Legge - 25/02/1992 - n. 210 art. 3

Donatella Salari

 

1 . I soggetti interessati ad ottenere l'indennizzo di cui all'art. 1, comma 1, presentano alla USL competente le relative domande, indirizzate al Ministro della sanità, entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post-trasfusionali o di dieci anni nei casi di infezioni da HIV. I termini decorrono dal momento in cui, sulla base delle documentazioni di cui ai commi 2 e 3, l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno. La USL provvede, entro novanta giorni dalla data di presentazione delle domande, all'istruttoria delle domande stesse e all'acquisizione del giudizio di cui all'art. 4, sulla base di direttive del Ministero della sanità, che garantiscono il diritto alla riservatezza anche mediante opportune modalità organizzative12.

1-bis . Chiunque, nell'esercizio delle proprie funzioni, venga a conoscenza di casi di persone danneggiate da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati, è tenuto a rispettare il segreto d'ufficio e ad adottare, nell'ambito delle proprie competenze, tutte le misure occorrenti per la tutela della riservatezza della persona interessata 3.

2. Alla domanda è allegata la documentazione comprovante: la data della vaccinazione, i dati relativi al vaccino, le manifestazioni cliniche conseguenti alla vaccinazione e l'entità delle lesioni o dell'infermità da cui è derivata la menomazione permanente del soggetto.

3. Per le infezioni da HIV la domanda deve essere corredata da una documentazione comprovante la data di effettuazione della trasfusione o della somministrazione di emoderivati con l'indicazione dei dati relativi all'evento trasfusionale o all'emoderivato, nonchè la data dell'avvenuta infezione da HIV.

4. Alla domanda di indennizzo ai sensi dell'art. 2, comma 3, è allegata la documentazione comprovante: la data della vaccinazione, i dati relativi al vaccino, le manifestazioni cliniche conseguenti alla vaccinazione e il decesso. Per le infezioni da HIV alla domanda è allegata la documentazione comprovante la data di effettuazione della trasfusione o della somministrazione di emoderivati con l'indicazione dei dati relativi all'evento trasfusionale o all'emoderivato, nonchè la data dell'avvenuto decesso.

5. Il medico che effettua la vaccinazione di cui all'art. 1 compila una scheda informativa dalla quale risultino gli eventuali effetti collaterali derivanti dalle vaccinazioni stesse.

6. Il medico che effettua trasfusioni o somministra emoderivati compila una scheda informativa dei dati relativi alla trasfusione o alla somministrazione.

7. Per coloro che, alla data di entrata in vigore della presente legge, hanno già subito la menomazione prevista dall'art. 1, il termine di cui al comma 1 del presente articolo decorre dalla data di entrata in vigore della legge stessa 4.

[1] La Corte Costituzionale, con sentenza 6 marzo 2023, n. 35, (in Gazz. Uff. 8 marzo 2023, n. 10),  ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui, al secondo periodo, dopo le parole «conoscenza del danno», non prevede «e della sua indennizzabilità».

[4] La Corte Costituzionale, con sentenza 15 aprile 1996, n. 118,  (in Gazz. Uff., 24 aprile, n. 117), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui esclude, per il periodo ricompreso tra il manifestarsi dell'evento prima dell'entrata in vigore della predetta legge e l'ottenimento della prestazione determinata a norma della stessa legge, il diritto - fuori dell'ipotesi dell'art. 2043 del codice civile - a un equo indennizzo a carico dello Stato per le menomazioni riportate a causa di vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica da quanti vi si siano sottoposti e da quanti abbiano prestato ai primi assistenza personale diretta.

Inquadramento

1. L'emotrasfusione è pratica medica antichissima valorizzata tecnicamente all'inizio del secolo scorso, ma che presenta, da sempre, rischio di contagio di epatopatie virali come quelle da infezioni di Aids ed altri virus di tipo A, B e C i quali, in termini giuridici, costituiscono fonti di eventi lesivi di menomazione dell'integrità fisica conseguente al contagio.

Sorge, dunque, la necessità per lo Stato di dotarsi di strumenti di controllo del sangue e degli emoderivati, in genere, intervenendo con controlli preventivi rispetto al pericolo d'infezioni contratte per effetto di trasfusioni di sangue e di emoderivati Gli strumenti giuridici a disposizione del cittadino che subisca un contagio sono, allo stato, due: l'uno si concretizza nell'esercizio dell'azione aquiliana ex art. 2043 c.c., l'altro è quello di tipo assistenziale – previdenziale che prevede un indennizzo a carico dello Stato nel caso di lesione irreversibile del danneggiato contratta in conseguenza di vaccinazione, epatite post- trasfusionale e contagio da Hiv, secondo una certa evoluzione legislativa di cui si darà conto nel corso della trattazione.

Natura di illecito aquiliano

Sotto il primo profilo va evidenziato che la natura aquiliana della responsabilità del Ministero della Sanità (ora della Salute) è stata letta dalla giurisprudenza di merito e di legittimità in relazione ai compiti istituzionali di controllo della pratica sanitaria di emotrasfusione e di distribuzione e commercializzazione di sangue ed emoderivati. Infatti, nei vari arresti giurisprudenziale essa è stata ricostruita – sia pure con una serie di correttivi – come omessa vigilanza in conseguenza di un complesso normativo di disciplina dell'emo — sicurezza che rimonta agli anni sessanta del secolo scorso, in stretto rapporto con le conoscenze scientifiche disponibili al momento del contagio (Cass. III, n. 10291/2015, nonché, Cass. III, n. 26152/2014).

In questo senso centrale ai fini dell’accertamento della responsabilità è il ruolo del Ministero della salute che la giurisprudenza di legittimità ha ricostruito rispetto alla funzione di controllo e vigilanza affermando che  n tema di patologie conseguenti ad infezioni con i virus HBV, HIV e HCV, contratti a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, il Ministero della salute è responsabile per i danni, provocati dall'omesso comportamento attivo di vigilanza e controllo in ordine alla effettiva attuazione da parte delle strutture sanitarie addette al servizio, di quanto ad esse prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante sangue infetto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, accertato il comportamento omissivo con riferimento a trasfusioni eseguite nel 1992, aveva affermato la responsabilità del Ministero per i danni provocati dal contagio dell'epatite B). Cass. VI- III, n. 11360/2018.

In questi termini la responsabilità della P.A. si radicherebbe nel mancato esercizio di «attività di controllo e di vigilanza in ordine alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati» anche in relazione ad eventi infettivi precedenti alla scoperta ufficiale del virus scatenante la lesione epatica – nel caso specifico epatite di tipo B — considerata l'unicità della lesione infettiva.

Questo passaggio rimonta all'insegnamento di Cass. S.U., n. 576/2008 secondo il quale non sussistono tre eventi lesivi originati da tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un evento lesivo unico corrispondente alla lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), con un unico nesso causale originato dalla trasfusione con sangue infetto da cui discende il contagio infettivo che ha prodotto la lesione dell'integrità fisica.

Nondimeno, la stessa decisione esclude che il profilo aquiliano qui prospettato sia riconducibile al parametro di cui all'art. 2050 c.c. pur presente nella somministrazione di sangue, quale pratica in sé pericolosa, ma non esclude i compiti di controllo del Ministero preposto attraverso una condotta in sé non pericolosa, con la conseguenza che tale condotta va valutata alla luce dell'art. 2043 c.c. e non in quella di cui all'art. 2050 c.c.

La responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus Hbv, Hiv e Hcv contratte da soggetti emotrasfusi o da assunzione di prodotti emoderivati è da inquadrare, innanzitutto, nella categoria del danno aquiliano secondo una continuità giurisprudenziale alla quale la S.C. è rimasta fedele (Cass. S.U. n. 576/2008 Cass. III, n. 11609/2005; Cass. VI, n. 4873/2017; Cass. VI n. 4996/2017). Secondo il giudice di legittimità la natura aquiliana della responsabilità del Ministero della Sanità (ora della Salute) ove acclarata impone tale approccio ricostruttivo dell’eziogenesi della malattia derivante dalla pratica trasfusionale.

Infatti, la valutazione del titolo di responsabilità va effettuata alla luce dei compiti istituzionali di controllo della pratica sanitaria di emotrasfusione e di distribuzione e commercializzazione di sangue ed emoderivati. Tale responsabilità, invero, nei vari arresti giurisprudenziale è stata ricostruita come omessa vigilanza in virtù di un complesso normativo che rimonta agli anni sessanta del secolo scorso. In proposito, la più recente giurisprudenza di legittimità esclude che il profilo aquiliano sia comunque riconducibile al parametro di cui all'art. 2050 c.c.

Infatti, secondo la S.C., pur essendo indubbio il connotato della pericolosità insito nella pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati, essa non si traduce nella pericolosità anche della correlata attività di controllo e di vigilanza cui è tenuto il Ministero della salute.

Ne consegue che la responsabilità di quest'ultimo per i danni conseguenti ad infezione da Hiv e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per omessa vigilanza da parte dell'Amministrazione sulla sostanza ematica e sugli emoderivati, è inquadrabile nella responsabilità aquiliana generale..

Acclarata la responsabilità extracontrattuale del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus Hbv, Hiv e Hcv contratte da soggetti emotrasfusi non sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione, con la conseguenza che considerando la condotta causativa del danno sotto il profilo extracontrattuale ex art. 2043 c.c., la prescrizione opererà ai sensi dell'art. 2947, comma 1, c.c. (cfr., ex multis, Cass. S.U., n. 581/2008; Cass. S.U., n.576/2008; Cass. III, n. 28464/2013). In proposito anche la giurisprudenza di merito ha precisato che in relazione a fattispecie del tutto analoghe, non sono ipotizzabili i reati di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime, per cui non è possibile beneficiare di un termine di prescrizione più lungo,   (cfr. Trib. Firenze II, 23 novembre 2016 nella violazione della clausola generale di cui all'art. 2043 c.c. e non in quella di cui all'art. 2050 c.c.

Per converso, secondo Cass., III, n. 29492/2019, va escluso il risarcimento - in aggiunta al danno biologico precedentemente accertato e liquidato - del pregiudizio derivante dal peggioramento delle condizioni di salute e, poi, dal decesso di un soggetto affetto da virus HCV contratto a seguito di emotrasfusione, trattandosi di avveramento di un prevedibile rischio di aggravamento della patologia epatica originaria.

 In sostanza , in caso di esito infausto derivante da un'invalidità espressa nei gradi percentuali dei "barèmes" l'aggravamento delle condizioni del danneggiato costituisce la realizzazione  del rischio, già considerato nella scala dei gradi di invalidità, a meno che al tempo dell'accertamento il successivo evento dannoso, ancorché riconducibile all'originaria lesione, fosse sconosciuto alla scienza medica e, quindi, non considerato dai "barèmes".

Si configura, invece, una responsabilità contrattuale imputabile anche alla struttura sanitaria laddove il medico che, in mancanza di una situazione di reale emergenza e senza informare adeguatamente il paziente del rischio obiettivo che tale pratica terapeutica presentava, abbia eseguito una trasfusione di sangue a causa della quale il paziente abbia contratto un'infezione e pertanto laddove sia stata praticata ad un neonato un’emotrasfusione determinate il contagio di epatite C, è corretta la decisione del giudice di merito che aveva desunto la prova che i genitori, se informati, avrebbero negato il consenso alla terapia, state la mancata dimostrazione della necessità della trasfusione) Cass. III, n. 1567/2019.

Non spetta, peraltro, al primario di chirurgia od al chirurgo operatore il controllo diretto sul sangue, la corretta tenuta dei registri o la verifica della preventiva sottoposizione a tutti i test sierologici richiesti dalla legge delle sacche di sangue trasfuse, poiché si tratta di accertamenti di competenza del centro trasfusionale, che trasmette al reparto richiedente le dette sacche regolarmente etichettate. In particolare, solo il responsabile dell'acquisizione del sangue - il primario di ematologia, che dirige il citato centro trasfusionale - può rispondere della non completa compilazione della scheda di ciascuna sacca, della mancata esecuzione, da parte di tale centro, dei controlli di legge o dell'omessa annotazione sulle sacche in esame delle indicazioni imposte dalla normativa. Cass. III, n. 25764 /2019.

In una fattispecie particolare di rifiuto della pratica trasfusionale (vedasi  Cass. III, n. 515/2020)  In tema di liquidazione del danno alla persona, è irrilevante il rifiuto del danneggiato di sottoporsi ad una emotrasfusione al fine di diminuire l'entità di tale danno, atteso che non sussiste alcun obbligo a suo carico di accettare questo trattamento medico, non essendo il suo rifiuto inquadrabile nell'ipotesi del concorso colposo del creditore previsto dall'art. 1227 c.c.(Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto applicabile l'art. 1227 c.c. ad una vittima di sinistro stradale cagionato dalla colpevole condotta di un terzo, solo perché si era messa alla guida con la consapevolezza di non voler essere sottoposta, per scelta religiosa, ad emostrasfusioni).

In particolare la Corte ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva accolto parzialmente il gravame riconoscendo rilevanza concausale rispetto al sinistro ( da attribuire in via esclusiva alla condotta di guida dell’investitore) a detto rifiuto aveva comunque ritenuto che le possibilità di sopravvivenza del paziente, ove fosse stato sottoposto alla trasfusione di sangue, fossero tra il 50 ed il 65%, così erroneamente applicando i principi della causalità, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., e l'art. 1227 c.c..  

Il rapporto causale tra omissione e lesione

Il tema cruciale della domanda risarcitoria dei danni patiti in conseguenza delle trasfusioni di sangue, chiarito che tali omissioni — non sussistendo eventi autonomi e diversi ma solo manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo, sicché anche prima dell'anno 1978, in cui il virus dell'epatite B fu definitivamente identificato in sede scientifica, con conseguente scoperta dei mezzi di prevenibilità delle relative infezioni — espongono la Pubblica Amministrazione sanitaria convenuta a responsabilità rispetto alla diffusione di virus diversi e solo successivamente conosciuti nella loro caratterizzazione molecolare, poiché il rischio della loro contrazione avrebbe potuto essere, quantomeno, ridotto).

A breve distanza di tempo da Cass. S.U. n. 576/2008 il S.C con S.U. n. 581 /2008 avevano risolto la seguente questione di massima relativa al nesso causale rispetto alla condotta omissiva su cui si radica la responsabilità del Ministero della Salute per danni «da sangue infetto rispetto al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungo latenti.

Come già evidenziato, a proposito della questione del dies a quo ai fini della prescrizione, la citata sentenza ribadisce che esso rileva non dalla comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all'art. 4 della legge n. 210 del 1992, ma dalla proposizione della relativa domanda amministrativa svalorizzando la decisione delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui alla l. n. 210 del 1992, art. 4.

La scelta di questa limitazione temporale rispetto all'exordium praescriptionis nella domanda giudiziale tende ad evitare che esso decorra in un momento successivo alla proposizione della domanda d'indennizzo, ossia allorché il soggetto si sia già attivato per essere ristorato della lesione all'integrità fisica attraverso la domanda amministrativa, pur dando atto la sentenza citata che si tratta di due titoli diversi tra loro, ancorché legittimamente coesistenti, ma comunque legati a due diversi presupposti connessi allo stesso evento lesivo: ossia pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso l'uno, pura e semplice diminuzione irreversibile dell'integrità fisica l'altro, da ristorare nella misura prevista dalla legge.

Laddove il giudizio di accertamento del diritto all’indennizzo si concluda con una declaratoria di cessazione della materia del contendere a seguito dell’accoglimento del ricorso esperito in via amministrativa contro il diniego d’indennizzo tale statuizione riveste forza di giudicato nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della Salute, Cass. III, n. 24523/2018.

Per quanto riguarda il diverso momento temporale dell'exordium praescritionis il giudice di legittimità ha escluso l'esistenza di un overruling (Cass. VI, n. 18217/2014) considerato che fissare la decorrenza del termine prescrizionale al più tardi alla domanda d'indennizzo involge una norma di dritto sostanziale cui si lega un termine quinquennale ragionevole di tutela dei diritti del danneggiato.

In particolare, sul rapporto causale tra condotta della P.A. e danno conseguente al contagio le S.U. con la decisione Cass. S.U. n. 581/2008 affermanoche in base al complesso normativo che chiama il Ministero della Salute alla vigilanza e al controllo sul sangue infetto, oltre che di programmazione e coordinamento in materia di salute umana, vi è senz'altro il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio «che è antico quanto la necessità della trasfusione».

Ne deriva che la malattia diviene conseguenza dell'infezione così affermandosi la responsabilità del Ministero – da ricercarsi sul piano giuridico- secondo il principio della causalità efficiente, ossia sul «più probabile che non», con la conseguenza che, in difetto di fattori alternativi, da valutarsi ex ante con giudizio «contro fattuale» e sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili in quel momento (e che il Giudice del merito deve accertare), ove l'omissione di cautele doverose non praticate da parte della P.A. in punto di distribuzione di sangue umano per uso terapeutico, abbia determinato l'infezione post trasfusionale.

È ovvio che la questione temporale circoscrive temporalmente la responsabilità del Ministero, sia dal punto di vista causale che di elemento psicologico.

Considerato, pertanto, che nel processo di concatenazione causale solo le conseguenze «che appaiono sufficientemente prevedibili» saranno determinanti ne deriva che la collocazione nel tempo della conoscenza del virus appare irrinunciabile per valutare se e quando l'omissione dei comportamenti che, se attuati avrebbero impedito l'evento, siano stati determinanti rispetto al pregiudizio.

Il punto sull'efficienza causale del pregiudizio potrà utilizzare il criterio del giudizio controfattuale e dell'evidenza. Indispensabile poi valutare l'elemento soggettivo il quale va considerato in rapporto alle conoscenze scientifiche sulla eziopatogenesi del virus rispetto al contagio. Ne consegue che la condotta di vigilanza che si assume mancata potrebbe in rapporto alle evidenze scientifiche e prognostiche rivelarsi non dovuta.

Il Giudice di legittimità nella storica decisione n. 581-2008, indagando questi ultimi aspetti in rapporto agli antecedenti causali della condotta, ha evidenziato che le infezioni ricollegabili ai tre virus Hiv, Hbv e Hcv non vanno collegate rispetto alla malattia come tre serie causali avulse dalla malattia ed indipendenti tra loro in quanto esse vanno collegate ad un unico evento lesivo, ossia la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), con la conseguenza che l'evento pregiudizievole si presenta- una volta accertato- come unico: trasfusione con sangue infetto — contagio infettivo — lesione dell'integrità. Ne deriva secondo Cass. S.U. cit. che già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B, che costituisce, peraltro, circostanza di fatto riservata all'accertamento del giudice del merito, può configurarsi la responsabilità del Ministero anche per le epatopatie ricollegabili agli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma infezioni rapportabili allo stesso vulnus causato all'integrità fisica dovuto al sangue infetto, che avrebbe dovuto essere controllato per legge dal Ministero della salute.

I successivi arresti giurisprudenziali

Sulla scia di questa decisione è rimasto confermato quell'orientamento (Cass. III, n. 17685/2011 la P A. dovrebbe rispondere del danno alla salute per avere omesso i controlli dovuti atti a prevenire il contagio da sangue infetto anche rispetto al contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo. Sussiste pertanto la responsabilità del Ministero della salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all'apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti, rispettivamente, agli anni 1978, 1985, 1988), atteso che già dalla fine degli anni '60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all'anno 1958, l'obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi (Cass. III, n. 1566/2019).

Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero rispetto agli obblighi di plasmaferesi anche rispetto al contagio degli altri due virus,. In sostanza, i dovere del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula, un dovere specifico di attenzione diligente e di controllo della sicurezza del sangue e degli emoderivati che deve prevenire il pericolo di contagio.

D'altra parte nel giudizio promosso dal danneggiato contro il Ministero della salute, l'accertamento della riconducibilità del contagio ad una emotrasfusione, compiuto dalla Commissione di cui all'art. 4 della l. n. 210 del 1992, che accerti  l'indennizzo ai sensi di detta legge, non è suscettibile di nuova valutazione  sotto il profilo causale rispetto al contagio alla trasfusione o alle trasfusioni individuate come causative di esso, senza ulteriori accertamenti o prove, considerato che essendo la Commissione organo dello Stato, l'accertamento è da ritenere imputabile allo stesso Ministero, Cass. III, n. 15734/2018.

I limiti temporali della condotta richiedibile e le evidenze scientifiche

Tale impostazione ha dato vita ad ulteriori arresti di segno contrario.

Invero, non sono mancate decisioni difformi rispetto all'imputazione ex 2043 c.c. del contagio da Hcv ante 1978 (dati Oms) sul rilievo secondo il quale la responsabilità per contagio da virus dell'epatite C non può essere ipotizzata per fatti anteriori al momento in cui venne identificato il virus dell'epatite B (momento che si è ritenuto di poter individuare, come detto, nell'anno 1978 al fine di farne conseguire una presunzione di responsabilità a carico del Ministero (vedi Cass. III n. 5954/2014).

Di diverso avviso altra parte della giurisprudenza di legittimità (Cass. VI, n. 2232/2016) la quale, ha affermato che non solo l'evento infettivo è unico, ma per le azioni patogene anteriori al 1978, già esistevano strumenti idonei alla prevedibilità delle relative infezioni, con conseguente responsabilità del Ministero della salute per l'omissione di controlli sul sangue ed emoderivati Cass. III, n. 8495/2020.

Ne deriva che in caso di contagio da virus HBV, HIV e HCV prima dell'anno 1978 è configurabile la responsabilità del Ministero della salute per l'omissione dei controlli in materia di raccolta e distribuzione del sangue per uso terapeutico e sull'idoneità dello stesso ad essere oggetto di trasfusione, già consentiti dalle conoscenze mediche e dai dati scientifici Cass. III, n. 18520/2018.

Logica conseguenza delle scelte motivazionali è che il giudice del merito, nell'accertamento degli antecedenti causali, dovrà collocare temporalmente le evidenze scientifiche disponibili al momento dell'ipotizzato contagio in rapporto alla prevedibilità dell'evento lesivo da parte della P.A. (così Cass. III, n. 282/2015; Cass. III, n. 823/2015), per la giurisprudenza di merito cfr. App. Torino IV, 786/2016).

Come sopra evidenziato, in accordo con Cass.S.U. n. 581/2008 circa l'individuazione della data di conoscenza dell'epatite B (inteso come evento unitario lesivo) come elemento fondante della responsabilità della P.A. nel contagio da trasfusioni può affermarsi che il dato temporale, costituendo un accertamento fattuale, rientri nell'esclusiva competenza del giudice di merito.

In questo senso (Cass. III, n. 5954/2014) il giudice di legittimità precisa che — trattandosi di un accertamento di fatto — è rimessa al giudice di merito la concreta individuazione della data di conoscenza del virus dell'epatite B (così anche Cass. III, n. 26916/2014).

A conferma di questa impostazione la giurisprudenza di merito ha affermato che la colpa ascrivibile al Ministero della salute non andasse ravvisata nel non aver previsto quanto non era ancora prevedibile, perché non ancora conosciuto dalla scienza medica, ma nell'aver omesso di fare tutto ciò che, secondo la letteratura medica dell'epoca, era ben possibile e, anzi, doveroso, considerata l'epoca di somministrazione dell'emotrasfusione nella quale erano già disponibili idonei strumenti diagnostici e di prevenzione in grado di impedire, o di ridurre drasticamente, l'evento della trasmissione attraverso emotrasfusione di malattie virali, incluse l'epatite «non A» e «non B». (Cass. III, n. 1131/2015).

Per la giurisprudenza di merito( cfr Trib. Napoli VIII, 26 gennaio 2017, n. 1088 e parte di quella di legittimità (cfr Cass. VI, n. 2232/2016). è possibile affermare che già anteriormente al 1987, il Ministero della Sanità aveva emanato due circolari (la n. 75 del 1970 e la n. 103 del 1974) sulla profilassi dell'epatite e sulla ricerca dell'Antigene Australia, che si aggiungevano alla Circolare del 28 marzo 1966, diretta ai medici provinciali, con la quale la stessa Pubblica l'Amministrazione Statale imponeva l'obbligo della determinazione sistemica periodica delle transaminasi nei donatori di sangue in quanto l'alterazione dei valori delle stesse era indice di probabili infezioni. Altre fonti di formazione secondaria provvedevano ai controllo preventivi quali il d.m. del 18 giugno 1971, per la selezione del donatore, ed il d.m. del 15 settembre 1971, con stringenti controlli sull'importazione ed esportazione del sangue umano e dei suoi derivati. Se ne fa derivare la conseguenza che ai primi anni '70, il sangue doveva provenire da donatore controllato non solo sulla base di una anamnesi approfondita in relazione ai fattori di rischio, ma anche sulla base di analisi volte alla ricerca di «spie» di un possibile danno epatico, quali, ad esempio, alterati valori delle transaminasi, demandabili a semplici indagini di routine. Vi era, quindi, all'epoca dei fatti, la necessità per coloro che si occupavano professionalmente di emotrasfusioni di provvedere ad una anamnesi accurata dei donatori e di escludere dalla donazione i soggetti con transaminasi alterate (cfr. App. Milano II, n. 2229/2012).

Ancor più recentemente i compiti di prevenzione e controllo demandati al ministero della Salute sulla trasfusione del sangue e sull'uso degli emoderivati risultano confermati dalle giurisprudenza di merito (App. Roma, n. 2270 del 2017)che ha ritenuto responsabile lo Stato (e non le Regioni) dei danni conseguenti a epatite e da infezione da Hiv, contratte da soggetti emotrasfusi, per omessa vigilanza sulla sostanza ematica e sugli emoderivati.

I riferiti arresti giurisprudenziali hanno inciso, ovviamente sul decorso della prescrizione e con collegamento al dato diagnostico iniziale della patologia, attraverso la consapevolezza dell'ingiustizia della lesione quale risultato dell'omissione di una condotta improntata ad una negligenza, ipotizzabile solo se parametrata alle conoscenze scientifiche del momento.

Sul punto il giudice di legittimità (Cass. III n. 20999/2012), in continuità con le sezioni Unite del 2008, afferma che il contagiato possa avere sufficiente contezza sia della natura della patologia sia delle possibili conseguenze dannose già al momento della proposizione della domanda amministrativa d'indennizzo; percezione, la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche.

In questo caso l'esistenza della percezione consapevole della detta riconducibilità va a coincidere con la richiesta di indennizzo exl. n. 210 del 1992 (sul punto specifico della prescrizione vedi infra), né in tal caso vi sarebbe un'ipotesi di overruling oppure una lesione dei diritti fondamentali alla luce della giurisprudenza sovranazionale (Cass. VI, n. 18217/2014; cfr. Cass. III, n. 823/ 2015; Cass. III, n. 822/2015; Cass. VI, n. 25965/2014; Cass. III, n. 26916/2014; Cass. VI, n. 25967/2014; Cass. III n. 26918/2014; Cass. III n. 26917/2014; Cass. VI, n. 25964/2014).

Poiché tuttavia il termine prescrizionale riposa su di un canone di plausibilità della conoscenza «diligente» e «scientificamente attendibile» l'exordium praescriptionis potrebbe non coincidere con la data di presentazione dell'indennizzo ed anzi, emergere in un momento anteriore a quello normalmente ritenuto idoneo a fondare la consapevolezza della malattia ed i suoi ascendenti scientifico-causali sempre che non esistano precedenti accertamenti che facciano emergere in un momento anteriore un apprezzabile grado di consapevolezza rispetto all'origine causale dell'evento lesivo, ossia della malattia, come conseguenza dell'omissione di cautele doverose attuabili da parte del terzo cui la lesione va riferita con motivazione convincente demandata al giudice di merito.

Ne esce, comunque, confermata l'originaria impostazione delle SS.UU. n. 581/2008, che, nel caso di danno alla salute non riconducibile univocamente ad una condotta colposa o dolosa del terzo rileva, ai fini della prescrizione, l'esteriorizzazione del danno come oggettivamente percepibile e riconoscibile sia come lesione dell'integrità psico fisica, sia come imputazione del danno alla condotta del terzo dolosa o colposa nei termini della causalità efficiente cui riferire la decorrenza della prescrizione exartt. 2935 e 2947 c.c. dalla domanda d'indennizzo non ha valenza generale ossia essa è destinata a venire meno solo in caso di conoscenza della «rapportabilità causale» in altro momento, secondo la valutazione del giudice di merito.

Nel caso scrutinato detto momento- secondo quanto affermato dal giudice del merito ai fini della decorrenza del dies a quo — la consapevolezza richiesta ai fini della prescrizione rimonterebbe al ricovero del contagiato con diagnosi di epatite cronica da virus Hcv.

Consapevolezza dell'infezione

Come detto è alla sentenza n. 581/08 delle S.U. che occorre risalire per fissare temporalmente la consapevolezza dell'avvenuta infezione che, come noto decorre non dall'antecedente causale puro che ha generato l'infezione ma dal momento della percezione diligente che la malattia è derivata dalla condotta illecita del terzo, in rapporto alle conoscenze scientifiche del tempo (così anche Cass. VI, n. 4996/2017).

Ove però il decorso della malattia sia occulto, ai fini della determinazione della decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento è irrilevante l'accertamento del momento in cui il paziente ha conseguito la semplice conoscenza della malattia, in mancanza di ulteriori elementi da cui desumere che a partire da quel momento il paziente medesimo abbia avuto anche la consapevolezza della causa della malattia, Cass. VI- III, n. 14480/2020.

Ora si tratta di vedere se il concetto così espresso possa essere ricollegato a quello diagnostico iniziale della patologia – precisato che esso potrebbe allora inserirsi temporalmente con il test che individua la malattia stessa- ma sempre che- questo il ragionamento della S.C. — sorga in capo al danneggiato la consapevolezza dell'ingiustizia della lesione quale risultato dell'omissione di una condotta improntata a negligenza, ma parametrata alle conoscenze scientifiche del momento, nei imiti della prescrizione.

Secondo Cass. n. 20999/2012, in accordo con le sezioni Unite rileva il momento della consapevolezza nei termini di cui sopra e considerato che il detto l'indennizzo è dovuto solo in caso di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, si può ragionevolmente pensare che il contagiato abbia avuto sufficiente contezza sia della natura della patologia che delle possibili conseguenze dannose già al momento della proposizione della domanda amministrativa d'indennizzo; percezione, la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche».

In tal caso l'esistenza della percezione consapevole della detta riconducibilità va a coincidere con la richiesta di indennizzo ex l. n. 210 del 1992.

Questo orientamento risulta confermato dalla giurisprudenza successiva, infatti secondo Cass. V. n. 27565/2019 In tema di indennizzo del danno da emotrasfusioni, ai fini della decorrenza del termine decadenziale di cui all'art. 3, comma 1, della l. n. 210 del 1992, non è sufficiente la conoscenza o la ragionevole conoscibilità della malattia in sé o della sua cronicizzazione, ma occorre quella dell'evento indennizzato completo del nesso causale e quindi della correlazione tra la patologia e l'intervento terapeutico praticato, della natura irreversibile del danno nonché della sua ascrivibilità, per equivalente e non in via strettamente tabellare, ad una delle infermità classificate nelle categorie previste dalla tabella B, annessa al T.U. approvato con d.P.R. n. 915 del 1978, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. n. 834 del 1981.

Rapporti con indennizzo l. n. 210/1992

Secondo la S.C. il risarcimento per infezione da emoderivati va tenuto distinto dalla prestazione indennitaria trattandosi di titoli diversi che possono compensarsi secondo il principio della compensatio lucri cum damno, quale limite legale rispetto alla locupletazione di una duplice voce di ristoro per effetto dello stesso evento lesivo. Infatti, secondo Cass. III, n. 6573/2013 il risarcimento da contagio da virus Hbv, Hiv o Hcv per effetto di emotrasfusioni con sangue infetto ha natura diversa rispetto all'indennità regolata dalla l. n. 210 del 1992 ancorché, nella causa di risarcimento ex art. 2043 cc l'indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere dedotto dal quantum liquidabile a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno), perché diversamente la vittima verrebbe a locupletare di un ingiustificato arricchimento ponendo a carico della P.A.) due diverse prestazioni patrimoniali inconseguenza dello fatto pregiudizievole. Per tale motivo nel giudizio risarcitorio promosso contro la P.A. sul presupposto della mancata adozione delle cautele doverose connesse al controllo de sangue tale prestazione indennitaria se già corrisposta alla parte contagiata deve essere scomputata dalla liquidazione del danno aquiliano secondo il principio della compensatio lucri cum damno (Cass. VI, n. 7392/2014).

Indennizzo e termine di decadenza

Per quanto riguarda, invece, il profilo indennitario conseguente all'infezione e posto a carico dello Stato come prestazione assistenziale, va evidenziato che con la l. 25 febbraio 1992, n. 210 è stato riconosciuto l'indennizzo a favore di coloro che lamentavano conseguenze con esiti morbosi irreversibili a causa di vaccinazioni obbligatorie e trasfusioni con infezione Hiv.

L'art. 1 comma 2 della citata legge così disponeva: «L'indennizzo di cui al comma 1 spetta anche ai soggetti che risultino contagiati da infezioni da Hiv a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, nonché agli operatori sanitari che, in occasione e durante il servizio, abbiano riportato danni permanenti alla integrità psico-fisica conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da Hiv»; ed, inoltre, al comma 3 dello stesso articolo il beneficio risulta esteso anche a « coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali ».

L'art. 3, comma 1 della citata legge prevedeva, inoltre che: «I soggetti interessati ad ottenere l'indennizzo di cui all'art. 1, comma 1, presentano domanda al Ministro della sanità entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di dieci anni nei casi di infezioni da Hiv».

Al comma 2 stesso articolo si prevedeva inoltre: «I termini decorrono dal momento in cui, sulla base della documentazione di cui ai commi 2 e 3, l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno».

In sostanza, la legge citata prevedeva un termine decadenziale rispetto alla domanda d'indennizzo di tre anni nel caso di vaccinazioni, ovvero di dieci nel caso di infezioni da Hiv, nulla disponendo quanto al termine di decadenza per le ipotesi di epatiti post-trasfusionali.

Il termine a quo, dunque, veniva fatto coincidere dalla l. n. 210 del 1992, cit. con la conoscenza, desumibile sulla base della documentazione medica di cui ai commi 2 e 3 dello stesso art. 3, ed inoltre, si riteneva applicabile il termine di prescrizione decennale anche per quei casi di danno epatico verificatisi ante 1992, con estensione analogica interpretativa.

Ne conseguiva che alcun termine di decadenza fosse previsto per il caso di epatiti post-trasfusionali dalla legge appena citata.

Cass. VI, n. 27874 /2019   afferma che ai fini del decorso del termine di decadenza di cui all'art. 3 della l. n. 210 del 1992, è necessario che la conoscenza della sussistenza di un danno irreversibile, inquadrabile per equivalente e non in via strettamente tabellare, ad una delle infermità classificate nelle categorie previste dalla tabella B, annessa al T.U. approvato con d.P.R. n. 915 del 1978, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. n. 834 del 1981, tragga la propria fonte da una documentazione clinica comprovante la data della trasfusione, le manifestazioni cliniche e l'entità delle lesioni o dell'infermità da cui è derivata la menomazione permanente del soggetto.

La novella di cui alla l. n. 238/1997

Le modifiche di cui alla l. n. 238 del 1997. Sul punto è indispensabile dare preventivamente conto dell'evoluzione normativa in punto di danno da emotrasfusioni e della evoluzione giurisprudenziali.

Il legislatore, infatti, interveniva ancora sulla materia con la legge 25 luglio 1997, n. 238 — introducendo anche per le epatiti post trasfusionali — il termine decadenziale di tre anni per effetto della modifica del comma 1 dell'articolo 3 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, nei seguenti termini: «1. I soggetti interessati ad ottenere l'indennizzo di cui all'articolo 1, comma 1, presentano alla Usl competente le relative domande, indirizzate al Ministro della sanità, entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post —trasfusionali o di dieci anni nei casi di infezioni da Hiv. I termini decorrono dal momento in cui, sulla base delle documentazioni di cui ai commi 2 e 3, l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno».

In sostanza, veniva previsto un termine anche per le infezioni epatiche post-trasfusionali introducendo una modifica normativa consistente in un termine di decadenza prima non previsto, lasciando aperto il problema dell'applicabilità della nuova disciplina rispetto a situazioni soggettive già in essere.

Le infezioni ante l. n. 238/1997 e la sorte del termine decadenziale per patologie non espressamente soggette ad esso

Quid iuris, allora, ove la malattia fosse stata accertata ante 28 luglio 1997 — data di entrata in vigore della legge 25 luglio 1997, n. 238 —, ossia, come si concilia detto nuovo termine nel caso di epatiti post-trasfusionali riconosciute ante 1997, riguardo alle quali, come detto prima, nulla disponeva la normativa del 1992, quanto al termine di decadenza e che, pertanto, potevano ragionevolmente considerarsi prescrivibili nell'ordinario termine decennale, con decorrenza dalla conoscenza dell'esito patologico della pratica trasfusionale?

Invero, va dato conto che sul punto si era formata una giurisprudenza di legittimità orientata a ritenere che la normativa del 1997 trovasse applicazione solo nel caso in cui la conoscenza dell'avvenuta infezione fosse successiva all'entrata in vigore della legge 25 luglio 1997, n. 238, con la conseguenza che, nel caso in cui essa fosse anteriore all'anno 1997, trovasse, invece, applicazione l'ordinario termine di prescrizione decennale, Cass. III., n. 10215/2014, argomentando dal disposto dell'art. 11 preleggi e della irretroattività del nuovo termine di decadenza allorché conoscenza del danno e della sua genesi eziologica non fossero tali da consentire la decorrenza dell'esercizio del diritto nell'arco temporale di operatività della legge n. 238 del 1997 (Cass., n. 19811/2013).

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità aveva pure escluso, stante il carattere eccezionale delle norme sulla decadenza e del conseguente divieto di analogia ex art. 14 preleggi, che potesse applicarsi il termine stabilito per fattispecie di danno (epatite post-trasfusionale) diverse da quelle espressamente previste dall'art. 3, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210.

Per le situazioni morbose già in essere il termine triennale di decadenza per il conseguimento dell'indennizzo in favore di soggetti danneggiati da emotrasfusioni, introdotto dalla l. n. 238 del 1997, si applica anche in caso di epatite postrasfusionale contratta prima del 28 luglio 1997, data di entrata in vigore della detta legge, con decorrenza, però, da questa stessa data (Cass. sez lav. n. 28984/2017).

Come noto, il principio d'irretroattività della legge stabilito dall'art. 11 preleggi, risulta privo di copertura costituzionale e, pertanto, appare derogabile dalla discrezionalità del legislatore ordinario il quale può retroattivamente estendere l'efficacia di una legge anche al periodo antecedente alla sua vigenza.

Ne è prova la retrodatazione degli effetti della legge penale più favorevole al reo (art. 2 c.p.), come pure le leggi d'interpretazione autentica.

Per quanto riguarda i superstiti secondo Cass. sez. lav.  n. 11407/2018 il riconoscimento dell'assegno "una tantum" deve fare riferimento alla "vivenza a carico" della vittima, secondo un principio solidaristico, più che successorio, trattandosi di misura assistenziale.

Consapevolezza del contagio

La conoscenza dell'evento dannoso involge un interrogativo circa il momento in cui il diritto all'indennità può ritenersi sorto, ossia occorre che il soggetto interessato conosca l'esito morboso e la sua eziologia onde esercitare il diritto ad ottenere l'indennità prevista in caso di contagio.

Infatti, il termine triennale non può decorrere che dal momento in cui il soggetto risulti avere avuto contezza del contagio e della sua riconducibilità alla trasfusione.

Ne deriva che la novella di cui all'art. 1, commi 1, 2 e 5 della legge 25 luglio 1997, n. 238 dovrebbe estendersi anche agli eventi dannosi verificatisi prima della sua entrata in vigore, ma sempre che vi sia conoscenza dell'esito pregiudizievole della pratica sanitaria.

In tal caso il termine utile triennale per conseguire l'indennizzo in caso di infezione epatopatica post-trasfusionale, ove il contagio sia avvenuto in epoca antecedente all'entrata in vigore della nuova disciplina, coincide con il momento d'effettiva conoscenza dell'avvenuto contagio.

È bene evidenziare, a questo punto, che, come rilevato dalla dottrina (Rubino, 2008, 62) la problematica della conoscenza del fatto è assolutamente contigua a quella del termine prescrizionale che attinge l'esercizio dell'azione aquiliana, sia sotto il profilo della disponibilità degli elementi diagnostici indicativi della menomazione irreversibile dello stato di salute, sia sotto quello della disponibilità di tutta la documentazione utile circa la vaccinazione e la somministrazione degli emoderivati (Dragone, 2007, 338) oltre che di quelli diagnostici che consentano l'attendibile riconducibilità dell'evento lesivo alla pratica sanitaria dispensata, ossia l'evento dannoso deve manifestarsi nelle sue componenti essenziali ed irreversibili e nella sua riconducibilità obiettiva alla pratica trasfusionale.

Secondo  Cass. III ,n. 15734 /2018  In tema di danni da emotrasfusioni, nel giudizio promosso dal danneggiato contro il Ministero della salute, l'accertamento della riconducibilità del contagio ad una emotrasfusione, compiuto dalla Commissione di cui all'art. 4 della l. n. 210 del 1992, in base al quale è stato riconosciuto l'indennizzo ai sensi di detta legge, non può essere messo in discussione dal Ministero, quanto alla riconducibilità del contagio alla trasfusione o alle trasfusioni individuate come causative di esso, ed il giudice deve ritenere detto fatto indiscutibile e non bisognoso di prova, in quanto, essendo la Commissione organo dello Stato, l'accertamento è da ritenere imputabile allo stesso Ministero.

Il contrasto di giurisprudenza

Tale lo stato dei principali arresti giurisprudenziali, fino all'intervento di Cass. S.U., n. 15352/2015.

Invero, nei procedimenti relativi al riconoscimento dell'indennizzo per patologie derivanti da trasfusioni di sangue, la Sez. VI, con due distinte ordinanze gemelle – rispettivamente n. 20519/2014 e n. 20520/2014 — aveva disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente, al fine di valutare l'intervento delle Sezioni Unite sulla questione relative all'applicabilità alle epatiti postrasfusionali del termine triennale per la domanda amministrativa di indennizzo, stante il contrasto tra Cass. sez. lav., n. 10215/2014, che riteneva che se la conoscenza del danno fosse sorta successivamente al 28 luglio 1997 si dovesse applicare il termine triennale, mentre, ove la conoscenza fosse stata anteriore dovesse trovare applicazione il termine decennale di prescrizione, nonché Cass. sez. lav., n. 13355/2014, che espressamente prende le distanze da Cass. sez. lav., n. 10215/2014, che afferma, a sua volta che il legislatore nell'introdurre con la l. n. 238 del 1997 la nuova decadenza triennale anche per le infezioni epatiche post-trasfusionali antecedenti ha inteso attrarre nell'orbita del termine perentorio anche i diritti sorti ed esercitabili prima della legge, ma con decorrenza dall'entrata in vigore di essa, così realizzando un obiettivo accelleratorio rispetto al più lungo termine di prescrizione decennale, peraltro soggetto a sospensione ed interruzione, secondo i principi generali.

La composizione del contrasto da parte delle sezioni unite

Le Sezioni Unite con la decisione n. 15352/2015, fanno così propri quegli arresti di giurisprudenza circa la decorrenza del termine di decadenza rispetto all'entrata in vigore della l. n. 238 del 1997 anche per il caso delle epatiti post-trasfusionali verificatesi prima della novella del 1997.

La S.C. è, infatti, intervenuta su di un caso di epatopatia esitata da infezione contratta ante 1997 a seguito di una trasfusione. Il danneggiato aveva rivolto una richiesta d'indennizzo nell'anno 2002 al Ministero della Salute, ai sensi della l. n. 210 del 1992. In primo grado la domanda era stata respinta per essersi maturata decadenza rispetto al termine triennale decorrente dalla scoperta della patologia, secondo la modifica legislativa di cui sopra.

La decisione era stata confermata in grado d'appello e, pertanto, il danneggiato proponeva ricorso per Cassazione sostenendo che la nuova disciplina sulla decadenza triennale era stata introdotta solo nel 1997 laddove, nel caso concreto, l'infezione era stata contratta in un periodo precedente, di qui il contrasto giurisprudenziale sul punto rimesso alle Sezioni Unite della S.C.

Si trattava, perciò, di affermare il principio riguardante l'applicabilità della nuova disciplina sulla decadenza ai fini dell'indennizzo riconosciuto alle vittime di epatiti post-trasfusionali contratte ante legge n. 238/1997 e dirimere il contrasto che, nel frattempo, era insorto nella giurisprudenza di legittimità.

La motivazione del giudice di legittimità parte dall'applicazione dell'art. 252 disp. att. c.c., invocandone la ratio circa l'introduzione di un nuovo termine di decadenza rispetto a quello vigente ante novella in qualche modo prendendo le distanze da quell'orientamento giurisprudenziale contenuto in Cass. sez. lav., n. 10215/2014, per il quale, ai fini dell'esercizio tempestivo della richiesta d'indennizzo, ove la conoscenza del danno irreversibile fosse stata anteriore al 1997 doveva trovare applicazione l'ordinario termine di prescrizione decennale anche se non completamente decorso al luglio 1997, ossia alla data di entrata in vigore della nuova legge.

Secondo il S.C. il nuovo termine di decadenza già previsto dall'art. 3 della l. n. 210 del 1992 non devia rispetto ai principi generali per la proposizione della domanda amministrativa di ristoro dei danni conseguenti alle vaccinazioni, ma non espressamente riferibile anche ai pregiudizi da pratica trasfusionale, escludendo che, rispetto alla portata generale dell'art. 252 disp. att. c.c. sorga il divieto di applicazione in via analogica del termine prima non previsto.

La decisione aderisce, infatti, a quella giurisprudenza che identifica l'art. 252 disp. att. c.c., in una disposizione generale sulla disciplina della successione delle leggi. Ne consegue che la S.C. ha ritenuto che il termine triennale di decadenza si attagli alle infezioni post-trasfusionali, ora previste dalla novella di cui alla legge n. 238 del 1997, anche per le menomazioni contratte prima della entrata in vigore della nuova legge.

Si è così definita una certa disarmonia che poteva impedire il bilanciamento dei contrapposti interessi, secondo un criterio di ragionevolezza e di equità.

Infatti, la fissazione di un termine più breve di decadenza più breve ai fini dell'indennizzo di contagio epatopatico riferibile a pratica trasfusionale può dare maggiore certezza di stabilizzazione dei diritti individuali e, d'altra parte non sembra sorgere, secondo la S.C., quella una eccessivo sacrificio per il danneggiato che potrebbe in caso di decadenza imprevedibile sia imprevedibile rispetto ad una eventuale e non imputabile inerzia dell'interessato il quale ragionevolmente aveva fatto affidamento su di un arco di tempo maggiore per azionare la pretesa indennitaria.

È da credere che l'interpretazione della regola di transizione – non derogata dalla legge n. 238 del 1997 – rispetto all'art. 252 disp. att. c.c., come istituto di portata generale — come già affermato da Corte costituzionale con la sentenza del 3 febbraio 1994, n. 20, contiene un principio di successione delle discipline secondo il quale ove una nuova legge stabilisca per l'esercizio di un diritto un termine più breve di quello fissato dalla legge anteriore, quello nuovo trovi applicazione anche all'esercizio dei diritti sorti anteriormente, nonché alle prescrizioni ed usucapioni in corso, ma il nuovo termine decorre dalla data di entrata in vigore della legge che ne ha disposto l'abbreviazione.

È vero che l'articolo citato rendeva più armonioso il passaggio da una disciplina codicistica ad un'altra nondimeno, è rimasta affermata nella giurisprudenza della S.C. la valenza generale del meccanismo de quo: Cass. S.U., n. 06173/2008; Cass. sez. lav., n. 5811/2010; Cass. I n. 6705/2010; Cass. sez. lav., n. 25746/2009.

Il principio sposato da Cass. S.U., n. 15352/2015, appare, dunque, del tutto congruo all'ipotesi decadenziale come fattispecie generale di subordinazione dell'esercizio di un diritto alla regola del tempo in funzione accelleratoria.

In gioco, per vero, vie era anche un altro valore di pari livello che è quello dell'affidamento legittimo circa il tempo utile a disposizione dl singolo per esercitare il diritto stesso, ossia nella sicurezza dei rapporti giuridici da leggere alla luce dell'art. 3 della Costituzione, ma non in termini categorici, ad avviso della S.C. soprattutto ove si consideri che mentre lo stesso termine triennale era già previsto per gli esiti invalidanti delle vaccinazioni alcuna compressione temporale riguardava l'epatite post-trasfusionale nella normativa del 1992.

Va segnalato, tuttavia, che sul principio di affidamento ad un termine di prescrizione più lungo rispetto a quello introdotto successivamente e più breve la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 69 del 2 aprile 2014 ha affermato che l'efficacia retroattiva della legge, trovi, comunque, un limite nel «principio dell'affidamento dei consociati nella certezza dell'ordinamento giuridico», e pertanto, «il vulnus arrecato al principio dell'affidamento» si risolve in irragionevolezza della nuova disposizione e comporta, di conseguenza, l'illegittimità della norma retroattiva (fattispecie in tema di arretrati di ratei pensionistici). Qui, in effetti, il danneggiato poteva trovarsi di fronte ad nuovo termine decadenziale — introdotto solo nel 1997- rispetto ad un contagio insorto in epoca anteriore.

Secondo Cass. S.U., n. 15352/2015, cit., il punto di equilibrio tra l'affidamento sul termine di prescrizione decennale ed il nuovo termine di decadenza triennale per i contagi contratti anteriormente alla modifica normativa di cui alla l. n. 238 del 1997 ai fini della prestazione indennitaria sta, allora, nella decorrenza alla data del 28 luglio 1997 per la domanda di ristoro dell'infermità esitata dalla trasfusione, ove essa sia sorta anteriormente a detta data, ma con termine di decadenza che decorrerà dall'entrata in vigore della modifica legislativa.

Dunque, una decisione intermedia tra chi riteneva che la novella si applicasse solo se la conoscenza della malattia fosse avvenuta successivamente all'entrata in vigore della l. n. 238 del 1997, rispetto a quella giurisprudenza che affermava, invece, che se la consapevolezza dell'infezione fosse stata antecedente al 1997 il termine applicabile sarebbe stato quello della prescrizione decennale.

L'intervento di Cass. S.U. persegue, così, anche un intento accelleratorio rispetto all'ipotesi della prescrizione decennale del diritto all'indennizzo.

Del resto, la Corte Costituzionale con la decisione 27 ottobre 2006 n. 342 del 2006 aveva già affrontato il tema della ragionevolezza del termine triennale di cui all'art. 1, comma 9, della l. n. 238 del 1997, ai fini dell'equo indennizzo, rispetto a quello originale decennale di prescrizione applicabile ai danni da epatite causata da trasfusione ritenendola non fondata rispetto agli artt. 3 e 2 della Costituzione in virtù del carattere solidaristico della prestazione indennitaria che può tollerare una ragionevole compressione del diritto, con la conseguenza che «Alla luce delle esposte considerazioni, si deve ritenere che la disposizione impugnata non ecceda l'ambito delle scelte spettanti al legislatore in materia di diritti sociali».

Indennizzo e risarcimento

Stabilito il principio diventa fondamentale verificare i parametri d'individuazione della fattispecie dalla quale far decorrere il concetto di «contrazione di epatite post-trasfusionale» di cui alla modifica normativa della legge n. 238 del 1997, ai fini della decorrenza del termine triennale, considerata anche la lungo latenza di simili eventi infettivi.

Per Cass. III, n. 8532/2020 Il diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto ha natura diversa rispetto all'attribuzione indennitaria regolata dalla l. n. 210 del 1992; tuttavia, nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della salute per omessa adozione delle dovute cautele, l'indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno ("compensatio lucri cum damno"), venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento, consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo.

Ciò è tanto vero che la S.C. – Cass. VI, n. 21257/2014 — ha affermato che l'attribuzione dell'indennizzo può al più incidere sull'elemento oggettivo di cui all'art. 2043 c.c.: esclusa ogni ricaduta in ordine all'elemento soggettivo della colpa (se non del dolo), né incide in senso favorevole rispetto agli oneri probatori in favore del danneggiato.

Del resto, Cass. sez. lav., n. 7912/2015, ha sottolineato che in caso di ritardo nel pagamento dell'indennizzo a favore dei soggetti danneggiati a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, previsto dall'art. 1 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, va escluso il risarcimento di un danno non patrimoniale, considerato che la persona in quanto tale è già tutelata attraverso l'indennizzo e i relativi accessori.

Rimane, pertanto, confermata la natura onnicomprensiva dell'indennizzo in uno con la sua originaria impronta solidaristica, secondo la lettura che la Corte costituzionale con la decisione del 27 ottobre 2006, n. 342 sopra citata, ne ha dato.

Come si calcola il termine di decadenza

L'indennizzo non appare sovrapponibile alla struttura del danno aquiliano, compreso, ovviamente, quello non patrimoniale. Va inoltre sottolineato che l'art. 1, comma 9, della legge n. 238 del 1997 nel novellare l'art. 3 della l. n. 210 del 1992 nel fissare, ai fini dell'esercizio del diritto indennitario, il termine perentorio triennale rispetto alle epatiti post-trasfusionali, ha ancorato la decadenza del diritto ad un dato temporale corrispondente al giorno in cui il danneggiato ha avuto contezza del danno irreversibile da infezione.

La responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi è di natura extracontrattuale, né sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime); ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, comma 1, c.c., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita, o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, da ritenersi coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all'art. 4 della l. n. 210 del 1992, ma con la proposizione della relativa domanda amministrativa, che attesta l'esistenza, in capo all'interessato, di una sufficiente ed adeguata percezione della malattia, Cass. VI-III, ord. n. 16217/2019.

Ciò è tanto vero che ai fini della prescrizione quinquennale dell'azione aquiliana il termine ultimo corrisponde a quello di proposizione della domanda d'indennizzo.

Questo parametro terrebbe conto della lungo latenza dell'infezione e della sua sintomaticità che può rimanere silente per periodi apprezzabili rispetto alla pratica sanitaria della trasfusione con sangue infetto e del rapporto causale tra trasfusione ed evento dannoso.

La stessa dottrina, invero, a prescindere dal problema dell'imputabilità che riguarda esclusivamente la responsabilità ex art. 2043 c.c., sottolinea che la laconicità dell'indicazione sulla data di conoscenza della lesione epatopatica, ad onta della centralità del problema, rispetto ai termini perentori fissati dalla legge, impone di considerare che non sempre la conoscenza della lesione irreversibile è agevolmente desumibile dalla documentazione sanitaria in possesso del danneggiato (Rubino, cit., 63 e 185 e ss.; La Monica, 2006, 469 e ss.).

La contiguità del tema della consapevolezza delle conseguenze dannose derivate dal contagio rispetto all'azione aquiliana si giustifica con la natura dell'azione indennitaria verso la P.A. (Cass. sez. lav., n. 19811/2013) che ne evidenzia la natura di diritto soggettivo avente per oggetto una prestazione economica a carattere assistenziale, in continuità con Cass.S.U., n. 10418/2006, che ne afferma il carattere solidaristico in armonia con l'art. 2 Cost. e di risposta al bisogno ex 38, comma 2, Cost., secondo il principio della socializzazione del danno, come ritenuto anche da Cass. sez. lav., n. 10876/2014.

La lesione inoltre deve essere stabilizzata ed inquadrabile in una delle otto categorie previste dalla tabella allegata alla legge.

In proposito Cass. sez. lav., n. 19811/2013, cit., ha chiarito che il termine di decadenza decorrere allorché il soggetto contagiato abbia avuto contezza di essere portatore di una infermità classificabile in una delle otto categorie della tabella A allegata al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834.

Infatti, la caratteristica di queste patologie epatiche sta nel loro carattere silente per lunghi periodi e pertanto ove non stabilizzate, eppur consistenti in un danno permanente, potrebbero risultare al di sotto dell'ottava categoria con la conseguenza che, senza sintomi riconoscibili, l'indennizzo potrebbe non essere riconosciuto in quanto non vi sarebbe il superamento utile del livello d'infermità prevista.

È dunque da credere che la consapevolezza rispetto all'infezione e alla sua diagnosi diventa irrinunciabile quale conseguenza della trasfusione infetta da cui decorre il termine di decadenza previsto dall'art. 3, della legge n. 210 del 1997 novellato dalla legge n. 382 del 1997: Cass. sez. lav., n. 07304/2011) di modo che l'elemento materiale del trascorrere del tempo rispetto all'esercizio del diritto siano governati secondo i principi codicistici da decadenza e prescrizione, i quali, per vero, si differenziano così come delineate dall'art. 2964 c.c. soltanto per la circostanza che la prima non potrà essere interrotta o sospesa che nei casi espressamente indicati dalla legge, a differenza della prescrizione.

Nondimeno, non potrebbero mutare i parametri di riferimento temporali rispetto al rapporto causale, (Cass. III n. 20999/2012), in base al quale non appare condivisibile l'opinione secondo la quale la prescrizione avrebbe decorrenza da quando il danneggiato abbia acquisito la consapevolezza della malattia contratta. Invero, questo momento non necessariamente appare sovrapponibile con la percezione del suo scaturire dalla condotta illecita del terzo che ha causato il pregiudizio lamentato attraverso l'emotrasfusione.

In ogni caso va tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche» lasciando aperta la possibilità che, ai fini dell'esercizio del diritto, la detta consapevolezza non emerga da altre circostanze.

Il legislatore, nella legge di stabilità di cui alla legge di bilancio 2018, all'art.1 comma  439, l. n. 205/2017 inserisce, all'articolo 12 della legge n. 219/2005 il comma 4-bis e 4-ter contenenti  una serie di disposizioni destinate a rafforzare, attraverso nuove competenze del  Centro Nazionale Sangue controlli rigorosi sui processi trasfusionali in conformità della legislazione nazionale ed europea nonché sulle strutture regionali e delle province autonome (art.4-ter).

Il successivo comma 440 amplia, poi, la platea dei destinatari dell'equa riparazione già prevista dall'articolo 27-bis del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, includendo nel novero dei risarcibili, anche i familiari dei deceduti danneggiati, ancorché  abbiano agito solo iure proprio.

Tale beneficio incontra però il limite della partecipazione alla transazione prevista dall'articolo 33 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, e dall'articolo 2, comma 361, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e a condizione che la domanda sia stata proposta  entro la data il 19 gennaio 2010.

Il giudice di legittimità con  Cass. III, n. 14615/2020  ha chiarito che  Il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico esplica i suoi effetti tra le sole parti del contratto con la conseguenza che  l'inadempimento della struttura o del professionista genera responsabilità contrattuale esclusivamente nei confronti dell'assistito, che può essere fatta valere dai suoi congiunti "iure hereditario", senza che questi ultimi, invece, possano agire a titolo contrattuale "iure proprio" per i danni da loro patiti. In particolare, non è configurabile, in linea generale, in favore di detti congiunti, un contratto con effetti protettivi del terzo, ipotesi che va circoscritta al contratto concluso dalla gestante con riferimento alle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione che, per la peculiarità dell'oggetto, è idoneo ad incidere in modo diretto sulla posizione del nascituro e del padre, sì da farne scaturire una tutela estesa a tali soggetti. (Nella specie, la S.C. ha escluso la spettanza dell'azione contrattuale "iure proprio" agli eredi di un soggetto ammalatosi e poi deceduto a causa di infezione da HCV contratta a seguito di emotrasfusioni eseguite presso un ospedale, precisando che essi avrebbero potuto eventualmente beneficiare della tutela aquiliana per i danni da loro stessi subiti).

In ogni caso occorre distinguere tra l'ipotesi di decesso del danneggiato causalmente connesso con le vaccinazioni o le patologie indicate dalla l. n. 210 del 1992, che attribuisce ai familiari del "de cuius" ivi indicati il diritto alla percezione dell'assegno mensile reversibile o, in alternativa, di un assegno "una tantum", quali provvidenze loro spettanti "iure proprio", da quella in cui tale nesso causale non esista. Ne deriva che in questo ultimo caso gli eredi avranno diritto esclusivamente alla percezione dei ratei dell'assegno spettante al danneggiato, maturatisi prima del suo decesso ma non riscossi ad essi spettanti "iure hereditario"  (Cass.VI – sez. lav. n. 19502/2018).

L'indennizzo aggiuntivo di cui all'art. 7 della l. n. 210 del 1992, si configura quale prestazione accessoria ed autonoma rispetto a quella prevista dall'art. 1 della medesima legge, che ne costituisce mero presupposto, necessitando di un ulteriore elemento costitutivo qual è la derivazione eziologica dalla trasfusione di una seconda malattia con distinto esito invalidante, nonché di apposita domanda amministrativa. Pertanto, il termine triennale di decadenza di cui all'art. 3, comma 1, della l. n. 210 del 1992, previsto per l'indennizzo ex art. 1 della medesima legge, non si estende all'indennizzo aggiuntivo, considerato il carattere eccezionale delle norme sulla decadenza, inapplicabili oltre i casi espressamente previsti(Cass., sez. lav., ord. n. 19704/2018).

Bibliografia

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