Legge - 24/03/2001 - n. 89 art. 2 bis - (Misura dell'indennizzo) 1.


(Misura dell'indennizzo) 1.

 

1. Il giudice liquida a titolo di equa riparazione, di regola, una somma di denaro non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. La somma liquidata puo' essere incrementata fino al 20 per cento per gli anni successivi al terzo e fino al 40 per cento per gli anni successivi al settimo 2.

1-bis. La somma puo' essere diminuita fino al 20 per cento quando le parti del processo presupposto sono piu' di dieci e fino al 40 per cento quando le parti del processo sono piu' di cinquanta  3.

1-ter. La somma puo' essere diminuita fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce 4.

1-quater. L'indennizzo e' riconosciuto una sola volta in caso di riunione di piu' giudizi presupposti che coinvolgono la stessa parte. La somma liquidata puo' essere incrementata fino al 20 per cento per ciascun ricorso riunito, quando la riunione e' disposta su istanza di parte  5.

2. L'indennizzo e' determinato a norma dell'articolo 2056 del codice civile, tenendo conto:

a) dell'esito del processo nel quale si e' verificata la violazione di cui al comma 1 dell'articolo 2;

b) del comportamento del giudice e delle parti;

c) della natura degli interessi coinvolti;

d) del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

3. La misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma 1, non puo' in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.

[1] Articolo aggiunto dall'articolo 55, comma 1, lettera b), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

Inquadramento

La prova del danno subito a causa dell'irragionevole durata del processo deve essere fornita, in conformità alla regola generale posta dall'art. 2697 c.c., dal ricorrente.

In particolare, anche il danno non patrimoniale deve essere dimostrato, sebbene un senso di impotenza e frustrazione per le parti sia, in accordo con l'id quod plerumque accidit, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, di un giudizio che si è protratto per un tempo eccessivo. Il danno patrimoniale eventualmente conseguenza della durata del processo deve invece essere oggetto di specifica prova, nel senso che non può presumersi.

Affinché il rimedio interno per la ragionevole durata del processo possa considerarsi effettivo ai sensi degli artt. 13 e 35 Cedu e, quindi, precludere l'accesso diretto dei ricorrenti al giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo fondato sulla violazione dell'art. 6 Cedu è necessario che i criteri per la quantificazione dell'indennizzo derivante dall'irragionevole durata del processo siano analoghi. La giurisprudenza interna solo dal 2004, almeno per la massima parte, si è conformata a quella europea, sebbene permangano alcune discrasie, normative e giurisprudenziali.

La prova del danno non patrimoniale

In linea di principio spetta al danneggiato-ricorrente in sede di equa riparazione fornire nel relativo giudizio la prova del danno subito in virtù dell'irragionevole durata del processo.

Tale danno è nella maggior parte dei casi di carattere non patrimoniale correlandosi alle ansie ed ai patemi sofferti dal ricorrente per la durata eccessiva di un giudizio nell'ambito del quale ha la qualità di parte.

In ordine alla prova del danno non patrimoniale occorre ricordare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che il danno non patrimoniale è una categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate e, tra queste, nel danno esistenziale perché attraverso lo stesso si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, nella quale confluiscono, tuttavia, fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (Cass. S.U., n. 26972/2008, in Giust. civ., 2009, n. 4-5, con nota di Rossetti). Di conseguenza, hanno sottolineato le Sezioni Unite, il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (ad esempio, danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. In particolare, non sono meritevoli di tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, hanno precisato ancora le Sezioni Unite, i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale poiché, al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale. In altri termini, non sarà risarcibile il danno esistenziale quando è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (es. non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), ovvero, un danno che, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto (es. graffio superficiale dell'epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata.

In altri termini, nella prospettiva delineata dalle Sezioni Unite, è compito del giudice di merito accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate in concreto e provvedendo alla loro integrale riparazione. Il danno non patrimoniale, peraltro, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, anche mediante presunzioni.

Quanto, più specificamente, alla tematica della prova del danno non patrimoniale conseguente all'irragionevole durata del processo (Cass. n. 14636/2012), la portata del relativo onere in capo al ricorrente è stata significativamente attenuata dalla S.C. al punto da determinarne una sostanziale inversione.

Richiamati i principi sanciti dalle Sezioni Unite per i quali è compito del giudice di merito accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate in concreto e provvedendo alla loro integrale riparazione (cfr., con riferimento all'esigenza di considerare, pur evitando ogni duplicazione risarcitoria, sia il danno morale che quello esistenziale derivanti dalla perdita di un congiunto a causa del fatto illecito, Cass. n. 22884/2007, in Giust. civ., 2008, 109, con nota di Briguglio) ed il danno non patrimoniale, peraltro, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, anche mediante presunzioni (in tal senso v., già prima dell'intervento delle Sezioni Unite, Cass. 8 ottobre 2007, n. 20987, in Resp. civ. e prev., 2008, 4, 865; Trib. Milano, sez. X, 30 aprile 2008, n. 5567, in Giustizia a Milano, 2008, 4, 27; con limitato riguardo al danno esistenziale v., invece, Trib. Bari 19 ottobre 2007, n. 2363, in giurisprudenzabarese.it) occorre considerare la giurisprudenza di legittimità sulla prova del danno non patrimoniale cagionato dall'irragionevole durata del processo.

Invero, anche di recente, è stato sul punto affermato che in tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 l. n. 89 del 2001, il danno non patrimoniale — che si concreta in quel senso di frustrazione ed impotenza che, secondo l'id quod plerumque accidit, prende qualunque cittadino, causandogli un innegabile stato di stress, allorquando, per ingiustificati ritardi e disfunzioni del servizio giustizia, non riesce ad ottenere tempestivamente il riconoscimento dei propri diritti (App. Reggio Calabria 17 luglio 2012) — è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Di conseguenza, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata l. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (Cass. n. 2843/2013).

Sebbene l'onere probatorio in ordine alla sussistenza del danno non patrimoniale lamentato dal ricorrente sia invertito non può concordarsi con quanti ritengono che si tratti di una forma di danno in re ipsa, potendo in concreto effettivamente ricorrere peculiari circostanze che, ove dimostrate dall'Amministrazione, consentono di escludere la sussistenza di tale pregiudizio. Ciò avviene, ad esempio, nelle ipotesi di originaria consapevolezza della inconsistenza delle tesi sollevate in causa, nelle quali, difettando una condizione soggettiva di incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio, restando così superata la presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale (Cass. n. 14607/2017; v., tra le altre, Cass. n. 24358/2006, con riguardo ad una fattispecie relativa alla proposizione di un'impugnazione per revocazione sulla base di due documenti dei quali il giudice dell'equa riparazione aveva escluso la novità e rilevanza, da ciò desumendo la presumibile consapevolezza dell'esito negativo del gravame; Cass. n. 2385/2011, con riferimento ad una fattispecie nella quale nel processo presupposto si era accertato che la compravendita tra il genitore e due figlie mascherava un atto di donazione, data l'esiguità del prezzo, la mancanza di prova del pagamento ed il mancato rinvenimento di somme pur essendo stata la compravendita effettuata in prossimità del decesso del dante causa pertanto, qualora nel processo presupposto sia stata accertata la simulazione di una compravendita disposta in favore del ricorrente, nella sua resistenza in giudizio, pur nella consapevolezza del fondamento della pretesa azionata nei suoi confronti, difetta la necessaria condizione soggettiva di incertezza, e, quindi, la causa dello stato di disagio, traendo, anzi, egli aveva beneficiato, per la durata del processo, dal mantenimento del pieno possesso degli immobili in pregiudizio delle controparti attrici) ovvero in quelle nelle quali il ricorrente non abbia di fatto subito alcun danno per essere tempestivamente intervenuta una misura cautelare anticipatoria degli effetti della decisione sul merito della domanda (cfr. Cass., n. 9919/2019, la quale ha cassato la sentenza della corte d'appello che aveva riconosciuto presuntivamente il danno non patrimoniale conseguente all'accertata irragionevole durata di un processo amministrativo, omettendo di considerare che il ricorrente, che aveva impugnato il giudizio di non ammissione all'esame di maturità, ma che era stato ammesso in via cautelare a sostenerlo, lo aveva poi superato conseguendo il relativo diploma, il che aveva determinato l'improcedibilità del ricorso per carenza di interesse).

Tuttavia, non può escludersi il pregiudizio non patrimoniale normalmente conseguente al protrarsi del giudizio oltre la durata ragionevole, soltanto in ragione dell'esito negativo del giudizio presupposto per il ricorrente in sede di equa riparazione (Cass. n. 25/2011) ovvero invocando l'univoco orientamento giurisprudenziale contrario alla tesi sulla quale si basa la domanda giudiziale, questo non costituendo elemento sufficiente per presumere, quale fattispecie di abuso del processo perseguito dalla parte soccombente, l'insussistenza della incertezza sull'esito del giudizio e, quindi, del disagio per il protrarsi irragionevole della sua definizione (Cass. n. 14978/2012).

Nondimeno all'impostazione per la quale in tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale, in quanto conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si presume sino a prova contraria, onde nessun onere di allegazione può essere addossato al ricorrente, essendo semmai l'Amministrazione resistente a dover fornire elementi idonei a farne escludere la sussistenza in concreto, consegue che la mancata specificazione, da parte del ricorrente, degli elementi costitutivi del danno non patrimoniale lamentato non rileva al fine di escludere l'indennizzabilità del pregiudizio, dalla parte pur sempre presuntivamente sofferto (Cass. n. 7325/2015).

Al contempo, è stato precisato che l'esistenza di un diritto vivente consolidato in senso sfavorevole all'accoglimento della domanda giudiziale esclude la configurabilità di un patema d'animo da durata irragionevole del processo e, quindi, un danno non patrimoniale ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Cass. n. 5535/2015).

Sotto un distinto profilo, occorre tenere presente che, in accordo con la giurisprudenza di legittimità, la presunzione di danno non patrimoniale notoriamente connessa a situazioni soggettive provocate da un giudizio durato troppo a lungo non può essere superata dalla circostanza che il ricorso, inerente rivendicazioni di categoria, sia stato proposto da una pluralità di attori, poiché la proposizione di un ricorso in forma collettiva e indifferenziata, non equivale certamente a trasferire sul gruppo, come entità amorfa e, quindi, a neutralizzare situazioni di angoscia o patema d'animo riferibili specificamente a ciascun contendente (Cass. n. 6697/2012).

In generale, è stato poi chiarito che l'esistenza del danno non patrimoniale può presumersi solo quando il processo superi in modo significativo la sua durata ragionevole, non anche quando esso trovi definizione a ridosso di tale termine, superandolo di pochi mesi, poiché in questa evenienza appare logico presumere, in relazione alla natura del danno stesso e sempre che non risultino indicazioni contrarie scaturenti in primo luogo dall'importanza della posta in gioco, che un lasso di tempo così breve di eccedenza non possa provocare a carico della parte sofferenze e patemi d'animo apprezzabili e, quindi, autonomamente enucleabili come danno evento (Cass. n. 5317/2013).

Sotto altro profilo, è stato precisato che la presunzione di danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo esecutivo non opera per l'esecutato, poiché egli dall'esito del processo riceve un danno giusto, sicché, ai fini dell'equa riparazione da durata irragionevole, l'esecutato ha l'onere di provare uno specifico interesse alla celerità dell'espropriazione, dimostrando che l'attivo pignorato o pignorabile fosse «ab origine» tale da consentire il pagamento delle spese esecutive e da soddisfare tutti i creditori e che spese ed accessori sono lievitati a causa dei tempi processuali in maniera da azzerare o ridurre l'ipotizzabile residuo attivo o la restante garanzia generica, altrimenti capiente (Cass. n. 14385/2015).

Il danno non patrimoniale delle persone giuridiche

Nei primi anni di vigenza della legge 24 marzo 2001 n. 89 la giurisprudenza interna tendeva a limitare significativamente la possibilità per le persone giuridiche di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali da esse subiti, ovviamente per il tramite delle persone fisiche preposte alla loro gestione, in conseguenza dell'irragionevole durata di un processo affermando che, senza che rilevi in proposito l'eventuale disagio psichico del socio o dell'amministratore della società trattandosi di un soggetto diverso dalla parte, il danno non patrimoniale non è ravvisabile sulla scorta della mera tensione o preoccupazione che siffatta durata sia in grado di arrecare, ma può dipendere solo dalla compromissione di quei diritti immateriali della personalità che sono compatibili con l'assenza della fisicità, quali i diritti all'esistenza, all'identità, al nome, all'immagine ed alla reputazione (Cass. n. 19647/2004, in Giust. civ., 2005, 1, I, 59, con nota di Giordano).

Come già osservato in altra sede, tuttavia, tale orientamento restrittivo della giurisprudenza nazionale si poneva in aperto contrasto con i principi affermati dalla Corte di Strasburgo la quale, con una fondamentale decisione resa dalla Grande Chambre (Corte europea dei diritti dell'uomo, 6 aprile 2000, Comingersoll c. Portogallo) aveva ritenuto, in una fattispecie nella quale la società ricorrente lamentava di aver subito un danno di natura non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata di un processo, che esso può essere riconosciuto anche alle persone giuridiche affinché le medesime siano efficacemente garantite ai sensi dell'art. 6 Cedu. Più specificamente, l'apparente discrasia tra la liquidazione di un danno morale a favore di un ente e la mancanza di fisicità in capo allo stesso e quindi la sua ontologica incapacità di soffrire in via diretta, è stata giustificata dal giudice europeo in base alla circostanza che il protrarsi di un procedimento giudiziario oltre il suo termine di ragionevole durata, determina presumibilmente in capo agli amministratori ed ai soci un senso di incertezza prolungato che finisce con il riflettersi persino nel compimento degli atti di gestione ordinaria necessari allo svolgimento degli affari sociali. In quest'ottica, e nel chiarire che il danno di natura non patrimoniale a favore delle persone giuridiche deve essere riconosciuto a seguito della considerazione degli elementi alla base della fattispecie concreta, la Corte dei diritti umani ha anche sottolineato che il pregiudizio morale che può subire una società si compone sia di elementi «oggettivi», quali il danno alla reputazione dell'impresa, sia «soggettivi», ovvero legati all'incertezza nella pianificazione delle decisioni da assumere con le connesse conseguenze negative in termini di efficienza della gestione o correlate all'angoscia degli organi di direzione della società (cfr. Affaire Comingersoll c. Portugal, cit., parr. 31 – 37, ove la Corte di Strasburgo richiama anche altri casi nei quali aveva già in precedenza riconosciuto un danno morale a favore delle persone giuridiche in ragione della violazione di diverse disposizioni della Cedu. In senso conforme v., tra le altre, sempre nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, Affaire Sociedade Agricola Do Peral S.A. et a. c. Portugal del 31 giugno 2003; Affaire Geni s.r.l. c. Italie del 19 dicembre 2002; Affaire Fertiladour S.A. c. Portugal del 18 maggio 2000).

In seguito la Corte di Cassazione si è quindi opportunamente conformata – dovendo essere, secondo quanto disposto dall'art. 2 legge 24 marzo 2001 n. 89, utilizzati i medesimi criteri invalsi in sede internazionale nell'accertare e liquidare l'equa riparazione da irragionevole durata del processo – alla posizione della Corte europea dei diritti dell'uomo su tale questione, essendo stato più volte ribadito il principio per il quale in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 2, l. n. 89/2001, anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è, tenuto conto dell'orientamento in proposito maturato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri, e ciò non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone fisiche, sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno in re ipsa, ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (Cass. n. 25730/2011; Cass. n. 7145/2006).

Prova del danno patrimoniale

Meno ricorrente nella prassi è il riconoscimento del danno patrimoniale derivante dall'irragionevole durata di un processo.

Per vero, in tale ipotesi, l'onere probatorio posto a carico del ricorrente è più gravoso, dovendo il medesimo dimostrare compiutamente, in applicazione della regola generale sancita dall'art. 2697 c.c., i fatti costitutivi posti a fondamento del dedotto danno nonché la correlazione immediata e diretta dello stesso con l'evento lesivo. Sul punto, costituisce difatti jus receptum il principio in forza del quale nelle cause per equa riparazione introdotte a norma della legge n. 89 del 2001, l'onere di dimostrare il danno patrimoniale derivante dall'eccessiva durata del giudizio deve essere assolto appieno dal ricorrente ed, a differenza di quel che accade per la prova del pregiudizio di carattere morale, senza il beneficio di presunzioni di ordine generale, trattandosi di fornire la prova di uno dei fatti costitutivi della sua domanda (Cass. n. 26166/2006, la quale ha ritenuto che quando pertanto il pregiudizio lamentato si risolva nell'asserita impossibilità di fare valere gli effetti della condanna emessa a seguito di un processo durato troppo a lungo, per essere nel frattempo il debitore divenuto insolvente, è onere del ricorrente dimostrare che tale circostanza ha appunto compromesso la soddisfazione del suo credito, quantunque questo sia stato ammesso a partecipare al concorso con gli altri creditori dell'insolvente).

In altre e più chiare parole, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale conseguente alla durata irragionevole del giudizio non è riconducibile al fatto in sé della irragionevole protrazione del giudizio stesso ed incombe, pertanto, al ricorrente l'onere di fornire la prova rigorosa della lesione della propria sfera patrimoniale prodottasi quale conseguenza diretta e immediata della violazione, sulla base di una normale sequenza causale (Cass. n. 6838/2012). Sotto quest'ultimo profilo, è interessante segnalare che, secondo un recente precedente di legittimità, deve escludersi il danno patrimoniale per irragionevole durata del processo laddove nelle more della definizione dello stesso si sia registrato un mutato orientamento giurisprudenziale, in quanto tale evento interrompe la sequenza causale, assumendo, quale fattore idoneo a produrre, da solo, l'evento, rilevanza esclusiva ed assorbente nella determinazione del danno lamentato, trattandosi di fatto autonomo, eccezionale ed atipico rispetto alla serie causale già in atto, che comporta la degradazione delle cause preesistenti al rango di mere occasioni (Cass. n. 27935/2011).

È stato anche precisato che nelle cause per equa riparazione introdotte a norma della legge n. 89 del 2001, il danno patrimoniale, la cui sussistenza deve essere provata in concreto dal ricorrente, non può essere individuato nell'importo corrisposto alla controparte in conseguenza della transazione intervenuta nel giudizio di cui viene lamentata la durata irragionevole, potendo essere riconosciuto solo quello riconducibile sul piano causale in modo diretto ed immediato a quella durata: tale non è il danno subito in conseguenza dell'esito del giudizio, specie allorché questo sia stato definito in via transattiva, ossia con la partecipazione volontaria della stessa parte (Cass. n. 2246/2007).

Inoltre, il danno risarcibile è solo quello in rapporto causale tra il ritardo nella definizione del giudizio e il pregiudizio sofferto, sicché ad esso non sono riconducibili le poste economiche che avrebbero dovuto essere dedotte nel giudizio presupposto, nel cui solo ambito era consentito l'accertamento (Cass. n. 18966/2014).

Per altro verso, la S.C. ha recentemente precisato che  il danno patrimoniale indennizzabile per violazione del principio della ragionevole durata del processo comprende il pregiudizio che costituisce conseguenza diretta di tale violazione e, quindi, anche quello subito per perdita di "chance", purché esso non si risolva in una mera aspettativa di fatto, ma presenti i caratteri di un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice di merito, al quale la parte istante ha l'onere di fornire la prova puntuale dell'esistenza di detta posta, pure in via presuntiva, mediante un criterio probabilistico (Cass. n. 7570/2019).

L'ineffettività del rimedio interno per l'importo ridotto degli indennizzi: il caso Scordino c. Italia

Ragion pratica dell'introduzione del rimedio interno costituito dalla legge c.d. Pinto è stata la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nel senso della sussistenza di una presunzione di violazione da parte dello Stato italiano dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) laddove individua tra i caratteri dell'equo processo la ragionevole durata dello stesso.

La necessità di introdurre uno specifico rimedio «interno» volto a consentire la denuncia dell'irragionevole durata del processo dinanzi alle giurisdizioni nazionali è derivata, in particolare, dalla pronuncia resa nel caso Kudla c. Polonia mediante la quale è stato chiarito che, qualora uno Stato contraente della Cedu non abbia introdotto al proprio interno uno specifico rimedio per lamentare l'eccessiva durata dei processi, ciò si pone in contrasto con l'art. 13 Cedu, in virtù del quale «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettiva davanti ad un'istanza nazionale» (Corte eu. dir. uomo, Gr. Ch., 26 ottobre 2000, Kudla c. Pologne, in www.echr.coe.int).

In tal modo la Corte di Strasburgo, nel suffragare, con la richiamata sentenza, una rinnovata concezione di carattere «positivo» del principio di sussidiarietà, ai sensi dell'art. 13 Cedu che assicura a ciascun individuo il diritto ad un ricorso effettivo in ambito nazionale per denunciare la violazione dei diritti riconosciuti dalla stessa Convenzione, ha di fatto «invitato» anche l'Italia a prevedere nell'ambito del proprio sistema giudiziario un mezzo di ricorso per lamentare specificamente la violazione dell'art. 6 Cedu sotto il profilo dell'eccessiva durata dei processi. Invero, la legge Pinto è stata emanata, solo qualche mese più tardi, proprio per evitare le conseguenze negative che, almeno sul piano politico, sarebbero indubbiamente derivate da un atteggiamento passivo dello Stato italiano a fronte delle numerose violazioni della Convenzione (in senso critico quanto alla scelta normativa nel senso di prevedere un risarcimento per l'irragionevole durata dei processi non risolvendo, per converso, il problema strutturale a monte v. Monteleone, 531).

Ne deriva che la legge n. 89 del 2001 deve essere applicata in modo da evitare che i singoli riprendano la Strasse per Strasburgo (secondo l'efficace espressione di Consolo, 2001, 572): il che significa che i giudici interni, nel decidere dei ricorsi ad essi presentati, devono utilizzare i medesimi parametri della Corte europea dei diritti dell'uomo sia per quanto attiene all'individuazione della violazione che, per quel che più direttamente rileva in questa sede, alla determinazione dell'entità dell'indennizzo (cfr. Giorgetti 74 ss.). In mancanza, infatti, quanti saranno insoddisfatti dall'esito del proprio procedimento svoltosi dinanzi ai giudici nazionali avranno un concreto interesse ex art. 34 Cedu ad adire direttamente la Corte dei diritti dell'uomo, «saltando» il rimedio interno inadeguato.

A riguardo, non è superfluo ricordare, in estrema sintesi, per meglio comprendere quanto evidenziato, che sin dalla lettura dell'art. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nella parte in cui sancisce l'obbligo degli Stati Contraenti di garantire la tutela dei diritti e delle libertà previsti nella Convenzione nei territori soggetti alla giurisdizione degli stessi, si evince che il meccanismo di salvaguardia collettivo instaurato dalla medesima ha carattere sussidiario rispetto ad una protezione dei diritti dell'uomo che deve essere assicurata in primo luogo e soprattutto in ambito nazionale (v. già Corte europea dei diritti dell'uomo, 7 dicembre 1976, Handsyde c. Regno Unito, § 48).

In altri termini, il principio di sussidiarietà si pone quale determinante modalità di ripartizione della responsabilità nella garanzia dei diritti umani tra le autorità nazionali e quelle internazionali (De Salvia, 130 ss.).

Il primo paragrafo dell'art. 35 Cedu stabilisce, in particolare, che la Corte europea non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne, per come inteso in accordo con i princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti.

Tale previsione è conforme, in realtà, ad una regola generale del diritto internazionale consuetudinario, in virtù della quale gli Stati sono tenuti a riconoscere un determinato trattamento agli stranieri sul proprio territorio in mancanza del quale lo Stato di nazionalità degli stessi potrà esercitare la protezione diplomatica ma ciò, soltanto, laddove la vittima si fosse previamente avvalsa nello Stato ospite di ogni strumento di ricorso disponibile ed effettivo, anche di carattere soltanto amministrativo, idoneo ad accordargli un ristoro a fronte della violazione dei propri diritti. La regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, pertanto, ha quale funzione principale quella di prevenire le controversie tra Stati sovrani a fronte del mancato rispetto degli obblighi assunti sul piano internazionale (Aronowitz 515 ss.).

Ai fini del rispetto della regola del previo esaurimento dei ricorsi esistenti nel sistema nazionale, la giurisprudenza della Corte ritiene sufficiente che il ricorrente abbia fatto valere «in sostanza» la medesima violazione dinanzi al giudice nazionale, i.e. effettuando una contestazione equivalente o simile a quella prevista dalla Convenzione, in tal modo fornendo al giudice nazionale l'occasione di evitare la violazione lamentata o di attenuarne le conseguenze dannose (Corte europea dei diritti dell'uomo, tra le altre, decisioni 23 aprile 1992, Castells c. Spagna, §§ 30-31; 19 febbraio 1996, Botten c. Norvegia, anche in Rev.univ. dr. homme, 1997, 11, con osservazione di Sudre).

La nozione dei ricorsi interni da esperire da parte dei singoli prima di adire con la propria richiesta di tutela la Corte europea è stata intesa in modo ampio, anche per tener conto delle diversità dei sistemi giuridici nazionali degli Stati contraenti: in tale prospettiva si è quindi ritenuto che tra gli stessi possa essere annoverato ogni mezzo di ricorso idoneo al raggiungimento di un risultato soddisfacente rispetto all'oggetto del ricorso, anche se privo di carattere giudiziario. Inoltre è consolidato in giurisprudenza il principio per il quale devono essere previamente esperiti soltanto i ricorsi esistenti in ambito nazionale che abbiano carattere ordinario, nel senso che deve essere stato effettuato un uso normale degli strumenti di ricorso utili (Sudre 2004, 276 ss.).

Prima condizione, peraltro, è che i rimedi esistenti sul piano interno siano direttamente proponibili da parte del privato ovvero accessibili per lo stesso. Ciò comporta, ad esempio, quanto ai ricorsi costituzionali, che debba essere effettuata una distinzione tra i sistemi giuridici di alcuni Stati contraenti nei quali, come in Spagna ed in Germania, è prevista la possibilità per gli individui di proporre direttamente ricorso alla Corte costituzionale ed ordinamenti, come quello italiano, nei quali l'accesso al giudizio costituzionale è indiretto, poiché esclusivamente nel primo caso il ricorso in questione dovrà essere esperito prima di adire la Corte di Strasburgo (Corte europea dei diritti dell'uomo, 19 dicembre 1989, Broricek c. Italia, § 34).

Inoltre — per quel che maggiormente è di interesse in questa sede — la Corte europea ha chiarito che devono essere esperiti soltanto i ricorsi interni effettivi, in quanto non soltanto accessibili, ma anche efficaci e sufficienti (Corte europea dei diritti dell'uomo, 28 luglio 1999, Selmouni c. Francia, § 74):in sostanza, si dovrà trattare di ricorsi idonei a consentire al ricorrente di ottenere il risultato di poter ottenere completa soddisfazione rispetto alle proprie doglianze. In tale prospettiva devono ritenersi ad esempio inidonei (sicché il previo esaurimento degli stessi non condiziona la proponibilità del ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo) i mezzi di ricorso che: consentano soltanto di attenuare e non di eliminare le conseguenze della violazione; rispetto ai quali l'autorità chiamata a decidere non ha poteri vincolanti; sarebbero privi di ogni ragionevole possibilità di successo alla luce di una giurisprudenza interna consolidata (Giordano 2012, 30 ss.).

Il rischio di una discrasia, a svantaggio del ricorrente, tra l'entità degli indennizzi accordati in sede europea e quelli liquidati in ambito nazionale si è concretizzato sin dai primi mesi di applicazione del rimedio interno introdotto dalla legge c.d. Pinto, a causa della tendenza delle Corti d'Appello a liquidare indennizzi molto più bassi rispetto a quelli riconosciuti in sede europea, tendenza peraltro avallata dalla giurisprudenza di legittimità.

A fronte di tale situazione, la Corte europea è prontamente intervenuta con la decisione sulla ricevibilità resa nel caso Scordino c. Italia il 27 marzo 2003 (in Corr. Giur., 2003, 1494, con nota di Sonaglioni) mediante la quale la Corte europea ha ritenuto ricevibile un ricorso con il quale era stata direttamente adita, quindi senza che il relativo decreto fosse impugnato in Cassazione, per lamentare un'insufficiente liquidazione in sede di appello del danno da irragionevole durata del processo. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, la regola dell'art. 35 Cedu nella parte in cui pone la condizione di ricevibilità del previo esaurimento delle vie di ricorso interne non può trovare applicazione nelle ipotesi in cui un rimedio nazionale, pur formalmente esistente, risulti in concreto privo di effettività e quindi inutile per i singoli. Tale pronuncia si fonda proprio sulla circostanza che le Corti d'Appello in sede applicativa e, quindi, la stessa Corte di legittimità tendevano a svilire, nei primi mesi di vigenza della legge n. 89 del 2001, il legame sussistente tra la medesima e la Cedu, liquidando in concreto indennizzi significativamente più ridotti. In tale prospettiva, si era ad esempio affermato che la Convenzione non introduce norme di diritto interno che vincolano i giudici nazionali accordando meramente alla parte lesa, attraverso il proprio organo giurisdizionale, una tutela di tipo suppletivo o sussidiario, invocabile al posto o ad integrazione di quella inadeguatamente offerta dai singoli ordinamenti ed, inoltre, che l'esplicito richiamo alla Cedu da parte dell'art. 2 della legge Pinto per l'individuazione della violazione influente al fine dell'equa riparazione non potrebbe far trascurare la presenza nel medesimo articolo di una propria disciplina relativamente ai parametri cui correlare la ragionevole durata del processo (v., tra le altre, Cass. n. 5664/2003).

Il recepimento dei criteri per la liquidazione dell'indennizzo individuati dalla Corte europea

Per evitare la prevedibile conseguenza di nuove e reiterate condanne in sede europea in ragione della ritenuta ineffettività del rimedio interno introdotto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con quattro decisioni rese lo stesso giorno (Cass. S.U., 26 gennaio 2004 nn. 13381340, in Giust. civ., 2004, 907, con nota di Morozzo Della Rocca), hanno quindi affermato, sin dal gennaio 2004, rispetto all'applicazione della legge n. 89 del 2001, da un lato, che i danni non patrimoniali legati ai ritardi nella definizione dei giudizi in via di principio, ovvero in assenza di particolari circostanze legate alla fattispecie concreta, non devono essere provati, e, per quel che maggiormente interessa in questa sede, che il giudice italiano è in linea di principio tenuto a considerare i criteri ermeneutici elaborati in materia dalla Corte dei diritti umani anche sotto il profilo della determinazione dell'entità dell'indennizzo richiesto dal ricorrente. Di conseguenza la Corte di legittimità ha in tal modo cercato di scongiurare il rischio dell'ineffettività del rimedio interno introdotto dalla legge Pinto e di nuove condanne in sede sovranazionale.

Invero, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite, costituisce ormai jus receptum in giurisprudenza il principio in forza del quale in tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 l. 24 marzo 2001 n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa — ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione — il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (v., tra le molte, Cass. n. 24696/2011).

Il nuovo orientamento delle Sezioni Unite ha determinato una vera e propria inversione dell'onere della prova in materia di danni non patrimoniali da ritardata giustizia, in quanto attualmente dovrà essere, operando una presunzione di pregiudizio in capo al ricorrente, semmai l'amministrazione convenuta a far presenti le circostanze eccezionali in virtù delle quali nella fattispecie la durata irragionevole del processo non aveva determinato sofferenze, ansie e patemi in capo alla parte (Morozzo Della Rocca, 918). Diversamente, in conformità alla pregressa posizione della Corte di legittimità era richiesta, come evidenziato in dottrina, una prova rigorosa anche del danno non patrimoniale (v., ex ceteris, Cass. n. 12935/2003).

Questi principi sono stati ribaditi più volte, anche nella giurisprudenza recente, nel senso che, ai fini della liquidazione dell'indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della l. n. 89 del 2001, l'ambito della valutazione equitativa, affidato al giudice del merito, è segnato dal rispetto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, di casi simili a quello portato all'esame del giudice nazionale, con la conseguenza che è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione applicati dalla Corte europea, pur conservando egli un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, purché in misura ragionevole, dalle liquidazioni effettuate da quella Corte in casi simili (Cass. n. 6696/2012).

Più in concreto, è stato precisato, in tale prospettiva, dalla S.C. che, tenendo conto anche della giurisprudenza della Corte dei diritti dell'uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, «a condizione che le decisioni pertinenti» siano «coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato», e purché detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45% del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito. Sulla scorta di tale premessa, si è evidenziato che, pertanto, stante l'esigenza di offrire un'interpretazione della l. 24 marzo 2001 n. 89 idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l'art. 6 Cedu, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore ad euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata (Cass. n. 16086/2009) in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno (v. Cass. n. 8471/2012).

Resta fermo che la liquidazione di un indennizzo in misura inferiore a quella ordinariamente applicata dalla Corte europea da un lato non costituisce violazione di legge, e, dall'altro lato, non configura vizio di motivazione, se il giudice del merito giustifichi lo scostamento dall'ordinario parametro con la modesta entità delle somme richieste in giudizio e con l'assoluta incertezza del risultato perseguito, per essere la pretesa basata su principio di diritto fermamente escluso dalla uniforme giurisprudenza dell'ufficio giudiziario adito (Cass. n. 23029/2011). Analogamente, è stato ritenuto giustificato un indennizzo liquidato in misura inferiore ai parametri indennitari della Cedu qualora il giudice di merito abbia accertato la modestia della «posta in gioco» sia per il valore della causa, sia per la natura collettiva del ricorso, che può indurre ad una minore personalizzazione della controversia e, di conseguenza, ad una minore sofferenza per il suo prolungarsi (Cass. n. 15268/2011).

Con riguardo alla formulazione della norma in commento successiva alla riforma di cui alla l. n. 134 del 2012, la S.C. ha ritenuto che, in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, sono manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6, par. 1, della Cedu, riguardanti l'art. 2-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, nonché l'art. 2, comma 2-bis, della stessa legge n. 89 del 2011, nella parte in cui afferma che si considera rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di tre ani in primo grado di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione, la ragionevolezza del criterio di 500 euro per anno di ritardo e i parametri di durata così stabiliti recepiscono le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte Edu e della Corte di cassazione (Cass. n. 22772/2014).

Peraltro, la legge di stabilità per l'anno 2016, intervenendo significativamente sulla norma in commento, nell'intento di diminuire l'entità degli esborsi a carico dello Stato aventi causa in indennizzi per l'irragionevole durata dei processi, ha ridotto ulteriormente gli importi che possono essere liquidati a titolo di equa riparazione stabilendo in particolare che «il giudice liquida a titolo di equa riparazione, di regola, una somma di denaro non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo».

Peraltro è stato precisato che la somma liquidata può essere incrementata fino al 20 per cento per gli anni successivi al terzo e fino al 40 per cento per gli anni successivi al settimo e, di contro, che la somma può essere diminuita fino al 20 per cento quando le parti del processo presupposto sono più di dieci e fino al 40 per cento quando le parti del processo sono più di cinquanta.

Proprio la facoltà dell'autorità giudiziaria di modulare comunque nei casi concreti l'entità degli indennizzi, salvo l'esercizio di tale potere nella prassi applicativa nel senso di determinare sempre al minimo l'importo dovuto, rende ragione dell'opinione per la quale la norma non appare contraria alla Cedu.

È stato inoltre chiarito, così venendo meno ogni dubbio sulla legittimazione ad agire della parte soccombente, che la somma può essere diminuita fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce.

Il riconoscimento del danno solo per il periodo eccedente la ragionevole durata del processo

Sebbene a partire dalle quattro decisioni gemelle delle Sezioni Unite del gennaio 2004 la Corte di Cassazione abbia riconosciuto l'esistenza di un vincolo del giudice nazionale, anche nella determinazione dell'entità dell'indennizzo correlato alla violazione del termine di ragionevole durata del processo, alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, tuttavia è rimasta ferma un'importante differenza con la stessa, sempre in senso peggiorativo della posizione del soggetto privato ricorrente.

Invero, se la Corte di Strasburgo ha tradizionalmente accordato l'indennizzo per ciascun anno di durata della procedura ritenuta irragionevolmente lunga, è rimasto consolidato nella nostra giurisprudenza interna il diverso principio in forza del quale in tema di equa riparazione il danno deve essere liquidato non avendo riguardo all'intera durata del processo ma per il solo periodo eccedente la durata ragionevole (così, tra le molte, Cass. n. 401/2010).

Tale differente impostazione interpretativa è stata giustificata dalla S.C. in ragione della formulazione in parte qua della legge Pinto, peraltro non modificata neppure dalla recente novellazione realizzata dalla legge n. 134 del 2012. In particolare, invero, si è evidenziato a riguardo che sebbene per la Corte europea, in caso di durata irragionevole del processo, l'indennizzo calcolato in ragione d'anno deve essere moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento e non per ogni anno di ritardo, diversamente, per il giudice nazionale è sul punto vincolante il comma 3 dell'art. 2 l. n. 89 del 2001, secondo cui è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole (Cass. n. 14108/2009).

La stessa Corte di legittimità, tuttavia, non ha trascurato di riconoscere che il diverso parametro di calcolo dell'equa riparazione, introdotto dalla Corte europea, produce l'effetto di aprire alla vittima della violazione la via sussidiaria dell'applicabilità dell'art. 41 della Convenzione da parte della Corte stessa (Cass. n. 14/2008).

La misura dell'indennizzo nelle previsioni introdotte dalla norma in esame

L'art. 55 del decreto-legge 22 giugno 2012 n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012 n. 134 ha introdotto importanti novità anche in tema di determinazione dell'indennizzo spettante al ricorrente per l'irragionevole durata del processo.

È stato infatti introdotto, in primo luogo, all'interno della legge c.d. Pinto il nuovo art. 2-bis, rubricato «misura dell'indennizzo».

Il primo comma di tale disposizione normativa non ha carattere innovativo poiché recepisce la richiamata giurisprudenza consolidata della S.C., almeno a partire dall'anno 2004, stabilendo che il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.

Peraltro, profilo non secondario di differenza della nuova normativa rispetto all'assetto tradizionale è la possibilità riconosciuta di liquidare un indennizzo pari anche all'importo di 500 euro per ciascun anno di ritardo, mentre, alla stregua di quanto già evidenziato, la Corte di Cassazione riteneva che l'importo dell'equa riparazione non potesse in ogni caso scendere al di sotto della soglia della somma di 750 euro per ogni anno eccedente la durata ragionevole del processo.

Vengono inoltre individuati, dallo stesso art. 2-bis, alcuni criteri che il giudice deve seguire nella determinazione concreta dell'entità dell'equa riparazione effettuata in via d'equità ex art. 2056 c.c., ossia l'esito del processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1 dell'articolo 2) il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e la rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

In effetti anche sotto tale profilo la norma non sembra assumere portata innovativa, recependo criteri che erano già utilizzati nella prassi giurisprudenziale per motivare la concreta determinazione dell'indennizzo entro i richiamati standard riferiti a ciascun anno di ritardo.

Maggiori problematiche sul piano interpretativo derivano, invece, dal terzo comma dello stesso art. 2-bis legge c.d. Pinto secondo cui «La misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma primo, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice».

Invero, secondo una parte della dottrina, da tale norma dovrebbe inferirsi la carenza di legittimazione attiva della parte soccombente nel processo presupposto, non essendo stato accertato alcun diritto in favore della stessa, a richiedere l'equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo (Iannello, 13 ss.).

Diversamente, secondo la giurisprudenza di legittimità anteriore a tale modifica della legge n. 89/2001, ad opera della legge n. 134/2012, almeno ai fini della legittimazione attiva alla proposizione della domanda di equa riparazione, non assume alcuna rilevanza la circostanza che la parte ricorrente sia rimasta soccombente nel giudizio c.d. presupposto del quale denuncia l'irragionevole durata. È consolidato, invero, nella giurisprudenza di legittimità il principio per il quale, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo il diritto all'equa riparazione, di cui all'art. 2 l. n. 89 del 2001 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l'ansia e la sofferenza per l'eccessiva durata del processo i riflessi psicologici del perdurare della incertezza in ordine alle posizioni in esso coinvolte, fatta eccezione per i casi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al ricordato art. 2 e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, nei quali casi l'esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve essere provata puntualmente dall'amministrazione, non essendo sufficiente a tale fine la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata (Cass. n. 6685/2012).

Diversi indici normativi potrebbero in realtà consentire di pervenire ad una differente interpretazione, costituzionalmente, i.e. convenzionalmente orientata, consentendo, quindi, di «salvare» la disposizione mediante una pronuncia interpretativa di rigetto (Consolo-Negri, 1431).

Invero, lo stesso art. 2, comma quinquies, legge c.d. Pinto, introdotto dalla medesima legge 7 agosto 2012, n. 134, esclude, tra l'altro, il diritto all'equa riparazione per la parte che sia stata condannata per responsabilità aggravata da lite temeraria ex art. 96 c.p.c. Considerato che presupposto di tale responsabilità è la soccombenza della parte che agisce o resiste in giudizio con mala fede o colpa grave l'espressa esclusione del diritto all'indennizzo in tale fattispecie sarebbe priva di significato laddove la mera soccombenza precludesse l'azione ai sensi della legge n. 89/2001.

Ci sembra, piuttosto, che la norma in considerazione, ossia quella che esclude la liquidazione di un indennizzo superiore al quantum del diritto accertato vada propriamente collocata tra le disposizioni rilevanti ai soli fini della determinazione dell'equa riparazione e non già della sussistenza del relativo diritto, in conformità, del resto, alla rubrica della disposizione «Misura dell'indennizzo» (Consolo- Negri, 1431).

Questa interpretazione è stata oggi avallata dal legislatore che, come rilevato, ha chiarito, facendo così venir meno ogni dubbio sulla legittimazione ad agire della parte soccombente, che la somma può essere diminuita fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce.

La prospettiva nella quale va correttamente intesa tale disposizione è infatti quella di evitare che, all'interno di controversie di limitato valore economico, si finisca per liquidare indennizzi «esorbitanti» rispetto a tale valore, in coerenza, peraltro, con il nuovo sistema di accesso al giudizio della Corte europea dei diritti dell'uomo dopo l'entrata in vigore del Protocollo n. 14 alla Cedu che esclude, invero, tale accesso in mancanza di un danno rilevante.

La S.C. ha evidenziato, a riguardo, che il limite ex art. 2-bis, comma 3, della l. n. 89 del 2001 (nel testo introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2102) va riferito all'indennizzo globale per l'ingiusta durata del processo presupposto e non a quello annuo, come emerge dall'interpretazione letterale e teleologica della norma che, in deroga espressa al comma 1, àncora l'indennizzo al valore della causa, onde evitare sovracompensazioni o arricchimenti occasionali, se non insperati (Cass. n. 25804/2015).

Quanto alla necessità di tener conto del valore economico del processo presupposto, si segnala Cass. n. 11936/2015, la quale ha evidenziato che, in tema di equo indennizzo per durata irragionevole del processo, l'esiguità del valore monetario del giudizio presupposto — inferiore ai cinquecento euro — non esclude la tutela indennitaria di cui alla l. 24 marzo 2001, n. 89, se l'apprezzamento concreto della fattispecie, anche alla stregua della condizione socio-economica dell'istante, faccia emergere un effettivo interesse alla decisione, come nel caso in cui il giudizio presupposto riguardi una prestazione di natura assistenziale.

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