Legge - 13/04/1988 - n. 117 art. 7 - Azione di rivalsa 1.

Paola D'Ovidio

Azione di rivalsa 1.

1. Il Presidente del Consiglio dei ministri, entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale, ha l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all'articolo 2, commi 2, 3 e 3-bis, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile.

2. In nessun caso la transazione e' opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa o nel giudizio disciplinare.

3. I giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo. I cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo o negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove.

Inquadramento

La trama di fondo della speciale disciplina disegnata dalla legge n. 117 del 1988 è ispirata al modello del c.d. «doppio binario», caratterizzato dalla autonomia della responsabilità dello Stato rispetto a quella del magistrato e realizzato attraverso la previsione della responsabilità diretta del solo Stato nei confronti del privato danneggiato dallo svolgimento di attività giurisdizionali.

Il magistrato, a sua volta, risponde non già direttamente al danneggiato (salva l'ipotesi del fatto costituente reato), ma solo in sede di rivalsa, la quale può essere azionata dallo Stato quando, in forza di un titolo giudiziale o stragiudiziale, quest'ultimo abbia risarcito il danno provocato a terzi per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato stesso nell'esercizio delle sue funzioni.

Il legislatore ha concentrato in due soli articoli la disciplina sia degli aspetti sostanziali che processuali della rivalsa (artt. 7 e 8), riservando ad un autonomo articolo quella relativa ai casi di regresso per i fatti costituenti reato (art. 13).

Per quanto riguarda in particolare l'art. 7, composto da tre commi, la novella del 2015 ha introdotte modifiche assai rilevanti, le quali hanno dato luogo a numerose incertezze interpretative.

In base all'attuale formulazione del primo comma, l'azione civile di rivalsa è promossa su iniziativa del Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale ha l'obbligo di esercitarla entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale.

Tale obbligo, tuttavia, è sancito con riferimento non già a tutte le ipotesi di responsabilità dalle quali possa derivare una condanna dello Stato, bensì solo a quelle di denegata giustizia, ovvero a quelle in cui la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all'articolo 2, commi 2, 3 e 3-bis, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile.

Rispetto alla disciplina previgente, con riferimento al comma 1 del citato art. 7, le novità da segnalare sono: 1) la esplicita previsione dell'obbligatorietà dell'azione di rivalsa; 2) la concorrente previsione di tale obbligatorietà solo per alcune, e non per tutte, le ipotesi di responsabilità dello Stato verso il privato; 3) l'introduzione di criteri di valutazione tali da determinare la non-coincidenza tra i presupposti fondanti la responsabilità dello Stato per fatto del magistrato e quelli necessari per il vittorioso esperimento della rivalsa del primo verso il secondo: peculiarità, questa, che però riguarda due sole fattispecie (i.e. violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea e travisamento del fatto o delle prove), per le quali nel secondo giudizio ora si esige un elemento soggettivo che non è invece (più) richiesto per fondare la responsabilità dello Stato; 4) l'aumento da un anno a due anni del termine per esercitare l'azione.

Il comma 2, rimasto invariato a seguito della riforma, prevede che in nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa o nel giudizio disciplinare.

Da notare che quella stessa transazione cui si riferisce tale disposizione, è altresì indicata nel primo comma quale presupposto di insorgenza dell'obbligatorietà dell'azione di rivalsa, che, pertanto, a differenza dei casi in cui tale azione viene esercitata all'esito di un giudizio civile di danno ex art. 2 l. n. 117/1988, costituirà il primo accertamento giudiziale sui fatti che hanno dato luogo alla pretesa risarcitoria.

La norma coerentemente completa, con riferimento al titolo stragiudiziale, quanto già previsto dal precedente articolo 6, comma 2, con riguardo al titolo giudiziale formatosi nel giudizio promosso contro lo Stato, il quale non fa stato nel giudizio di rivalsa se il magistrato non è intervenuto volontariamente in giudizio e, in ogni caso, non fa mai stato nel procedimento disciplinare.

Il terzo comma dell'art. 7 si occupa, infine, della rivalsa nei confronti dei giudici popolari (ossia quelli chiamati temporaneamente a comporre le Corti d'Assise), per i quali è prevista la responsabilità nei soli casi di dolo, nonché della rivalsa nei confronti dei cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare e formano organi giudiziari collegiali (i.e. tribunali minorili, sezioni specializzate agrarie, tribunali della acque, ecc.), i quali oggi rispondono, oltre che nei casi di dolo, anche in quelli di negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove (mentre, prima della riforma del 2015, rispondevano in caso di dolo o di errore di fatto c.d. revocatorio).

Questioni di costituzionalità sollevate a seguito della legge di riforma n. 18 del 2015

A seguito della novella del 2015, due Tribunali hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, sotto vari profili, in riferimento all'art. 7 della l. 117/1988 nella parte in cui prevede l'obbligatorietà dell'azione di rivalsa.

La prima ordinanza di remissione alla Corte costituzionale, emessa dopo neppure due mesi dall'entrata in vigore della l. n. 18/2015, riteneva la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 l. n. 18/2015 nella parte in cui ha modificato l'art. 7, comma 1, l. n. 117/1988, prevedendo l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa verso il magistrato, per contrasto con gli artt. 24 e 3 Cost.

Ad avviso del giudice remittente, l'art. 24 comma 1 Cost., che, nel riconoscere il diritto di difesa, implicitamente riconosce anche il diritto di non agire in giudizio, risulterebbe violato perché la previsione dell'obbligo di agire in rivalsa sottrae alla Presidenza del Consiglio il diritto di valutare la convenienza della azione di rivalsa sulla base, soprattutto, di un raffronto tra i costi del giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato, tra i quali il più rilevante è costituito dall'entità della somma versata per sentenza o transazione alla parte vittoriosa, i possibili costi del giudizio nei confronti del magistrato e le probabilità di successo del medesimo, sostanzialmente imponendo di esercitare l'azione di rivalsa «al buio», vale a dire senza aver avuto, nella maggior parte dei casi, il conforto della positiva verifica dell'elemento soggettivo della negligenza inescusabile del magistrato nel giudizio nei confronti dello Stato e anche nei casi, invero remoti, in cui fosse stata acclarata l'insussistenza di quel presupposto.

Quest'ultimo profilo sarebbe sintomatico di una irragionevolezza della disposizione, la quale sarebbe rinvenibile anche nella assimilazione tra transazione e sentenza di condanna quali presupposti processuali dell'azione obbligatoria di rivalsa, sebbene essi abbiano genesi del tutto differenti: il giudice remittente osserva in proposito che il primo dei predetti esiti è frutto di una scelta discrezionale della parte-Presidenza del Consiglio dei ministri, e come tale può essere dettato da varie considerazioni, soprattutto di convenienza, che potrebbero anche essere viziate da un errore di valutazione sulla ammissibilità o sulla palese infondatezza della domanda risarcitoria. Ebbene, anche a fronte di una simile evenienza il magistrato subirebbe l'azione di regresso che sarebbe però destinata ad insuccesso per lo Stato.

Infine, quale ulteriore profilo di violazione dell'art. 3, è stata evidenziata la ingiustificata differenza tra questa disciplina e quella dell'azione di regresso nei confronti degli altri dipendenti pubblici sotto almeno due aspetti. In primo luogo l'azione di rivalsa verso i dipendenti pubblici, in base ai principi generali in tema di garanzia personale (art. 1950 c.c.), non derogati dall'art. 22, comma primo, del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, non è obbligatoria, sebbene presupponga che nel giudizio nei confronti dello Stato sia stato accertato l'elemento soggettivo (dolo o colpa grave) del comportamento del funzionario danneggiante e la conseguente valutazione sulla probabilità di successo della rivalsa stessa. In secondo luogo l'iniziativa giudiziaria rimane discrezionale anche in caso di transazione della lite, come si evince dal disposto dell'art. 30 d.P.R. n. 3/1957, e la ratio di tale previsione è la medesima dell'originario testo dell'art. 7, comma 1, l. n. 117/1988 (Trib. Verona III, ord. 12 maggio 2015 n. 198).

Nel febbraio 2016 un altro Tribunale ha sollevato questione di costituzionalità dell'art. 7, legge n. 117/1988, come riformulato dalla legge n. 18/2015, per un diverso aspetto, e precipuamente nella misura in cui tale disposizione prevede che il giudice possa essere convenuto in sede di rivalsa anche per l'ipotesi del travisamento del fatto e delle prove di cui all'art. 2, commi 2 e 3, ritenendo tale previsione irragionevole, non compatibile con il principio di legalità, nonché con i canoni di indipendenza, terzietà ed imparzialità dei giudice e dei giudizi e, dunque, in contrasto con gli artt. 3, 24, 28, 101, 104, 111, 113 Cost.

L'ordinanza di remissione parte dal rilievo che l'art. 7, nella misura in cui consente che il giudice, per l'attività di valutazione del fatto o della prova, possa essere destinatario dell'azione di rivalsa, a ben vedere, impone la rivalsa per un numero di fattispecie non previamente individuabili, e ravvisate non già dalla legge ex ante, ma ex post, da parte di altro organo, diverso dal legislatore: dunque, con la disposizione in esame, l'opera di individuazione dei casi in cui il giudice potrà essere convenuto in sede di rivalsa ed essere ritenuto civilmente responsabile, per l'attività di valutazione del fatto e delle prove, viene, in concreto, delegata ad un altro organo (il giudice della domanda risarcitoria), e ciò in violazione del principio di legalità desumibile dagli articoli 28 e 101 della Costituzione, in forza del quale è il legislatore che deve prevedere e stabilire in quali casi il giudice — persona fisica può essere ritenuto responsabile.

Inoltre, prosegue l'ordinanza in discorso, la norma in valutazione appare contrastare con i principi di indipendenza ed autonomia del giudice, di cui agli articoli 101-113 della Costituzione, che lungi dal costituire un privilegio della persona fisica titolare dell'ufficio, risultano strettamente preordinati a garantire l'imparzialità del giudizio ex artt. 3, 24, 111 Cost. e, dunque, a tutelare il cittadino in sede processuale.

La norma in discorso, infatti, sembrerebbe urtare con il principio del libero convincimento del giudice, espressione, come evidenziato anche dalla Consulta, dei suddetti principi di indipendenza ed imparzialità (Corte cost. n. 225/1992) ed esplicitamente riconosciuto in seno alle disposizioni codicistiche (ad es., art. 116 c.p.c.).

Ed, invero, ad avviso del remittente, la mera possibilità che il giudice possa essere sottoposto all'azione di rivalsa, per l'attività di valutazione del fatto o delle prove, e in specie per l'ipotesi di avere «travisato» il materiale probatorio o il fatto, potrebbe generare il rischio che lo stesso possa essere portato «a scelte accomodanti e a decisioni meno rischiose» (Corte cost. n. 18/1989) e che, dunque, l'esercizio della funzione avvenga senza una condizione di sufficiente indipendenza del magistrato, a detrimento dei parametri. Possibilità, quest'ultima particolarmente concreta dopo la soppressione del giudizio di ammissibilità (operato attraverso l'abrogazione dell'art. 5, l. n. 117/1988), che verosimilmente comporterà il moltiplicarsi di istanze risarcitorie fondate sull'asserito travisamento del fatto o delle prove, la cui proposizione potrebbe, comunque, incidere sulla serenità del magistrato,

Inoltre, partendo dal dato di fatto che l'attività del magistrato è quella di decidere e, dunque, di valutare, quotidianamente, un numero molteplice di casi, viene paventato anche il rischio che, attraverso la disposizione in scrutinio, ciascun giudice venga, nel tempo, coinvolto in un numero rilevante di procedimenti di natura risarcitoria, venendo così concretamente distolto dalla sua funzione, dovendo egli preoccuparsi più se apprestare un'adeguata difesa, anziché svolgere serenamente il proprio compito.

Un simile sistema legislativo, in sostanza, verrebbe a condizionare indebitamente l'attività del giudice, favorendone atteggiamenti remissivi o conformisti, in violazione di quanto prescrive l'art. 101 della Costituzione.

Tale condizione sarebbe tale da determinare anche la conseguente violazione dell'art. 111 della Costituzione, perché priverebbe il giudice della sua «terzietà», in quanto egli diverrebbe portatore di un interesse (quello di evitare pregiudizi, anche di natura morale o professionale) incompatibile con il suo dovere di rendere giustizia in modo imparziale.

A scongiurare la violazione delle norme costituzionali indicate non sarebbe sufficiente il rilievo che l'art. 7, legge n. 117/1988 prevede che l'azione di rivalsa debba essere esercitata se il travisamento del fatto o delle prove siano stati determinati da dolo o negligenza inescusabile, posto che ciò non elimina la descritta condizione di soggezione del giudice.

Infatti, poiché nel giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato, l'art. 2, comma 3, della medesima legge n. 117/1988 riconosce la sussistenza della colpa grave a prescindere da ogni indagine di tipo soggettivo, il mero risarcimento del danno avvenuto in base a tale norma, assoggetterebbe comunque il giudice all'azione di rivalsa, potendo ogni valutazione dell'elemento soggettivo rilevare solo in tale sede (Trib. Catania II, ord. 6 febbraio 2016 n. 113).

Entrambe le questioni sono state dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, dalla Corte costituzionale con decisione del 3 aprile 2017 (Corte cost., n. 164/2017, la cui motivazione è riportata sub art. 2).

Secondo alcuni, l'obbligatorietà dell'azione di rivalsa, introdotta all'art. 7 della l. n. 117/1988 dalla novella del 2015, non sarebbe una novità, in quanto tale azione doveva ritenersi obbligatoria, e non facoltativa, già nel vigore della precedente formulazione della norma, sicché l'omessa attivazione dell'azione di rivalsa configurerebbe danno erariale imputabile al Presidente del Consiglio, evocabile innanzi alla Corte dei Conti (Tenore, 457).

Analogamente, si è affermato che l'obbligatorietà della rivalsa era già desumibile dalla precedente formulazione, aggiungendo però l'osservazione, in dissenso con l'opinione sopra espressa, che anche oggi, come prima, l'inosservanza dell'obbligo resta senza sanzione (Biondi, 2015, 3).

In linea con quest'ultima affermazione, si è sottolineato che la legge n. 18 del 2015, introducendo il nuovo comma 2-bis all'art. 13 (concernente la responsabilità civile per fatti costituenti reato), ha espressamente previsto la responsabilità contabile in caso di mancato esercizio dell'azione di regresso di cui al comma 2 dello stesso articolo e non ha, invece, introdotto una analoga previsione con riferimento al mancato esercizio dell'azione di rivalsa nelle ipotesi disciplinate dall'art. 7: ciò dovrebbe indurre l'interprete ad escludere, a contrario, che la detta responsabilità contabile possa sorgere in questi ultimi casi (D'Ovidio, 145).

Incertezze interpretative

L'art. 7 della l. n. 117/1988, nella sua attuale formulazione, prevede l'obbligatorietà dell'azione di rivalsa solo con riferimento ad alcune specifiche ipotesi, puntualmente indicate dalla stessa norma. Ciò ha suscitato perplessità sul significato che il silenzio della norma assume nei riguardi delle altre ipotesi di colpa grave non contemplate dall'art. 7 (i.e.: affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento e negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, nonché emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione)..

Il dubbio, con riferimento a queste ultime ipotesi, riguarda, in particolare, l'alternativa tra il ritenere esclusa tout court la possibilità di promuovere l'azione di rivalsa, ovvero considerare quest'ultima solo facoltativa e, dunque, esercitabile a discrezione del Presidente del Consiglio.

Sulla questione, sono state espresse opinioni discordi, le quali però condividono una certa incertezza interpretativa dichiaratamente generata dal tenore ambiguo della norma.

Secondo alcuni, infatti, la formulazione dell'art. 7 sembrerebbe letteralmente meglio indicare la presenza di altri casi (quelli cioè fondanti la responsabilità dello Stato, ma non indicati) per i quali l'azione di rivalsa risulterebbe, al contrario, non obbligatoria, ma facoltativa. Anche se, sottolinea lo stesso Autore, trattandosi di una scelta di grande rilievo (che pone fine al parallelismo tra la responsabilità dello Stato e quella del magistrato), sarebbe stata senza dubbio preferibile una formulazione più chiara, del tipo «il Presidente del consiglio esercita l'azione di rivalsa solo nei casi di...» (Romboli, 2015).

Sembra discostarsi da tale lettura altra dottrina, ad avviso della quale, nelle ipotesi non contemplate dall'art. 7, «l'azione di rivalsa sembra essere preclusa» (Bonaccorsi, 453).

Nell stesso senso, si è detto che, sebbene il dato letterale sia sul punto un vero e proprio Giano bifronte, nel dubbio, una interpretazione conforme ai precetti costituzionali orienta sicuramente verso la soluzione che riconosce nella norma una volontà di escludere del tutto la rivalsa nei casi di non prevista obbligatorietà della stessa, in quanto risulterebbero altrimenti gravemente compromessi i principi di autonomia e indipendenza della magistratura ove si dovesse ritenere rimessa alla discrezionalità politica del Presidente del Consiglio dei Ministri la scelta sull'esercizio o meno dell'azione di rivalsa, peraltro in difetto di qualsiasi criterio predeterminato.

Come infatti è stato osservato sin dai primi contributi sul punto, l'ipotesi di una discrezionalità nell'azione di rivalsa porrebbe il Governo in una posizione del tutto inconciliabile con il principio costituzionale di indipendenza della magistratura, tanto più in considerazione dell'assenza di criteri predeterminati (Dal Canto, 2015, 194, così anche Nisticò, 2015).

Ed è inutile sottolineare la pericolosità, per le garanzie di indipendenza della magistratura, di un uso discrezionale dell'azione di rivalsa da parte del capo del governo (Romboli, 2015).

Invero, non può sfuggire che un'azione di rivalsa discrezionale, in mancanza di una previsione del tipo «ha facoltà», non ha spazio in un'area, quale quella della rivalsa, interamente regolata da norme: l'obbligo di esercizio, dunque, ha il senso non dell'introduzione di un'area implicita di facoltatività per i casi non previsti, ma dell'identificazione di un dovere funzionale del soggetto competente, il Presidente del Consiglio dei ministri. Nella precedente formulazione dell'art. 7 si leggeva «esercita» perché la norma si limitativa a contemplare puramente e semplicemente la fattispecie della rivalsa, senza riferimenti all'organo competente, in quanto si parlava solo di «Stato» (Scoditti, 2015, 320).

Un ulteriore profilo critico della norma in commento riguarda la (im)possibilità, per il Presidente del Consiglio, di compiere una preventiva valutazione di fondatezza dell'azione di rivalsa nelle due ipotesi di colpa grave per le quali quest'ultima è prevista come obbligatoria.

Considerato, infatti, che in sede di giudizio di responsabilità nei confronti dello Stato l'accertamento della ricorrenza di tali fattispecie prescinde da qualsiasi aggancio a coefficienti di natura soggettiva, la cui sussistenza rappresenta però il presupposto dell'azione di rivalsa, difficilmente il Presidente del Consiglio sarà in grado di apprezzare preventivamente l'esito della rivalsa. Dunque, escludendo che possa essere discrezionalmente il Governo ad apprezzare, caso per caso, se vi è o se non vi è negligenza inescusabile, ne deriva che l'azione di rivalsa dovrà essere esercitata in automatico, in tutti i casi previsti dall'art. 7, a prescindere dalla negligenza inescusabile, la quale potrà essere accertata soltanto a posteriori, in sede di giudizio (Dal Canto, 194).

Il dies a quo di decorrenza per la proponibilità dell'azione di rivalsa

Il termine biennale per la proposizione dell'azione di rivalsa decorre, a norma dell'art. 7 comma 1, l. n. 117/1988, «dal risarcimento del danno avvenuto sulla base di titolo giudiziale...».

La norma non precisa se detto titolo debba essere passato in giudicato, ovvero se sia sufficiente la mera esecutività del provvedimento di condanna emesso a carico dalla Stato.

In assenza di precedenti giurisprudenziali della Corte di legittimità, merita di essere evidenziata la posizione assunta dalla Corte dei Conti nella analoga e speculare fattispecie in materia di danno c.d. indiretto, ossia di rivalsa nei confronti di un dipendente pubblico originata da una previa condanna risarcitoria emessa a carico dell'amministrazione del giudice civile.

La giurisprudenza giuscontabile assume particolare rilievo, anche ai fini della parità di trattamento, ove si consideri che, pur non essendo devoluta alla Corte dei conti la giurisdizione sulle azioni di rivalsa ex art. 7 l. n. 117/1988, ad essa spetta invece la giurisdizione per le azioni di regresso ex art. 13 della medesima legge, previste per i fatti costituenti reato (Cass. n. 12248/2009; Cass. n. 6582/2006).

In proposito, si fronteggiano due orientamenti.

Da un lato, una parte della giurisprudenza contabile ritiene che il dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità per il risarcimento del danno c.d. indiretto vada individuato nella data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato, senza dover attendere il futuro passaggio in giudicato della sentenza di condanna al risarcimento del danno (Corte conti, App. Sicilia, n. 474/2014; Corte conti, Sez. Piemonte, n. 122/2014; Corte conti, sez. Toscana, n. 161/2014; Corte conti n. 139/2016).

Un altro ed opposto orientamento, invece, ritiene improponibile l'azione nei confronti del dipendente, per carenza di un interesse attuale ad agire in capo, in assenza di un danno «certo» da recuperare.

Ciò in quanto l'obbligazione risarcitoria della P.A. si perfeziona in modo definitivo, almeno con riferimento ai mezzi ordinari di impugnazione, ed acquisisce concretezza ed attualità al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna in favore del terzo danneggiato.

Da tale rilievo conseguirebbe che un soggetto deve essere sottoposto a processo, per quanto riguarda la giurisdizione di responsabilità amministrativa, solo quando si siano realizzate tutte le condizioni di certezza, concretezza ed attualità del danno, che sono gli elementi alla cui tutela è posto il presidio della giustizia contabile, poiché non si vede per quali ragioni un soggetto debba essere costretto a subire un processo ed una condanna per poi, eventualmente, doversi nuovamente rivolgere ad un altro giudice (e quindi «subire», sia pure come parte attiva, un altro processo) per ricondurre il tutto alla situazione quo ante in ipotesi di constatato ingiustificato arricchimento. Dunque, secondo tale lineare sentenza delle Sezioni Riunite, l'azione giuscontabile per danno c.d. indiretto è proponibile dopo il giudicato civile e la prescrizione dell'azione decorre dalla data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato, di regola successivo al giudicato (Corte Conti, sez. riun. n. 14/QM/2011; Corte conti, sez. Lombardia, n. 136/2016).

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