Legge - 13/04/1988 - n. 117 art. 4 - Competenza e termini1.

Paola D'Ovidio

Competenza e termini1.

1. L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri. Competente è il tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'articolo 11 del codice di procedura penale e dell'articolo 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 2712.

2. L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro tre anni che decorrono dal momento in cui l'azione è esperibile 3.

3. L'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si è verificato.

4. Nei casi previsti dall'articolo 3 l'azione deve essere promossa entro tre anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull'istanza4.

5. In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto.

[1] A norma dell'articolo 8, comma 2 della legge 2 dicembre 1998, n. 420 le disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai giudizi iniziati successivamente alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della medesima legge 420/1998.

Inquadramento

A seguito dell'abrogazione, ad opera della l. n. 18/ 2015, dell'art. 5 (c.d. filtro di ammissibilità della domanda) della legge n. 117/1988, l'unica norma che attualmente regola gli aspetti processuali dell'azione di responsabilità nei confronti dello Stato-giudice è costituita dall'art. 4 della medesima legge, strutturato in cinque commi.

La novella del 2015 ha modificato solo i commi 2 e 4 dell'articolo in esame, limitandosi ad elevare da due a tre anni i termini di decadenza per la proposizione dell'azione originariamente previsti.

Il primo comma, come modificato dall'art. 3 della legge n. 420 del 1998, non ha subito ulteriori modifiche con la novella del 2015.

Tale disposizione, in primo luogo, precisa che l'azione di risarcimento danni contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti dal Presidente del Consiglio dei Ministri e, inoltre, indica, il Tribunale competente per territorio, individuandolo in quello del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'articolo 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale.

La norma è espressione del principio, introdotto dalla legge Vassalli nel 1988, della responsabilità solo indiretta del magistrato-persona fisica, in virtù della quale l'azione risarcitoria può essere proposta direttamente nei soli confronti dello Stato (artt. 2, comma 1, e 4 l. n. 117/1988), il quale è a sua volta legittimato all'azione di rivalsa verso il magistrato in caso di risarcimento del danno avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale (art. 7, l. n. 117/1988).

Si tratta di una deroga rispetto alla solidarietà passiva concernente i pubblici dipendenti in generale, i quali sono invece evocabili direttamente in giudizio, da parte dei terzi danneggiati, in aggiunta o in alternativa alla pubblica amministrazione di appartenenza (art. 28 cost. e art. 22 seg. d.P.R. n. 3/1957).

Invero, la previsione di una responsabilità esclusivamente indiretta del magistrato non rappresenta un unicum nel nostro ordinamento: analoga previsione è dettata dall'art. 61, comma 2 della legge n. 312 del 1980 (oggi art. 574 d.lgs.16 aprile 1994 n. 297) per gli insegnanti statali, i quali, per le ipotesi di culpa in vigilando, non sono personalmente responsabili verso i terzi, nei cui confronti risponde invece l'Amministrazione.

In tema di competenza territoriale, il richiamato art. 11 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge n. 420 del 1998, stabilisce che «i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato, ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norma di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte di appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge».

A sua volta, l'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del c.p.p., prevede che «agli effetti di quanto stabilito dall'articolo 11 del codice, il distretto di corte d'appello nel cui capoluogo ha sede il giudice competente è determinato sulla base della tabella A allegata alle presenti norme».

La tabella A, relativa agli «Spostamenti di competenza per i procedimenti penali nei quali un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato», è stata prima aggiunta dall'art. 6, l. n. 420/1988, poi modificata dall'art. 1, l. n. 199/2003, con decorrenza dal 17 agosto 2003.

Il secondo comma prevede, nel contempo, una condizione di ammissibilità dell'azione (c.d. criterio di sussidiarietà) ed un termine di decadenza per la sua proposizione.

Tale comma, invero, conferisce all'azione di risarcimento del danno verso lo Stato un carattere sussidiario a pena di inammissibilità, stabilendo che essa «può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro tre anni che decorrono dal momento in cui l'azione è esperibile».

La decadenza interviene dopo tre anni decorrenti dal momento in cui l'azione è esperibile, termine così modificato dalla novella del 2015.

Il terzo comma, in deroga al principio di sussidiarietà dell'azione di cui al comma precedente, per evidenti motivi di non procrastinare sine die l'accesso alla domanda risarcitoria, prevede la possibilità di esperire l'azione dopo che siano decorsi tre anni dalla data del fatto, se in tale termine non si è concluso in grado del procedimento nell'ambito del quale quel fatto si è verificato.

Il quarto comma indica il termine di decadenza, anch'esso elevato a tre anni dal Legislatore del 2015, per i casi di azione conseguente a responsabilità per diniego di giustizia.

Il quinto comma, infine, esclude che il termine di decadenza possa decorrere nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto generatore del danno.

Tali disposizioni processuali devono essere integrate con l'art. 50 bis, comma 1, n. 7 c.p.c., a mente del quale il Tribunale competente ai sensi dell'art. 4, l. n. 117/1988 giudica in composizione collegiale.

Responsabilità diretta del solo Stato e rappresentanza processuale

La Suprema Corte ha affermato che la previsione dell'esclusione della proponibilità di un'azione risarcitoria diretta nei confronti del singolo magistrato non integra alcuna limitazione del diritto di agire del danneggiato, né sotto il profilo costituzionale (artt. 2, 3, 24, 32, 111, 117 Cost.), né sotto quello eurounitario (artt. 1, 20, 21, 47, 53, 54 e 55 della Carta di Nizza), né sotto quello sovranazionale (artt. 6 e 13 della CEDU, art. 8 Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo adottata dall'Onu e dal Patto dei diritti civili di New York), in quanto la posizione soggettiva del danneggiato trova piena ed appagante tutela nella responsabilità diretta dello Stato, mentre l'anzidetta esclusione non costituisce privilegio ma estrinsecazione della autonomia e indipendenza di ciascun appartenente all'ordine giudiziario nell'esercizio della funzione giurisdizionale (Cass. n. 1715/2015).

La legittimità costituzionale della previsione di condizioni e limiti alla responsabilità diretta del magistrato è stata in diverse occasioni e affermata da importanti pronunce costituzionali (Corte cost. n. 2/1968; Corte cost. n. 26/1987; Corte cost. n. 18/1989; Corte cost. n. 385/1996).

L'improponibilità dell'azione proposta direttamente nei confronti del magistrato, in violazione dell'art. 2 l. n. 117/1988, il quale accorda l'azione di risarcimento nei soli confronti dello Stato, prevale anche sull'eventuale incompetenza territoriale del giudice adito, sicché quest'ultimo, quand'anche territorialmente incompetente, deve dichiarare comunque detta improponibilità (Cass. n. 10596/2012).

Nonostante il chiaro tenore letterale dell'art. 4, comma 1, della legge n. 117/1988, a mente del quale l'azione di risarcimento danni contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in un primo tempo la giurisprudenza ha ritenuto che la rappresentanza dello Stato spettasse al Ministero di appartenenza del dipendente e, pertanto, a quello di grazia e giustizia (e non anche alla Presidenza del Consiglio dei Ministri): ciò in virtù della rappresentanza processuale conferita dall'ordinamento ai Ministeri (d.lgs. n. 1611/1933 e successive modifiche) (Cass. n. 4386/1999).

La giurisprudenza successiva, tuttavia, si è consolidata in senso difforme.

La prima pronuncia contraria al precedente orientamento è stata resa in sede penale, laddove i giudici di legittimità hanno affermato che l'azione per il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio di funzioni giudiziarie per fatto costituente reato commesso da magistrato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e non nei confronti del Ministro della giustizia, con la conseguenza che, ove l'azione fosse stata esercitata nei confronti del Ministro della giustizia, la carenza di legittimazione passiva di quest'ultimo, incidendo sulla regolare costituzione del rapporto processuale, si sarebbe risolta in un vizio rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio (perciò anche in sede di legittimità), col solo limite della formazione del giudicato sul punto (Cass. pen. n. 13450/2000).

A sua volta, la Cassazione civile, con riferimento alla notifica del ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte di appello di rigetto del reclamo con il quale era stato impugnato il decreto del Tribunale di inammissibilità della domanda risarcitoria, ha ritenuto che tale notifica va effettuata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri presso l'Avvocatura Generale dello Stato; pertanto, se la parte abbia notificato il ricorso al Presidente del Consiglio dei Ministri presso l'Avvocatura distrettuale dello Stato, qualora questi non si sia costituito nel giudizio di legittimità, deve essere disposta la rinnovazione della notificazione e, nel caso in cui la parte non vi provveda nel termine perentorio a detto fine assegnatole, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, non avendo effetto sanante la costituzione del Ministro della giustizia, in quanto la legittimazione passiva nel succitato giudizio spetta esclusivamente al Presidente del Consiglio dei Ministri (Cass. n. 18191/2003).

Tale principio è stato confermato e ribadito da una successiva pronuncia che, coerentemente, ha altresì dichiarato la nullità della costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in quanto effettuata con la rappresentanza e difesa dell'Avvocatura distrettuale dello Stato anziché dell'Avvocatura Generale dello Stato (Cass..n. 22539/2006).

Qualora si verifichi l'erronea evocazione in giudizio del Ministero della giustizia, non sembra che vi sia spazio per l'applicabilità dell'art. 4 della legge 25 marzo 1958, n. 260, contenente la disciplina dell'errore di identificazione del soggetto al quale, nell'ambito dell'Amministrazione, l'atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto deve essere notificato.

Quest'ultima norma, infatti, ha carattere generale e soccorre nelle ipotesi in cui difetti nella disciplina legislativa l'attribuzione di una specifica legittimazione processuale ad un organo dell'amministrazione, sia esso periferico o centrale: tale non è la situazione che si riscontra nell'art. 4, comma 1 della legge n. 117/1988, il quale, invece, indica chiaramente il solo Presidente del Consiglio dei Ministri quale soggetto nei cui confronti l'azione di risarcimento «deve» essere esercitata. Il legislatore, in sostanza, ha voluto che, nel delicato giudizio di responsabilità civile per errori giudiziari, la legittimazione a contraddire resti affidata in via esclusiva alla massima articolazione di governo (D'Ovidio, 111-112).

Competenza territoriale

In tema di competenza territoriale, si segnala un revirement giurisprudenziale con particolare riferimento alle modalità di individuazione del giudice territorialmente competente per i magistrati non ordinari o, comunque per quelli, come i giudici della Cassazione o del Consiglio di Stato, non articolati su base distrettuale.

Un primo e più risalente indirizzo riteneva infatti che l'art. 4, primo comma, l. n. 117/1988 non trovasse applicazione, quanto al criterio territoriale, nei casi in cui veniva dedotta la responsabilità di componenti della Corte di Cassazione, con la consequenziale operatività, per la competenza sulla relativa domanda, delle regole comuni (in virtù delle quali la competenza è del giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione, ex art. 25 c.p.c.); ciò in quanto, si affermava, la Corte di Cassazione, per organizzazione e compiti funzionali, opera a livello nazionale e non è «ufficio compreso» in un distretto di Corte d'appello (Cass. n. 3243/1996; Cass. n. 6551/2005).

Successivamente, si è consolidato l'opposto principio di diritto secondo il quale l'art. 4 cit., e conseguentemente il criterio di collegamento fissato dall'art. 11 c.p.p., opera nei confronti di tutti i magistrati, compresi quelli delle istituzioni di vertice e, quindi, anche nei confronti dei giudici amministrativi, contabili e della Corte di Cassazione.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, ai fini dell'individuazione del giudice competente per territorio, il criterio di collegamento di cui all'art. 11 c.p.p., richiamato dall'art. 4 della legge n. 117 del 1988, opera nei confronti di tutti i magistrati, compresi quelli delle istituzioni di vertice (nella specie, Consiglio di Stato), non ostandovi, sul piano lessicale, il termine «distretto», adoperato nell'art. 4 cit., atteso che tutti i magistrati, anche quelli che non hanno un «distretto» di appartenenza, operano comunque in una sede (nella specie, in Roma), rispetto alla quale può individuarsi la sede diversa ex art. 11 c.p.p. (nella specie, in Perugia), al fine di assicurare che i giudici competenti a decidere sulla responsabilità non siano prossimi ai giudici cui la responsabilità è ascritta (Cass. n. 8997/2012; Cass. n. 668/2013).

Lo stesso principio, del resto, era già stato affermato, anche a Sezioni Unite, con riferimento alle domande di equa riparazione introdotte ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, la quale contiene una analoga norma di richiamo all'art. 11 c.p.p. ai fini della competenza territoriale (Cass. S.U., n. 6307/2010; Cass. n. 24171/2010).

Sotto altro profilo, con riferimento a tutti i casi di responsabilità ex lege n. 117/1988, la Suprema Corte ha affermato che, in relazione alla disciplina recata dall'art. 4, trova applicazione, in via di interpretazione sistematica, la regola, dettata in materia di foro per le cause in cui sono parti i magistrati, posta dall'art. 30-bis, secondo comma, c.p.c., derogatoria della disciplina normale sulla cd. perpetuatio della competenza prevista dall'art. 5 c.p.c. e volta ad assicurare, anche all'apparenza, il massimo grado di imparzialità della giurisdizione, per cui la potestas iudicandi dell'ufficio giudiziario adito originariamente in primo grado, ma anche di quello adito in sede di impugnazione di merito (sia essa l'appello o la revocazione o, ancora, l'opposizione di terzo), viene meno se il magistrato, del cui operato si discuta, sia esso intervenuto o meno nel giudizio, viene ad esercitare le funzioni nel distretto in cui si situa l'ufficio di merito che in quel momento tratta il processo.

Dall'applicazione di tale principio deriva che, nel caso in cui il sopravvenuto svolgimento delle funzioni nel distretto da parte del magistrato si verifichi nel corso del giudizio, sia di primo grado che di impugnazione di merito, troverà applicazione la regola posta dall'art. 157, secondo comma, c.p.c., per cui l'anzidetta situazione dovrà essere rilevata d'ufficio oppure eccepita dalla parte nella prima istanza o difesa successiva alla notizia del trasferimento del magistrato nel distretto; ove, invece, la medesima sopravvenienza di fatto si verifichi nella pendenza del termine per l'impugnazione, troverà applicazione l'art. 38 c.p.c., sicché soltanto nel caso di pertinente e tempestiva eccezione di parte o rilevazione d'ufficio nella prima udienza di trattazione del giudizio di impugnazione si dovrà disporre la «translatio» del processo al diverso giudice individuato in base alle regole dell'art. 11 c.p.p. (Cass. n. 27666/2009).

In ogni caso, il foro territoriale individuato a norma del combinato disposto degli artt. 4, comma primo, legge n. 117/1988, art. 11 c.p.c. ed 1 d.lgs. n. 271/1989 (disp. att. c.p.p.) è inderogabile, attesa la specialità del criterio adottato rispetto a quelli generali stabiliti in materia di competenza territoriale, sicché ad esso è inapplicabile l'art. 33 c.p.c., che consente la deroga solamente alla competenza per territorio semplice. Ne consegue che, in caso di responsabilità prospettata, in relazione ad uno stesso processo, nei confronti di più magistrati addetti ad uffici giudiziari posti in località diverse, ai fini dell'individuazione del giudice territorialmente competente deve tenersi conto della collocazione territoriale dell'esplicazione delle singole condotte mantenute nell'esercizio delle rispettive funzioni, con conseguente necessità di proporre distinte domande dinanzi ai tribunali dalla legge determinati secondo la tabella richiamata dall'art. 4 l. n. 17/1988, rimanendo in tal caso esclusa l'applicabilità della litispendenza ex art. 39 c.p.c., in ragione della non coincidenza della causa petendi costituita, per ciascuna causa, dalla specifica condotta del singolo magistrato con quella mantenuta dagli altri (Cass. n. 4084/2005).

Sussidiarietà dell'azione

Uno dei principi cardine del sistema processuale delineato in materia di responsabilità dello Stato e dei magistrati dalla legge n. 117/1988 è fissato all'art. 4, comma 2, il quale prevede il carattere sussidiario dell'azione di risarcimento del danno verso lo Stato, stabilendo che essa non può essere esercitata se non siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno.

Tale principio, trova la sua ratio nell'intento primario del legislatore di dare la prevalenza alla rimozione del provvedimento dannoso e di privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all'azione risarcitoria, subordinando quest'ultima alla circostanza che il danneggiato abbia utilizzato gli strumenti processuali normalmente apprestati dall'ordinamento per eliminare o, almeno, per ridurre il danno. Ne deriva l'inammissibilità dell'azione in caso di mancato esperimento dell'azione di revocazione ordinaria (Cass. n. 2015/7924; Cass. n. 932/2017).

In applicazione del principio di sussidiarità fissato dall'art. 4, comma 2, della legge n. 117/1988, è stata, ad esempio, dichiarata inammissibile l'azione proposta contro lo Stato, per ottenere il risarcimento dei danni che si assumevano subiti a causa di un'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione aveva rigettato l'istanza di assegnazione di un credito pignorato; ciò in quanto tale ordinanza integra un atto del procedimento esecutivo contro il quale è esperibile l'opposizione agli atti esecutivi a norma dell'art. 617 c.p.c., mentre avverso la sentenza pronunziata all'esito di detta opposizione è proponibile ricorso per cassazione a norma degli artt. 618, ultimo comma, c.p.c. e 111 Cost. (Cass. n. 1884/1994).

Invero, ai sensi della norma di cui si discorre, assume rilievo esclusivo la circostanza che siano stati, o meno, esperite tutte le impugnazioni o, comunque, i rimedi previsti per i provvedimenti di urgenza, dovendo colui che si assuma ingiustamente leso dal provvedimento del giudice preventivamente percorrere le vie che la legge processuale predispone per rimuovere gli errori e le violazioni di legge in ipotesi realizzatesi, con la conseguenza che l'azione de qua dovrà dirsi inammissibile tutte le volte in cui, a seguito della emanazione di un provvedimento di urgenza, e della conseguente instaurazione della fase di merito, le parti abbiano, poi, convenuto una soluzione extraprocessuale della lite, con ciò impedendo ogni possibilità di revisione o di revoca della decisione posta, poi, a base della richiesta risarcitoria (Cass. n. 4682/1998).

Tra i rimedi che devono essere preventivamente esperiti, si è ritenuto compreso anche il ricorso ex art. 111, comma 2, Cost.

La Suprema Corte ha, infatti, negato l'ammissibilità dell'azione ex lege n. 117/1988 nel caso della parte civile di un processo penale per bancarotta che, nella vigenza dell'abrogato codice di procedura penale, aveva omesso di impugnare la sentenza assolutoria di primo grado; infatti, ai sensi dell'articolo 195 c.p.p. previgente, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 1970, la parte civile avrebbe potuto impugnare quella decisione con ricorso per cassazione ai sensi dell'articolo 111, comma 2 Cost.. In tale occasione i giudici di legittimità hanno precisato che ad una simile conclusione non è ostativo il richiamo di cui all'articolo 4 l. n. 117/1988 ai rimedi «ordinari», sfuggendo detto ricorso alla distinzione classica tra mezzi di impugnazione ordinari e straordinari, per essere ordinario nel collegamento con il giudicato, e straordinario nella sovrapposizione all'ordine delle impugnazioni prefigurato dal codice di procedura civile; inoltre, la necessità del ricorso non può escludersi allorquando si lamentino errori di fatto, quali travisamento dei fatti e dolo del giudice, in quanto tali vizi si traducono in motivazione assente o meramente apparente, e sono pertanto deducibili in sede di ricorso straordinario (Cass. n. 11438/1999).

Analogamente, deve ritenersi inammissibile, non essendo ancora esauriti i mezzi ordinari di impugnazione, l'azione di responsabilità prevista dalla legge Vassalli, in relazione ad una sentenza di primo grado di parziale accoglimento di una domanda di ammissione al passivo, ove, interrotto il giudizio di appello a seguito dell'intervenuta chiusura della procedura fallimentare, il creditore non lo abbia riassunto anche solo al fine di conseguire l'accertamento del suo credito nei confronti del debitore rientrato «in bonis» o dei suoi successori (Cass. n. 5955/2014).

Deve tuttavia tenersi presente che, quando l'azione risarcitoria è fondata sull'adozione di un provvedimento in astratto assoggettabile a un mezzo di gravame a critica limitata e, per il soggetto che si ritenga danneggiato, l'impugnazione non sia in concreto ammissibile, non avendo egli da dolersi del vizio alla cui ricorrenza è condizionato quel tipo di gravame, la domanda nel giudizio di responsabilità non può ritenersi improponibile, poiché l'impugnazione era di fatto preclusa dalla legge e, quindi, «non prevista» o «non più possibile» secondo il disposto dell'art. 4; il giudizio di responsabilità potrà, quindi, essere correttamente instaurato entro i termini di cui all'art. 4, secondo comma, della legge n. 117 del 1988, decorrenti dalla data di «esaurimento del grado del procedimento ove il fatto si è verificato». La Corte ha affermato tale principio con riferimento ad una ordinanza di archiviazione adottata dal giudice per le indagini preliminari, avverso la quale non era dato alcun rimedio in caso di difetto di motivazione, in quanto non rientrante tra quelli espressamente previsti, a pena di nullità, dal combinato disposto degli artt. 409, comma sesto, e 127, comma quinto, c.p.p.: in siffatta ipotesi, l'azione di responsabilità doveva ritenersi esperibile con decorrenza dalla data di pubblicazione della ordinanza de qua, emessa a chiusura della fase delle indagini preliminari (Cass. n. 9288/2005).

Decadenza e principio di irretroattività della legge

In relazione all'individuazione del momento di decorrenza del termine di decadenza biennale (ora elevato a tre anni dalla riforma del 2015) per la proposizione dell'azione risarcitoria di cui alla legge 117/1988, nel caso in cui l'atto ritenuto fonte di responsabilità sia un'ordinanza di custodia cautelare, si è ritenuto che detto termine dalla data del deposito del provvedimento di annullamento dell'ordinanza stessa da parte della Corte di cassazione, potendosi, in quella data, legittimamente predicare tanto «l'esaurimento dei mezzi ordinari d'impugnazione», tanto «l'immodificabilità ed irrevocabilità» con riguardo al provvedimento restrittivo emesso dal Gip, ai sensi dell'art. 4 della legge citata (Cass. n. 76/2001).

In linea generale, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, quando l'azione risarcitoria sia fondata su di un provvedimento per il quale è previsto uno specifico rimedio, il termine biennale di decadenza di cui all'art. 4, comma 2, della legge n. 117/1988 decorre dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti, mentre il medesimo termine decorre dall'esaurimento del grado del procedimento nel cui ambito si è verificato il fatto dannoso solo quando nei confronti del provvedimento in questione non siano previsti rimedi di sorta. Conseguentemente, per la richiesta di rinvio a giudizio da parte del P.M. e per il decreto di citazione emesso dal G.I.P., il citato termine biennale decorre dalla data della pronuncia della sentenza di primo grado, mentre, per l'atto di appello proposto dal P.M. avverso la sentenza di assoluzione, tale termine decorre dalla pronuncia della sentenza di appello (Cass. n. 9910/2011).

In ogni caso, l'azione di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie è tardiva se proposta decorsi i due anni dalla data della sentenza di cassazione, nonostante la proposizione di revocazione ex art. 391-bis c.p.c., atteso che tale rimedio non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto (Cass. n. 9916/2015).

Peraltro, la sospensione feriale dei termini processuali, prevista dall'art. 1 legge n. 742 del 1969, non si applica al termine (oggi triennale) per la proposizione dell'azione di risarcimento del danno derivante da responsabilità civile dei magistrati, previsto all'art. 4 della legge n. 117/1988, in quanto l'ampiezza di tale termine porta ad escludere che l'inapplicabilità della sospensione feriale determini un effettivo nocumento alla tutelabilità della situazione giuridica sostanziale posta a base dell'azione (Cass. n. 9681/2011).

Una ipotesi particolare di individuazione del dies a quo di decorrenza del termine decadenziale è stata ravvisata nel caso in cui l'azione risarcitoria sia promossa nell'interesse di minori privi di rappresentanza legale, il termine biennale di decadenza previsto dall'art. 4, comma 2, della legge Vassali decorre dalla data di nomina del tutore che ne assume tale rappresentanza (Cass. n. 19265/2014, in Giur. it. 2014, 2717, con nota di Tizi).

Sotto altro profilo è stato opportunamente chiarito che il termine decadenziale previsto dall'art. 4 della legge n. 117 del 1988 è ancorato all'esaurirsi dei rimedi avverso il provvedimento pregiudizievole o del procedimento nel cui ambito si è verificato «il fatto che ha cagionato il danno», che va inteso come «fatto dannoso« e non come »danno conseguenza« poiché la verificazione del danno non rientra tra i requisiti di ammissibilità della domanda risarcitoria. Tale principio è stato affermato con riferimento ad un provvedimento del giudice tutelare di autorizzazione alla liberazione di somme, sottoposte a vincolo pupillare, per acquistare alcuni immobili in costruzione, concesso senza verificare la solvibilità del soggetto alienante, poi fallito, e dei suoi fideiussori: la Suprema Corte ha escluso che il termine di cui si discorre potesse decorrere dal momento del verificarsi delle conseguenze pregiudizievoli, ossia dalla definitività della mancata ammissione al passivo del fallimento dell'impresa edile del credito privilegiato vantato dalla ricorrente (Cass. n. 12997/2016; Cass. n. 6810/2016)

La Suprema Corte ha avuto anche occasione di affermare che il termine decadenziale di cui all'art. 4 in esame (nel testo anteriore alla novella del 2015, ma il principio è a fortiori applicabile al più lungo termine attualmente vigente) non si pone in contrasto con i principi di equivalenza ed effettività della tutela derivanti dal diritto dell'Unione europea, atteso che la norma, oltre ad assicurare un periodo di tempo più che ragionevole e sufficiente per approntare adeguatamente l'azione, costituisce espressione del principio di ragionevole durata del processo, rilevante ai sensi sia dell'art. 111 Cost., che dell'art. 6 della CEDU (Cass. n. 258/2017).

Una particolare attenzione meritano, infine, i problemi interpretativi di diritto intertemporale in relazione al più lungo termine di decadenza per la proposizione dell'azione di risarcimento del danno (elevato da due a tre anni dalla l. n. 18/2015, che ha modificato sul punto l'art. 4, commi 2 e 4), e al più lungo termine per l'esercizio dell'azione di rivalsa inserito nella nuova formulazione dell'art. 7 (elevato da uno a due anni dalla legge cit.).

In proposito la Corte di cassazione ha avuto modo di affermare che, in ossequio al principio dell'irretroattività della legge, la nuova disciplina (e quindi i più lunghi termini di tre e due anni rispettivamente oggi previsti per l'azione risarcitoria e per quella di rivalsa) non è applicabile nei casi in cui, alla data della sua entrata in vigore (19 marzo 2015), erano già maturati i più brevi termini di decadenza (rispettivamente biennale e annuale) fissati per l'azione risarcitoria e per quella di rivalsa dalla l. n. 117/1988 ante riforma.

In particolare, con riferimento ad una fattispecie in cui l'azione risarcitoria era stata proposta quando erano già decorsi i due anni dal passaggio in giudicato della sentenza che si assumeva lesiva, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibile tale azione secondo la norma applicabile ratione temporis, atteso che non potevano trovare applicazione le modifiche arrecate alla legge n. 117 del 1988 dalla l. 27 febbraio 2015 n. 18 la quale, siccome priva di disciplina transitoria, regola solo le fattispecie successive alla sua entrata in vigore, avvenuta il 19 marzo 2015 (Cass. n. 9916/2015).

Diversa è la questione relativa alla individuazione della disciplina applicabile al termine decadenziale nei casi in cui l'originario e più breve termine fissato dagli artt. 4 e 7 della l. n. 117/1988 non fosse ancora spirato al momento di entrata in vigore della l. n. 18/2015 (19 marzo 2015) e la domanda venga proposta dopo tale data.

In proposito, in assenza allo stato di pronunce della Corte di legittimità, un utile orientamento è fornito da un precedente della Corte costituzionale, la quale, pronunciandosi con una sentenza interpretativa di rigetto sulla legge n. 438 del 1992 (la quale aveva modificato, restringendoli, i termini di decadenza dall'azione giudiziaria in materia di trattamenti pensionistici e di prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti), ha precisato che solo ove il dies a quo del termine di decadenza per l'esercizio dell'azione giudiziaria si verifichi dopo la data di entrata in vigore della legge successiva si devono applicare i nuovi termini, aggiungendo che il termine di decadenza non può prendere regola se non dalla legge in vigore nel momento in cui comincia a decorrere (Corte cost. n. 20/1994, punto 5 del cons. dir.).

Sulla questione si è precisato che il concetto di «fatti consumati» implica, ai fini processuali, l'esperimento di tutti i mezzi di impugnazione, posto che è da tale data che inizia a decorrere il termine decadenziale per la proposizione dell'azione di responsabilità civile nei confronti dello Stato. Conseguentemente, la nuova disciplina troverà applicazione, con riguardo ai provvedimenti giurisdizionali, solo quando il termine per l'esaurimento dei mezzi ordinari di impugnazione non sia ancora completato alla data del 19 marzo 2015.

In caso contrario s'applicherà la precedente disciplina sia con riguardo al termine decadenziale (biennale) sia con riguardo alla proposizione della domanda con il suo esame attraverso il filtro di ammissibilità dell'azione.

Tale regime riguarderà anche il caso in cui il provvedimento, che si assume lesivo di diritti altrui, sia passato in giudicato anteriormente al 19 marzo 2015 o i comportamenti che si reputano illeciti, siano stati posti in essere prima di detta data, ma non sia del tutto decorso il termine decadenziale biennale: il fatto che la legge sia entrata in vigore mentre la decorrenza di quel termine era in corso non comporta la proroga di esso (Genovese, 2015).

Sulla stessa scia, si è sostenuto che le modifiche apportate dalla legge di riforma del 2015, in assenza di norma transitoria, devono ritenersi, sì, di immediata applicazione, ma tenendo presente che la regola del tempus regit actum implica anche il rispetto degli effetti sorti alla stregua della norma vigente al tempo del compimento dell'atto stesso, dovendo ritenersi che, come è stato efficacemente affermato (Caponi, 455), la massima tempus regit actum significa anche tempus regit effectum.

Conseguentemente, al fine di stabilire la disciplina applicabile (e quindi il termine di decadenza dell'azione di risarcimento e dell'azione di rivalsa), appare corretto fare riferimento al momento in cui è maturato il dies a quo di decorrenza di detti termini: così, i nuovi e più ampi termini di decadenza ex artt. 4 e 7 cit. (rispettivamente triennali e biennali) troveranno applicazione nei casi in cui la loro decorrenza non fosse neppure iniziata alla data del 19 marzo 2015, dovendosi, in caso contrario, applicare la previgente disciplina e, quindi, i più brevi termini, rispettivamente biennali e annuali (D'Ovidio, 168).

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