Legge - 24/03/2001 - n. 89 art. 3 - (Procedimento) 1

Rosaria Giordano

(Procedimento) 1

 

1. La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si e' svolto il primo grado del processo presupposto. Si applica l' articolo 125 del codice di procedura civile  2.

2. Il ricorso e' proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare. Negli altri casi e' proposto nei confronti del Ministro dell'economia e delle finanze.

3. Unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti:

a) l'atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata;

b) i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;

c) il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.

4. Il presidente della corte d'appello, o un magistrato della corte a tal fine designato, provvede sulla domanda di equa riparazione con decreto motivato da emettere entro trenta giorni dal deposito del ricorso. Non puo' essere designato il giudice del processo presupposto. Si applicano i primi due commi dell' articolo 640 del codice di procedura civile  3.

5. Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all'amministrazione contro cui e' stata proposta la domanda di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento.

6. Se il ricorso e' in tutto o in parte respinto la domanda non puo' essere riproposta, ma la parte puo' fare opposizione a norma dell'articolo 5-ter.

7. L'erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili nel relativo capitolo, fatto salvo il ricorso al conto sospeso4.

[1] Articolo modificato dall'articolo 1, comma 1224, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 e, successivamente, sostituito dall'articolo 55, comma 1, lettera c), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con la decorrenza di cui al comma 2 del medesimo decreto.

Inquadramento

La l. n. 134/2012, ha rimodellato il procedimento per l'equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata del processo strutturandolo secondo il generale modello del procedimento per ingiunzione, con una prima fase necessaria inaudita altera parte ed un'opposizione eventuale.

Il ricorso deve essere corredato dal deposito dell'intera documentazione relativa al giudizio presupposto e, nel caso di accoglimento dello stesso, il decreto è sempre provvisoriamente esecutivo. Peraltro, nell'ipotesi di rigetto del ricorso, la domanda non potrà essere riproposta.

La medesima sanzione segue alla declaratoria di inefficacia del ricorso e del pedissequo decreto di ingiunzione nell'ipotesi di tardiva notifica all'Amministrazione.

Premessa

Il procedimento per l'equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata del processo è stato rimodellato dalla legge n. 134/2012 che ha strutturato lo stesso, in uno schema che ricalca, almeno in apparenza, quello del giudizio monitorio di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., su due fasi, l'una necessaria inaudita altera parte e l'altra, provocata dall'eventuale opposizione di una delle parti, a cognizione piena, sebbene nelle forme del procedimento in camera di consiglio, volta all'accertamento in contraddittorio in ordine all'esistenza del diritto fatto valere dal ricorrente (v., tra gli altri, ConsoloNegri, 1429 ss.).

La ratio della riforma deve individuarsi nel tentativo di ridurre il carico di lavoro delle Corti d'Appello chiamate a decidere sui ricorsi di equa riparazione, con il non peregrino rischio che esse stesse finiscano per deciderli in tempi irragionevoli dando luogo ad ulteriori procedimenti promossi ai sensi della legge n. 89/2001. La «scommessa» del legislatore è invero quella della proposizione da parte dell'Amministrazione dell'opposizione avverso il decreto emanato nella fase sommaria soltanto in alcuni casi (ConsoloNegri, 1435).

Almeno in parte viene riproposta una struttura del procedimento che era stata già prevista dall'originario disegno di legge S-1440 che aveva dato luogo all'emanazione della l. n. 89/2001, c.d. Pinto che invero prevedeva originariamente per il ricorso di equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo una struttura monitoria ed, in particolare, che la parte interessata potesse proporre un'istanza di equa riparazione, sottoscritta personalmente, secondo moduli a tal fine predisposti da un decreto ministeriale. Sull'istanza era chiamato a pronunciarsi il Presidente della Corte d'Appello o un Magistrato dallo stesso delegato con l'ausilio del personale amministrativo della Corte medesima. Sul decreto pronunciato a seguito della proposizione dell'istanza la parte avrebbe potuto poi proporre opposizione, peraltro con il patrocinio di un difensore tecnico, dando luogo ad un giudizio contenzioso (Consolo 427 ss.).

A differenza del procedimento per ingiunzione di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., che è alternativo rispetto all'ordinaria azione di condanna, il ricorso per l'equa riparazione per i danni derivanti dall'irragionevole durata del processo rimane disciplinato secondo il modello di un procedimento di carattere esclusivo (De Santis Di Nicola 282 ss.), ossia che deve essere necessariamente utilizzato per la ottenere la relativa tutela, senza che possa essere proposta azione anche nelle forme ordinarie.

Contenuto del ricorso e procura alle liti

Il primo comma legge 24 marzo 2001 n. 89 stabilisce che la domanda di equa riparazione si propone con ricorso e che trova applicazione il disposto dell'art. 125 c.p.c.

In dottrina si è osservato che, peraltro, tale disposizione, individuando i requisiti minimi di forma/contenuto dei più importanti atti di parte, tra cui il ricorso, avrebbe potuto trovare applicazione anche in assenza di un espresso rinvio da parte del legislatore (cfr. Martino, 558).

Diversamente da quanto previsto dall'art. 3 della legge c.d. Pinto nella formulazione originaria secondo cui il ricorso doveva essere sottoscritto da difensore munito di procura speciale, nulla è stabilito a riguardo sicché opera il secondo comma dello stesso art. 125 c.p.c. laddove prevede che l'atto può essere sottoscritto dalla parte, se sta in giudizio personalmente, ovvero dal difensore.

In dottrina si è osservato che, peraltro, poiché il procedimento, sin dalla fase monitoria inaudita altera parte, ha ad oggetto diritti soggettivi, le parti hanno l'onere della difesa tecnica (Martino, 558-559), sicché saranno applicabili le norme generali in tema di procura alle liti come l'art. 83 c.p.c. (De Santis Di Nicola, 271).

In presenza di un vizio che comporta la nullità della procura al difensore, dovrebbe trovare applicazione il disposto dell'art. 182, secondo co., c.p.c., come modificato dalla legge n. 69 del 2009, per il quale il giudice può assegnare alle parti un termine perentorio per il rilascio della procura o la rinnovazione della stessa, con sanatoria retroattiva dei vizi e conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda (Martino, 560).

A riguardo, che la S.C. ha precisato che l'art. 182, secondo comma, c.p.c., anche nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla l. n. 69/2009, secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione può assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, deve essere interpretato, anche alla luce della modifica apportata dall'art. 46 comma 2 l. n. 69 del 2009, nel senso che il giudice «deve» promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali (Cass. n. 5484/2013).

Resta tuttavia controverso in sede applicativa se il giudice possa assegnare il termine per la sanatoria dei vizi della procura anche nell'ipotesi in cui la stessa non sia stata rilasciata. In particolare, in accordo con un primo orientamento di carattere più restrittivo, il secondo comma dell'art. 182 c.p.c., nel testo modificato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, deve essere interpretato nel senso che, almeno nell'ipotesi in cui il vizio attenga al rilascio della procura alle liti, la predetta previsione normativa sulla sanatoria retroattiva dello stesso possa trovare applicazione limitatamente all'ipotesi di procura esistente, sebbene invalida e non anche qualora il mandato alle liti manchi del tutto, poiché una più estensiva interpretazione nel senso di ritenere che l'espressione concernente il rilascio di nuova procura possa trovare applicazione anche nel caso di assenza del mandato alle liti comporterebbe, un'implicita abrogazione dell'art. 125, comma secondo, c.p.c., potendosi peraltro il riferimento rinvenibile nell'ultima parte dell'art. 182 c.p.c. anche al «rilascio» della procura intendersi quale correlato al difetto di rappresentanza ex art. 75 c.p.c. che impone il rilascio di nuova procura da parte del legittimato (Trib. Macerata 29 aprile 2011, in Giur. merito, 2011, n. 7-8, 1831; Trib. Tivoli 5 novembre 2010).

Altra tesi ritiene, diversamente, che il novellato art. 182 c.p.c., consente di sanare retroattivamente i vizi della procura alle liti e deve ritenersi applicabile anche alle ipotesi di inesistenza o mancato rilascio della procura alle liti e pertanto deve essere assegnato un termine per il rilascio ed il deposito di idonea procura alle liti (Trib. Varese 22 aprile 2010).

Il ricorso dovrà, sotto il profilo della c.d. editio actionis, individuare compiutamente la domanda proposta nei confronti dell'Amministrazione convenuta, sia in ordine alla causa petendi che al petitum, ed essere corredato delle indicazioni concernenti la vocatio in ius, ovvero, essenzialmente, dell'individuazione della parte convenuta e dell'autorità giudiziaria.

Laddove i richiamati elementi siano carenti troverà applicazione analogica, come avviene anche per il ricorso monitorio ex art. 633 ss. c.p.c., la disciplina prevista dall'art. 164 c.p.c., rimodulata considerato che il procedimento si svolge inaudita altera parte nella prima fase nel senso che il giudice, rilevato d'ufficio il vizio, concederà al ricorrente termine ai sensi dell'art. 640 c.p.c. per l'integrazione del contenuto della stessa (Martino, 562).

Competenza

L'art. 3, comma 1, della l. n. 89/2001, nella formulazione successiva alla legge n. 308/2015, stabilisce che la competenza è attribuita in unico grado di merito, alla Corte d'appello del distretto nel quale è stato deciso il processo presupposto in primo grado, in accordo con criterio di collegamento della competenza per territorio innovativo, introdotto dalla medesima legge n. 208/ 2015.

Viene quindi meno il criterio «tradizionale» dettato dalla stessa norma in esame sin dall'emanazione della legge c.d. Pinto per il quale la domanda di equa riparazione si propone con ricorso al Presidente della Corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata.

A riguardo la S.C. ha chiarito che, ai fini dell'individuazione del giudice competente sulla domanda di equa riparazione, ex art. 3 della l. n. 89 del 2001, come modificato dall'art. 1, comma 777, della l. n. 208 del 2015, deve aversi riguardo al distretto della corte d'appello in cui ha sede il giudice avanti al quale si è svolto il giudizio presupposto e che lo ha definito nel merito, anche, eventualmente, a seguito di riassunzione per intervenuta dichiarazione di incompetenza del giudice originariamente adito, e non, come in precedenza, il giudice dinanzi al quale il giudizio è stato introdotto (Cass. n. 9721/2019).

Su un piano generale, l'art. 3 legge n. 89/2001 individuava un duplice criterio di collegamento della competenza, i.e. sia quella per materia che quella per territorio, attribuendo, invero, la prima alla Corte d'Appello (rectius, al Presidente della stessa, essendo oggi il procedimento incardinato mediante ricorso monitorio) e la competenza per territorio avendo riguardo al disposto dell'art. 11 c.p.p.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che la speciale competenza territoriale prevista dall'art. 3 legge 24 marzo 2001 n. 89 ha carattere inderogabile ai sensi dell'art. 28 c.p.c.

Pertanto, nell'assetto previgente, sia il difetto di competenza per materia che quello per territorio dovevano ritenersi rilevabili d'ufficio entro la prima udienza in camera di consiglio dinanzi alla Corte d'Appello, mentre la parte resistente doveva eccepire a pena di decadenza l'incompetenza del Giudice adito in sede di costituzione tempestiva in giudizio.

La S.C. ha evidenziato, altresì, che in tema di equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo, l'eccezione di incompetenza territoriale dell'adita Corte d'appello — alla quale l'interessato abbia proposto la domanda di indennizzo ai sensi dell'art. 3 l. n. 89/2001 — non può essere proposta per la prima volta con il ricorso per cassazione. Per assumere rilevanza, difatti, la questione di competenza deve manifestarsi, su rilievo d'ufficio o su eccezione di parte, nel corso del procedimento dinanzi alla Corte d'appello, di talché non è ammissibile impugnare per cassazione il decreto conclusivo prospettando una ragione di incompetenza precedentemente non emersa (Cass. n. 14283/2006).

Nell'assetto attuale, essendo il procedimento articolato secondo una prima fase necessaria, di carattere sostanzialmente monitorio, ed una seconda, eventuale, di opposizione dinanzi alla Corte d'Appello in camera di consiglio, ne deriva che l'Amministrazione è tenuta a sollevare, a pena di decadenza, l'eccezione di incompetenza nell'atto di opposizione, mentre la stessa questione sarà rilevabile dal Giudice d'ufficio all'udienza.

Dalla formulazione dell'art. 3 l. 24 marzo 2001 n. 89 era sorto immediatamente il problema interpretativo avente ad oggetto l'individuazione della Corte d'Appello territorialmente competente per l'ipotesi in cui il giudizio presupposto si fosse svolto dinanzi a giudici speciali, atteso che il termine «distretto» è ripartizione tipica della sola giurisdizione ordinaria (Cantone, 767).

Erano invero emerse posizioni differenziate sulla questione nella giurisprudenza di merito.

Più in particolare, secondo un primo orientamento, l'art. 3 l. n. 89/2001, nonostante la constatata inapplicabilità dell'art. 11 c.p.p. ai magistrati amministrativi, e la mancata previsione di altri criteri di individuazione della competenza riferibili a questi ultimi, deve essere interpretato nel senso di aver esteso la regola contenuta nel predetto art. 11 c.p.p. a qualsiasi giudice, anche diverso da quello ordinario, avente sede nel distretto in cui il procedimento denunciato come irragionevolmente protrattosi nel tempo sia stato concluso o sia ancora pendente (App. Aquila 5 febbraio 2002, in Giur. Merito, 2002, 1259, con nota di Didone).

Per converso, un'altra parte della giurisprudenza di merito aveva ritenuto inapplicabile il criterio di collegamento posto dall'art 3 legge c.d. Pinto anche nelle ipotesi in cui il giudizio presupposto si fosse svolto dinanzi ai giudici speciali, affermando, ad esempio, che la competenza territoriale per la trattazione dei ricorsi riferentesi a ritardi od omissioni verificatisi nel corso di giudizi amministrativi, non potendosi applicare il disposto dell'art. 11 c.p.p., deve essere individuata con riferimento all'art. 25 c.p.c., c.d. «foro erariale», radicandola in capo al giudice del luogo nel quale ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie, ovvero, essendo convenuta l'amministrazione con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione (App. Caltanissetta 21 dicembre 2001, in Corr. Giur., 2002, 1055, con nota di Didone).

La questione interpretativa in esame era stata risolta inizialmente dalla Corte di Cassazione proprio avendo riguardo a quest'ultima tesi. Invero, secondo la S.C., in tema di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, la competenza territoriale per la trattazione dei ricorsi riguardanti ritardi verificatisi nel corso di giudizi svoltisi dinanzi a giudici diversi da quello ordinario deve essere individuata secondo i principi generali con riferimento all'art. 25 c.p.c., il quale, nel disciplinare il foro della Pubblica Amministrazione, prevede, quando essa è convenuta, la competenza del giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione od in cui si trova la cosa mobile od immobile oggetto della domanda, in applicazione quindi dei criteri previsti dagli art. 20 e 21 c.p.c., sia pure con l'ulteriore specifico riferimento al luogo dove ha sede l'ufficio dell'avvocatura dello Stato. Consegue a tale impostazione, ad esempio, che qualora il procedimento della cui non ragionevole durata si discute penda avanti al Consiglio di Stato, la competenza territoriale spetta alla Corte d'appello di Roma, poiché in Roma si è realizzata la fattispecie considerata dalla legge n. 89 del 2001 ai fini della richiesta d'indennizzo, quivi essendo sorta l'obbligazione, così come in Roma deve ritenersi eseguibile l'obbligazione medesima ai sensi dell'art. 1182, ultimo comma, c.c., atteso che, riguardando una somma di denaro non determinata, essa è esigibile al domicilio del debitore (Cass. n. 1653/2003).

Tale posizione aveva ricevuto l'avallo della corte Costituzionale la quale aveva, dichiarato manifestamente fondata, in riferimento agli art. 97 e 108 cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della c.d. « legge Pinto », nella parte in cui non dispone che, per i giudizi di equa riparazione, la competenza territoriale funzionale della corte di appello, così come regolata dall'art. 11 c.p.p., si estenda anche ai procedimenti, di cui si lamenta l'irragionevole durata, svolti davanti alla Corte dei conti e alle altre giurisdizioni di cui all'art. 103 cost., atteso che il principio di buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione riguarda gli organi di amministrazione della giustizia unicamente per profili concernenti l'ordinamento degli uffici giudiziari sotto l'aspetto amministrativo, senza potersi estendere alla giurisdizione ed ai provvedimenti che ne costituiscono espressione, nonché considerato che è estremamente remota la connessione tra le evenienze in cui, da un lato, il giudice ordinario conosce di ritardi della Corte dei conti e, dall'altro, la Corte dei conti della stessa sede conosce della responsabilità amministrativa di quei magistrati ordinari o dei loro colleghi o collaboratori, poiché in entrambi i casi, l'avvio del procedimento di responsabilità per il danno erariale non è effetto automatico della condanna dello Stato nel giudizio di equa riparazione (Corte cost. 17 luglio 2007 n. 287, in Resp. civ. prev., 2007, 2538, con nota di Mirate).

Era stata peraltro la stessa Corte di Cassazione a rimeditare, in seguito, l'orientamento già affermato in ordine all'operatività del criterio di collegamento della competenza territoriale stabilito dall'art. 3 legge 24 marzo 2001 n. 89 anche per i giudici speciali.

In particolare, infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass.S.U., n. 6306/2010 e Cass.S.U., n. 6307/2010, in Corr. Giur., 2010, 881, con nota di Salvato) hanno affermato il principio per il quale in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, ai fini dell'individuazione del giudice territorialmente competente in ordine alla relativa domanda, il criterio di collegamento stabilito dall'art. 11 c.p.p., richiamato dall'art. 3, comma primo, l. n. 89/2001, deve essere applicato con riferimento al luogo nel quale ha sede il giudice di merito, ordinario o speciale, dinanzi al quale ha avuto inizio il giudizio presupposto. Per pervenire a tale soluzione, senz'altro più opportuna anche sotto il profilo pratico, le Sezioni Unite hanno precisato che il termine «distretto» appartiene alla descrizione del criterio di collegamento e vale a delimitare un ambito territoriale in modo identico, quale che sia l'ufficio giudiziario dinanzi al quale il giudizio presupposto è iniziato e l'ordine giudiziario cui appartiene, in quanto ciò che viene in rilievo non è l'ambito territoriale di competenza dell'ufficio giudiziario, ma la sua sede (Cass. n. 24171/2010).

Nella concreta applicazione di tale criterio si è ritenuto, ad esempio, che la competenza sulla domanda diretta ad ottenere l'equa riparazione per l'irragionevole durata di un giudizio davanti ad una sede distaccata del Tar appartiene alla Corte d'appello, individuata ai sensi dell'art. 11 c.p.p., richiamato dall'art. 3 l. 24 marzo 2001 n. 89, ove tale sede coincida con la sede di un distretto di Corte d'appello, a prescindere dai rapporti interni tra giudici speciali, in quanto ciò che viene in rilievo non è l'ambito territoriale di competenza dell'ufficio giudiziario, ma la sua sede (Cass. n. 6887/2012).

La Corte di Cassazione ha chiarito che il predetto principio trova applicazione anche nei giudizi di equa riparazione iniziati prima di tale arresto nomofilattico correttivo, poiché esso non comporta un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (Cass. n. 9993/2012). In sostanza, non può operare nel caso di specie il principio del c.d. overruling in materia processuale, pure affermato dalla giurisprudenza recente in diverse occasioni, in quanto, in forza della generale regola della translatio iudicii la parte non può incorrere in alcuna decadenza in ragione della proposizione della domanda dinanzi al Giudice che si dichiari incompetente atteso che la tempestiva riassunzione del procedimento dinanzi al Giudice competente comporta la salvezza degli effetti processuali e sostanziali correlati alla proposizione originaria della domanda stessa (Cass. n. 6996/1986).

Sotto altro profilo, occorre rilevare che la medesima Corte Costituzionale ha evidenziato che costituisce regola di diritto vivente, data dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, il criterio di competenza territoriale della Corte d'appello, stabilito nell'art. 3 comma 1 l. n. 89/2001 per i giudizi relativi all'equa riparazione dei danni recati dalla durata non ragionevole del processo, vale anche per i processi amministrativi. Il principio del giudice naturale enunciato dall'art. 25 Cost. deve ritenersi osservato quando l'organo giudicante sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati in anticipo e la regola per la determinazione della competenza sia stabilita in via generale e preventiva, con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute. La scelta adottata dalla disposizione in questione non è manifestamente irragionevole (ed è quindi conforme anche al principio di eguaglianza enunciato nell'art. 3 cost.) dal momento che essa consente la concentrazione davanti ad uno stesso giudice dei giudizi concernenti tutti i processi celebrati in una stessa sede (Corte cost. n. 117/2012).

In una recente decisione, la S.C. ha affermato che la competenza territoriale a decidere sulla domanda di equa riparazione spetta al giudice individuato sulla base degli artt. 11 c.p.p. e 3, comma 1, della l. n. 89 del 2001, e tale criterio trova applicazione anche laddove la parte ricorrente sia un magistrato esercente la funzione nel medesimo distretto di corte di appello cui appartiene il giudice in tal guisa individuato, non determinandosi, in virtù di detta circostanza, alcuno spostamento di competenza, atteso che l'art. 30-bis c.p.c. va inteso in senso restrittivo (Corte cost. n. 147/2004) e che non si versa al cospetto di un'azione civile concernente le restituzioni e il risarcimento del danno da reato di cui sia stato parte un magistrato (Cass. n. 22708/2016).

Rilievo d'ufficio dell'incompetenza nella fase monitoria

Distinta ma correlata questione è quella afferente la possibilità per il Giudice adito nella fase monitoria con il ricorso di equa riparazione di rilevare d'ufficio la propria incompetenza.

La risposta al quesito posto deve essere senz'altro affermativa, trattandosi di competenza territoriale inderogabile.

È infatti consolidato in dottrina come in giurisprudenza l'orientamento per il quale l'unilateralità della fase monitoria impone che il giudice adìto, anteriormente alla pronuncia sulla domanda d'ingiunzione, verifichi la sussistenza dei c.d. presupposti processuali (Andrioli IV, 36), ossia giurisdizione, competenza, legittimazione ad agire, rappresentanza tecnica, provvedendo al rigetto della domanda ove riscontri la mancanza anche di uno solo di essi. Invero, poiché che i poteri spettanti al giudice nel procedimento d'ingiunzione non si differenziano, in mancanza di norme speciali, da quelli attribuiti allo stesso in sede di cognizione ordinaria, si ritiene che il giudice adito con ricorso monitorio possa rilevare d'ufficio la propria incompetenza, rigettando quindi il ricorso con decreto motivato (art. 640, comma 1, c.p.c.), e ciò sicuramente qualora si tratti di incompetenza per materia, valore e territoriale inderogabile, come nella fattispecie in esame.

In sede di merito si è osservato che è rilevabile d'ufficio l'incompetenza territoriale del giudice del lavoro, adìto in sede monitoria, trattandosi di competenza inderogabile, atteso che nel procedimento monitorio il giudice è tenuto d'ufficio alla verifica dei presupposti processuali generali (giurisdizione, competenza, legittimazione ad agire, rappresentanza tecnica) e dei presupposti processuali specifici (natura del credito, prova documentale del diritto) provvedendo al rigetto della domanda, ex art. 640, comma 2, c.p.c., in caso di mancato riscontro anche di uno solo di essi (Trib. Campobasso, 31 ottobre 2001, in Giust. civ., 2002, I, 2947, con nota di Tota).

Non è peraltro superfluo ricordare in questa sede che se era dominante, invece, per l'incompetenza territoriale derogabile la diversa tesi secondo cui il giudice adito con ricorso ex art. 633 c.p.c. non poteva anche rilevare l'incompetenza per territorio derogabile, riservata ad un'eccezione tempestiva della parte convenuta (Sciacchitano 1971, 510 ss.; ValituttiDe Stefano 86 ss.), la stessa è stata smentita da un'importante pronuncia interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale.

In particolare, infatti, la Consulta ha ritenuto non fondata, in riferimento agli art. 24 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 637 c.p.c., nella parte in cui escluderebbe la rilevabilità d'ufficio dell'incompetenza per territorio oltre i casi dell'art. 28 c.p.c., evidenziando che la lettera dell'art. 637 c.p.c., specie se letta in relazione all'art. 640 c.p.c. che consente la riproposizione, anche davanti al medesimo ufficio giudiziario, della domanda di ingiunzione rigettata, infatti, impone di ritenere, in conformità ai principi costituzionali, che — nello stesso modo in cui, da un lato, il giudice italiano può rilevare il proprio difetto di giurisdizione in caso di contumacia del convenuto straniero e, dall'altro lato, il giudice cautelare adito ante causam senza la preventiva instaurazione del contraddittorio può rilevare d'ufficio la propria incompetenza — il giudice adito col ricorso per l'emissione di decreto ingiuntivo possa rilevare d'ufficio anche l'incompetenza territoriale semplice, nei casi diversi dall'art. 28 c.p.c. (Corte cost. n. 410/2005).

Documentazione da allegare al ricorso

Il comma 3 dell'art. 3 della legge c.d. Pinto stabilisce che al ricorso deve essere allegata copia autentica di alcuni atti del processo presupposto, ossia: a) l'atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata; b) i verbali di causa e i provvedimenti del giudice; c) il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.

Tale disposizione costituisce, in un certo senso, un «ritorno al passato» in quanto il testo originario del disegno di legge che ha dato luogo all'emanazione della l. n. 89/2001, c.d. Pinto, prevedeva che unitamente al ricorso per equa riparazione venisse depositata, a pena di improcedibilità della domanda proposta, copia – tuttavia non autentica — degli atti del processo presupposto, nell'intento di mettere subito a disposizione della Corte d'Appello il materiale istruttorio necessario ai fini della decisione (Ronco 2002, 295).

Nella configurazione del procedimento secondo lo schema proprio di quello monitorio nella prima fase tali atti costituiscono il pendant dei documenti che devono essere depositati dal ricorrente nel procedimento di ingiunzione «spurio» o «documentale» per supportare la propria domanda: come può evincersi dalla Relazione illustrativa la produzione di tali documenti da parte del ricorrente dovrebbe soddisfare il requisito della prova scritta richiesto ai fini della concessione del provvedimento monitorio inaudita altera parte (Martino, 563; in senso analogo Ghirga, 1032).

Peraltro, l'onere posto a carico del ricorrente in sede di equa riparazione appare rilevante, anche sotto il profilo economico, con finalità evidentemente dissuasive della proposizione dell'azione, essendo richiesta la copia autentica di una mole ponderosa di atti (Consolo-Negri, 1438) inerente, in sostanza, a tutti gli atti processuali del giudizio presupposto. In buona sostanza, la documentazione prodotta attiene alla dimostrazione del complesso dei fatti costitutivi posti a fondamento del ricorso.

Nell'assetto previgente, invece, l'onere di allegazione e prova del ricorrente in ordine alla sussistenza dello spiegato diritto all'equa riparazione era significativamente attenuato dal dovere del giudice di disporre d'ufficio l'acquisizione del fascicolo del procedimento presupposto ove richiesto dal ricorrente.

Invero, in tema di istruttoria nell'ambito del procedimento camerale di equa riparazione per i danni derivanti dall'irragionevole durata del processo, l'art. 738 c.p.c. era integrato, nel modulo processuale antecedente alla riforma realizzata dalla legge n. 134 del 2012, dal disposto dell'art. 3, quinto comma, legge 24 marzo 2001 n. 89 secondo cui l'autorità giudiziaria poteva sempre acquisire d'ufficio atti e documenti.

Nella giurisprudenza della S.C. era stato chiarito, a riguardo, che in tema di equa riparazione il potere officioso di acquisizione di atti e documenti ex art. 3, comma 5, l. n. 89/2001, non consente, in presenza di una espressa richiesta della parte in ordine a tale acquisizione, di considerarla onerata, della produzione di atti e documenti del processo presupposto sia per la prova della tempestività della domanda formulata (cfr. Cass. n. 4103/2013, secondo cui tra tali atti vanno compresi sia l'avviso di avvenuta notificazione della sentenza da parte dell'ufficiale giudiziario ex art. 112 d.P.R. 15 dicembre 1959 n. 1229, sia l'avviso dell'avvenuta notificazione dell'impugnazione ex art. 123 disp. att. c.p.c., da annotarsi sull'originale della sentenza), sia per la dimostrazione dei fatti costitutivi della spiegata pretesa, i.e. degli elementi concreti dai quali è desumibile l'irragionevole durata di tale processo.

Peraltro, la stessa Corte di legittimità aveva precisato, al contempo, anche in riferimento al procedimento camerale in tema di equa riparazione dei danni determinati dall'irragionevole durata del processo, che il potere riconosciuto al giudice dall'art. 738, comma terzo, c.p.c. di assumere informazioni costituisce oggetto di una mera facoltà e non di un obbligo, sicché il suo mancato esercizio non determina l'inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento camerale e risulta incensurabile in cassazione (Cass. n. 24965/2011).

Nella giurisprudenza di legittimità le conseguenze pratiche derivanti dalla natura discrezionale dei poteri istruttori officiosi del Giudice nei procedimenti camerali con riguardo alla legge Pinto erano state temperate, con riferimento al modello processuale anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 134 del 2012, mediante la precisazione secondo cui qualora la parte si sia avvalsa della facoltà — prevista dall'art. 3, comma 5, l. 24 marzo 2001 n. 89 — di richiedere alla corte d'appello di disporre l'acquisizione degli atti del processo presupposto, il giudice non può addebitare alla mancata produzione documentale, da parte dell'istante, di quegli atti la causa del mancato accertamento della addotta violazione della ragionevole durata del processo, in quanto la parte ha un onere di allegazione e di dimostrazione, che però riguarda la sua posizione nel processo, la data iniziale di questo, la data della sua definizione e gli eventuali gradi in cui si è articolato, mentre, in coerenza con il modello procedimentale, di cui agli art. 737 e ss. c.p.c., prescelto dal legislatore, spetta al giudice — sulla base dei dati suddetti, di quelli eventualmente addotti dalla parte resistente e di quelli acquisiti dagli atti del processo presupposto — verificare, in concreto e con riguardo alla singola fattispecie, se vi sia stata violazione del termine ragionevole di durata, tenuto anche conto che nel modello processuale della legge n. 89 del 2001 sussiste un potere d'iniziativa del giudice, che gli impedisce di rigettare la domanda per eventuali carenze probatorie superabili con l'esercizio di tale potere (v., tra gli altri, Cass. n. 16367/2011; Cass. n. 21093/2005).

In sostanza, quindi, ferma la natura discrezionale del potere ex art. 738, comma 3, c.p.c., nel procedimento disciplinato dal previgente art. 3 l. n. 89/2001, la Corte d'appello, a fronte di una formale richiesta di acquisizione del fascicolo del processo presupposto, formulata ai sensi del comma 5 del citato art. 3, non poteva respingere, in accordo con la giurisprudenza di legittimità, la domanda sulla base di carenze probatorie documentali superabili con l'esercizio di tale potere di acquisizione, senza giustificare con congrua motivazione il mancato accoglimento dell'istanza (Cass. n. 9381/2011).

Tali orientamenti inducevano a ritenere che, in sostanza, il ricorrente aveva un onere di allegazione e dimostrazione limitato alla sua posizione nel processo ed alla data iniziale e finale di esso, spettando invece, in coerenza con i poteri istruttori officiosi del giudice nei procedimenti in camera di consiglio, alla Corte acquisire gli elementi necessari per la verifica della violazione del termine di durata ragionevole del processo (De Santis Di Nicola, 272).

Sotto altro profilo, si è osservato che il silenzio del legislatore circa l'onere per il ricorrente di produrre anche documentazione volta a dimostrare il danno sofferto in ragione dell'irragionevole durata del processo presupposto, dovrebbe indurre a ritenere che sia stato così avallato l'orientamento giurisprudenziale che, almeno in relazione al danno non patrimoniale, ritiene che lo stesso sia normale conseguenza della violazione del termine di durata ragionevole del processo, onerando in sostanza la controparte della prova contraria in ordine alla ricorrenza di circostanze concrete idonee ad escludere la sussistenza del pregiudizio in questione (v., tra le molte, Cass. n. 25730/2011), mentre la mancata previsione dell'onere di depositare documentazione anche relativa al danno patrimoniale eventualmente subito dal ricorrente, danno che pure deve essere dimostrato ex art. 2697 c.c. dal danneggiato (Cass. n. 2246/2007), dipenderebbe dalla possibilità di provare lo stesso, di regola, mediante prove diverse da quella documentale (Martino, 564).

Tale impostazione interpretativa, pur autorevolmente sostenuta, a nostro modesto parere non può essere totalmente condivisa provando troppo in ordine alla valenza del silenzio normativo sulla documentazione da depositare in sede monitoria per la dimostrazione del pregiudizio subito dal ricorrente. Per vero, occorre osservare a tal riguardo che, in realtà, ai fini della prova del danno patrimoniale sono di regola determinanti proprio prove di carattere documentale come quelle relative, ad esempio, alla perdita della possibilità di locare un immobile per il proprietario nel periodo del giudizio di risoluzione del contratto di locazione stipulato con un conduttore moroso. Riteniamo, pertanto, che la pur ponderosa documentazione che secondo quanto previsto dalla norma in esame deve essere allegata al ricorso monitorio è quella «minima» necessaria, ferma restando la possibilità per il ricorrente di produrre ulteriore documentazione a sostegno delle spiegate richieste e, questo, crediamo, anche in relazione al danno non patrimoniale dedotto, magari al fine di prevenire la pur diabolica probatio a carico dell'Amministrazione circa l'insussistenza dello stesso. Seguendo quest'ultima impostazione interpretativa viene anche risolta l'ulteriore problematica afferente la possibilità per il giudice di liquidare il danno nella prima fase del procedimento anche in mancanza di prova scritta dello stesso (cfr. Martino, 566) e ciò specie in relazione al danno patrimoniale della cui dimostrazione il ricorrente è puntualmente onerato ex art. 2697 c.c., dovendosi a tal fine ritenere il danneggiato implicitamente onerato dell'allegazione della documentazione necessaria ai fini della dimostrazione di siffatto danno in coerenza con la ricostruzione del procedimento in esame in termini di procedimento monitorio documentale.

Tuttavia almeno nella prima fase inaudita altera parte l'omessa produzione di una parte dei documenti indicati dal terzo comma dell'art. 3 legge n. 89 del 2001 non comporta de plano il rigetto della domanda per mancata dimostrazione dei fatti costitutivi posti a sostegno della stessa in quanto trovano applicazione i primi due commi dell'art. 640 c.p.c. (Ghirga, 1032).

Ne deriva che il giudice può richiedere, ove ritenga insufficientemente giustificata la domanda, al ricorrente un'integrazione della documentazione già depositata (dovrebbe invece escludersi la possibilità per il giudice di richiedere ulteriore documentazione laddove nessun documento sia stato allegato al ricorso proposto: Martino, 567), potendo rigettare quindi la stessa soltanto qualora la parte istante non vi provveda o la domanda risulti, nonostante i nuovi documenti prodotti, comunque inaccoglibile. L'integrazione potrà essere disposta senza che ricorrano particolari presupposti, in quanto non ci sembra condivisibile, alla luce del richiamo ai primi due commi dell'art. 640 c.p.c., la più rigorosa impostazione interpretativa secondo cui l'integrazione documentale in questione potrebbe essere utilizzata soltanto per rimediare ad ipotesi nelle quali l'omesso deposito di tutta la documentazione indicata dalla norma dipenda da circostanze non imputabili al ricorrente (e tali da giustificare, anche, una rimessione nei termini ex art. 153, comma 2, c.p.c.), ossia laddove lo stesso dimostri di essere nell'impossibilità pratica di fornire copia autentica di tutti gli atti del processo presupposto perché il fascicolo dello stesso è in transito dalla cancelleria di un ufficio giudiziario all'altro, risulta smarrito o nell'attesa che la cancelleria rilasci le copie richieste (De Santis Di Nicola, 275).

In ogni caso, non sembra possa rilevare meramente la circostanza che il ricorrente non abbia prodotto tutti i documenti indicati dal quarto comma dell'art. 3 legge c.d. Pinto ma, essendo la cognizione del giudice volta a verificare la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda di equa riparazione, esclusivamente quelli che sono necessari per la relativa decisione (De Santis Di Nicola 292-293).

In giurisprudenza, si è ritenuto, tra l'altro, che l'art. 3, comma 3, l. n. 89/2001, pone a carico del ricorrente l'onere di dimostrare l'irrevocabilità del provvedimento che ha definito il giudizio presupposto ed ove tale dimostrazione non avvenga con il deposito del ricorso, il presidente della corte d'appello o il giudice a tal fine designato, in assenza di una espressa sanzione di inammissibilità, deve invitare la parte, ai sensi dell'art. 640, primo comma, c.p.c., richiamato dall'art. 3, comma 4, della legge n. 89 del 2001, a produrre documentazione idonea ad assolvere tale onere probatorio, con la conseguenza che, se la parte interessata non adempia nel termine all'uopo fissato dal giudice, la domanda va rigettata ai sensi dell'art. 640, secondo comma, c.p.c. (Cass. n. 18539/2014).

Decreto di accoglimento della domanda

Sulla domanda di equa riparazione provvede con decreto motivato il giudice singolo, ovvero lo stesso Presidente della Corte d'Appello o un magistrato designato dal medesimo, entro il termine, ordinatorio, di trenta giorni dal deposito del ricorso.

Ai fini della decisione, il giudice designato nella fase monitoria del procedimento dovrà, in primo luogo, determinare il lasso di tempo eccedente il termine ragionevole di durata avendo riguardo, tra l'altro, ai parametri della complessità del caso, del comportamento delle parti e degli altri soggetti chiamati a concorrere alla definizione del procedimento presupposto e, quindi, liquidare, sulla scorta del ritardo accertato, l'equa riparazione, tenuto altresì conto della natura degli interessi coinvolti e del valore e della rilevanza della causa.

Si è osservato che, pertanto, tale complessa attività di accertamento e liquidazione è differente da quella svolta dal giudice adito con ricorso per ingiunzione ex art. 633 c.p.c., ricorso la cui proposizione postula la sussistenza in capo al ricorrente di un diritto di credito liquido (De Santis Di Nicola, 287).

Il decreto, pertanto, a differenza di quanto avviene nella disciplina ordinaria del procedimento monitorio per ingiunzione, viene sempre emanato già provvisoriamente esecutivo, i.e. costituisce titolo per fondare l'esecuzione forzata. Né, peraltro, chiarisce l'art. 5-ter l. n. 89/2001 di per sé l'eventuale proposizione dell'esecuzione sospende l'efficacia esecutiva del decreto che, invece, deve correlarsi ad un provvedimento del giudice assunto laddove sussistano gravi motivi in tal senso nella medesima fase dell'opposizione.

La scelta normativa di rendere immediatamente muniti della provvisoria esecuzione i decreti pronunciati nella prima fase del procedimento di equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo può giustificarsi, peraltro, in ragione della natura essenzialmente documentale delle controversie di equa riparazione e della circostanza che, invero, i fatti costitutivi del diritto sono integrati proprio dalla documentazione relativa al giudizio presupposto che, come si è evidenziato, il ricorrente è tenuto a depositare per intero nella fase monitoria del procedimento. Può dirsi che, in effetti, mediante il deposito di tale documentazione il ricorrente viene già ad assolvere compiutamente – a differenza di quanto avviene nel procedimento per ingiunzione exartt. 633 e ss. c.p.c. nell'ambito del quale il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto anche producendo una semplice fattura – il proprio onere probatorio, restando a quel punto a carico dell'Amministrazione destinataria del decreto allegare e dimostrare, nella fase di opposizione, la sussistenza di circostanze integranti fatti modificativi, impeditivi o estintivi del diritto del ricorrente ed, in particolare, provare che la durata del processo presupposto può invece ritenersi ragionevole avuto riguardo a criteri quali la complessità del caso, il comportamento delle parti e delle autorità intervenute.

Pressocché superflua appare la precisazione contenuta nell'ultimo periodo del quinto comma dell'art. 3 legge c.d. Pinto secondo cui nel decreto il giudice liquida le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento, trattandosi di provvedimento potenzialmente definitivo per il quale trova applicazione il disposto dell'art. 91 c.p.c. in ordine al potere/dovere del giudice di statuire sule spese.

Di recente la Corte di cassazione ha chiarito che la liquidazione delle spese della fase destinata a svolgersi dinanzi al consigliere designato deve avvenire sulla base della tabella n. 8, rubricata "procedimenti monitori", allegata al d.m. n. 55 del 2014, per quanto si sia al cospetto di un procedimento monitorio destinato a celebrarsi dinanzi alla corte d'appello, con caratteri di "atipicità" rispetto a quello di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., rilevando, ai fini del'applicazione di tale tabella, oltre che l'identica veste formale - decreto - del provvedimento conclusivo della prima fase di entrambi i procedimenti, anche l'iniziale assenza di contraddittorio e la differita operatività della regola cardine "audiatur et altera pars", che appieno accomunano il primo sviluppo del procedimento "ex lege"Pinto e l'ordinario procedimento d'ingiunzione (Cass. II, n. 16512/2020).

Pertanto, per la fase monitoria dei giudizi di equa riparazione per eccessiva durata del processo le spese di rappresentanza e difesa vanno liquidate secondo i parametri stabiliti non per i procedimenti contenziosi davanti alla corte d'appello, ma per quelli monitori (Cass. n. 715 del 2021).

L'ultimo comma dello stesso art. 3 legge c.d. Pinto prevede che l'erogazione degli indennizzi avviene nei limiti delle risorse disponibili.

Nondimeno tale norma deve ritenersi, secondo la giurisprudenza che si è pronunciata sulla questione, riferita non al momento della concessione del provvedimento di ingiunzione quanto alla fase di esecuzione. Inoltre, il principio di effettività della tutela giurisdizionale, comporta che della stessa disposizione debba essere data un'interpretazione restrittiva in quanto la mancanza di risorse finanziarie non può costituire un pretesto per non onorare un debito riconosciuto giudizialmente, ad esempio con decreto di condanna ex art. 3, l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. Legge Pinto), di talché deve essere interpretato restrittivamente, e in definitiva disapplicato, l'art. 3 comma 7, l. n. 89/2001, che pone il vincolo delle risorse disponibili, essendo l'amministrazione obbligata a operare le necessarie variazioni di bilancio per reperire fondi sufficienti al pagamento degli indennizzi, essendo ammissibile solo un periodo di tolleranza tra la data in cui il provvedimento del giudice diventa esecutivo e quella del pagamento, ma non superiore a sei mesi (Cons. St. IV, 28 ottobre 2013, n. 5182).

Nel senso che contro il decreto emesso dal magistrato delegato della Corte d'appello, ai sensi dell'art. 3, comma 4, l. n. 89 del 2001, la domanda di revocazione deve essere proposta davanti alla Corte d'appello e contro la sentenza sulla revocazione, resa dalla Corte d'appello, deve essere spiegato ricorso per cassazione v. Cass. n. 11057/2024.

Regime del provvedimento di rigetto

Il sesto comma dell'art. 3, prevede che se il ricorso è in tutto o in parte respinto la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare opposizione a norma dell'articolo 5-ter.

Tale regime differisce evidentemente da quello previsto per il decreto di rigetto del ricorso per ingiunzione prevedendo, a riguardo, l'art. 640, comma 3, c.p.c. che il rigetto della domanda monitoria non ne pregiudica la riproposizione, anche in via ordinaria (in arg., per tutti, Satta IV, 59; Garbagnati 102).

A riguardo, non appare superfluo ricordare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata solo in relazione al diritto consacrato e non con riguardo alle domande, o ai capi di domanda, non accolti poiché la regola contenuta nell'art. 640 ult. comma c.p.c. secondo cui il rigetto della domanda di ingiunzione non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in sede ordinaria trova applicazione sia in caso di rigetto totale della domanda di ingiunzione che di rigetto parziale e, quindi, di accoglimento solo in parte della richiesta (Cass. S.U., n. 4510/2006, in Giust. civ., 2006, I, 1157, con nota di Giacalone e Caccaviello, ed in Giur. it., 2006, 2105, con nota di Maffuccini).

Pertanto, nell'ambito del procedimento di ingiunzione ordinario di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., il decreto ingiuntivo non opposto acquista, al pari di una sentenza di condanna, autorità di cosa giudicata sostanziale soltanto in relazione al credito, ancorché non corrispondente a quello vantato dall'istante, di cui si è ingiunto il pagamento (Cass. n. 3188/1987).

La circostanza che il provvedimento di rigetto, in tutto o in parte, della domanda di equa riparazione determini invece una preclusione pro iudicato rispetto alla riproposizione della domanda stessa comporta, peraltro, la possibilità di proporre opposizione anche ad opera dello stesso ricorrente che dovrà a quel punto dimostrare nell'ambito del giudizio a cognizione piena, pur strutturato nelle forme camerali, i fatti costitutivi del proprio diritto.

Non può trascurarsi che anche con riguardo al procedimento monitorio di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c. è stato affermato che in caso di accoglimento parziale della domanda in sede monitoria è ammissibile, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la riproposizione da parte dell'opposto non soltanto di tutta l'originaria domanda, ma anche della parte non accolta, poiché essa non si configura come riconvenzionale in senso proprio (Trib. Reggio Calabria 30 giugno 2010, in Giur. mer., 2010, n. 10, 2446 ed in Foro it., 2011, n. 1, 250).

In sostanza, in tale procedimento se la possibilità a fronte del rigetto, anche parziale, della domanda monitoria, di riproporre la domanda comporta che il ricorrente non possa proporre opposizione avverso il provvedimento di rigetto del ricorso ex art. 633 c.p.c., nondimeno se l'opposizione è proposta dall'altra parte, l'opposto potrà riproporre in tale sede la domanda non accolta, che non potrà, secondo l'impostazione ora riferita, essere considerata riconvenzionale. È invero consolidato in giurisprudenza l'assunto secondo cui nell'ordinario giudizio di cognizione introdotto dall'opposizione a decreto ingiuntivo, solo l'opponente, nella sua posizione sostanziale di convenuto, può proporre domande riconvenzionali, e non anche l'opposto, che incorrerebbe nel divieto di proporre domande nuove, salvo il caso in cui, per effetto di una riconvenzionale proposta dall'opponente, la parte opposta venga a trovarsi nella posizione processuale di convenuto. Si è inoltre evidenziato che l'inosservanza del divieto, correlata all'obbligo del giudice di non esaminare nel merito tale domanda, è rilevabile anche d'ufficio in sede di legittimità, poiché costituisce una preclusione all'esercizio della giurisdizione, che può essere verificata nel giudizio di cassazione anche d'ufficio, ove sulla questione non si sia formato, pur implicitamente, il giudicato interno (Cass. n. 13086/2007; Cass. n. 21245/2006; Cass. n. 11368/2006).

Peraltro, si è al contempo precisato in sede pretoria che qualora l'opponente, convenuto in senso sostanziale, proponga domanda riconvenzionale l'opposto che rispetto a tale domanda riconvenzionale assume la posizione sostanziale di convenuto, può a sua volta proporre domanda riconvenzionale (Trib. Nola II, 24 maggio 2007, in Corr. merito, 2007, 1124; Trib. Bari II, 3 aprile 2007, n. 882; Trib. MantovaVI, 14 marzo 2006, in Giur. merito, 2006, 2410).

Tornando a considerare più specificamente il procedimento monitorio sui generis in tema di equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo mediante l'opposizione il ricorrente originariamente soccombente in quanto dalla mera documentazione depositata a sostegno del ricorso emerga prima facie che la durata del processo non può ritenersi irragionevole potrà dedurre in sede di opposizione che, invece, il ritardo nella definizione del giudizio è ad esempio ascrivibile ad un comportamento dilatorio della stessa parte ricorrente la quale potrà quindi dimostrare nella fase di opposizione che, invece, ha avuto una condotta processuale correlata all'esercizio di una legittima facoltà necessaria per l'esplicazione del contraddittorio.

Pertanto, il rimedio previsto, come necessario in ragione dell'idoneità al giudicato dello stesso, avverso il provvedimento di diniego, anche parziale, del ricorso per l'equa riparazione dei danni determinati dall'irragionevole durata del processo è esclusivamente la proposizione dell'opposizione.

Proprio l'idoneità al giudicato del provvedimento di diniego, anche soltanto parziale, della domanda proposta nella fase sommaria del procedimento di equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo comporta che, in termini ancora una volta differenti da quanto avviene nel procedimento per ingiunzione di pagamento disciplinato dagli artt. 633 e ss. c.p.c., sia legittimato alla proposizione dell'opposizione anche il creditore ricorrente e non soltanto l'Amministrazione destinataria dell'ingiunzione (De Santis Di Nicola, 288).

Bibliografia

Azzalini, L'eccessiva durata del processo e il risarcimento del danno: la legge Pinto tra stalli applicativi e interventi riformatori, in Resp. civ. prev. 2012, 1702; Cantone, La competenza territoriale nei giudizi di equa riparazione per irragionevole durata dei processi, in Giust. civ. 2011, n. 3, 765; Consolo-Negri, Ipoteche di costituzionalità sulle ultime modifiche alla legge Pinto: varie aporie dell'indennizzo municipale per durata irragionevole del processo (all'epoca della – supposta – spending review), in Corr. giur. 2013, n. 11, 1429 ss.; DE Santis DI Nicola, Durata irragionevole e rimedio effettivo. La riforma della legge Pinto, Napoli, 2012; Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del processo, Milano 2002; Furnari, La nuova legge Pinto, Torino, 2012; Garbagnati, Il procedimento di ingiunzione, a cura di A.A. Romano, Milano, 2012; Genovese, Contributo allo studio del danno da irragionevole durata del processo, Milano, 2012; Ghirga, Le modifiche alla c.d. legge Pinto: contributo effettivo alla crisi del sistema giustizia?, in Riv. dir. proc.; Iannello, Le modifiche alla legge Pinto tra esigenze di deflazione del contenzioso e contenimento della spesa pubblica e giurisprudenza di Strasburgo, in Giur. mer. 2013, 13; Ronco, L'azione di condanna all'equa riparazione e la disciplina del procedimento, in Misure acceleratorie e riparatorie contro l'irragionevole durata dei processi, a cura di Chiarloni, Torino, 2002, 321 ss.; Martino, Legge 24 marzo 2001, n. 89, in (-Panzarola), Commentario alle riforme del processo civile dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, Torino, 2013, 503 ss.; Mazzeo, Risarcimento per irragionevole durata dei processi: cambia la legge Pinto, in Resp. civ. e prev. 2012, 634; Partisani, L'irragionevole durata del processo nel pluralismo delle fonti e nel sistema delle tutele, II, in Resp. civ. prev. 2011, 480 ss.; Piombo, Equa riparazione per irragionevole durata del processo: appunti sulla disciplina della legge c.d. Pinto dopo le modifiche introdotte dall'art. 55 d.l. 22 giugno 2012 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012 n. 134, in Foro it. 2013, V, 25; Proto Pisani, Il procedimento di ingiunzione, in Riv. trim. dir proc. civ. 1987, 291; Salvato, La disciplina dell'equa riparazione per irragionevole durata del processo nella morsa della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e delle specificità del nostro ordinamento, in Corr. giur. 2012, n. 8-9, 993; Satta, Commentario al codice di procedura civile, IV, Milano, 1968; Sciacchitano, Ingiunzione (diritto processuale civile), in Enc. dir., XXI, Milano 1971, 510 ss.; Tomei, voce Procedimento di ingiunzione, in Dig. civ., XXIV, Torino, 1996, 559; Valitutti - DE Stefano, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova, 1994.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario