda al di sotto degli importi minimi, può ridurre il compenso del difensore sino alla metà ex art. 9 del d.m. n. 140 del 2012 senza necessità di specifica motivazione (Cass. n. 16392/2016).

Peraltro, la facoltà, riconosciuta al giudice dall'art. 9 del d.m. n. 140 del 2012, di ridurre fino alla metà il compenso del difensore per l'opera prestata nelle controversie «ex lege» n. 89 del 2001, incontra un limite nell'art. 2233, comma 2, c.c., che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione (Cass. n. 25804/2015).

Declaratoria di inammissibilità della domanda e sanzione pecuniaria a carico del ricorrente

La norma in esame, introdotta dall'art. 55 legge n. 134 del 2012, stabilisce che mediante il decreto di cui all'articolo 3, comma 4, ovvero con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000.

Tale disposizione normativa ha evidentemente carattere sanzionatorio nei confronti del ricorrente che, incautamente, abbia proposto domanda di equa riparazione, in primo luogo, ove la stessa sia manifestamente infondata, i.e. qualora manchino evidentemente i presupposti per l'accoglimento della medesima. Ciò può avvenire, ad esempio, perché il procedimento ha avuto una durata inferiore ai limiti previsti per ciascun grado dalla stessa legge Pinto ovvero qualora il ritardo, pur sussistente, nella definizione del giudizio si correli, chiaramente, a condotte esclusivamente dilatorie della medesima parte istante, senza alcuna responsabilità del Giudice o degli altri soggetti chiamati a concorrere alla sollecita conclusione del processo.

La condanna del ricorrente al pagamento di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro10.000 in favore della Cassa delle ammende può essere disposta, inoltre, dal Giudice adito sia nella fase monitoria che all'esito del giudizio di opposizione nell'ipotesi di inammissibilità della domanda. Sempre a titolo di esempio, la condanna in questione potrà correlarsi alla proposizione del ricorso prima della conclusione del procedimento presupposto, ormai non più consentita dall'art. 4 legge c.d. Pinto, come modificato dalla legge n. 134/2012, ovvero, per converso, dopo lo spirare del termine semestrale di decadenza decorrente dal momento nel quale la decisione resa in detto procedimento è diventata definitiva. L'inammissibilità del solo giudizio di opposizione potrà dipendere, inoltre, dalla tardiva proposizione della relativa domanda.

In sede di legittimità è stato precisato che se il ricorso di equa riparazione per durata irragionevole del processo è accolto solo in parte e il ricorrente propone opposizione al collegio, questo, ove rigetti l'opposizione, non può condannare l'opponente al pagamento della sanzione di cui all'art. 5-quater della legge 24 marzo 2001, n. 89, atteso che tale sanzione può essere applicata solo quando la domanda di equa riparazione è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata (Cass. n. 1832/2021; Cass. n. 5122/2015).

La norma non richiede, ai fini della condanna del ricorrente al pagamento di un importo ricompreso tra 1.000 e 10.000 euro in favore della Cassa delle ammende, alcun ulteriore presupposto rispetto all'inammissibilità ovvero alla manifesta infondatezza della domanda proposta nella fase sommaria o dell'opposizione dinanzi alla Corte d'Appello. In sostanza, non è all'uopo richiesto alcuno stato soggettivo del ricorrente di dolo, colpa grave o colpa lieve, a meno di non voler ritenere quest'ultima implicita nella stessa proposizione di una domanda inammissibile o manifestamente infondata. Inoltre, la condanna può essere disposta dal Giudice d'ufficio, peraltro anche all'esito della fase sommaria che si svolge inaudita altera parte.

Di recente, la S.C. ha precisato che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, è manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., l'eccezione d'illegittimità costituzionale dell'art. 5-quater della l. n. 89 del 2001, in quanto, senza alcun automatismo, rientra nel potere discrezionale del giudice valutare se sussistono i presupposti per disporre una sanzione pecuniaria a carico della parte nelle ipotesi di declaratoria di inammissibilità o rigetto della domanda per manifesta infondatezza e la previsione di detta sanzione, pur costituendo un deterrente rispetto alla proposizione dell'azione, è compatibile con i parametri costituzionali ed in particolare con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che, per realizzarsi concretamente, presuppone misure volte a ridurre i rischi di abuso del processo (Cass. n. 5433/2016).

Sotto entrambi i profili, la disposizione ha una portata analoga, almeno avendo riguardo agli orientamenti prevalenti affermati in relazione alla stessa, alla fattispecie di responsabilità processuale aggravata c.d. oggettiva di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c., introdotta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69.

Il nuovo terzo co. dell'art. 96 c.p.c. prevede che «in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».

Tale previsione è innovativa rispetto al tradizionale sistema della responsabilità processuale aggravata disciplinato dai primi due commi dello stesso art. 96 c.p.c.

In primo luogo, infatti, alla medesima stregua della condanna in favore della Cassa delle Ammende che può essere disposta a carico del ricorrente nel procedimento per l'equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo, è previsto che la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a carico del soccombente venga comminata anche dal giudice d'ufficio, ossia a prescindere da qualsiasi istanza dell'altra parte, in ciò discostandosi evidentemente dalle fattispecie dei due precedenti commi dell'art. 96 c.p.c. che postulano per la relativa condanna una domanda dell'altra parte.

Sotto un distinto profilo, sembra dalla lettera del terzo co. dell'art. 96 c.p.c., che si apre invero con l'incipit «in ogni caso», tale forma di responsabilità processuale aggravata prescinda anche dalla sussistenza di un illecito, caratterizzato sul piano soggettivo da dolo o colpa grave, in capo alla parte condannata (Ghirga, 459). In tale prospettiva, obiettivo precipuo della nuova previsione è quello di porre un freno alle controversie che, sebbene non «temerarie», siano comunque prive di reale contenuto o semplicemente esplorative o intimidatorie (BucciSoldi, 78).

Peraltro, una parte della dottrina ha a riguardo evidenziato che sarebbe necessario rendere l'art. 96, terzo co., c.p.c. oggetto di un'interpretazione costituzionalmente orientata, onde evitare che il nuovo istituto si trasformi in un illegittimo limite all'esercizio dei diritti processuali sanciti dall'art. 24 Cost., temperando il drastico «in ogni caso» posto in apertura dello stesso, e valorizzando, invece, l'inserzione dello stesso nell'art. 96 c.p.c. che esige anche requisiti soggettivi e quindi comportamenti imputabili, almeno sotto il profilo della colpa lieve, come presupposto dell'applicazione dei primi due commi (Trib. Terni 17 maggio 2010, in Giur. Merito, 2010, n. 7-8, 1834, con nota di Porreca, La riforma dell'art. 96 c.p.c. e la disciplina delle spese processuali nella legge n. 69 del 2009).

A riguardo ancora più contraria ad un'interpretazione letterale del terzo co. dell'art. 96 c.p.c. si è mostrata autorevole dottrina la quale ha proposto un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'inciso «in ogni caso» quale mero richiamo alla possibilità per il giudice di disporre la condanna al risarcimento per responsabilità processuale aggravata senza necessità di un'istanza di parte, ferma restando la necessità di una mala fede o colpa grave della parte nei confronti della quale la condanna viene disposta (Scarselli, 263, il quale a fondamento della propria tesi richiama anche la contestuale abrogazione del quarto co. dell'art. 385 c.p.c. che, in tema di giudizio di Cassazione, consentiva alla Corte, a partire dalla riforma realizzata dal d.lgs. n. 40/2006, quando pronunciava sulle spese, di disporre la condanna del soccombente che avesse agito o resistito in sede di legittimità con dolo o colpa grave ad una somma non superiore al doppio dei massimi tariffari: v., in giurisprudenza, tra le altre, sulla necessità almeno della colpa grave per la condanna ai sensi dell'art. 385 c.p.c., Cass. n. 4829/2009).

Tuttavia, la condanna prevista a carico del ricorrente che proponga una domanda di equa riparazione inammissibile o manifestamente infondata ha ulteriori caratteristiche assolutamente peculiari anche rispetto alla responsabilità processuale aggravata ex art. 96, terzo co., c.p.c.

A riguardo, occorre in primo luogo osservare che la condanna di cui al terzo co. dell'art. 96 c.p.c. è posta a vantaggio della parte vittoriosa, pur essendo prevista per tutelare un interesse di rilevanza pubblicistica, sicché la stessa ha natura di pena pecuniaria. Diversamente, la condanna del ricorrente «temerario» nel procedimento di cui alla legge n. 89/2001 è disposta in favore della Cassa delle ammende, ragione per la quale tale condanna sembra piuttosto assumere portata squisitamente sanzionatoria. Peraltro, la differente disciplina può giustificarsi anche tenendo conto della circostanza che la controparte processuale è nel giudizio in esame lo Stato.

Sotto un distinto profilo, l'art. 96, terzo co., c.p.c. non determina l'entità della pena pecuniaria, facendo generico riferimento ad una somma «equitativamente determinata» dal giudice. Nondimeno, sarebbe opportuno che nella prassi una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, in modo da individuare criteri idonei a limitare l'ampia discrezionalità attribuita al giudice sulla determinazione dell'an e del quantum della sanzione, sia recuperando un elemento oggettivo sanzionabile in via analogica dalle condotte descritte nei precedenti commi dello stesso art. 96, sia tenendo conto della durata della causa, in rapporto al valore della stessa ed al tipo di condotta processuale adottato dal soccombente. In tale prospettiva, in giurisprudenza si è evidenziato che i criteri di determinazione della somma da liquidare, ex art. 96, comma terzo, c.p.c., in virtù della attribuita funzione sanzionatoria, possono essere ricavati dall'intensità dell'elemento soggettivo e dalla gravità della condotta di abuso del processo e di incidenza sulla sua durata (cfr. Trib. Rovigo 7 dicembre 2010, in Il civilista, 2011, n. 6, 10, con nota di Buffone, con riferimento ad una fattispecie nella quale l'elemento soggettivo era costituito dalla dolosa inattuazione del provvedimento possessorio e colposa introduzione del presente giudizio e quello oggettivo dalla gravità dell'abuso, consistente nell'impossibilità per il convenuto di accedere, per un periodo di tre anni, alla sua proprietà).

Sempre in sede applicativa si è affermato, peraltro, che la mancata predeterminazione degli indici di liquidazione della sanzione prevista dall'art. 96, comma terzo, c.p.c. non costituisce violazione del principio di legalità, in considerazione del fatto che tale modalità di costruzione della norma assolve alla necessità di non vincolare il giudice a fronte di situazioni che per la loro mutevolezza non possono essere previamente determinate ed alla necessità di adeguare quanto più compiutamente il fatto concreto alla norma astratta (Trib. Minorenni Milano, 4 marzo 2011, in Foro it., 2011, n. 7-8, 2184). Questa impostazione è stata avallata dalla Corte di Cassazione la quale ha più di recente evidenziato che in tema di responsabilità aggravata, il comma terzo dell'art. 96 c.p.c., aggiunto dalla l. 18 giugno 2009 n. 69, disponendo che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una «somma equitativamente determinata», non fissa alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo, al contrario del comma quarto dell'art. 385 c.p.c., che, prima dell'abrogazione ad opera della medesima legge, stabiliva, per il giudizio di cassazione, il limite massimo del doppio dei massimi tariffari, di talché la determinazione giudiziale deve solo osservare il criterio equitativo, potendo essere calibrata anche sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l'unico limite della ragionevolezza (Cass. n. 21570/2012).

Più opportunamente, per la condanna del ricorrente che abbia proposto una domanda di equa riparazione per l'irragionevole durata di un processo in sede monitoria o nella fase di opposizione manifestamente infondata o inammissibile il legislatore ha espressamente delimitato l'entità della sanzione pecuniaria tra l'importo minimo di euro 1.000,00 e quello massimo di euro 10.000,00. Nondimeno, la significativa differenza tra le due somme rende opportuna l'utilizzazione, anche in detta ipotesi, da parte del Giudice di criteri idonei ad adeguare in concreto l'entità della sanzione al valore della domanda proposta. A riguardo, è opportuno segnalare che nella recente giurisprudenza di merito si è ritenuto che la somma equitativamente determinata di cui all'art. 96, terzo comma, c.p.c., in difetto di esplicite indicazioni legislative, detta somma può essere ragionevolmente liquidata proprio ricorrendo al parametro fissato dall'art. 2-bis l. n. 89 del 2011, che stabilisce quale criterio applicativo di equa riparazione quello di un importo pecuniario compreso nel range tra euro 500 ed euro 1500 per ogni anno di durata eccedente il termine di ragionevole durata processuale, tenendo all'uopo conto del comportamento assunto dalle parti, nonché della natura degli interessi coinvolti ed il valore, oltre che della rilevanza della causa (cfr. Trib. Modena, II, 15 febbraio 2013, n. 217, che nella fattispecie concreta, considerato che si trattava di processo durato 7 mesi ed avente valore economico medio ed eminentemente patrimoniale, ha applicato il range di euro 1200 per ogni anno di durata del processo cosicché il tribunale ha così irrogato a titolo di sanzione la somma complessiva di euro 700).

Bibliografia

Asprella, Il regime delle spese nei procedimenti camerali, in AA. VV., Le spese nel processo, Suppl. a Giur. Merito, 2009, n. 7/8, 44 ss.; Bongiorno, Spese giudiziali, in Enc. giur. Treccani, XXX, Roma, 1993, 4; Cordopatri, L'abuso del processo, II, Padova, 2000; Giordano, Spese del processo, Milano 2012, 217 ss.; Pigari, Giurisdizione volontaria e disciplina delle spese, in Riv. dir. proc., 1980, 573; Santarsiere, Giurisdizione volontaria, contrasti e spese di giustizia, in Giust. Civ., 1989, 1694; Scarselli, Le novità in tema di spese, in Foro it., 2009, IV, 263.

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