Legge - 13/04/1988 - n. 117 art. 2 - Responsabilità per dolo o colpa grave.

Paola D'Ovidio

Responsabilità per dolo o colpa grave.

1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali [che derivino da privazione della libertà personale] 12.

2. Fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non puo' dar luogo a responsabilita' l'attivita' di interpretazione di norme di diritto ne' quella di valutazione del fatto e delle prove 3.

3. Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l'affermazione di un fatto la cui esistenza e' incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione 4.

3-bis. Fermo restando il giudizio di responsabilita' contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonche' dell'inescusabilita' e della gravita' dell'inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell'Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonche' del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea  5.

[2] La Corte Costituzionale, con sentenza 15 settembre 2022, n. 205, (in Gazz. Uff. 21 settembre 2022, n. 38), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui non prevede il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili della persona anche diversi dalla libertà personale.

[5] Comma aggiunto, per effetto della sostituzione del comma 3, dall'articolo 2, comma 1, lettera c) della Legge 27 febbraio 2015, n.18.

Inquadramento

Il testo originario dell'art. 2 della l. n. 117/1988 è stato profondamente modificato dall'intervento del legislatore del 2015 (l. n. 18/2015).

Si tratta di una delle norme più complesse e rilevanti dell'intera disciplina in materia di responsabilità civile dello Stato-giudice, in quanto in essa sono indicate tutte le ipotesi oggettive (comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni) e soggettive (dolo, colpa grave e denegata giustizia) in cui è configurabile una responsabilità diretta dello Stato verso il cittadino danneggiato dall'esercizio dell'attività giurisdizionale, oltre ad essere specificamente circostanziati, nella stessa norma, i casi in cui è configurabile la colpa grave (commi 3 e 3-bis) e quelli che, invece, non possono dar luogo ad alcuna responsabilità (comma 2, relativo alla c.d. clausola di salvaguardia).

L'articolo in esame è strutturato in quattro commi, il primo dei quali, con una formula che evoca l'art. 2043 c.c., enuncia il principio generale secondo cui chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario, posto in essere dal magistrato «con dolo o colpa grave» nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per «diniego di giustizia», può agire contro lo Stato per ottenere «il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali».

In relazione a tale disposizione, l'unica modifica apportata dalla novella del 2015 è consistita nella soppressione delle ultime parole del testo originario («che derivino dalla privazione della libertà personale»), con il conseguente ampliamento della sfera dei danni risarcibili, nella quale risultano oggi compresi, in ogni caso, e non solo nell'ipotesi di privazione della libertà personale come in precedenza, anche i danni non patrimoniali.

Con riferimento alle tre ipotesi di responsabilità richiamate dall'articolo in commento (dolo, colpa e diniego di giustizia) va osservato che, per quanto riguarda il dolo, nessuna ulteriore indicazione viene fornita dalla legge in esame, sicché la relativa nozione deve essere desunta dai principi generali e dalla interpretazione giurisprudenziale formatasi al riguardo, mentre le altre due ipotesi sono dettagliatamente disciplinate, rispettivamente, nello stesso articolo 2 (la colpa grave) e nel successivo art. 3 (il diniego di giustizia).

Il secondo comma è dedicato alla c.d. clausola di salvaguardia, la quale prevede che «fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo» non possa dar luogo a responsabilità «l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove» espletata dal magistrato nell'esercizio delle funzioni giudiziarie.

Si tratta di un principio intimamente legato alla peculiarità della funzione giurisdizionale, posto che il giudizio è, per definizione, diretto all'accertamento dei fatti ed all'applicazione delle norme attraverso un'attività di valutazione ed interpretazione, nella quale al giudice sono riservati ampi spazi dalle stesse norme processuali; queste ultime, peraltro, non consento di trasformare l'azione di risarcimento per errore giudiziario in un non previsto «processo al processo», quasi una sorta di quarto grado di giurisdizione.

A seguito della riforma del 2015, il comma 2 dell'art. 2 non è stato modificato nella parte già esistente, ma vi stato aggiunto l'inciso iniziale («fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo»).

Tale modifica ha suscitato molte perplessità interpretative e dubbi di legittimità costituzionale, in quanto, si è osservato, la disposizione, così come riformulata, si apre ora con una eccezione totalizzate, posto che i commi 3 e 3-bis contemplano tutte le ipotesi di colpa grave, ciò risolvendosi in una sostanziale inoperatività della clausola di salvaguardia, risultandone esclusa solo l'ipotesi di responsabilità per denegata giustizia, la quale peraltro, molto difficilmente implica un'attività valutativa o interpretativa, essendo caratterizzata da una condotta omissiva. In altri termini, si è detto, è come se tale clausola non ci fosse.

Il terzo comma dell'art. 2, contiene una vera e propria tipizzazione delle ipotesi che «costituiscono» colpa grave.

La novella del 2015 è intervenuta su tale disposizione, da un lato, modificando sensibilmente le caratteristiche dei casi di colpa grave già previsti dalla legge Vassalli e, dall'altro, ampliando il novero delle ipotesi «tipizzate»: sotto il primo profilo, ha espunto qualsiasi riferimento all'elemento soggettivo della «negligenza inescusabile», in precedenza previsto per tutte le ipotesi di colpa grave, e ha altresì trasformato la «grave violazione di legge» in «violazione manifesta della legge»; quanto all'ampliamento dei casi costituenti colpa grave, esso si è concretizzato introducendo ex novo, le figure del «travisamento del fatto e delle prove» e quella dell'emissione di un provvedimento cautelare non più solo personale, ma anche reale, nonché aggiungendo alla violazione della legge l'ulteriore ipotesi della «violazione manifesta del diritto del'Unione Europea».

Quest'ultima novità, in particolare, così come quella che ha interessato la clausola di salvaguardia di cui al precedente comma 2 del medesimo art. 2, rispondeva alla esigenza di adeguare la normativa nazionale alle pressioni provenienti dalla Corte di Giustizia Europea.

I giudici di Lussemburgo, infatti, con sentenza del 24 novembre 2011, avevano condannato la Repubblica italiana, in quanto, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate all'organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2, commi 1 e 2, l. n. 117/1988, era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado

Invero, le finalità perseguite dalla novella del 2015 erano duplici, come chiaramente indicato dall'art. 1 della l. n. 18 del 2015, laddove si enunciava che le modifiche apportate con tale legge alle norme di cui alla legge n. 117/1988, erano rivolte «al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell'appartenenza dell'Italia all'Unione europea».

Con riferimento a quest'ultimo aspetto, lo scopo è stato presto raggiunto, posto che la Commissione europea, nella seduta del 26 marzo 2015 e, dunque, all'esito della entrata in vigore delle modifiche alla legge sulla responsabilità per danni derivanti dall'esercizio dell'attività giudiziaria, ha disposto l'archiviazione della procedura di infrazione n. 2009/2230, aperta nei confronti dello Stato italiano a seguito dell'accertamento della non conformità al diritto UE della legge 13 aprile 1988, n. 117, ciò che ha conseguentemente bloccato la procedura esecutiva relativa alla irrogazione di una sanzione pecuniaria nei confronti dello Stato italiano, avviata con la messa in mora, ex art. 260 del Tfue, di cui alla contestazione del 26 settembre 2013 conseguente alla omessa adozione, da parte dell'Italia, di misure atte ad adempiere ai rilievi mossi dalla Cgeu con la sentenza del 24 novembre 2011.

Il comma 3-bis è stato introdotto ex novo dal legislatore del 2015 e fornisce puntuali criteri di valutazione per determinare i casi di violazione manifesta della legge nonché quelli le ipotesi di violazione manifesta del diritto dell'Unione.

La prescrizione di tale comma si suddivide in due parti: nella prima, sono indicati una serie di criteri applicabili per l'individuazione sia delle violazioni alla legge interna che delle violazione al diritto dell'Unione, mentre nella seconda parte le due fattispecie vengono differenziate con l'aggiunta di ulteriori criteri, idonei questi ultimi ad ulteriormente determinare solo la colpa grave per violazione del diritto dell'Unione. In tal modo risultano delineate due ipotesi di responsabilità ben distinte, sebbene inserite nella stessa disposizione.

Merita di essere sottolineato che, tra gli indici sintomatici comuni previsti per la configurabilità di entrambe le fattispecie di violazione di cui si occupa il comma 3-bis, risulta inserito anche il concetto di «inescusabilità dell'inosservanza», così sostanzialmente reintroducendo (solo per esse) la nozione di «negligenza inescusabile» che il legislatore del 2015 ha espunto dal precedente comma 3 per tutte le ipotesi di colpa grave.

La riscritturazione complessiva dell'art. 2, come operata dalla recente modifica della legge Vassalli consente dunque di affermare che, nel giudizio di responsabilità promosso nei confronti dello Stato, la nozione di colpa grave è ora oggettivizzata, per non essere più necessaria la sussistenza dell'elemento soggettivo della «negligenza inescusabile», ma ciò per tutte le fattispecie diverse dalla violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione Europea, per le quali l'elemento soggettivo torna in qualche misura rilevante, sotto il diverso nome di «inescusabilità dell'inosservanza», in virtù della sua menzione nel comma 3-bis dell'art. 2.

Peraltro, poiché l'azione di responsabilità per i danni derivanti dall'attività giudiziaria è esperibile dal preteso danneggiato esclusivamente nei confronti dello Stato (salva l'ipotesi di dolo del giudice), mentre la responsabilità personale del magistrato viene in rilievo solo in sede di rivalsa, si ha la peculiare situazione per cui l'elemento soggettivo previsto dall'art. 2, pur dovendo essere accertato e valutato con riferimento al comportamento del singolo magistrato, caratterizza in realtà la fattispecie illecita nel giudizio tra il cittadino e lo Stato-giudice, al quale il giudice-persona fisica rimane estraneo (pur avendo la facoltà di intervenire in quel processo, secondo le regole processuali indicate dalla stessa legge 117 del 1988).

Con specifico riferimento ai due ambiti di responsabilità, dello Stato e del singolo magistrato, va inoltre evidenziato che, nella nuova formulazione della disciplina, non vi è più la perfetta coincidenza, prevista invece dalla originaria legge Vassalli, tra l'elemento soggettivo rilevante quale presupposto della responsabilità dello Stato (delineato all'art. 2 in esame) e l'elemento soggettivo costituente condizione per l'obbligatorio esperimento dell'azione di rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato (specificato dall'art. 7 della stessa legge): solo in sede di rivalsa, infatti, viene oggi in rilievo (anche se non per tutte le ipotesi), oltre al dolo, il concetto di «negligenza inescusabile», il quale è stato invece eliminato (salvo, come sopra rilevato, il riferimento all'inescusabilità dell'inosservanza introdotto al comma 3-bis) dal testo dell'art. 2, concernente, invece, la sola responsabilità statuale.

Il dolo

Nel vigore degli artt. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile del 1940, i quali hanno disciplinato la materia della responsabilità civile derivante dall'attività giudiziaria sino alla loro abrogazione per via referendaria ed alla successiva adozione della legge Vassalli del 1988, era consentita l'azione diretta nei confronti del magistrato, sia pure previa autorizzazione del Ministro di Grazia e Giustizia, ma le ipotesi di responsabilità civile erano limitate ai soli casi di «dolo, frode o concussione« ovvero alle ipotesi di rifiuto, omissione o ritardo, da parte del magistrato, senza giusto motivo, »di provvedere sulle domande o istanze della parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero«.

In particolare, con riferimento alla nozione di «dolo» richiamata dall'art. 55, primo comma, n. 1, c.p.c. (abrogato dall'art. 1 del d.P.R. n. 497/1987), la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che essa andava intesa nel senso non della semplice volontarietà dell'azione che si assume dannosa, bensì della diretta consapevolezza di compiere un atto giudiziario formalmente e sostanzialmente illegittimo con il deliberato proposito di nuocere ingiustamente ad altri e, segnatamente, di ledere i diritti della parte soccombente, onde la necessità, affinché potesse ritenersi la sussistenza della responsabilità dei giudici, che l'attore fornisse la prova di una simile consapevolezza, ovvero del fatto che l'emissione del provvedimento sia stata determinata da fini estranei alle esigenze dell'amministrazione della giustizia. In applicazione di tale principio la Corte di cassazione escluse che potesse configurarsi in termini di condotta dolosa la manifesta inescusabilità dell'errore contenuto nell'affermazione di un fatto inequivocabilmente contraddetto dalle risultanze del fascicolo di causa (Cass. n. 540/2004).

Ebbene, in difetto di diverse indicazioni introdotte dalla legge n. 117 del 1988, la Corte di cassazione ha ritenuto che la nozione di «dolo» cui fa riferimento l'art. 2 di tale legge non è dissimile da quella cui faceva riferimento l'ormai abrogato art. 55, primo comma, n. 1, c.p.c., ed ha pertanto ribadito che essa va intesa nel senso non della semplice volontarietà dell'azione che si assume dannosa, bensì della diretta consapevolezza di compiere un atto giudiziario formalmente e sostanzialmente illegittimo con il deliberato proposito di nuocere ingiustamente ad altri e, segnatamente, in un processo penale, di ledere i diritti dell'imputato. Anche in tal caso la Corte ha quindi affermato la necessità che, affinché possa ritenersi la sussistenza della responsabilità dei giudici, l'attore deve offrire la prova di una simile consapevolezza, ovvero del fatto che, nel caso di specie, l'apertura dell'indagine penale e la richiesta di custodia cautelare a carico dell'imputato fossero state determinate da fini estranei alle esigenze dell'amministrazione della giustizia: tale prova, secondo la Suprema Corte, che ha confermato l'apprezzamento sul punto espresso nella sentenza impugnata, non poteva desumersi dalla mera circostanza della sopravvalutazione, da parte del Pubblico Ministero, di alcuni elementi di accusa obiettivamente esistenti, in quanto inidonea, di per sé sola, a realizzare l'intento persecutorio ipotizzato e a dimostrare la consapevolezza in capo al magistrato della falsità delle accuse mosse (Cass. n. 24370/2006).

Peraltro, si è precisato che il magistrato, nell'esercizio delle proprie funzioni, può incorrere in responsabilità non solo in conseguenza dell'adozione di un determinato provvedimento, ma anche attraverso un insieme di atti o provvedimenti preordinati ad un fine unitario, lesivo dei diritti altrui. In tal caso, poiché il perseguimento di un fine unitario presuppone necessariamente un atteggiamento doloso, chi allega di essere stato danneggiato dal magistrato attraverso il compimento mediante più atti o provvedimenti, ha l'onere di allegare concreti elementi idonei a configurare l'atteggiamento doloso, non essendo a tal fine sufficiente la generica affermazione della mera possibilità di un intento doloso del magistrato (Cass. n. 11229/2008).

La giurisprudenza ha anche opportunamente precisato che, per quanto riguarda il dolo, sussiste una sostanziale sovrapponibilità tra l'art. 2, relativo alle ipotesi di dolo e colpa grave, e l'art. 13, relativo invece ai fatti costituenti reato, della l. n. 117/1988, atteso che è di difficile configurazione un dolo civile distinto da quello penale.

Tale principio è stato affermato con riferimento ad un caso, non più attuale a seguito dell'abolizione del c.d. filtro di ammissibilità, in cui si era posto il problema dell'applicabilità o meno dell'art. 13 (che consentiva, e ancora oggi consente, l'azione diretta nei confronti del magistrato secondo le norme ordinarie e, quindi, all'epoca, senza il preventivo giudizio di inammissibilità, nelle ipotesi di responsabilità civile per fatti costituenti reato) allorché la parte attrice avesse agito direttamente in sede civile, anziché seguire la via del giudizio penale, che pur avrebbe potuto intraprendere tramite proposizione di querela e successiva costituzione di parte civile.

In quell'occasione la S.C. ha chiarito che l'art. 13 (e quindi la responsabilità diretta del magistrato) è operante solo nel caso di contestuale esercizio dell'azione penale ovvero dopo che sia stata accertata l'esistenza di un reato in sede penale, ritenendo altrimenti necessario il filtro di ammissibilità, in quanto previsto a tutela dell'esercizio della funzione giurisdizionale, giacché volto ad impedire «azioni avventate e dal sotteso intento ricattatorio ed intimidatorio», tali da limitare l'indipendenza del giudice (Cass. n. 41/2014).

Siffatto principio sembra a fortiori valido nel regime attuale, laddove l'intervenuta abrogazione del filtro preventivo di ammissibilità dell'azione risarcitoria nei confronti dello Stato, non solo non ha modificato l'esigenza di evitare pretestuose azioni di responsabilità civile proposte, ex art. 13 cit., direttamente nei confronti del magistrato persona-fisica invocando una sua presunta responsabilità penale non accertata e, in ipotesi, neppure denunciata, ma ha valorizzato il sistema della responsabilità indiretta del giudice quale strumento a garanzia dell'indipendenza e della autonomia della magistratura.

In sintonia con la giurisprudenza, anche in dottrina è stato affermato che il dolo significa conoscenza e volontà della giuridica ingiustizia del provvedimento, che si tratterà sempre di un reato (principalmente corruzione, altrimenti abuso d'ufficio o altro) e che la prova deve essere diretta e certa. Per quanto riguarda la prova, in particolare, si è sottolineato come il dolo non possa essere desunto dalla manifesta violazione di legge o dal travisamento del fatto o delle prove, atteso che, trattandosi di un reato, dovrà applicarsi lo stesso criterio utilizzato in sede penale, il quale richiede la prova «al di là di ogni ragionevole dubbio»; non sembra infatti ammissibile un diverso criterio quanto alla responsabilità civile che, in questo caso, proprio in considerazione del dolo, dispone una conseguenza, quella della responsabilità senza i limiti quantitativi altrimenti applicabili, che è manifestamente e gravemente sanzionatoria, perché una responsabilità civile per l'intero danno può avere dimensioni tali da essere distruttiva dell'esistenza. Del resto, osserva condivisibilmente il medesimo Autore, la conclusione risulta direttamente dal testo di legge, per il quale la manifesta violazione del diritto o il travisamento del fatto, in sé e per sé considerati, danno luogo solo a responsabilità per colpa grave, e non già a responsabilità per dolo presunto (Trimarchi, 2015, 894).

La colpa grave

L'art. 2, nel limitare le ipotesi di responsabilità dello Stato ai casi in cui il danno ingiusto sia derivato da un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato, nell'esercizio delle sue funzioni, con dolo o «colpa grave» ovvero per diniego di giustizia, esclude in radice qualsiasi rilevanza alla colpa lieve. Coerentemente, la Suprema Corte ha cassato senza rinvio una sentenza resa in sede equitativa dal giudice di pace su un'azione esercitata per far valere la responsabilità civile per colpa lieve di un magistrato, rilevando che in tali casi il relativo diritto al risarcimento non è configurabile neppure in astratto, in quanto non è previsto dall'ordinamento vigente, né è mai stato configurato in precedenza (Cass. n. 26060/2006).

Come rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, sia pure con riferimento al testo dell'art. 2 anteriore alla riforma del 2015, la responsabilità prevista dalla legge 13 aprile 1988 n. 117, ai fini della risarcibilità del danno cagionato dal magistrato nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, é incentrata sulla colpa grave del magistrato stesso, tipizzata secondo ipotesi specifiche ricomprese nell'art. 2 della citata legge (Cass. n. 7272/2008).

La tecnica della tipizzazione della colpa grave caratterizza anche la nuova formulazione dell'art. 2, risultando oggi ancora più stringente che in precedenza, mentre la differenza più rilevante tra le ipotesi di colpa grave previste nel testo originario della legge Vassalli e quelle ridisegnate o introdotte ex novo dal legislatore del 2015 consiste nel fatto che le prime, a differenza delle seconde, erano riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile che, secondo la costante giurisprudenza, implica(va) la necessità della configurazione di un «quid pluris» rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 c.c., nel senso che si esige(va) che la colpa stessa si presentasse come «non spiegabile», e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che avrebbero potuto rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato (Cass. n. 25133/2006; Cass. n. 15227/2007; Cass. n. 7272/2008, cit.).

Proprio siffatta intepretazione della nozione di «colpa grave» da parte della Suprema Corte è stata una delle principali ragioni che, nell'anno 2011, hanno indotto la Corte di Giustizia europea, all'esito di una procedura per infrazione, ad accertare la violazione da parte della Repubblica Italiana «degli obblighi su di essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado».

In particolare veniva addebitato, tra l'altro, alla Repubblica italiana di limitare, in casi diversi dall'interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove, la possibilità di invocare la responsabilità dello Stato italiano per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado ai soli casi di dolo o di colpa grave, il che non risultava conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza della stessa Corte di Lussemburgo, in quanto la nozione di «colpa grave», di cui all'art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, veniva interpretata dalla Suprema Corte di cassazione in termini coincidenti con il «carattere manifestamente aberrante dell'interpretazione» effettuata dal magistrato e non con la nozione di «violazione manifesta del diritto vigente» postulata dalla Corte di Giustizia europea ai fini del sorgere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione (Cgue 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione europea c. Repubblica Italiana).

Ricordava infatti la Corte di Giustizia, nella citata sentenza del 2011, che secondo la costante giurisprudenza della stessa Corte, tre sono le condizioni in presenza delle quali uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni causati ai singoli per violazione del diritto dell'Unione al medesimo imputabile: — che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli; — che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata; — che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

Per quanto riguarda in particolare la responsabilità dello Stato per i danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado che violi una norma di diritto dell'Unione, già in precedenza la Corte di Lussemburgo aveva affermato che essa è disciplinata dalle stesse condizioni, con la precisazione, però, che la seconda di dette condizioni (i.e.: violazione sufficientemente caratterizzata) deve essere intesa nel senso che consenta di invocare la responsabilità dello Stato solamente nel caso «eccezionale» in cui il giudice abbia violato «in maniera manifesta il diritto vigente», e ciò in considerazione della «specificità della funzione giurisdizionale» (Cgue, 30 settembre, 2003, causa C-224/01, Kobler). Era stato inoltrechiarito che, se è pur vero che non si può escludere che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato in un'ipotesi di tal genere, tali criteri non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente (Cgue, 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo).

Al fine di determinare la sussistenza di tale condizione la sentenza Kobler chiariva che il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento dei danni deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia, fra i quali compaiono, in particolare, il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l'inescusabilità dell'errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria, nonché la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, T.C.E.

In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata allorché la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia. Le tre condizioni richiamate sono necessarie e sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento (punti 51-57 della citata sentenza Cgue Kobler, 2003).

Partendo da tali premesse, i Giudici di Lussemburgo, con la sentenza del 2011, hanno quindi ritenuto che la limitazione della responsabilità dello Stato italiano ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, come interpretata dalla Corte di cassazione, imponeva requisiti ben più rigorosi di quelli derivanti dalla nozione di «manifesta violazione» del diritto dell'Unione postulata dalla giurisprudenza europea, in quanto la colpa grave, venendo identificata con il «carattere manifestamente aberrante» dell'interpretazione effettuata dal magistrato, si risolveva in un concetto assai più circoscritto e riduttivo.

In tale quadro è intervenuta la legge n. 18 del 2015, che ha recepito le indicazioni provenienti dalla Corte Europea, in particolare con riferimento proprio all'art. 2, introducendo però delle modifiche più ampie ed incisive rispetto a quelle richieste da Lussemburgo, le quali hanno inciso non solo sulla responsabilità civile dello Stato-giudice per l'esercizio dell'attività giurisdizionale, ma anche su quella del magistrato-persona fisica, non richieste dal giudice comunitario.

In proposito, quest'ultimo aveva del resto avuto modo di precisare come la violazione del diritto comunitario non osta all'accertamento della responsabilità in capo ad un funzionario, in aggiunta a quello dello Stato membro, ma neanche l'impone (Cgue 17/4/2007, causa C-470/03, tra A.G.M.- COS.MET s.r.l. e Suomen valtio e Tarmo Lehtinen, punto 99).

La nuova formulazione dell'art. 2, comma 3, nel ridisegnare le ipotesi di «colpa grave», non contiene più alcun riferimento all'elemento soggettivo della negligenza inescusabile, ancorando così la responsabilità dello Stato a parametri oggettivi ed abbandonando il precedente «parallelismo» tra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato, per il quale, invece, detto elemento continua oggi a rilevare nell'eventuale azione di rivalsa, anche se solo nei due casi espressamente previsti dall'art. 7 (i.d. violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione europea e travisamento del fatto e delle prove).

In proposito, vi è stato in dottrina chi ha colto acutamente le implicazioni di tale innovazione, osservando come ciò nonostante la dottrina prevalente, concentrata sulla tradizionale questione della responsabilità dei magistrati e del bilanciamento tra responsabilità e indipendenza della funzione, sembra meno interessata ad analizzare l'esatta portata dell'introduzione di una responsabilità oggettiva dello Stato per attività giudiziaria. Invero, che si tratti di responsabilità oggettiva, secondo tale Autore, è indiscutibile, essendo richiesto un elemento subiettivo (peraltro oggettivato e non connesso all'organo giudiziario decidente) solo al fine di vagliare l'inescusabilità e gravità dell'inosservanza delle norme, mentre nulla è richiesto nei casi di travisamento del fatto o delle prove, di errore revocatorio e di emissione di misura cautelare al di fuori dei casi consentiti.

Ma anche a prescindere dalla declinazione che la giurisprudenza darà a questi nuovi concetti, osserva la dottrina in questione, resta il rilievo che l'area della responsabilità dello Stato è considerevolmente più grande di prima: da tale considerazione, trae in primo luogo una conseguenza di carattere economico, osservando che, se il tema della responsabilità per atti giudiziari è stato, fin qui, un tema economicamente marginale, andrà verificato il costo del disservizio della funzione giudiziaria. Costo, invero, inevitabile, stante l'estrema complessità del sistema normativo. Costo che è stato fin qui a carico degli utenti, ma che la nuova norma ha deciso, in parte, di socializzare.

In secondo luogo, l'Autore rileva come la modifica ha inciso sulla stessa funzione della responsabilità: fino alla l. n. 18/2015 poteva ancora ragionarsi di una responsabilità vicaria dello Stato, fondata sull'illecito del giudice, e di uno scudo protettivo a favore del magistrato, che non abbia commesso reato, costituito dalla impossibilità di una azione diretta del danneggiato e dalla limitazione quantitativa della responsabilità, parametrata, oltretutto, non al danno provocato, ma al reddito del funzionario. Ma una volta che l'area di responsabilità dello Stato non coincide con quella del magistrato, sia per la diversità dei presupposti, sia per la dubbia rivalsa in taluni casi, non resta che riconoscere che il modello si è progressivamente spostato verso una riparazione dell'errore giudiziario da parte dello Stato e verso una sanzione paradisciplinare nei confronti del giudice.

Inoltre, sotto altro profilo, viene rimarcato che la differenziazione tra le ipotesi di responsabilità dello Stato e quelle del giudice vale a rendere riferibile la precedente giurisprudenza a questa sola seconda ipotesi, restando, invece, tutto da verificare l'ambito d'incidenza della responsabilità «oggettiva» dello Stato per attività giudiziaria, scollegata dal rimprovero soggettivo all'organo giudicante e, di risulta, il costo sistemico della nuova disciplina (Elefante, 22 e 32).

In linea generale, la scelta di prevedere che lo Stato è «oggettivamente» responsabile in alcune ipotesi tipiche, mentre il magistrato in casi più limitati, e solo ove sia accertata la sussistenza dell'elemento soggettivo, è stata accolta con favore della dottrina prevalente, che riconosce alla legge di riforma, «il merito di aver superato il parallelismo» tra la responsabilità dello Stato e quella dei giudici, allargando la prima e mantenendo entro confini più ristretti la seconda (Biondi, 2015, 411).

Analogamente, si è osservato che la diversa connotazione dell'elemento soggettivo risultante dal combinato disposto degli artt. 2 e 7, nel testo novellato, è una novità da accogliere in linea di principio con favore, nella misura in cui essa conduce ad una separazione tra le due dimensioni della responsabilità (il c.d. doppio binario) che è del tutto conforme al quadro costituzionale, in linea con le sentenze della Corte costituzionale e, infine, giustificata dalla giurisprudenza comunitaria (Dal Canto, La riforma della responsabilità, 2015, 405 ss.)

Del resto, anche anteriormente alla novella del 2015 parte della dottrina aveva suggerito la creazione di un c.d. «doppio binario», da realizzare mediante la previsione di due differenti discipline, una attinente alla sfera della responsabilità dello Stato per l'attività giudiziaria, e l'altra concernente l'ambito della responsabilità dei magistrati verso lo Stato. Si era in proposito sottolineato come il complesso bilanciamento di valori operato dal Parlamento con la legge Vassalli finiva per ridondare a detrimento del cittadino, che vedeva riproporre la vecchia limitazione del suo diritto al risarcimento del danno alle sole ipotesi, ridotte, di perseguibilità del giudice, e doveva peraltro subire un non lieve appesantimento procedurale per poter ottenere giustizia (Silvestri, 1997, 218 ss.).

Peraltro, nel vigore della precedente disciplina, era stato criticato il concetto di «colpa grave», come definito dalla giurisprudenza, la quale, si è detto, aveva in pratica circoscritto l'area della responsabilità dello Stato per l'illecito del giudice alle sole decisioni giudiziarie «folli», che «chiamano in causa lo psichiatra piuttosto che la tecnica legale» (Roppo, 2006).

La colpa grave per violazione manifesta della legge ...

A seguito della novella del 2015, la «negligenza inescusabile», quale parametro soggettivo necessario ad integrare la colpa grave ai sensi dell'art. 2 nella sua originaria formulazione, è stato espunto dal comma 3 dell'art. 2 per tutto le ipotesi costituenti colpa grave, ma, con specifico ed esclusivo riferimento alla violazione manifesta della legge (e del diritto dell'Unione europea), l'elemento soggettivo della «inescusabilità» risulta in qualche modo sopravvissuto, in quanto lo stesso legislatore del 2015 ha ritenuto di predeterminare i criteri per la individuazione di tale fattispecie di colpa grave introducendo un nuovo comma (i.e.: il comma 3-bis dell'art. 2) che menziona, tra gli indici sintomatici per la sua configurabilità, la «inescusabilità dell'inosservanza», la quale indiscutibilmente evoca la precedente nozione di «negligenza inescusabile», pur con sfumature forse più oggettive ma che non sembrano tali da introdurre un elemento soggettivo effettivamente diverso rispetto a quello già presente nel regime previgente (D'Ovidio, 59).

Secondo parte della dottrina, invero, la riforma nulla avrebbe cambiato con riferimento all'elemento soggettivo necessario ad integrare la colpa grave per violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione europea, poiché, in realtà, il riferimento alla grave violazione determinata da negligenza inescusabile sarebbe stato «soltanto spostato di poche righe»; ne deriverebbe la perdurante validità dell'interpretazione giurisprudenziale consolidatasi sul punto nella vigenza della precedente disciplina, atteso che, se il concetto di negligenza inescusabile vale ancora a caratterizzare la violazione manifesta della legge, «non si vede perché mai la giurisprudenza dovrebbe cambiare–proprio adesso! — il suo costante orientamento» (Bonaccorsi, 445).

Nello stesso senso, altro Autore ha osservato che, con riguardo alla violazione del diritto interno, i precedenti giurisprudenziali consolidati sul concetto della negligenza inescusabile non potranno non costituire, anche per il futuro, sicuri punti di riferimento ai fini dell'interpretazione e della definizione delle norme e degli istituti (Barone, 291 ss.).

La distinzione tra elemento oggettivo e soggettivo, nonché la necessità della loro simultanea sussistenza per la configurabilità di una responsabilità da violazione manifesta del diritto, alla luce del combinato disposto dei commi 3 e 3-bis dell'art. 2 in esame, è ben evidenziata da altra autorevole dottrina, la quale ha osservato che il concetto di «violazione manifesta» (comma 3) attiene al contenuto oggettivo del provvedimento, che è altra cosa rispetto all'inescusabilità soggettiva dell'inosservanza (comma 3-bis): se un provvedimento non tiene conto di una disposizione che sia bensì chiara e non equivoca nella sua formulazione, ma sia nascosta fra le centinaia e centinaia di commi di una legge finanziaria di anni addietro, e nessuno ne abbia parlato durante il processo, la violazione del diritto sarà manifesta (nel senso di indiscutibile), ma l'errore è scusabile (Trimarchi, 893).

Sotto diverso profilo, altra parte della dottrina ha osservato che la manifesta violazione del diritto interno deve ritenersi integrata anche in caso di mancata remissione alle Sezioni unite, alla Plenaria o alle Sezioni riunite: poiché, infatti, la manifesta violazione del diritto europeo risulta integrata, per espressa previsione legislativa, dal mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, sembrerebbe difficile sostenere, nonostante l'art. 2, comma 3-bis della legge n. 117/88 riguardi espressamente solo il caso del diritto dell'Unione europea, che lo stesso non si abbia in caso di violazione dell'obbligo di rimessione alle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione (art. 374 c.p.c.), all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (art. 99 c.p.a.) e alle Sezioni riunite della Corte dei conti (art. 1, comma 7, del d.l. n. 453/1993) da parte della sezione semplice che ritenga di non condividere il principio di diritto da queste enunciato, introdotto, rispettivamente, dal d.lgs. n. 40/2006, dal d.lgs. n. 104/2010 e dalla legge n. 69/2009. Sembra, del pari, difficile negarsi che la sottrazione ad un siffatto obbligo sia qualificabile quale negligenza inescusabile, tale dovendosi ritenere sia la ignoranza di un orientamento espresso da tali organi da parte delle sezioni semplici, sia (ed a maggiore ragione) l'ignoranza o la elusione della univoca regola processuale, che prescrive, alternativamente, di conformarsi o rimettere la questione (Elefante, 24-25).

Con riferimento ai parametri di «chiarezza» e «specificità» delle norme violate, rilevando che gli stessi possono essere oggetto di valutazioni non facilmente ricostruibili secondo criteri oggettivi, è stato affermato che occorrerà stabilire se si dovrà determinare la chiarezza delle norme sulla base degli elementi ermeneutici, i quali, ai sensi dell'articolo 12 delle preleggi, non consentono di attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall'intenzione del legislatore, oppure se si dovrà tenere conto delle diverse modalità interpretative pure ammesse nella prassi; inoltre, sarà necessario chiarire quale valore occorrerà dare alla distanza tra l'interpretazione accolta dal singolo magistrato e quella del cosiddetto diritto vivente, apprezzata cioè in modo particolarmente diffuso dagli organi giurisdizionali di grado più elevato (Salerno, 23 ss.).

La consolidata giurisprudenza di legittimità, formatasi nel vigore della legge Vassalli ante riforma ma, come sottolineato dalla dottrina, ancora attuale in considerazione dell'elemento soggettivo (re)introdotto al comma 3-bis attualmente vigente, affermava che i presupposti della responsabilità dello Stato per grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, ai sensi dell'art 2, comma 3 lett. a), della legge n. 117 del 1988, devono ritenersi sussistenti allorquando nel corso dell'attività giurisdizionale si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa, ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico, o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero.

In applicazione di tale principio, la Suprema Corte di cassazione ha escluso la responsabilità del magistrato per grave violazione di legge derivante dalla emissione di un provvedimento di sequestro ritenuto erroneo dal giudice del gravame, rilevando che detto sequestro era fondato su una interpretazione estensiva del concetto di «cose pertinenti al reato», sia pure opinabile e discutibile, ma plausibile sul piano logico-giuridico (Cass. n. 7272/2008; conf. Cass. n. 11593/2011).

Sulla base dello stesso principio, in altra occasione la Cassazione ha, invece, ritenuto ammissibile l'azione volta a far valere la responsabilità di un magistrato, il quale aveva adottato un'interpretazione che destituiva di ogni funzionalità l'istituto di cui all'art. 2943 c.c. in relazione alla fattispecie di cui all'art. 1669, comma 2, c.c., in particolare escludendo la possibilità per il committente di interrompere, con successive contestazioni, il decorso del termine annuale di prescrizione, perché, secondo il magistrato, altrimenti il termine non sarebbe mai venuto a maturare (Cass. n. 6791/2016, in Resp. civ. e prev. 2016, 1584, con nota di Giorgetti).

Più in generale, la negligenza inescusabile, all'epoca richiesta per tutte le ipotesi di colpa grave, veniva intesa nel senso che dovesse necessariamente ricorrere un «quid pluris» rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 c.c., da ravvisare nella circostanza che la colpa stessa si presentasse come «non spiegabile», e cioé priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato. (Cass. n. 15227/2007; Cass.n. 16696/2003; Cass. n. 16935/2002; Cass. n. 13339/2000; Cass.n. 12357/1999, in Giust. civ. 2000, 2054, con nota di Morozzo Della Rocca; Cass. n. 6950/1994).

Tale situazione veniva in genere ravvisata quando risultavano disattese soluzioni normative chiare, certe e indiscutibili, o erano violati principi elementari di diritto, che il magistrato non può giustificatamene ignorare (Cass. n. 2637/2013, in motivazione).

In applicazioni di tali principi è stato ad esempio esclusa la sussistenza di una negligenza inescusabile con riferimento ad una pronuncia della stessa Corte di cassazione che, nel 2007, aveva dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione avverso altra sua sentenza del 2004 sul presupposto che l'asserito errore posto alla base del ragionamento fosse di natura valutativa e non una mera svista percettiva (Cass. n. 2107/2012).

Invero, l'azione di responsabilità del magistrato per grave violazione di legge, ai sensi dell'art. 2, terzo comma, lettera a), della legge 13 aprile 1988, n. 117, non può costituire strumento per riaprire il dibattito sulla correttezza o meno dell'interpretazione adottata nel provvedimento posto a base della domanda respinta dal magistrato della cui responsabilità si discorre, in particolar modo quando il giudicante sia la Corte di cassazione, giudice di ultima istanza (Cass. n. 2637/2013).

In tema di regime intertemporale di applicabilità della nuova disciplina, la Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui non contempla una norma transitoria che consenta l'applicazione del novellato art. 2, in punto di «violazione manifesta della legge», anche a fatti illeciti commessi in precedenza. Ciò in quanto una tale disposizione, ad avviso della Corte, si tradurrebbe in una norma retroattiva incidente su condotte, fonte di responsabilità, già esaurite, la quale porrebbe essa stessa seri problemi di compatibilità costituzionale sotto plurimi profili (artt. 3, 24, 111 Cost., nonché artt. 117, primo comma, Cost. e 6 CEDU), posto che si verrebbero a sanzionare comportamenti che la legge non considerava illeciti al tempo in cui il soggetto ha agito (Cass. n. 6810/2016, cit.).

.. e del diritto dell'Unione europea.

A ben vedere, il legislatore del 2015 ha introdotto due distinte ipotesi di colpa grave per «violazione manifesta», una relativa al diritto interno, individuabile secondo i criteri di valutazione determinati dal nuovo comma 3-bis dell'art. 2, e l'altra relativa al diritto europeo, caratterizzata dagli stessi indici rilevatori della prima nonché da altri indici più ampi ed oggettivi: tale differenziazione comporta che solo con riferimento alla legge italiana il giudice potrà sindacare, analogamente a quanto avveniva nel regime previgente, il grado di inescusabilità dell'inosservanza spingendosi sin «dentro» la norma violata al fine di valutare la chiarezza della soluzione da essa desumibile, la elementarietà del principio ivi espresso, la eventuale grossolanità dell'errore che si assume commesso, ecc.; viceversa, ove si tratti di una violazione di diritto dell'Unione, il sindacato del giudice nazionale sul grado di inescusabilità dell'inosservanza dovrà cedere il passo alla interpretazione resa dal giudice europeo, sempre che sia esistente e non equivoca, ovvero alla constatazione di una violazione dell'obbligo del rinvio pregiudiziale (D'Ovidio, 62).

L'inserimento nel tessuto normativo della specifica, e differenziata, fattispecie dell'illecito eurocomunitario per manifesta violazione del diritto dell'Unione Europea, ha così eliminato le eventualità di possibile contrasto con le disposizioni comunitarie e/o di omessa considerazione delle stesse, paventate dalla Corte Lussemburghese (Barone, 297).

I giudici di Lussemburgo, infatti, avevano accertato la violazione, da parte della Repubblica italiana, degli obblighi su di essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado, rilevando che l'interpretazione della l. n. 117/1988, come operata dal nostro giudice di ultima istanza, non era conforme alla giurisprudenza della Corte di giustizia, in quanto la nozione di «colpa grave» veniva dal primo identificata con il «carattere manifestamente aberrante» dell'interpretazione effettuata dal magistrato, ossia in termini più rigorosi e restrittivi di quelli derivanti dalla condizione di una «manifesta violazione» del diritto vigente richiesto dalla giurisprudenza comunitaria (CGUE 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione europea c. Repubblica Italiana, sulla quale v. supra).

Ciò veniva affermato dalla Corte di giustizia sulla base delle giurisprudenza nazionale prodotta dalla Commissione europea (in particolare, le sentenze Cass. n. 15227/2007 cit. e Cass. n. 7272/2008, cit.), la quale, invero, non riguardava il diritto dell'Unione, in quanto non esisteva nella nostra giurisprudenza di legittimità alcun caso in cui si fosse posto un problema di armonizzazione ermeneutica tra la disciplina interna dell'azione per la responsabilità civile dei magistrati e gli obblighi comunitari dello Stato italiano.

Proprio in ragione di ciò, la Corte di giustizia osservava che non vi era alcun elemento per ritenere che la nozione di colpa grave, ai sensi della legge n. 117/1988, sarebbe stata effettivamente interpretata dai giudici italiani, nell'ipotesi di violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado dello Stato membro convenuto, in termini tali da corrispondere al requisito di violazione manifesta del diritto vigente, come fissato dalla giurisprudenza della Corte stessa nei suoi precedenti.

Invero, solo dopo tale pronuncia della Corte di Giustizia del 2011, i principi in essa ribaditi sono stati espressamente enunciati in una sentenza del nostro giudice di legittimità, anche se in via di solo principio, trattandosi ancora una volta di una fattispecie in cui non veniva in rilievo il diritto dell'Unione.

In particolare, la Corte di Cassazione ha affermato che in tema di responsabilità civile dei magistrati, l'art. 2 l. n. 117/1988, laddove, nel fissare i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, esclude che possa dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova, è in contrasto con gli obblighi comunitari dello Stato italiano alla luce delle statuizioni contenute nella sentenza della CGUE 24 novembre 2011, nella causa C-379/10, con specifico ed esclusivo riferimento alle violazioni manifeste del diritto dell'Unione europea imputabili ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado (Cass. n. 2560/2012; conforme Cass. n. 2637/2013, in motivazione).

Sicché, nel contesto ordinamentale della legge n. 117 del 1988, nel testo previgente alla novella di cui alla l. n. 18/2015, era proprio la fonte, nazionale o comunitaria, della responsabilità per l'attività giudiziaria a fungere da ragionevole discrimine, essendo distinti gli ambiti della responsabilità civile disciplinata dalla predetta legge n. 117 (in cui alla responsabilità diretta dello Stato segue l'azione di rivalsa di quest'ultimo nei confronti del magistrato) e quella dello Stato per l'illecito comunitario (Cass. n. 6810/2016).

Prima di tali interventi, sul punto non vi era uniformità tra i giudici di merito.

Secondo alcune pronunce, infatti, in caso di violazione del diritto comunitario asseritamente riferita alla decisione di un giudice, la responsabilità dello Stato doveva essere regolata dalla disciplina della legge n. 117 del 1988, non disapplicabile dal giudice nazionale (Trib. Roma 28 giugno 2001, in Giur. mer., 2002, 359, con nota di Gianfilippi).

In senso contrario, in altri casi è stata ritenuta possibile e doverosa la disapplicazione dell'art. 2 l. 117 del 1988, nella parte in cui non ammetteva il risarcimento del danno derivante dall'attività di interpretazione della legge compiuta da un giudice di ultima istanza (Trib. Roma 29 settembre 2004, in Giur. mer., 2005, 3, 574).

Una terza ricostruzione optava per ritenere configurabile una responsabilità dello Stato ex art. 2043 c.c. nel caso di richiesta di risarcimento danni per asserita violazione comunitaria derivante da provvedimento giurisdizionale reso da giudici di ultima istanza, laddove la violazione controversa risultasse da una interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale: in tal caso, infatti, si affermava che non poteva più trovare applicazione la l. n. 117/1988 perché la fattispecie esulava dal campo di applicazione della normativa predetta, stante la ritenuta incompatibilità con il diritto comunitario della clausola di salvaguardia di cui all'art. 2 comma 2 legge cit.; in mancanza di un'apposita disciplina sostanziale e processuale, l'azione di responsabilità anche per illecito dello Stato-giudice trova quindi titolo nell'art. 2043 c.c. (Trib. Genova, 31 marzo 2009, in Giur. merito, 2010, 4, 991).

Più di recente, si era affermato che la prospettata violazione del diritto comunitario ad opera di un organo giurisdizionale di ultima istanza dovesse essere inquadrata all'interno del procedimento ex lege n. 117/1988, non essendovi alcuna necessità di disegnare, previo richiamo alla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., ipotesi atipiche della responsabilità dello Stato-giudice, sulla falsariga delle ipotesi di responsabilità dello Stato-legislatore. Ciò, anche in considerazione della possibilità di ricorrere ad una interpretazione «comunitariamente orientata» dell'art. 2 l. n. 117/1988, conforme ai principi espressi dalla Corte di Giustizia, e quindi rispettosa del principio di effettività della tutela (Trib. Roma, 22 maggio 2015).

A seguito della riforma del 2015, tali problemi interpretativi sono stati superati e risultano così soddisfatte le condizioni richieste dalla Corte Europea, stante la pressoché pedissequa trasposizione nella nostra normativa degli elementi caratterizzanti tale requisito di responsabilità così come puntualizzati dal giudice di Lussemburgo.

Ciò posto, con riferimento allo specifico parametro di rilevanza della violazione del diritto comunitario, costituito dalla mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale, ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, è necessario ricordare che la Corte costituzionale ha definito con chiarezza i ruoli che, in tale ambito, sono attribuiti ai giudici nazionali comuni, alla Corte costituzionale ed alla Corte di giustizia: — i giudici nazionali, le cui decisioni sono impugnabili, hanno il compito di interpretare il diritto comunitario e se hanno un dubbio sulla corretta interpretazione hanno la facoltà e non l'obbligo di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per ottenerla e farne applicazione, se necessario a preferenza delle contrastanti norme nazionali; — il giudice di ultima istanza, viceversa, ha l'obbligo di operare il rinvio, a meno che non si tratti di una interpretazione consolidata e in termini o di una norma comunitaria che non lascia adito a dubbi interpretativi (Corte di giustizia, CILFIT S.r.l. ed altri contro il Ministero della sanità, causa C- 283/81, sentenza 6 ottobre 1982); — la Corte costituzionale conserva la propria competenza ad interpretare il diritto comunitario quando non sia necessario il rinvio alla Corte di giustizia (Corte cost. n. 75/2012).

Peraltro, va tenuto presente che, secondo la giurisprudenza sia della Corte di cassazione che del Consiglio di Stato, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all'obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un acte claire che, in ragione dell'esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell'evidenza dell'interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (Cons. St. n. 3474/2012; Cass. n. 22103/2007; Cass. n. 4476/2012).

Analogamente, si è affermato che l'obbligo di rimettere in via pregiudiziale le questioni relative all'interpretazione delle norme comunitarie alla Corte di giustizia non sussiste allorché il giudice nazionale abbia constatato che la questione non è pertinente, la disposizione comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione e la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (Cass. pen. n. 34753/2012).

In ogni caso, una volta correttamente interpretate, le norme comunitarie devono essere applicate anche ove in contrasto a norme interne con le prime incompatibili, stante il principio del primato del diritto comunitario su quello proprio degli Stati membri; sussiste, infatti, l'obbligo, per i giudizi nazionali come per gli organi dell'amministrazione attiva di applicare integralmente le norme dell'Unione e di tutelare i diritti che da queste vengono riconosciuti in capo ai singoli, disapplicando, ove occorra, le norme interne confliggenti (CGCE, 22 marzo 1989, C-103/88; CGCE, 11 gennaio 2007, C-208/05).

Per quanto riguardo il secondo dei due parametri previsti dal comma 3-bis dell'art. 2 come sintomatici della specifica ipotesi di colpa grave per violazione del diritto eurocomunitario, vale a dire il contrasto con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, esso sembra meno oggettivo ed automatico di quello della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale, essendo per il primo comunque necessaria una valutazione sulla chiarezza ed univocità dell'indirizzo contrastato.

Tale conclusione si desume dalla stessa giurisprudenza comunitaria, ed in particolare dal caso Kobler, laddove la Corte di Giustizia, pur ravvisando l'effettiva sussistenza di una violazione del diritto comunitario da parte del giudice di ultima istanza austriaco, ha escluso che tale violazione potesse qualificarsi come «manifesta», in primo luogo perché «la soluzione non era ovvia» e, in secondo luogo, perché, pur avendo il medesimo giudice ritirato la domanda pregiudiziale inizialmente proposta, neppure ciò poteva valere a qualificare la violazione come «manifesta» in quanto si trattava di una scelta derivata da una attività interpretativa (sia pure non corretta) svolta in relazione ad una pronuncia del giudice comunitario intervenuta nelle more del giudizio di rinvio pregiudiziale (CGUE, 30 settembre, 2003, causa C-224/01, Kobler).

Con riferimento alla violazione dell'obbligo di rinvio pregiudiziale, si è osservato che essa presenta, in effetti, assoluta oggettività, a differenza di quella relativa al contrasto con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia. Infatti, se pure è vero che anche la decisione sul rinvio pregiudiziale include una questione interpretativa preliminare in base ai criteri stabiliti dalla sentenza Cilfit, sembrerebbe però difficile negare la responsabilità in caso di un mancato rinvio fondato sulla «teoria dell'atto chiaro», ovvero sull'asserita chiarezza della disciplina eurounitaria tale da non lasciar spazio ad alcun ragionevole dubbio, laddove tale «chiara» ed univoca interpretazione risulti invece in contrasto con la giurisprudenza comunitaria. Il punto è, ovviamente, delicato, incidendo direttamente sull'indipendenza del giudice nella sua accezione ora dominante. Ma, secondo tale dottrina, sembra difficilmente superabile il rilievo che la mancata cooperazione con la Corte di giustizia giustificata in nome di un'insussistente univocità ermeneutica sia qualificabile quale negligenza inescusabile, specie laddove tale quaestio iuris abbia costituito oggetto di allegazione e contraddittorio tra le parti (Elefante, 24).

Merita di essere segnalata un'ordinanza del Tribunale di Enna che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 3 e 3-bis della legge 13 aprile 1988, n. 117, così come modificata dalla legge 27 febbraio 2015 n. 18, nella parte in cui include tra le ipotesi di manifesta violazione del diritto dell'Unione europea il contrasto tra un atto o un provvedimento giudiziario e l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea sulla vincolatività delle decisioni della Commissione europea per il giudice nazionale, in ragione del contrasto della norma con gli artt. 24, 101 e 104 Cost.

Il giudice remittente ha in proposito osservato che la manifesta violazione del diritto dell'Unione Europe, dovendo essere determinata tenendo conto dell'interpretazione dettata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, impone di tener conto anche delle pronunce con le quali il giudice eurounitario vincola i giudici comuni alle decisioni della Commissione (principio espressamente ribadito dal regolamento CE n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002) e delle altre istituzioni comunitarie.

In tal modo, tuttavia, risulta delineato, in via pretoria, un sistema di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, non previsto espressamente dai Trattati (CGCE, 16 dicembre 1960, C- 6/60, Humblet c. Belgio; CGCE, 22 gennaio 1976, C- 60/75, Russo c. Aima; Cgce, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich c. Italia), che costituisce uno strumento di «cooperazione autoritaria» non solo tra giudici nazionali e giudice comunitario, in violazione degli artt. 101 e 10 Cost., ma anche tra giudici nazionali e le istituzioni comunitarie, le quali possono influenzare i giudizi in corso tramite l'espressione di una mera «posizione» e di provvedimenti amministrativi.

Tale interferenza, incidendo sull'indipendenza esterna della magistratura, secondo il giudice remittente, si scontra con l'art. 101 e l'art. 104 Cost., i quali costituiscono concreta attuazione del principio di separazione dei poteri che, in relazione al potere giudiziario, si atteggia a principio supremo e strutturale della tradizione costituzionale liberale (Trib. Enna, ord. 14 marzo 2016 n. 103).

Sulla questione sollevata dal Tribunale di Enna con la citata ordinanza n. 103 la Corte costituzionale, al momento della redazione del presente scritto, non si è ancora pronunciata..

La colpa grave per travisamento del fatto o delle prove.

L'ipotesi del travisamento del fatto e delle prove è stata introdotta ex novo dal legislatore del 2015, e risponde alle indicazioni della Corte di giustizia, la quale aveva stigmatizzato la normativa italiana in materia di responsabilità dello Stato per i danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, osservando che l'art. 2 della legge n. 117/88 prevedeva, da un lato, ai commi 1 e 3, che tale responsabilità è limitata ai casi di dolo, di colpa grave e di diniego di giustizia, e, dall'altro, al secondo comma dello stesso articolo, che non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. Dall'esplicito tenore di quest'ultima disposizione emergeva, secondo i giudici di Lussemburgo, che tale responsabilità resta esclusa, in via generale, nell'ambito dell'interpretazione del diritto e della valutazione dei fatti e delle prove (CGUE 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione europea c. Repubblica Italiana, punto 33).

Sin dall'emanazione della novella, tale nuova figura tipizzata di colpa grave è stata sospettata di incostituzionalità e, dopo neppure due mesi dall'entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, la questione è stata rimessa alla Corte costituzionale dal Tribunale di Verona, in ragione soprattutto delle difficoltà di individuare il contenuto dell'illecito, considerato che la fattispecie in discorso è stata aggiunta a quella, già presente nella precedente formulazione dell'art. 2, comma 3, della l. n. 117/1988, concernente «l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento»: il giudice remittente, in particolare, riteneva trattarsi di una nozione equivoca e, in quanto tale, del tutto inidonea a delimitare, conformemente ai parametri costituzionali degli artt. 101, comma 2, 111 comma 2, Cost., l'ambito della responsabilità dei magistrati.

In proposito, l'ordinanza di remissione ricordava, tra l'altro, che erano state la «limitatezza» e «tassatività» delle fattispecie in cui, secondo il tenore originario della l. 117/1988, era ipotizzabile una colpa grave del giudice, ad indurre la Corte costituzionale ad escludere che la loro previsione potesse compromettere la serenità e l'imparzialità di giudizio dello stesso (Corte cost. n. 18/1989).

Una volta, però, che la nuova fattispecie difetti di sufficiente tipizzazione è evidente come essa offra ampia possibilità di condizionare l'esercizio della funzione giurisdizionale ed anche di favorire il contenzioso.

Il nuovo testo normativo, ad avviso del giudice remittente, consente infatti di censurare qualsiasi valutazione dei fatti o del materiale probatorio compiuta dal giudice nel giudizio a quo, che risulti non gradita o sfavorevole, semplicemente qualificandola come travisamento.

Tale scelta, si legge ancora nell'ordinanza di remissione, comporta una estrema incertezza anche nella individuazione dell'ambito di applicazione di altri istituti che influiscono direttamente sull'esercizio della funzione giurisdizionale. Innanzitutto determina, di riflesso, l'ampliamento indefinito della possibilità di un sindacato disciplinare sui provvedimenti giudiziari, in deroga al disposto dell'art. 2, comma 2, d.lgs. n. 109/2006 nella parte in cui esclude che, fermo quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), i), l), m), n), o), p), cc) ed ff), della stessa norma, dia luogo a responsabilità disciplinare l'attività di valutazione del fatto e delle prove. Analogo effetto si ha sull'ambito dell'azione di rivalsa, risultando impossibile stabilire esattamente quali siano i casi in cui essa non è obbligatoria, con la conseguenza che l'organo deputato a promuoverla sarà indotto a non effettuare nessuna valutazione al riguardo e a proporla in ogni caso.

A ben vedere nemmeno l'ambito di applicazione della clausola di salvaguardia, pur formalmente ribadito dall'art. 2, comma 1, lett. b) l. n. 18/2015, risulta sufficientemente definibile, rispetto alla attività di valutazione del fatto e delle prove, cosicché può addirittura dubitarsi che essa permanga effettivamente (Trib. di Verona III, ord. 12 maggio 2015 n. 198).

In senso analogo, si è espresso anche il Tribunale di Catania che, dopo neppure dieci mesi dall'emissione dell'ordinanza del Tribunale di Verona, ha a sua volta rimesso alla Corte costituzionale la medesima questione, osservando che le ipotesi costituenti «travisamento del fatto o delle prove» non vengono analiticamente individuate dalla legge, essendo tale operazione demandata al giudice del risarcimento e, dunque, non risultano previamente determinabili in base a parametri legislativi obiettivi e certi.

Invero, osservava il giudice catanese, l'attività di valutazione del materiale probatorio da porre a fondamento della decisione implica, per ciò stesso, la selezione, da parte del giudice, delle prove che lo stesso ritenga, in base al proprio libero convincimento ex art. 116 c.p.c., più attendibili rispetto ad altre. Trattasi di funzione inevitabilmente discrezionale, soggetta al solo obbligo della motivazione.

Tale lavoro di selezione e valutazione delle prove, facilmente potrebbe essere esposto a valutazioni differenti se rese da organi che non hanno trattato e/o istruito il singolo affare, i quali potrebbero giungere ad affermare, secondo apprezzamenti soggettivi, avulsi dalle vicende che concretamente hanno caratterizzato il singolo procedimento, e come tali parimenti opinabili o addirittura censurabili a loro volta di «travisamento», che il magistrato, preferendo alcune prove rispetto ad altre, abbia «alterato» ovvero «deformato» o «modificato» o «manipolato» o «snaturato», e, dunque, «travisato» il materiale probatorio.

L'ipotesi di responsabilità per ritenuto «travisamento del fatto o delle prove» rischierebbe, quindi, di instaurare una sorta di «contro processo», con sovrapposizione, al giudizio del giudice naturale precostituito per la definizione dell'affare ex art. 25 della Costituzione, quello di altro giudice, ampliando indeterminatamente i casi di responsabilità del giudice nell'attività di valutazione del fatto e della prova, e di fatto sopprimendo l'istituto preposto a tutelare l'indipendenza del giudice nel cuore della propria attività, ovverosia la c.d. clausola di salvaguardia, eppure formalmente ribadita dall'art. 2, comma secondo, legge n. 117/1988.

Il giudice remittente conclude affermando che viene così eliminato, senza ragionevole motivo, il carattere tassativo ed obiettivo delle ipotesi costituenti la responsabilità civile del magistrato nell'attività di valutazione del fatto o delle prove, così come irragionevolmente soppresso o ridotto, nei confronti del giudice, l'ambito di operatività della clausola di salvaguardia (Trib. Catania II, ord. 6 febbraio 2016, n. 113).

La questione, come sollevata sia dal Tribunale di Verona che da quello di Catania, non è stata decisa nel merito dalla Corte costituzionale, la quale si è espressa in entrambi i casi per l'inammissibilità con decisione in data 3 aprile 2017, pubblicata il 12 luglio successivo (Corte cost. n. 164/2017).

Il giudice delle leggi, in accoglimento di un'eccezione proposta dall'Avvocatura dello Stato, ha infatti dichiarato inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di Verona e Catania (così come quelle sollevate dai Tribunali di Treviso ed Enna su altri aspetti della legge n. 18 del 2015), per difettto di rilevanza nel giudizio a quo. In particolare, la Corte costituzionale ha rilevato che le predette questioni erano state sollevate “a prescindere da qualsiasi considerazione circa una loro diretta incidenza sullo statuto di autonomia e di indipendenza dei magistrati, tale da condizionare strutturalmente e funzionalmente lo ius dicere, ma facendo esclusivo riferimento alle sue modalità di esercizio”. Ad avviso della Corte, infatti, non rileva che tali modalità possano costituire elementi variamente perturbatori della condizione psicologica di questo o quel magistrato, come emerge, del resto, costantemente ribaditi – sia prima sia dopo la sentenza n. 18 del 1989 – dalla giurisprudenza della stessa Corte. In proposito, la citata sentenza n. 164 del 2017, ricorda un proprio precedente con il quale è stato escluso che potesse strutturare il nesso di pregiudizialità, richiesto ai fini di rendere rilevante la questione, il mero richiamo del giudice a quo al turbamento psicologico e della propria serenità di giudizio prodotto dall'applicazione dei «ferri di sicurezza» nelle operazioni di traduzione degli imputati detenuti, «non potendosi ovviamente qualificare per tale una soggettiva situazione psicologica come quella allegata dal giudicante che, oltre tutto, deriva da norme assolutamente estranee all'oggetto del processo principale» (Corte cost. n. 147/1974). Allo stesso modo, ricorda ancora la sentenza in commento, si è pure escluso che potessero considerarsi rilevanti, in un qualsiasi giudizio di competenza della Corte dei conti, questioni volte a denunciare l'asserita menomazione della serenità e autonomia di giudizio dei magistrati di detta Corte derivante dal carattere, in assunto, «troppo latamente discrezionale» dei poteri riconosciuti al Presidente della Corte stessa in materia di assegnazione di funzioni e promozioni: le doglianze attenevano, infatti, a disposizioni che non dovevano essere applicate dal giudice rimettente, riflettendo «violazioni solo potenziali ma non attuali delle garanzie costituzionali» (Corte cost. n. 19/1978). Alla luce di tale pronuncia del giudice delle leggi, che non è entrata nel merito delle questioni sollevate dai Tribunali remittenti, ed in assenza di una indicazione legislativa che consenta di definire i contorni della nuova fattispecie di colpa grave di cui si discorre, preziose indicazioni possono ricavarsi dalla giurisprudenza civile, penale e disciplinare che, nei rispettivi ambiti, ha avuto modo di definito il concetto di travisamento del fatto o delle prove.

In sede civile, il codice di rito conosce l'errore di fatto (c.d. errore revocatorio), che legittima la revocazione della sentenza «quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita», sempre che il fatto «non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare» (art. 395, n. 4, c.p.c.).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, si tratta di un errore di percezione e mai di giudizio, e quindi non implica un'attività di interpretazione e valutazione di un fatto processuale.

Tale errore, infatti, viene descritto come una falsa percezione della realtà, una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l'inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolga l'attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività, con la conseguenza che non è configurabile l'errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico (Cass. n. 8180/2009; tra le molte conformi, sia precedenti che successive, Cass. n. 9979/1994; Cass. n. 10544/2002; Cass. n. 605/2003; Cass. n. 6198/2005; Cass. n. 11657/2006; Cass. n. 14267/2007; Cass. n. 7488/2011; Cass. n. 27555/2011).

Si tratta di principi assolutamente consolidati nel diritto vivente.

Sono numerose, infatti, le sentenze, anche recentissime, con le quali è stato ribadito che l'errore di fatto rilevante ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c. deve consistere in una falsa percezione di quanto emerge dagli atti, concretatasi in una svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di assoluta immediatezza e semplice e concreta rilevabilità, con esclusione di ogni apprezzamento in ordine alla valutazione in diritto delle risultanze processuali: ne consegue che il vizio con il quale si imputi alla sentenza un'erronea valutazione delle prove raccolte è, di per sé, incompatibile con l'errore di fatto, essendo ascrivibile non già ad un errore di percezione, ma ad un preteso errore di giudizio (Cass. n. 8828/2017, conf. Cass. n. 321/2015; Cass. n. 22080/2013; Cass. n. 19071/2012; Cass. n. 17443/2008).

Il «travisamento» del fatto, invece, nell'ambito civile è il frutto dell'elaborazione giurisprudenziale relativa al vizio di motivazione di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., il quale è stato oggetto di ripetute modifiche, tendenti a restringere la portata della norma, prima ad opera del d.lgs. n. 40 del 2006, e poi a seguito della l. n. 134/2012.

In proposito, la giurisprudenza di legittimità, già in epoca anteriore alla novella introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006, aveva sempre escluso che il travisamento del fatto potesse essere dedotto come motivo di ricorso per cassazione, attenendo esso al merito della causa, a meno che non si risolvesse in una mancanza di motivazione su un punto decisivo della controversia, e cioè su un elemento della fattispecie che, se esaminato, avrebbe potuto determinare una diversa pronuncia (ex multis, Cass. n. 222/1962; Cass. n. 404/1962; Cass. n. 1445/1962; Cass. n. 1672/1963; Cass. n. 1672/1963; Cass. n. 2155/1963; Cass. n. 3028/1963; Cass. n. 3146/1963; Cass. S.U., n. 472/1964; Cass. n. 469/1965; Cass. n. 269/1966; Cass. n. 679/1967; Cass. n. 3676/1968; Cass. n. 478/1969; Cass. n. 1154/1971; Cass. n. 53/1974).

Il travisamento del fatto veniva in sostanza ricondotto nell'orbita dell'errore revocatorio.

In particolare, si è sempre affermato, pur nel succedersi delle diverse formulazioni dell'art. 360 n. 5 c.p.c., che il travisamento del fatto non possa costituire motivo di ricorso per cassazione poiché, risolvendosi in una inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con le risultanze degli atti processuali, esso costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c., e non già motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. n. 17057/2007; Cass. n. 2596/2016; Cass. n. 23173/2016).

In altri termini, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione; tali vizi non possono consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, mentre alla Corte di cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico, formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l'apprezzamento dei fatti (Cass. n. 19921/2012, in motivazione).

Dopo le modifiche apportate all'art. 360 n. 5 c.p.c. dall'art. 54 del d.l. n. 83/2012, conv. in l. n. 134/2012, la norma è stata letta dalla giurisprudenza di legittimità in senso ancor più restrittivo, ritenendo che essa debba essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione» (Cass. S.U., n. 8053/2014; conf. Cass. n. 21257/2014; Cass. n. 23828/2015).

In ogni caso, resta sempre non sindacabile l'errore di giudizio, vale a dire la valutazione di dati giuridico-fattuali acquisiti attraverso la mediazione delle parti e l'interpretazione dei contenuti espositivi dei rispettivi atti del giudizio.

In proposito la Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 391-bis c.pc. e dell'art. 395, n. 4, c.p.c., nella parte in cui non prevedono come causa di revocazione l'errore di giudizio o di valutazione, giacché, con riguardo al sistema delle impugnazioni, la Costituzione non impone al legislatore ordinario altri vincoli che quelli, previsti dall'art. 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, e che non appare irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di impugnazione per revocazione, nel complessivo sistema impugnatorio, una propria specifica funzione, escludendone gli errore di giudizio o valutazione, proponibili, invece, con l'appello e con il ricorso per cassazione (Cass. S.U., n. 13181/2013).

Peraltro, neppure è configurabile un errore revocatorio con riferimento alla pronuncia di legittimità che, decidendo nel merito, abbia ritenuto non necessari ulteriori accertamenti di fatto, trattandosi, quand'anche risulti errata, di una violazione di legge nell'applicazione dell'art. 384 c.p.c. e, quindi, anche in tal caso di un errore di giudizio e non di un travisamento del fatto (Cass. n. 4118/2014).

Con specifico riferimento alla nozione di «travisamento della prova», la Suprema Corte ha affermato che solo l'informazione probatoria su un punto decisivo, acquisita e non valutata, mette in crisi irreversibile la struttura del percorso argomentativo del giudice di merito; infatti, il travisamento della prova implica, non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che quella informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale (Cass. n. 10749/2015).

Passando ad esaminare la giurisprudenza penale, nel vigore del codice previgente, il travisamento del fatto, espressamente previsto come motivo di ricorso per cassazione, veniva identificato dalla giurisprudenza maggioritaria nelle ipotesi di affermazione, da parte del giudice del merito, di un fatto manifestamente escluso dagli atti del processo o, viceversa, di negazione di un fatto pacificamente risultante da elementi acquisiti al processo (in sostanza, ancora una volta, l'errore revocatorio); si richiedeva, inoltre, quale condizione concorrente e necessaria per inficiare di nullità la sentenza impugnata, che il fatto erroneamente affermato o negato fosse tale da incidere su un punto decisivo del giudizio.

Non era ravvisabile, invece, alcun travisamento di fatto nella valutazione delle prove operata dal giudice di merito, ove si traduceva in una motivata ricostruzione delle vicende processualmente rilevanti: non si ravvisava, cioè, un travisamento quando il giudice di merito, interpretando le risultanze processuali, accettava come corrispondente a verità l'una invece che l'altra della descrizione del fatto prospettate, senza incorrere in vizi logici nell'esporre le ragioni della scelta (ex multis, Cass. pen. n. 953/1967; Cass. pen. n. 1209/1967; Cass. pen. n. 2239/1981; Cass. pen n. 4850/1982; Cass. pen. n. 5947/1984; Cass. pen. n. 6869/1993).

Con l'entrata in vigore, nel 1988, del nuovo codice di procedura penale, il vizio di travisamento del fatto è stato espunto dai motivi di ricorso per cassazione e la sua sindacabilità è stata ricondotta dalla giurisprudenza al vizio di motivazione di cui alla lettera e) dell'art. 606 del nuovo c.p.p..

Si è infatti consolidato il principio secondo il quale, in tema di sindacato del vizio della motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass. pen. S.U., n. 930/1995).

A ciò si aggiungeva la precisazione che, ai sensi dell'art. 606, lett. e) c.p.p., la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Cass. pen. S.U., n. 16/1996).

Analogamente, è stato successivamente ribadito, che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una «rilettura» degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. pen. S.U., n. 6402/1997).

In linea con tali precedenti, è stato ulteriormente chiarito che, alla Corte di cassazione, è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno; ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell'intelletto costituente un sistema logico in sé compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sé e per sé considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è «geneticamente» informata, ancorché questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (Cass. pen. S.U., n. 12/2000)

Dunque, secondo la Suprema Corte, l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett e) c.p.p., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass. pen. S.U., n. 47289/2003).

La successiva riformulazione dell'art. 606, lett. e) del c.p.p. ad opera dall'art. 8 della legge n. 46 del 2006 ha ulteriormente definito l'ambito del vizio di motivazione, introducendo la possibilità di fare riferimento, oltre al dato testuale della motivazione, anche ad «altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame».

A seguito di tale modifica, la giurisprudenza ha ritenuto che il sindacato di legittimità potesse estendersi anche al materiale probatorio, fermo comunque il divieto di operare una diversa ricostruzione del fatto o di sovrapporre una nuova valutazione delle risultanze processuali rispetto a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Cass. pen. n. 25255/2012).

Invero, la possibilità di dedurre il vizio di motivazione per travisamento della prova è limitata all'ipotesi in cui il giudice del merito abbia fondato il suo convincimento su di una prova inesistente ovvero su di un risultato probatorio incontestabilmente diverso da quello reale, con la conseguenza che, qualora la prova che si assume travisata provenga dall'escussione di una fonte dichiarativa, l'oggetto della stessa deve essere del tutto definito o attenere alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile (Cass. pen. n. 15556/2008; Cass. pen. n. 20245/2006; Cass. 4674/2006; Cass. pen. n. 39048/2007; Cass. pen. n. 39729/2009; Cass. pen. n. 14732/2011; Cass. pen. n. 9338/2012; Cass. pen. n. 47035/2013).

In definitiva, si è consolidato il principio di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera dell'art. 8 l. n. 46/2006, mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di «travisamento della prova», che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del «travisamento del fatto», stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (Cass. pen. n. 10289/2014, in motivazione; Cass. pen. n. 39048/2007).

Successive pronunce hanno esteso il concetto di «travisamento della prova» anche alle ipotesi di omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Cass. pen. n. 27518/2006; Cass. pen. n. 38788/2006; Cass. pen. n. 5223/2007; Cass. pen. n. 23419/2007; Cass. pen. n. 19710/2009; Cass. pen. n. 47035/2013), nonché a quelle di palese ed incontrovertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che invece il giudice di merito ne abbia «inopinatamente tratto» (Cass. pen. n. 21602/2007; Cass. pen. n. 39729/2009; Cass., pen. n. 37756/2011).

Utili indicazioni, infine, si rinvengono nella giurisprudenza disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, posto che l'art. 2, lettera h), del d.lgs. n. 109/2006 prevede, quale ipotesi di illecito disciplinare, il «travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile», fattispecie molto analoga all'ipotesi di colpa grave per «travisamento del fatto o delle prove» di cui al vigente art. 2, comma 3 della l. n. 117/1988, dalla quale diverge solo per l'elemento soggettivo della negligenza inescusabile, non (più) richiesto dalla legge Vassalli.

In particolare, la Sezione disciplinare del Csm tende ad identificare la fattispecie dell'illecito per travisamento dei fatti con l'errore revocatorio di cui all'art. 395 n. 4 c.p.c., ravvisandola in ipotesi in cui sia stato supposto un fatto la cui verità risulti incontrastabilmente esclusa dagli atti processuali o, viceversa, sia stata ritenuta l'inesistenza di un fatto la cui verità sia positivamente stabilita dagli atti processuali, e comunque escludendola ove non ricorra un errore macroscopico (CSM, sez. disc., ord. n. 101 del 2008) o una grave ed inescusabile negligenza.

Così, l'illecito disciplinare per travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile è stato ritenuto integrato dalla condotta di un magistrato del pubblico ministero il quale, per negligenza inescusabile, aveva iscritto un fascicolo per il reato di lesioni colpose nonostante che dagli atti trasmessi dalla polizia giudiziaria emergesse inequivocabilmente la natura dolosa del delitto (CSM, sez. disc., n. 87/2014), ovvero aveva formulato una richiesta di archiviazione ritenendo, erroneamente, insussistente un fatto la cui esistenza risultava incontestabilmente accertata sulla scorta degli atti del fascicolo processuale (Csm, sez. disc., n. 4/2013) o, ancora, aveva disposto la citazione diretta a giudizio di un indagato, nonostante la condotta delittuosa contestata nel decreto di citazione fosse inequivocabilmente e documentalmente smentita dalle risultanze probatorie contenute nel fascicolo del medesimo magistrato (Cass. S.U., n. 7934/2013, a conferma di CSM, sez. disc., n. 130/2012).

Si è invece esclusa la ravvisabilità dell'illecito disciplinare di cui si discorre nella condotta di un magistrato del pubblico ministero il quale, a causa di un errore nella trascrizione dei dati identificativi da parte della polizia giudiziaria, aveva sottoposto ad un procedimento penale un soggetto estraneo al reato oggetto di indagine (CSM, sez. disc. n. 100/2014).

In ogni caso, il travisamento del fatto non si ritiene integrato quando il dedotto travisamento sia conseguente ad una plausibile interpretazione di norme processuali (Csm, sez. disc., ord. n. 42 del 2013) o, comunque, sia riconducibile nell'ambito della libertà di scelta giurisdizionale del magistrato.

In applicazione di tale principio, ad esempio, è stata esclusa la sussistenza dell'illecito disciplinare nell'esercizio delle funzioni, per travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile, nella condotta di un magistrato che aveva ritardato nel compiere attività di indagine a seguito della presentazione di una querela, in quanto tale scelta era stata determinata da «una ragionevole valutazione» sull'infondatezza della notizia di reato e dalla prospettiva di una conciliazione tra le parti, nell'ambito di una disciplina che prevedeva termini di prescrizione molto lunghi (Csm, sez. disc., ord. n. 88 del 2009).

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione non hanno avuto occasione di esprimersi direttamente e compiutamente sulla nozione del «travisamento» rilevante in sede disciplinare.

L'unica pronuncia che richiama tale concetto, ha ritenuto la sussistenza dell'illecito nel comportamento di un magistrato che aveva emesso un provvedimento fondato su presupposti inesistenti, adottando in proposito una motivazione solo apparente e basata su un macroscopico travisamento dei fatti (Cass. S.U., n. 16626/2007).

In conclusione, gli approdi consolidati del diritto vivente, sia in ambito civile, che penale e disciplinare, riconducono il travisamento del fatto e delle prove ai soli vizi della motivazione che, oltre ad avere il carattere della decisività, siano di macroscopica evidenza, risolvendosi nella mancanza, manifesta illogicità o mera apparenza della motivazione stessa, ovvero nella utilizzazione di una prova inesistente o incontestabilmente diversa da quella effettivamente risultante dagli atti o, ancora, nella omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia.

Secondo parte della dottrina, il peso delle consolidate pregresse acquisizioni giurisprudenziali servirà a connotare anche la nuova fattispecie del travisamento del fatto e delle prove, alla quale peraltro, poiché la stessa legge di riforma ribadisce espressamente che non può dare luogo a responsabilità l'attività di valutazione del fatto e delle prove, resterebbe assegnabile uno spazio ristretto ad eccezionali e abnormi casi limite di ricostruzione manifestamente e macroscopicamente errata dei fatti e dei dati probatori (Barone, 298; Fiandaca, 2015).

In sintonia con tale osservazione, è stato sottolineato come il necessario coordinamento delle disposizioni sul travisamento del fatto e delle prove con il principio generale espresso nella clausola di salvaguardia, il quale esclude che possa dar luogo a responsabilità l'attività di valutazione del fatto e delle prove, implica che il confine della responsabilità inizi là dove non si può più parlare di valutazione, bensì di una affermazione al di là di qualsiasi ragionevolezza e opinabilità, tanto da far normalmente sospettare la malafede. Questo confine è anche necessario, ad evitare condizionamenti impropri e distorsivi dell'attività del magistrato (Trimarchi, 896).

Analogamente, si è detto che un'interpretazione volta ad allargare l'area delle ipotesi riconducibili alla fattispecie del travisamento non solo comporterebbe una rottura con la nostra cultura giuridica, come recepita nel diritto vivente, ma finirebbe anche per entrare nel cono d'ombra del sospetto di incostituzionalità (già sottoposto al vaglio della Consulta dal Tribunale di Verona, con ordinanza del 12 maggio 2015, ma rimasto privo di riposta, stante la intervenuta declaratoria di inammissibilità da parte del Giudice delle leggi), in quanto inevitabilmente scivolerebbe via dal piano della «percezione» per cadere sul piano della «valutazione», con le evidenti ripercussioni sul principio dell'indipendenza del giudice che, a sua volta, costituisce garanzia di una valutazione imparziale dei fatti e delle risultanze istruttorie (D'Ovidio, 80).

Sulla stessa scia si è sostenuto che il «travisamento» non può che riguardare in via esclusiva il vero e proprio abbaglio, restringibile, per quanto riguarda in particolare il travisamento della prova, alla mancata rilevazione dell'informazione probatoria contenuta nell'ammasso dei dati emergenti dai fatti allegati ovvero accertati ovvero contenuti nelle prove ammesse e raccolte (Genovese, 2015).

Più in generale, è stato sottolineato come la fattispecie del travisamento dei fatti e delle prove sia assai delicata ed equivoca, prestandosi a diverse opzioni interpretative, considerato che lo stesso termine «travisamento» è di per sé piuttosto ambiguo: esso indica, in linea tendenziale, uno scostamento consistente tra ciò che viene accertato dal giudice e la realtà effettuale, ma solo la giurisprudenza potrà precisare in futuro il livello di «evidenza» che tale scostamento dovrà raggiungere affinché possa essere accertata la relativa responsabilità.

In tale prospettiva, la stessa dottrina ha prospettato i possibili scenari: 1) un'eventuale interpretazione restrittiva accolta dalla giurisprudenza potrebbe condurre ad una sostanziale sovrapposizione della fattispecie del travisamento con quella dell'affermazione o negazione di un fatto incontrastabilmente escluso o risultante dagli atti, così rendendo del tutto inutile l'innovazione, ed in questo senso deporrebbe la circostanza che la formulazione dell'ipotesi del travisamento coincide parzialmente con l'illecito disciplinare previsto dall'art. 2, comma 1, lett. h), del d.lgs n. 109/2006, sovente identificato dalla dottrina proprio con l'errore revocatorio di cui all'art. 395 n. 4 c.p.c., vale a dire la supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa o l'affermazione dell'inesistenza di un fatto la cui verità è senz'altro provata negli atti processuali; 2) al contrario, un'interpretazione estensiva di tale fattispecie potrebbe comportare il rischio di un possibile sconfinamento del sindacato sulla responsabilità in un vero e proprio sindacato sul merito dell'attività giurisdizionale, e in questo senso, come è stato osservato anche da altro Autore (Nisticò, 2015), non è difficile immaginare che proprio da questa via giungerà il maggior numero di cause, con il conseguente rischio di una sovrapposizione sostanziale tra impugnazione del provvedimento giudiziario e giudizio di responsabilità (Dal Canto, La legge n. 18/2015 sulla responsabilità civile dello Stato, 2015, 3).

A fronte della mancanza di una espressa previsione del legislatore circa la necessità di valutare l'inescusabilità e gravità del travisamento, si è sostenuto in dottrina che tali requisiti, con riferimento alla fattispecie in esame, sarebbero in re ipsa, ossia insiti nella stessa fattispecie tipizzata di responsabilità per travisamento del fatto e delle prove (Auletta-Verde, 898).

Ulteriore ipotesi di colpa grave

La definizione normativa di tale ipotesi di colpa grave – i.e. La colpa grave per l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o per la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento del procedimento – è rimasta invariata a seguito della riforma del 2015, ma è stato eliminato, come per tutte le altre ipotesi di colpa grave, quel riferimento alla «negligenza inescusabile» che era, invece, elemento costitutivo della fattispecie come delineata dal previgente art. 2, comma 3.

Per consolidata giurisprudenza, la fattispecie in esame si identifica con l'errore revocatorio di cui all'art. 394 n. 4 c.p.c., rispetto al quale è, peraltro, evidente la sovrapponibilità delle due prescrizioni normative.

In forza del «diritto vivente», perché sia configurabile tale tipo di errore devono concorrere i seguenti presupposti: 1) affermazione o supposizione dell'esistenza o inesistenza di un fatto la cui verità risulti, invece, in modo indiscutibile, esclusa o accertata (Cass. n. 14267/2007; Cass. n. 3200/2017; Cass. n. 7778/2017); 2) il fatto erroneamente negato o supposto deve essere decisivo, nel senso che deve esistere un necessario nesso di causalità tra la sua erronea supposizione e la decisione resa (Cass. n. 3935/2009; Cass. n. 22080/2013; Cass. n. 6038/2016; Cass. n. 8828/2017); 3) il medesimo fatto, inoltre, non deve cadere su un punto controverso sul quale la pronuncia contestata abbia statuito (Cass. n. 18840/2000; Cass. n. 15466/2003; Cass. n. 27094/2011; Cass. S.U., n. 13181/2013); 4) l'errore deve altresì presentare i caratteri dell'evidenza e dell'obiettività, deve cioè costituire un vero e proprio «abbaglio dei sensi» (Cons. St. n. 5347/2014; Cass. n. 12655/2015; Cass. n. 4456/2015); 5) l'errore, infine, deve essere di percezione e non di valutazione, ossia deve trattarsi di un errore non derivante dall'attività di interpretazione e valutazione del fatto, con la conseguenza che non sono riconducibile a tale fattispecie i casi in cui il giudice ritenga il verificarsi di una situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, qualora detti elementi abbiano formato oggetto di esame e valutazione da parte sua (Cass. n 12357/1999; Cass. n. 11880/2001).

La novità costituita dalla espunzione, dal testo del comma 3 dell'art. 2, della negligenza inescusabile quale requisito soggettivo in precedenza previsto come necessario ad integrare tutte le ipotesi di colpa grave, assume peculiari connotazioni con riferimento alla fattispecie della responsabilità statuale conseguente alla affermazione o negazione di un fatto incontrovertibilmente escluso o risultante dagli atti processuali.

In tal modo, infatti, come è stato opportunamente sottolineato, si sono poste le basi per un vero e proprio automatismo fra revocazione e giudizio risarcitorio, facendo di quest'ultimo l'appendice finale di un'unitaria catena procedimentale, diventando quasi un momento della fisiologia del processo: nel vigore della previgente disciplina, invero, l'accertamento circa l'avvenuta affermazione o negazione di un fatto contrastante con gli atti processuali poteva essere idoneo a determinare l'accoglimento del giudizio di revocazione proposto ex art. 395 n. 4 c.p.c., ma non era sufficiente ad integrare di per sé fatto costitutivo anche dell'illecito giudiziario lamentato nel giudizio risarcitorio promosso nei confronti dello Stato, in quanto a tale fine occorreva accertare anche l'ulteriore elemento della negligenza inescusabile. Dunque, secondo l'Autore che ha segnalato tale incongruenza, la responsabilità civile diventa l'appendice del pertinente ordinamento istituzionale e, sul piano soggettivo, l'autorità non è più distinguibile dal comune civis: è in gioco, a questo punto, la stessa legittimazione, sociale, ancor prima che istituzionale, della funzione giudiziaria (Scoditti, La nuova responsabilità per colpa grave, 2015).

Un simile effetto (comune anche alla ipotesi del «travisamento del fatto e delle prove») incide non tanto sul magistrato persona fisica, posto che l'azione di responsabilità è proposta nei confronti dello Stato e l'azione di rivalsa è solo facoltativa (se non addirittura esclusa, nulla essendo previsto all'art. 7), quanto sulla stessa funzione giudiziaria intesa quale articolazione dello Stato, la quale rischia così di perdere «il volto autoritativo che la connota». (Scoditti, La nuova responsabilità per colpa grave, 2015).

Diversamente altra dottrina, ricordando che l'ipotesi di colpa grave di cui si discorre corrisponde, per consolidata giurisprudenza, all'errore di fatto revocatorio (art. 395, n. 4, c.p.c.), ha osservato che, in considerazione della rilevante connotazione oggettiva di tale fattispecie, non pare che la soppressione del riferimento alla negligenza inescusabile possa determinare, se non con riguardo a pochi casi clamorosi, un rilevante cambio di rotta rispetto al passato. Com'è stato detto (Briguglio, 69), infatti, se l'affermazione o la negazione di un fatto è in contraddizione con le risultanze degli atti del procedimento, e tale contraddizione non è imputabile ad una errata valutazione di quelle risultanze, la negligenza è in re ipsa (Dal Canto, La legge n. 18/2015 sulla responsabilità civile, 2015).

Per quanto riguarda, invece, la responsabilità personale del magistrato, va sottolineato che l'ipotesi di colpa grave di cui si discorre non rientra tra quelle per le quali l'art. 7 ha espressamente sancito l'obbligo del Presidente del Consiglio di esperire l'azione di rivalsa a seguito della condanna subita dallo Stato.

Pertanto, seguendo la tesi che ritiene in tal caso non ipotizzabile un rivalsa facoltativa, e che esclude quindi tout court la possibilità di esperire la relativa azione, dovrebbe concludersi che il magistrato non risponde mai per tale tipologia di colpa grave, neppure in via indiretta.

Se, invece, si opta per una interpretazione dell'art. 7 nel senso che le ipotesi ivi non contemplate sono comunque soggette ad una azione di rivalsa, sia pure solo facoltativa, dovrà allora prendersi atto che, ove tale azione venga esperita, non sarà richiesta alcuna valutazione dell'elemento soggettivo, sicché il magistrato risponderà per una sorta di responsabilità non solo oggettiva, ma più propriamente presunta iuris et de iure, in quanto non potrebbe sottrarsi al suo obbligo neppure adducendo circostanze eccezionali che possano averlo indotto in errore (D'Ovidio, 84).

Il problema si pone in quanto, come da più parti osservato, la formulazione della norma sulla rivalsa non può non alimentare nell'interprete il dubbio se, con riguardo alle ipotesi di colpa grave non contemplate nell'art. 7, sia esclusa qualsiasi forma di azione di regresso nei confronti del giudice ovvero se, al contrario, in tali casi l'azione sia da intendersi facoltativa e dunque possa essere esercitata a discrezione del presidente del Consiglio. Ipotesi, quest'ultima, di gran lunga meno soddisfacente, dal momento che, in assenza di criteri predeterminati, porrebbe il Governo in una posizione del tutto inconciliabile con il principio costituzionale di indipendenza della magistratura (Dal Canto, La legge n. 18/2015 sulla responsabilità civile, 2015).

La colpa grave per l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti

L'ultima ipotesi di responsabilità per colpa grave contemplata dal terzo comma dell'art. 3 è stata ampliata dal Legislatore del 2015, il quale, da un lato ha sostituito la precedente espressione «provvedimento concernente la libertà della persona» con quella di «provvedimento cautelare personale», e, dall'altro ha esteso la sfera di applicabilità della responsabilità anche all'ipotesi del «provvedimento cautelare reale».

La disposizione, chiara nella sua formulazione, non ha posto particolari problemi interpretativi in sede giudiziaria, con riguardo ai provvedimenti cautelari emessi senza motivazione.

Con riferimento invece all'ipotesi di responsabilità conseguente all'emissione di siffatti provvedimenti «fuori dei casi consentiti dalla legge», la Corte di cassazione, nel vigore del precedente regime, ha avuto occasione di precisare che tale concetto doveva essere inteso nel senso di emissione di provvedimento non basato sui presupposti fissati in via astratta dal legislatore per l'emissione di un provvedimento di quel tipo, non potendo invece il giudice della responsabilità valutare in concreto se tali presupposti trovassero fondamento negli atti processuali. Questa ulteriore valutazione, aggiunge la Suprema Corte, compete difatti al giudice che emette il mandato ed è insuscettibile di costituire fonte di responsabilità, posto che l'art. 2, secondo comma, della legge dispone che «nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove» (Cass. n. 2186/1997, in Resp. civ. e prev. 1997, 1138, con nota di Lo Sinno).

Nella disciplina attuale, a fronte della nuova formulazione della citata disposizione dell'art. 2, comma 2 (che oggi vuole «fatti salvi» i commi 3 e 3-bis dell'art. 2, ed i casi di dolo, in relazione all'applicazione della c.d. clausola di salvaguardia), la possibilità di sindacare, da parte del giudice della responsabilità, (anche) la concreta sussistenza dei presupposti di legge per l'emissione del provvedimento cautelare (personale o reale) è strettamente dipendente dalle soluzioni interpretative che si affermeranno sulla portata della «nuova» clausola di salvaguardia.

In ordine alla possibilità di ritenere superato l'orientamento espresso nel 1997 dalla Suprema Corte circa i limiti del sindacato sul provvedimento cautelare, si è osservato che, ove si ritenesse oggi ammissibile tout court un sindacato sul merito del provvedimento cautelare e, quindi, sull'attività di valutazione ed interpretazione svolta dal giudice della cautela, in ragione della nuova formulazione dell'art. 2, comma 2, (c.d. clausola di salvaguardia), si verrebbe, da un lato, a creare un improprio e non previsto mezzo di impugnazione del provvedimento stesso e, dall'altro, si profilerebbero sospetti di incostituzionalità per violazione dei principi sull'indipendenza ed autonomia dell'attività giurisdizionale (D'Ovidio, 87-88).

La clausola di salvaguardia

La novella del 2015 ha riformulato la disposizione del comma 2 dell'art. 2, relativo alla clausola di salvaguardia, riproducendo testualmente quella previgente nella parte in cui affermava che, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, «l'attività di interpretazione di norme di diritto» e quella di «valutazione dei fatti e delle prove» non possono dar luogo a responsabilità, ma, nel contempo, aggiungendo un inciso iniziale, secondo il quale devono essere «fatti salvi i commi 3 e 3-bis» (vale a dire, tutte le ipotesi di colpa grave) «ed i casi di dolo».

Di qui sono sorti numerosi dubbi interpretativi e sospetti di costituzionalità, i quali attendono di essere risolti dalle prime pronunce giurisprudenziali, non ancora intervenute nella vigenza della nuova formulazione della norma.

Quanto alla rilevanza costituzionale della clausola di salvaguardia, valgono le parole della Consulta che, nella vigenza del testo originario della legge Vassalli, aveva sottolineato come il giudizio, per definizione è diretto all'accertamento dei fatti ed all'applicazione delle norme, attraverso un'attività di valutazione ed interpretazione, nella quale al giudice sono riservati ampi spazi. La garanzia costituzionale della sua indipendenza è diretta infatti a tutelare, in primis, l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2, l. n. 117 cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera d'irresponsabilità, fino al punto in cui l'esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa (Corte cost. n. 18/1989, punto 10 del «considerato in diritto»).

La Corte di cassazione, a sua volta, si era ripetutamente pronunciata affermando che l'art. 2, comma 2, nella sua originaria formulazione, escludeva che potesse dare luogo responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto ovvero quella di valutazione del fatto e della prova, ed aggiungeva che tale lettura della clausola di salvaguardia non tollerava letture riduttive, perché giustificata dal carattere fortemente valutativo dell'attività giudiziaria, nonché volta ad attuare l'indipendenza del giudice e, con essa, del giudizio (Cass. n. 25123/2006; Cass. n. 23979/2012).

Sicché, neppure poteva ritenersi che il giudice fosse obbligato a decidere conformemente all'interpretazione già effettuata precedentemente dallo stesso o da altro giudice in relazione ad un'altra controversia (Cass. n. 13000/2006).

Analogamente si è esclusa l'ammissibilità dell'azione di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie per la richiesta di rinvio a giudizio formulata da un magistrato del P.M., osservando che tale attività postula l'apprezzamento prognostico circa l'idoneità degli elementi probatori a sostenere l'accusa in dibattimento, sicché essa, anche se reiterata per vizi formali e seguita infine dall'assoluzione, integra attività di valutazione del fatto e della prova, per la quale non è ammessa l'azione di risarcimento, ai sensi dell'art. 2, comma 2, della legge n. 117/1988, tranne che l'attore dimostri essersi basata la richiesta medesima su fatti pacificamente insussistenti o avulsi dal contesto probatorio (Cass. n. 3916/2015).

Dopo la modifica introdotta dalla legge n. 18 del 2015, il Tribunale di Treviso (sez. penale), ha sollevato la questione di costituzionalità (anche) dell'art. 7 della legge 13 aprile 1988 n. 117, così come modificato dalla legge 27 febbraio 2015 n. 18, per contrasto con gli artt. 101, comma 2, 104, comma 1 e 3 della Cost., nella parte in cui non prevede che «non può dar luogo a responsabilità personale del singolo magistrato l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove in tutti i casi di azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato stesso».

In particolare, la motivazione dell'ordinanza sul punto si è fondata sul presupposto che il comma 2 dell'art. 2 della l. n. 117/1988 solo formalmente mantiene fermo il principio per cui nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, atteso che lo stesso comma si apre con un'eccezione totalizzante (<fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo>): ciò significa che la clausola di salvaguardia non opera in tutti i casi di colpa grave in cui scatta la responsabilità dello Stato prima e, in sede di rivalsa, del magistrato poi; in altri termini, è come se tale clausola non ci fosse.

Tale sostanziale inoperatività della clausola di salvaguardia, prosegue l'ordinanza, è solo in apparenza coerente con le indicazioni espresse dalla Corte di Giustizia, la quale ha affermato l'incompatibilità con il diritto comunitario di una esclusione della responsabilità civile nel caso in cui il danno derivi da una errata interpretazioni di norme di diritto o da valutazione del fatto e delle prove: in realtà tale affermazione del giudice comunitario è infatti riferita alla sola responsabilità dello Stato membro, senza investire la responsabilità personale del magistrato.

La soluzione, ad avviso del remittente, per giungere ad una disciplina rispettosa dei rilievi della Corte di Giustizia dell'Unione Europea e dei principi costituzionali relativi all'indipendenza e all'autonomia della magistratura, andrebbe allora ravvisata nella eliminazione del parallelismo tra responsabilità dello Stato e quella dei magistrati, prevedendo, in particolare, la clausola di salvaguardia nell'ambito dell'azione di rivalsa e solo di essa, escludendosi così che dia luogo a responsabilità personale del magistrato l'attività di interpretazione delle norme di diritto o quella di valutazione del fatto o delle prove (Trib. Treviso, ord. 8 maggio 2015, n. 218)

Analoghi rilievo si trovano nella motivazione dell'ordinanza di un altro tribunale, che, nel rimettere al giudice delle leggi la questione di costituzionalità su altri profili della l. n. 18 del 2015, ha osservato che le limitazione apportate alla c.d. clausola di salvaguardia dalla legge n. 18/2015, attraverso la riserva contenuta nell'art. 2, comma secondo («fatti salvi i commi 3 e 3-bis»...), possono apparire giustificabili avuto riguardo alla responsabilità dello Stato, tenuto conto degli indirizzi espressi dalla giurisprudenza comunitaria (Corte Giustizia, sentenza 13 giugno 2006, causa 173/2003), ma non possono essere applicate acriticamente anche al giudice, attraverso la formula dell'art. 7 l. n. 117/1988. Ciò infatti, non trova alcun ragionevole fondamento, incidendo negativamente sui presupposti richiesti per assicurare che il magistrato, nell'espletamento dei compiti allo stesso riservati ex art. 25, primo comma, Cost., agisca in condizione di sufficiente indipendenza. A tale proposito, infatti, osserva il giudice remittente, nessuna rilevanza può assumere la giurisprudenza comunitaria, la quale riguarda esclusivamente la responsabilità dello Stato, e non quella del giudice–persona fisica, la cui condizione di indipendenza ed imparzialità costituisce, anzi, oggetto di specifiche raccomandazioni provenienti dagli organismi europei, affinché questa venga rafforzata e tutelata nell'interesse del corretto funzionamento del sistema giudiziari (Trib. Catania, ord. 6 febbraio 2013, n. 113).

Tutte le questioni di costituzionalità sollevate sia dal Tribunale di Treviso che dal Tribunale di Catania, sono state dichiarate inammissibili dalla Consulta, con decisione assunta in data 3 aprile 2017, pubblicata il 12 luglio successivo, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo (Corte cost. n. 164/2017, la cui motivazione sul punto è riportata supra).

Invero, la Corte di Giustizia aveva affermato, da un lato, che l'interpretazione delle norme di diritto rientra nell'essenza vera e propria dell'attività giurisdizionale e, dall'altro, che, non potendosi escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa, appunto, nell'esercizio di una tale attività interpretativa, non può neppure prevedersi l'esclusione, in simili casi, di «ogni responsabilità dello Stato», così utilizzando una formula compatibile con un esonero da «alcune» e non da «tutte» le possibili responsabilità dello Stato (CGUE del 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo c. Repubblica Italiana, punti 34-36).

Analogamente, la sentenza dei giudici di Lussemburgo che ha accertato la violazione del nostro Stato in relazione (anche) all'art. 2, secondo comma, della legge n. 117/88, non ha affermato la necessità di eliminare tout court, ma ha stigmatizzato la circostanza che tale clausola, così come concepita nel contesto della disciplina disegnata dalla legge Vassalli e come applicata nel diritto vivente del nostro paese, escludeva «qualsiasi responsabilità» dello Stato italiano per i danni causati a singoli, derivanti da una violazione del diritto dell'Unione compiuta da uno dei suoi organi giurisdizionali di ultimo grado, qualora tale violazione derivasse dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dal giudice medesimo. La Corte ha aggiunto che sarebbe stato sufficiente, per escludere la sussistenza della contestata infrazione, la dimostrazione da parte dello Stato Italiano che, nei detti casi, l'art. 2, comma 2, veniva interpretato dalla giurisprudenza «quale semplice limite posto alla sua responsabilità», qualora la violazione risultasse dall'interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e non «quale esclusione di responsabilità» (CGUE del 24 novembre 2011, Commissione europea c. Repubblica Italiana, punti 31, 37 e 38).

La clausola di salvaguardia, pur formalmente rimasta al suo posto, secondo una parte della dottrina risulterebbe, in forza della esclusione di tutte le ipotesi di colpa grave derivante dall'incipit introdotto dalla novella del 2015, ormai svuotata di contenuti, una sorta di «scatola vuota» (Romboli, 350), dal «profondo significato simbolico» (Biondi, Sulla responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, 3, 2015).

In effetti, considerato che i commi 3 e 3-bis disciplinano tutte le ipotesi di colpa grave, è difficile comprendere quale spazio residui oggi per la sua applicazione.

Se è vero, infatti, che le sole ipotesi di responsabilità del giudice, ai sensi dell'art. 2 della legge, sono quelle che derivano da un provvedimento giudiziario posto in essere con dolo o colpa grave ovvero per diniego di giustizia, e che la clausola di salvaguardia non opera nei primi due casi («fatti salvi i commi 3 e 3-bised i casi di dolo»), ne consegue che lo spazio residuo di applicazione della stessa sembra coincidere con la sola ipotesi della denegata giustizia, ai sensi dell'art. 3 della legge. Ma, se così è, si tratterebbe di casi rispetto ai quali l'esigenza di preservare l'attività interpretativa del giudice appare piuttosto debole; di conseguenza, la sensazione è che tale clausola sia ormai diventata una sorta di riferimento simbolico, una bandiera che era conveniente non rimuovere ma alla quale non pare corrispondere più alcuna effettiva sostanza (Dal Canto, La legge n. 18/2015 sulla responsabilità civile, 2015).

A fronte di tale constatazione, altra autorevole voce, osservando come la modifica introdotta abbia finito per «sterilizzare» l'effettiva portata normativa della clausola di salvaguardia, si è interrogato sulle ragioni che possono aver indotto il legislatore a mantenere la previsione della stessa ed è così giunto ad ipotizzare due possibili alternative: 1) la permanenza della clausola sarebbe sostanzialmente frutto di un errore di coordinamento, o più banalmente di una distrazione, del legislatore, che avrebbe voluto replicare la disciplina dettata in ambito disciplinare senza però rendersi conto che, attraverso il sistema di eccezioni congegnato, si finisce per svuotare di autentico senso la previsione generale; 2) altrimenti, si potrebbe più maliziosamente ipotizzare che, invece il legislatore abbia lasciato in vigore la clausola di salvaguardia perché la legge possa apparire ancora oggi – per usare le parole della Corte costituzionale descrisse la normativa entrata in vigore nel 1988 – caratterizzata da costante cura di predisporre misure e cautele idonee a salvaguardare l'indipendenza dei magistrati, pur risultando in realtà molto più restrittiva di allora, anche in considerazione dell'avvenuta neutralizzazione della clausola di salvaguardia (Nisticò, 2015, 16).

Si è tuttavia ipotizzato che la clausola di salvaguardia attualmente vigente potrebbe essere utilizzata dalla giurisprudenza per definire (riduttivamente) alcune delle nuove ipotesi tipizzate di colpa grave, prima fra tutte la nuova fattispecie del travisamento del fatto e delle prove (Biondi, Sulla responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, 2015).

Altra parte della dottrina ritiene che la clausola di salvaguardia abbia conservato una significativa vitalità, in quanto la fonte della responsabilità per i casi di colpa grave tipizzati dall'art. 2, comma 3, è rappresentata dalla previsione contenuta nel primo comma del medesimo articolo 2, con la conseguenza che l'inciso «fatti salvi» inserito nel secondo comma è puramente definitorio e irrilevante ai fini della portata normativa dell'art. 2. Invero, prosegue lo stesso Autore, primario compito dell'interprete è quello di salvaguardare il bilanciamento fra il principio di indipendenza della magistratura e quello di responsabilità che il vecchio art. 2 assicurava; per fare ciò è necessario stabilire una netta cesura fra interpretazione di norme di diritto e valutazione del fatto e delle prove ed i casi di colpa grave (salva l'ipotesi di responsabilità eurounitaria). Si deve quindi operare per sottrazione, e definire le diverse figure di colpa grave svuotandole di ogni possibile riferimento all'interpretazione o alla valutazione del fatto (Scoditti, Le nuove fattispecie di colpa grave, 2015, 321).

Sulla questione della sostanziale inutilità della attuale clausola di salvaguardia, si è pure osservato che giungere ad affermare che una norma sia priva di concreto contenuto precettivo è davvero l'extrema ratio, alla quale l'interprete può ricorrere solo quando i criteri ermeneutici indicati dall'art. 12 delle preleggi al codice civile conducano ad escludere con assoluta certezza ogni possibile significato: in altri termini, una disposizione di legge non può ritenersi «inutile» quando sia passibile di intepretazioni «utili», le quali siano nel contempo conformi ai criteri ermeneutici indicati dal legislatore e circostanziati dalla giurisprudenza. Nella verifica dei possibili significati utili l'interprete dovrà allora tener conto del tenore letterale e, nel dubbio tra diverse possibili soluzioni, dovrà optare per una interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata. Applicando tali principi alla nuova «clausola di salvaguardia», sembra possibile attribuirle una significativa vitalità, laddove si riconosca che la relativa disposizione imponga all'interprete di verificare in primo luogo la astratta sussistenza dei requisiti di insorgenza di una delle ipotesi tipizzate ai commi 3 e 3-bis dell'art. 2, senza quindi arrestare la sua indagine «a priori» ogni qualvolta «appaia» implicata un'attività di interpretazione o valutazione (come accadeva nel previgente regime), per poi procedere ad una ulteriore verifica sull'attività interpretativa o valutativa in concreto svolte nella fattispecie esaminata. Se all'esito di siffatto successivo controllo l'attività interpretativa o valutativa risultasse tale da «snaturare» l'ipotesi di colpa grave individuata (ossia da privarla dei suoi connotati tipici), la conseguenza non potrebbe che essere l'operatività del relativo esonero posto che non residuerebbe in concreto alcuna ipotesi tipizzata da «salvare» (D'Ovidio, 92 ss.).

I danni risarcibili

Con riguardo ai danni risarcibili, è stato osservato che, qualora la parte abbia provveduto al previo esperimento dei rimedi ordinariamente previsti avverso il provvedimento asseritamente dannoso, l'esito dell'impugnazione si riverbererà sull'ammissibilità dell'azione ovvero sulla determinazione del danno risarcibile.

Infatti, se l'impugnazione è respinta, la parte non potrà mai utilmente intraprendere il giudizio di responsabilità sulla base del provvedimento confermato, non essendo configurabile alcuna illegittimità dello stesso e, quindi, alcuna ipotesi di «colpa grave»: difetta in radice il presupposto per il suo accoglimento, non essendo ipotizzabile un danno da provvedimento legittimo, diversamente da quanto avviene nel caso dell'indennizzo del danneggiato a causa di un provvedimento amministrativo legittimo (Genovese, 2015).

In caso di accoglimento dell'impugnazione, invece, il provvedimento giurisdizionale illegittimo viene sostituito da quello che accoglie l'impugnazione, con la conseguenza che un danno risarcibile potrà sussistere solo con riferimento agli effetti interinali del provvedimento riformato, in caso di sua provvisoria esecutività, ovvero di conseguenze fattuali determinatesi in ragione della sua adozione (Genovese, 2015).

Peraltro, è stato anche sottolineato come, nel processo civile, il provvedimento che accoglie l'impugnazione determina anche il dovuto, compreso il risarcimento del danno, tenendo conto del ritardo: conseguentemente, non vi sarebbe danno risarcibile ex l. n. 117/1988, se tale danno può essere risarcito dalla parte soccombente e ciò anche nel caso in cui quest'ultima sia insolvente, ma lo fosse già prima della pronuncia del provvedimento errato; in questi casi, si è detto, un danno risarcibile può sussistere solo per il ritardo e solo nell'ipotesi che la controparte sia divenuta insolvente nel tempo intercorso fra il provvedimento annullato e la pronuncia di annullamento.

In sostanza, secondo tale impostazione, una responsabilità del magistrato può operare principalmente nel settore penale, e solo in misura limitata e in casi eccezionali nel settore civile (Trimarchi, 893-894).

L'opinione è senz'altro condivisibile se si ha riguardo ai soli danni patrimoniali, come era doveroso nella vigenza del precedente regime, il quale ammetteva la risarcibilità dei danni non patrimoniali esclusivamente quando fossero causalmente riconducibili alla privazione della libertà personale. Tuttavia, all'esito della riforma del 2015 che, modificando il primo comma dell'art. 2, ha esteso la risarcibilità dei danni non patrimoniali a tutti i casi di responsabilità civile derivante dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, ben può verificarsi che anche da un provvedimento civile illegittimo, sebbene poi riformato a seguito di impugnazione, residuino danni di carattere non patrimoniale non imputabili alla parte soccombente e, quindi, risarcibili solo ex lege n. 117/1988 (D'Ovidio, 124).

La modifica del 2015, che ha esteso a tutti i casi di responsabilità civile derivante dall'esercizio delle funzioni giudiziarie la risarcibilità dei danni non patrimoniali, la quale, nel regime previgente, era limitata alle sole ipotesi di danni derivanti da privazione della libertà personale, consente ora la risarcibilità di tale tipologia di danni indipendentemente dal rango costituzionale dell'interesse di volta in volta leso.

Invero, come da insegnamento delle Sezioni unite della Corte di cassazione, i danni non patrimoniali sono risarcibili in tre ipotesi: 1) in presenza di reato; 2) in caso di lesione di un diritto inviolabile della persona, avente rilevanza costituzionale; 3) negli altri casi previsti dalla legge,

Con le note sentenze c.d. di San Martino, in particolare, le Sezioni Unite hanno chiarito che: — in presenza del reato (art. 2059 c.c.) è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili, ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poiché la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato; — negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore, sebbene non possa, tuttavia, ritenersi precluso al legislatore di ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri; — fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata. In tali ipotesi non emergono, nell'ambito della categoria generale «danno non patrimoniale», distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale (Cass. S.U., n. 26972/2008, Cass. S.U., n. 26973/2008, Cass. S.U., n. 26974/2008 e Cass. S.U., n. 26975/2008).

In tali casi il danno non patrimoniale potrà rilevare sotto il profilo del danno morale o del danno esistenziale ovvero, ove ne ricorrano i presupposti, del danno biologico, con la precisazione che si dovrà tenere conto di volta in volta del concreto atteggiarsi di tali figure nell'ambito dell'unica e più ampia categoria del danno non patrimoniale, come chiarito dalle citate sentenze di San Martino (per approfondimenti e per i criteri di liquidazione v. sub art. 2059 c.c.).

Per quanto riguarda il danno patrimoniale futuro, la Suprema Corte ha avuto occasione di affermare che il danno patito dal creditore procedente che, per errore del giudice dell'esecuzione (nella specie, consistito nella indebita dichiarazione di estinzione del giudizio di esecuzione), abbia visto vanificare gli effetti del pignoramento dell'unico bene sul quale il creditore si sarebbe potuto soddisfare, consiste in un danno futuro, pari alla perduta possibilità di soddisfare il proprio credito sui beni pignorati, sicché esso deve essere liquidato in via equitativa ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito correttamente aveva attribuito rilievo alla massima d'esperienza secondo cui la vendita all'asta del bene pignorato avviene normalmente ad un prezzo inferiore al suo valore commerciale (Cass. n. 12960/2011).

Disciplina transitoria

La legge n. 18/2015 non contempla una disciplina transitoria diretta ad applicare, con efficacia retroattiva, il novellato art. 2 della l. n. 117 del 1988 ai fatti illeciti commessi anteriormente alla novella legislativa, sicché trova applicazione il principio di irretroattività della legge sopravvenuta, espresso nell'art. 11 disp. prel. c.c. Tale scelta legislativa, ha precisato la Suprema Corte, non si pone in contrasto con alcuna norma costituzionale, giacché, per contro, una simile regolamentazione sarebbe lesiva degli artt. 3, 24 e 111 Cost., oltre che dell'art 117, comma 1, della Carta fondamentale, in relazione all'art. 6 CEDU, producendo l'effetto di attribuire retroattivamente rilievo, sul piano della responsabilità, a comportamenti che la legge non considerava illeciti al momento in cui furono compiuti (Cass. n. 6810/2016).

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