Legge - 24/03/2001 - n. 89 art. 5 ter - (Opposizione) 1

Rosaria Giordano

(Opposizione) 1

1. Contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione puo' essere proposta opposizione nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento ovvero dalla sua notificazione.

2. L'opposizione si propone con ricorso davanti all'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto. Si applica l' articolo 125 del codice di procedura civile.

3. La corte d'appello provvede ai sensi degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Del collegio non puo' far parte il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato.

4. L'opposizione non sospende l'esecuzione del provvedimento. Il collegio, tuttavia, quando ricorrono gravi motivi, puo', con ordinanza non impugnabile, sospendere l'efficacia esecutiva del decreto opposto.

5. La corte pronuncia, entro quattro mesi dal deposito del ricorso, decreto impugnabile per cassazione. Il decreto e' immediatamente esecutivo.

[1] Articolo inserito dall'articolo 55, comma 1, lettera f), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 , convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 , con la decorrenza di cui al comma 2 del medesimo decreto.

Inquadramento

L'opposizione, proposta ad iniziativa dell'Amministrazione o del privato ricorrente nell'ipotesi di rigetto anche parziale della domanda, dà luogo ad un procedimento disciplinato dagli artt. 737 e ss. c.p.c. dinanzi alla Corte d'Appello in composizione collegiale.

L'opposizione è un giudizio che, come avviene per l'opposizione a decreto ingiuntivo di cui all'art. 645 c.p.c., non ha ad oggetto la legittimità del decreto, bensì la sussistenza della pretesa creditoria, sicché nell'ambito della stessa possono essere fatte valere, senza alcuna limitazione, tutte le questioni a ciò correlate (Cass. n. 20463/2015).

Trattandosi di un procedimento camerale c.d. su diritti devono peraltro essere rispettate le norme fondamentali in tema di contraddittorio.

Il procedimento, nel quale l'istruttoria è tendenzialmente documentale, si conclude con un decreto ricorribile per cassazione ed immediatamente esecutivo.

Termine e modalità di proposizione dell'opposizione

L'art. 5-ter, l. n. 89/2001, inserito dall'art. 55, comma 1, lettera f), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, stabilisce che contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione può essere proposta opposizione dinanzi all'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento monitorio entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione dello stesso ovvero dalla sua notificazione.

L'esistenza di tale rimedio esclude l'esperibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto ingiuntivo in esame (Cass. n. 19238/2014).

In particolare, nell'ipotesi di accoglimento, in tutto o in parte, del ricorso per ingiunzione, l'opposizione potrà essere proposta dall'Amministrazione nei confronti della quale è stata formulata la domanda di equa riparazione, mentre nel caso di rigetto, anche parziale, interessato a proporre l'opposizione sarà il ricorrente.

La S.C. ha chiarito che nel procedimento di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, in caso di mancata notificazione all'amministrazione del decreto emesso dal presidente della corte d'appello, o dal magistrato da questo delegato, la stessa amministrazione, convenuta in sede di opposizione ex art. 5-ter della legge n. 89/2001 dal ricorrente, il quale si dolga dell'accoglimento parziale della domanda, può limitarsi ad eccepire l'integrale infondatezza della pretesa di indennizzo e la violazione dell'art. 2-bis della medesima legge, senza necessità di proporre opposizione in via incidentale (Cass. n. 16110/2015).

Il termine per la proposizione dell'opposizione è, in ogni caso, perentorio, di talché l'inosservanza dello stesso comporta il consolidarsi degli effetti del provvedimento che ha pronunciato sulla domanda in sede monitoria (Martino, 584).

A riguardo, è opportuno ricordare che il giudicato sostanziale conseguente alla mancata o tardiva opposizione avverso un decreto ingiuntivo copre non soltanto l'esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l'inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l'opposizione, mentre non si estende ai fatti successivi al giudicato ed a quelli che comportino un mutamento del petitum ovvero della causa petendi in seno alla domanda rispetto al ricorso esaminato dal decreto esecutivo (Cass. n. 11360/2010; Cass. n. 16391/2007).

Dies a quo ai fini della decorrenza del termine per la proposizione dell'opposizione è la comunicazione dello stesso ovvero, nell'ipotesi di accoglimento della domanda, dalla notificazione, che deve essere eseguita, peraltro, entro il termine di trenta giorni dal deposito del provvedimento.

A riguardo, la Corte di cassazione ha recentemente precisato che il termine di trenta giorni per proporre opposizione avverso il decreto che decide sulla domanda di equa riparazione decorre, ai sensi dell'art. 5 ter di tale legge, per il Ministero dalla notificazione allo stesso del provvedimento fatta eseguire, entro trenta giorni dal deposito, dal ricorrente e, per quest'ultimo, dalla comunicazione del medesimo decreto a cura della cancelleria, a nulla rilevando che il giudice del monitorio abbia disposto la detta comunicazione anche al Ministero (Cass. II, n. 10878/2018).

L'art. 5, comma secondo, legge 24 marzo 2001 n. 89 precisa che, ove la notifica venga effettuata tardivamente rispetto al predetto termine, il decreto sarà inefficace e la domanda non potrà più essere riproposta.

E’ stato nondimeno precisato, al contempo, che in tema di notificazione degli atti processuali nei confronti dell'Avvocatura di Stato, l'uso dell'indirizzo PEC deputato alle comunicazioni istituzionali in luogo di quello destinato alle comunicazioni processuali è causa di nullità della notifica, la quale è sanata, con efficacia "ex tunc", dall'opposizione del Ministero ex art. 5-ter della l. n. 89 del 2001, non ostando alla produzione di tale effetto l'affermazione per cui la parte pubblica non disporrebbe di altro mezzo per fare valere l'inefficacia del decreto prevista dall'art. 5, comma 2, della l. n. 89 cit., atteso che detta norma concerne la diversa e non assimilabile ipotesi della mancata notificazione (Cass. n. 11154/2018).

L'opposizione deve essere proposta con ricorso – per la determinazione del contenuto del quale, come già per il ricorso introduttivo della fase monitoria, l'art. 5-ter rinvia al disposto dell'art. 125 c.p.c. – dinanzi all'ufficio giudiziario al quale appartiene al giudice che ha emesso il decreto, cui viene demandata una competenza funzionale assolutamente analoga a quella propria del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo regolato dal quarto libro del codice di procedura civile (Martino, 584).

Il ricorso introduttivo dell'opposizione avverso il decreto di inammissibilità o rigetto, a norma dell'art. 5-ter della legge 24 marzo 2001, n. 89, che richiama espressamente l'art. 125 c.p.c., deve contenere l'indicazione del «petitum» e della «causa petendi», sicché in caso di omissione o di assoluta incertezza di detti elementi, il ricorso, introduttivo di una fase contenziosa, è nullo e la corte d'appello, rilevatane la nullità, è tenuta a concedere all'opponente, ai sensi dell'art. 164 c.p.c., un termine perentorio per l'integrazione del ricorso sempreché dette indicazioni fossero contenute nella domanda monitoria originaria (Cass. n. 3508/2015).

È stato precisato, nondimeno, che l'atto di opposizione al decreto di inammissibilità o rigetto ex art. 5-ter della l. n. 89 del 2001 può indicare «petitum» e «causa petendi» della domanda monitoria tramite l'allegazione del ricorso originario, la quale è idonea a consentire la difesa dell'amministrazione, senza che occorra la riproduzione del contenuto del ricorso medesimo all'interno dell'atto di opposizione (Cass. n. 18705/2015).

Costituisce principio incontroverso quello secondo cui l'art. 645 c.p.c., disponendo che l'opposizione a decreto ingiuntivo deve essere proposta dinanzi all'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto, ha stabilito una competenza funzionale e non derogabile, neanche per ragioni di continenza o di connessione (v., tra le molte, Cass. n. 15052/2011; Cass. n. 15528/2000).

Rinvio alle norme sul procedimento in camera di consiglio

Il comma 3 dell'art. 5-ter della legge 24 marzo 2001 n. 89 stabilisce, quanto al procedimento, soltanto che la Corte d'Appello provvede ai sensi degli artt. 737 e ss. c.p.c.: viene quindi effettuato un rinvio «secco» alle norme del codice di procedura civile sul procedimento in camera di consiglio (Martino, 583).

Prima della riforma realizzata dalla legge n. 134 del 2012, invece, come noto, l'art. 3 della stessa legge c.d. Pinto, pur prevedendo le forme del procedimento in camera di consiglio per la decisione da parte della Corte d'Appello sulla domanda di equa riparazione correlata all'irragionevole durata del processo, dettava una serie di disposizioni specifiche, ad esempio sul contraddittorio tra le parti e sull'istruzione probatoria, idonee a ricondurre il rito speciale esclusivo al rispetto con i principi costituzionali (Martino 2001, 1080 ss.; Ronco 249 ss.).

Invero, la questione problematica attiene, nella formulazione originaria della legge Pinto (in senso critico Monteleone, II, 523 ss.) ed, ancor più nell'assetto attuale, alla legittimità costituzionale, anche ai sensi dell'art. 111 Cost., di un procedimento camerale previsto dal legislatore quale veicolo esclusivo per la tutela di diritti soggettivi, attesa l'ampia latitudine dei poteri discrezionali, non previamente determinati dalla legge, attribuiti al giudice nell'ambito di tale procedimento (v., tra gli altri, Cerino Canova 431 ss.; Lanfranchi 521 ss.; Montesano 915 ss.).

A riguardo, è opportuno ricordare che, a fronte della posizione della dottrina, prevalentemente critica in ordine alla ricorrente scelta del legislatore del procedimento camerale su diritti, la giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che della Corte Costituzionale, ha ritenuto, diversamente, che il procedimento in questione si atteggia a contenitore «neutro», non incompatibile con la tutela giurisdizionale dei diritti, a condizione che vengano assicurate almeno nel nucleo essenziale le garanzie costituzionali del contraddittorio e del controllo di legittimità in cassazione.

In particolare, la S.C. ha evidenziato, premesso che è il carattere decisorio del provvedimento del giudice, ossia la sua incidenza su diritti soggettivi o status con l'efficacia propria del giudicato, che conferisce carattere contenzioso – piuttosto che volontario – al relativo giudizio, il carattere decisorio del provvedimento del giudice, attribuendo al relativo procedimento camerale natura contenziosa anziché volontaria, comporta l'applicazione della regola della necessità della difesa tecnica, come per tutti gli altri giudizi contenziosi regolati secondo il rito ordinario (Cass. n. 26365/2011). Sotto altro ed analogo profilo, quanto alla questione generale esaminata, è stato affermato che in tema di procedimento camerale, viola il principio del contraddittorio il provvedimento che, statuendo su posizioni di diritto soggettivo, sia stato emesso all'esito di un procedimento del quale il destinatario degli effetti non è stato informato e nel quale questi non ha potuto pertanto interloquire (Cass. n. 11859/2007).

Alla luce di tali principi, la scelta originaria, in sede di introduzione del rimedio «interno» per l'equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata del processo, era stata apprezzata, come evidenziato, proprio in quanto idonea in concreto, mediante puntuali previsioni integrative del rinvio agli artt. 737 e ss. c.p.c., a ricondurre il procedimento dinanzi alla Corte d'Appello al rispetto con i principi costituzionali.

A fronte, invece, del rinvio secco attualmente effettuato dalla legge c.d. Pinto alle norme sul procedimento in camera di consiglio occorre chiedersi se le stesse debbano ritenersi semplicemente illegittime exartt. 24 e 111 Cost. ovvero se debba predicarsene un'interpretazione costituzionalmente orientata. In quest'ultima direzione si pone quella dottrina secondo cui vi è spazio per un'interpretazione costituzionalmente orientata, idonea a contemperare le esigenze, entrambe rilevanti ai sensi dell'art. 111 Cost. sui canoni del giusto processo civile, del diritto di difesa con quelle relative alla ragionevole durata del procedimento di equa riparazione (Martino, 583).

La stessa S.C. non ha trascurato di evidenziare che le lacune riscontrabili nella disciplina dei procedimenti camerali e di quelli speciali devono colmarsi, in mancanza di deroghe esplicite o implicite, con il ricorso alle norme del rito ordinario, costituente il paradigma procedimentale del nostro ordinamento, dal quale essi si differenziano soltanto nei limiti espressamente previsti dalla legge (Cass. n. 15100/2005; Cass. n. 5629/1966).

Sul punto, è opportuno ricordare che l'art. 3, comma quarto, l. n. 89/2001, nella formulazione previgente, stabiliva che il ricorso ed il decreto di fissazione della camera di consiglio dovevano essere notificati al convenuto almeno quindici giorni prima della stessa. A riguardo, peraltro, era stato più volte precisato dalla S.C. che in tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza alla controparte non è perentorio, posto che l'art. 3 l. 24 marzo 2001 n. 89 si limita a prevedere il termine dilatorio di comparizione di quindici giorni per consentire la difesa dell'Amministrazione, sicché il rispetto del contraddittorio esige la notifica al controinteressato del ricorso e del decreto di fissazione della data della camera di consiglio entro un termine idoneo ad assicurare l'utile esercizio del diritto di difesa ed a tal fine, deve ritenersi applicabile anche al procedimento camerale in via analogica, attenendo ai requisiti dell'atto indispensabili a garantire il contraddittorio, l'art. 164 c.p.c. (Cass. n. 22153/2011).

L'attuale richiamo, sic et simpliciter, agli artt. 737 e ss. c.p.c., in ragione delle considerazioni effettuate, deve essere peraltro oggetto di un'interpretazione costituzionalmente orientata, nel senso, in ogni caso, della necessaria instaurazione del contraddittorio nei confronti del convenuto opposto (Martino, 585), mediante notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'adunanza camerale entro un termine che, sebbene determinato dal giudice e non predeterminato dal legislatore, dovrà essere congruo per l'esercizio del diritto di difesa.

Sulla questione è intervenuta la S.C. chiarendo che nel procedimento di equa riparazione per durata irragionevole del processo, l'opposizione al decreto di rigetto, a norma dell'art. 5-ter l. n. 89/2001, apre una fase contenziosa, soggetta al rito camerale, sicché l'opponente deve notificare all'amministrazione controinteressata il ricorso e il decreto di fissazione dell'udienza entro un termine idoneo ad assicurare l'utile esercizio del diritto di difesa; tuttavia, non essendo questo termine perentorio, se la notifica è omessa o inesistente, può concedersi all'opponente un nuovo termine, perentorio, affinché vi provveda (Cass. n. 8421/2014).

In sostanza, il termine assegnato per la notificazione del ricorso non ha carattere perentorio e, laddove quest'ultima risulti omessa o inesistente, il giudice, in difetto di spontanea costituzione del resistente all'udienza fissata nel decreto (che ha valore sanante in applicazione analogica degli artt. 164 e 291 c.p.c.), deve fissare un nuovo termine per la notifica (Cass. n. 18113/2015). Tuttavia il nuovo termine, diversamente dal primo, ha natura perentoria e la cui violazione determina l'estinzione del processo ex art. 307, comma 3, c.p.c. (Cass. n. 15763/2023).

Più in generale, con riferimento alla fase di opposizione al decreto ingiuntivo emanato in materia di equa riparazione, la S.C. ha osservato che nel procedimento camerale, il giudice, al fine di garantire il contraddittorio, l'esercizio del diritto di difesa e l'effettività della tutela giurisdizionale, deve esercitare poteri ufficiosi anche mediante l'applicazione estensiva ed analogica delle disposizioni del processo di cognizione, sicché è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio richiedendo i necessari chiarimenti (ex art. 183, quarto comma, c.p.c.) e, se del caso, assumendo sommarie informazioni da soggetti terzi (ex art. 738, terzo comma, c.p.c.), sempreché tale modalità di acquisizione di elementi di giudizio non sia impiegata per supplire all'onere probatorio o con finalità meramente esplorative (Cass. n. 4412/2015).

Sospensione dell'efficacia esecutiva del decreto

Il comma 4 dell'art. 5-ter legge Pinto prevede che l'opposizione non sospende l'esecuzione del provvedimento, fermo restando che il collegio, tuttavia, quando ricorrono gravi motivi, può, con ordinanza non impugnabile, sospendere l'efficacia esecutiva del decreto opposto.

Il sistema delineato in parte qua appare analogo a quello configurato nell'ordinario procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo in relazione ai decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi in forza del disposto dell'art. 649 c.p.c. che, per l'appunto in presenza di «gravi motivi», consente di sospenderne l'efficacia esecutiva concessa nella fase monitoria.

Come evidenziato in dottrina, i gravi motivi in presenza dei quali può essere disposta la sospensione della esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo opposto si concretano, di regola, nel pericolo che l'esecuzione forzata del decreto possa arrecare un grave danno senza che vi sia una garanzia di risarcimento nell'ipotesi di fondatezza dell'opposizione, nell'inesistenza o irregolarità di uno dei titoli che giustificano la provvisoria esecuzione a norma dell'art. 642 c.p.c., nella sopravvenienza di un fatto modificativo o estintivo del credito (cfr. Ronco 2000, 250 ss.) e, più in generale, nella circostanza che l'opposizione proposta sia fondata su prova scritta o di pronta soluzione (Garbagnati, 239).

Per l'ipotesi di provvisoria esecuzione del decreto concessa nella fase sommaria in forza di documentazione sottoscritta dal debitore attestante il riconoscimento dell'avversa pretesa creditoria da parte dello stesso, la giurisprudenza è incline a ritenere che il disconoscimento dell'autenticità della sottoscrizione apposta in calce alla scrittura privata sulla quale è fondato il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, se tempestivamente e ritualmente manifestato dall'opponente, è sufficiente ad integrare i gravi motivi necessari per la sospensione dell'esecuzione provvisoria del provvedimento monitorio, da parte del Giudice dell'opposizione (Trib. Latina, 20 febbraio 1996).

I gravi motivi richiesti per la sospensione dell'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo possono concretarsi, inoltre, nell'apparente fondatezza di un'eccezione del debitore attestante un sopravvenuto fatto estintivo dell'avversa pretesa creditoria, costituito, ad esempio, anche dall'adempimento parziale successivo al deposito del ricorso per ingiunzione. In tal senso si è anche affermato che è ammissibile la revoca parziale della provvisoria esecuzione di un decreto ingiuntivo, concessa ai sensi dell'art. 642 c.p.c., qualora una parte del debito per il quale fu emessa l'ingiunzione sia stata soddisfatta prima della notificazione del provvedimento all'intimato (Trib. Roma 27 novembre 2003, in Giur. merito, 2004, 699).

Peraltro, rispetto al regime previsto a riguardo dagli artt. 645 e ss. c.p.c. non possono trascurarsi di evidenziare due importanti differenze che derivano entrambe dalla circostanza che il decreto concesso nella fase monitoria della legge n. 89 del 2001 è sempre provvisoriamente esecutivo.

Diversamente, invece, nell'ambito del procedimento di ingiunzione disciplinato dagli artt. 634 e ss. c.p.c. soltanto nelle ipotesi indicate dall'art. 642 c.p.c. il decreto ingiuntivo può essere eccezionalmente concesso munito della clausola di esecuzione provvisoria (in arg. cfr., oltre a Garbagnati, 1982, 579, Zucconi Galli Fonseca 175). Ciò avviene, innanzitutto, nelle fattispecie – di carattere esemplificativo, secondo la giurisprudenza, potendo i medesimi principi trovare applicazione anche ove il ricorso sia fondato su titolo pubblico certo e prima facie non contestabile — elencate dal primo comma dell'art. 642 c.p.c., ossia quando il ricorso è fondato su una prova scritta di carattere privilegiato (cambiale, assegno bancario o circolare, certificato di liquidazione di borsa o atto ricevuto da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato): in tali ipotesi, ferma la necessità di un'istanza del ricorrente, il Giudice è obbligato ad autorizzare l'esecuzione provvisoria del decreto. Inoltre, il secondo comma dell'art. 642 c.p.c. attribuisce al Giudice adito con il ricorso monitorio il potere discrezionale di concedere, sempre su richiesta del creditore ricorrente, il decreto munito della clausola di esecuzione provvisoria laddove: a) vi sia grave pregiudizio nel ritardo (in ragione dello stato di dissesto o di insolvenza del debitore ovvero per deperibilità o deteriorabilità delle cose oggetto del ricorso); b) il ricorrente produca documentazione sottoscritta dal debitore comprovante il diritto fatto valere (ad esempio, un atto di ricognizione di debito o promessa di pagamento documentata da scrittura privata, che determinano un'inversione dell'onere probatorio anche nel giudizio di opposizione ex art. 1988 c.c.).

Il peculiare regime previsto invece per il decreto ingiuntivo pronunciato nell'ambito della legge c.d. Pinto comporta, in primo luogo, infatti, l'inutilità di una previsione che, sul modello dell'art. 648 c.p.c., sia volta ad accordare, nelle more della definizione del giudizio di opposizione, al decreto che ne sia privo, la provvisoria esecuzione laddove l'opposizione proposta non sia fondata su prova scritta o di pronta soluzione. Tale situazione ricorre quando le eccezioni formulate dal debitore opponente e concretanti fatti modificativi, estintivi ed impeditivi dell'avversa pretesa creditoria sono soltanto allegati e non documentati: non senza rilevanza pratica, a riguardo, è la problematica di coordinare l'art. 648 c.p.c., che presuppone di per sé una decisione in limine litis del giudice sull'istanza di concessione della provvisoria esecuzione, con l'art. 183, sesto co., c.p.c. in ordine al momento in cui scattano le preclusioni per le parti circa il deposito di documenti. L'opposizione a decreto ingiuntivo non è di pronta soluzione laddove, invece, le prove addotte dal debitore a sostegno delle proprie allegazioni sono di lunga indagine e quindi il tempo necessario per la valutazione delle stesse nel corso del giudizio potrebbe pregiudicare significativamente il creditore (Guarnieri, 598; Monnini 1933).

In secondo luogo, l'esecuzione provvisoria «necessaria» del decreto di ingiunzione pronunciato nei confronti dell'Amministrazione a fronte di un ricorso di equa riparazione per l'irragionevole durata di un processo implica ex se che tra i gravi motivi che possono essere valutati dalla Corte ai fini dell'eventuale sospensione dell'esecutorietà del decreto stesso non possa trovare spazio quello afferente la concessione di tale esecutorietà in difetto dei presupposti documentali previsti dall'art. 642 c.p.c.

Ciò premesso, è opportuno ricordare, essendo tali principi applicabili anche alla fattispecie in esame, che in sede applicativa è stato ritenuto che la valutazione dei gravi motivi previsti dall'art. 649 c.p.c. per la sospensione della esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo deve riguardare soprattutto la probabile fondatezza dell'opposizione, in considerazione dei motivi posti a fondamento della stessa (cfr. già Pret. Termini Imerese 3 dicembre 1996).

Di conseguenza si è osservato che non è possibile disporre la sospensione dell'esecuzione provvisoria del decreto sulla scorta, carente di ogni fumus boni juris l'opposizione proposta dal debitore, di un mero pericolo nel ritardo, costituito ad esempio dalla difficoltà di restituzione o di risarcimento del danno ovvero dal pericolo di insolvenza per il debitore stesso (pericolo che, per converso, andrà attentamente valutato ove anche in parte i motivi dell'opposizione proposta appaiano prima facie fondati).

Tali considerazioni operano a fortiori, come si è fondatamente osservato in dottrina, nell'ambito della valutazione demandata alla Corte d'Appello ai fini della sospensione dell'esecuzione provvisoria del decreto di pagamento concesso a seguito del ricorso di equa riparazione, poiché la sospensione viene richiesta dall'Amministrazione opponente rispetto alla quale sarebbe difficile ipotizzare il ricorrere di un pregiudizio apprezzabile derivante dall'esecuzione della condanna al pagamento di una somma di denaro di regola di modesta entità, di talché assumerà rilievo preponderante il fumus dell'opposizione (Martino, 594).

L'art. 5-ter, quarto comma, l. n. 89/2001 stabilisce che l'ordinanza di sospensione dell'esecuzione provvisoria del decreto non è impugnabile. Tale previsione ricalca quella dettata dall'art. 649 c.p.c. in tema di sospensione dell'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo, in relazione alla quale è assolutamente prevalente in giurisprudenza la tesi secondo cui l'ordinanza che sospende l'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo opposto ex art. 649 c.p.c. costituisce provvedimento non impugnabile né tantomeno modificabile o revocabile, poiché gli effetti dello stesso sono destinati ad esaurirsi con la sentenza che pronuncia sull'opposizione e con la quale il giudice può provvedere alla revoca o meno della stessa (v., tra le altre, Trib. Torino III, 2 aprile 2010).

Parimenti, si ritiene inammissibile il rimedio del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso l'ordinanza con la quale il giudice istruttore rigetta o accoglile, ex art. 649 c.p.c., l'istanza di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo autorizzata a norma dell'art. 642 c.p.c. (Trib. Venezia 4 aprile 2000, in Foro it., 2000, I, 3644, con nota di Cea). A riguardo, anche di recente, nella giurisprudenza di merito è stato ribadito che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.c., con riferimento all'art. 3 Cost., per la mancata previsione del reclamo avverso l'ordinanza che provvede sull'istanza di sospensione dell'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo, non costituendo la disciplina cautelare uniforme valido tertium comparationis per le differenze strutturali e funzionali con la indicata disposizione. A tal proposito, si evidenzia, in particolare, che sebbene l'ordinanza ex art. 649 c.p.c. abbia funzione cautelare la stessa è priva della strumentalità, sotto il profilo strutturale, ad un successivo provvedimento di merito e quindi non potrebbe essere equiparata, quanto al sistema dei rimedi previsti rispetto alla stessa, ai provvedimenti cautelari (Trib. Lucca 16 giugno 2007).

Tuttavia, stante l'orientamento, anch'esso costantemente affermato nella giurisprudenza di legittimità, che esclude la ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost. dell'ordinanza che si pronuncia sull'istanza di cui all'art. 649 c.p.c., trattandosi di provvedimento privo di contenuto decisorio, in quanto destinato ad operare in via meramente temporanea, producendo effetti che si esauriscono con la sentenza che pronuncia sull'opposizione, autorevole dottrina ha opportunamente evidenziato le contraddizioni – che il legislatore sembra voler autorizzare a reiterare per il provvedimento in esame (Martino, 594) — nelle quali incorre la giurisprudenza da un lato riconoscendo che trattasi di misura provvisoria avente funzione latamente cautelare e dall'altro escludendo, per tale ragione, entrambi i rimedi (Saletti, 545).

La formulazione del quarto comma dell'art. 5-ter legge c.d. Pinto nel senso della non impugnabilità dell'ordinanza che sospende l'esecuzione provvisoria del decreto pronunciato dal Presidente della Corte nella fase sommaria induce a ritenere operanti i richiamati orientamenti relativi all'art. 649 c.p.c. anche per tale provvedimento.

Istruttoria

L'art. 738 c.p.c. in tema di istruttoria nei procedimenti in camera di consiglio si limita a stabilire, al terzo comma, che il giudice può assumere informazioni.

In virtù della formulazione della norma si considerano particolarmente ampi i poteri istruttori officiosi dell'autorità giudiziaria nei procedimenti camerali nell'ambito dei quali non opererebbero né il principio di onere della prova né quello della disponibilità dei mezzi istruttori che possono, quindi, essere disposti in ogni momento d'ufficio dal giudice, che sarà peraltro libero di assumere prove atipiche e prove tipiche secondo modalità differenti da quelle tipizzate, come, ad esempio, l'acquisizione di dichiarazioni scritte di soggetti terzi, anche al di fuori del rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 257-bis c.p.c. in tema di testimonianza c.d. scritta.

Potranno quindi, ad esempio, fermo il rispetto del contraddittorio in favore dell'altra parte nell'ipotesi di procedimento camerale c.d. su diritti, essere acquisiti documenti depositati tardivamente (cfr. Cass. n. 5876/2012, secondo cui in tema di cessazione degli effetti civili del matrimonio, è legittimo valutare, peraltro anche in via deduttiva-presuntiva, l'esistenza, o meno, del diritto all'assegno divorzile sulla base di documenti depositati tardivamente e che il giudice di rinvio può acquisire, a condizione che sui medesimi si sia instaurato pieno e completo contraddittorio).

Con più specifico riguardo all'istruttoria nell'ambito del procedimento di equa riparazione per i danni derivanti dall'irragionevole durata del processo, l'art. 738 c.p.c. era integrato, nel modulo processuale antecedente alla riforma realizzata dalla legge n. 134 del 2012, dal disposto dell'art. 3, quinto comma, legge 24 marzo 2001 n. 89 secondo cui l'autorità giudiziaria poteva sempre acquisire d'ufficio atti e documenti.

Come osservato in dottrina in sede di primo commento alla legge c.d. Pinto, l'introduzione di tale disposizione poneva l'interprete di fronte a quattro soluzioni ermeneutiche differenti rispetto a quella di per sé derivante dall'operare del terzo comma dell'art. 738 c.p.c. e, di qui, del modello inquisitorio di istruttoria proprio dei procedimenti in camera di consiglio, ossia: a) ritenere pleonastica ed inutile la norma, lasciando operare la regola generale sugli ampi poteri istruttori officiosi del giudice nei procedimenti camerali; b) considerare l'art. 738, terzo comma, c.p.c. applicabile in genere anche nel nostro procedimento, con la sola eccezione degli atti e documenti del processo presupposto; c) ritenere che nel procedimento per l'equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo non viga l'art. 738, terzo comma, c.p.c. con conseguente applicazione del principio dispositivo in relazione a tutti i mezzi istruttori; d) l'ordine di acquisizione in questione dovrebbe essere equiparato all'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. ed emanabile, peraltro, a fronte dell'istanza di parte anche a prescindere da presupposti per l'emanazione dell'ordine in questione (così Ronco, 296 ss.).

Nella giurisprudenza della S.C. era stato chiarito che, in tema di equa riparazione, il potere officioso di acquisizione di atti e documenti ex art. 3, comma 5, legge 24 marzo 2001 n. 89, non consente, in presenza di una espressa richiesta della parte in ordine a tale acquisizione, di considerarla onerata, della produzione di atti e documenti del processo presupposto sia per la prova della tempestività della domanda formulata, sia per la dimostrazione dei fatti costitutivi della spiegata pretesa, i.e. degli elementi concreti dai quali è desumibile l'irragionevole durata di tale processo (Cass. n. 4103/2013).

Peraltro, la stessa Corte di legittimità aveva precisato, al contempo, anche in riferimento al procedimento camerale in tema di equa riparazione dei danni determinati dall'irragionevole durata del processo, che il potere riconosciuto al giudice dall'art. 738, comma terzo, c.p.c. di assumere informazioni costituisce oggetto di una mera facoltà e non di un obbligo, sicché il suo mancato esercizio non determina l'inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento camerale e risulta incensurabile in cassazione (Cass. n. 24965/2011). In altre parole, sebbene non operino le regole generali sul riparto dell'onere probatorio, la sostanziale deroga delle stesse mediante l'esercizio dei poteri d'ufficio di acquisire documenti è sempre stata considerata discrezionale anche nel procedimento di equa riparazione.

Nella giurisprudenza di legittimità le conseguenze pratiche derivanti dalla natura discrezionale dei poteri istruttori officiosi del Giudice nei procedimenti camerali con riguardo alla legge Pinto erano state temperate, con riferimento al modello processuale anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 134 del 2012, mediante la precisazione secondo cui qualora la parte si sia avvalsa della facoltà — prevista dall'art. 3, comma 5, l. 24 marzo 2001 n. 89 — di richiedere alla corte d'appello di disporre l'acquisizione degli atti del processo presupposto, il giudice non può addebitare alla mancata produzione documentale, da parte dell'istante, di quegli atti la causa del mancato accertamento della addotta violazione della ragionevole durata del processo, in quanto la parte ha un onere di allegazione e di dimostrazione, che però riguarda la sua posizione nel processo, la data iniziale di questo, la data della sua definizione e gli eventuali gradi in cui si è articolato, mentre, in coerenza con il modello procedimentale, di cui agli art. 737 e s. c.p.c., prescelto dal legislatore, spetta al giudice — sulla base dei dati suddetti, di quelli eventualmente addotti dalla parte resistente e di quelli acquisiti dagli atti del processo presupposto — verificare, in concreto e con riguardo alla singola fattispecie, se vi sia stata violazione del termine ragionevole di durata, tenuto anche conto che nel modello processuale della legge n. 89 del 2001 sussiste un potere d'iniziativa del giudice, che gli impedisce di rigettare la domanda per eventuali carenze probatorie superabili con l'esercizio di tale potere (v., tra le altre, Cass. n. 16367/2011; Cass. n. 21093/2005).

In sostanza, quindi, ferma la natura discrezionale del potere ex art. 738, terzo comma, c.p.c., nel procedimento disciplinato dal previgente art. 3 l. n. 89/2001, la Corte d'appello, a fronte di una formale richiesta di acquisizione del fascicolo del processo presupposto, formulata ai sensi del comma 5 del citato art. 3, non poteva respingere, in accordo con la giurisprudenza di legittimità, la domanda sulla base di carenze probatorie documentali superabili con l'esercizio di tale potere di acquisizione, senza giustificare con congrua motivazione il mancato accoglimento dell'istanza (Cass. n. 18337/2016; Cass. n. 9381/2011).

Nel modulo procedimentale della legge c.d. Pinto, così come modificata dalla legge n. 134 del 2012, non è più prevista la facoltà della parte di richiedere al giudice di disporre l'acquisizione di atti e documenti relativi al processo presupposto. Inoltre, come evidenziato, la stessa parte ricorrente è tenuta, secondo quanto stabilito dal disposto dell'art. 3, terzo comma, legge 24 marzo 2001, n. 89, ad allegare al ricorso depositato nella fase monitoria la copia autentica di una serie di atti concernenti il giudizio presupposto, i.e. l'atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata; i verbali di causa ed i provvedimenti del giudice; il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.

Peraltro, come evidenziato anche dalla S.C., la parte può integrare la documentazione depositandola nella fase di opposizione. È stato infatti chiarito che, poiché l'opposizione di cui all'art. 5-ter della legge n. 89 del 2001 non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza, con l'ampio effetto devolutivo di ogni opposizione, la fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo, sicché non è precluso alcun accertamento od attività istruttoria, necessari ai fini della decisione di merito, e la parte può produrre, per la prima volta, i documenti che avrebbe dovuto produrre nella fase monitoria ai sensi dell'art. 3, comma 3, della citata legge, abbia o meno il giudice invitato la parte a depositarli, come previsto dal richiamato art. 640, comma 1, c.p.c. (Cass. n. 19348/2015).

Alla luce dell'assetto normativo così complessivamente delineato occorre chiedersi se nell'ipotesi in cui la parte ricorrente abbia omesso, sia nella fase monitoria che in quella successiva di opposizione, il deposito della documentazione relativa al giudizio presupposto in tutto o in parte necessaria ai fini dell'accoglimento del ricorso, la Corte possa, facendo uso del proprio potere di assumere d'ufficio informazioni ex art. 738 c.p.c., disporre nondimeno le necessarie acquisizioni documentali.

Invero, laddove la fase di opposizione non fosse disciplinata nelle forme del procedimento in camera di consiglio ex artt. 737 e ss. c.p.c. dovrebbe essere senz'altro esclusa, nel sistema attuale, tale possibilità in applicazione delle incontroverse regole in tema di riparto dell'onere della prova tra le parti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Al riguardo non è superfluo ricordare che, secondo un consolidato orientamento, tale giudizio non ha ad oggetto la legittimità del provvedimento concesso quanto la sussistenza o meno della pretesa creditoria che, peraltro, nel procedimento di opposizione, a cognizione piena ed esauriente, deve essere accertata mediante gli ordinari mezzi istruttori e non in forza della documentazione di provenienza unilaterale che, eccezionalmente, stante l'art. 634 c.p.c., è ammessa nella fase sommaria inaudita altera parte del procedimento. In sostanza, quindi, nel giudizio di opposizione, l'onere della prova del fatto costitutivo del diritto di credito consacrato dal decreto ingiuntivo continua a gravare ex art. 2697 c.c. sul ricorrente, in virtù della domanda di pagamento da questi proposta e la formazione del convincimento del giudice sarà nuovamente regolata, agli effetti della decisione in merito all'opposizione, dalle norme vigenti in un giudizio ordinario di cognizione (v., tra le molte, Trib. Nola II, 28 giugno 2010; Trib. Teramo 19 aprile 2010 n. 143).

Per converso, l'opponente, quale convenuto sostanziale nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, dovrà invece, sempre in applicazione della regola generale di cui all'art. 2697 c.c., fornire prova dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi dell'avversa pretesa dedotti con l'opposizione (v., di recente, Giordano, II, 489 ss.).

Una piana applicazione di siffatte regole nel procedimento di opposizione promosso ai sensi della legge c.d. Pinto comporterebbe che, qualora il ricorrente non abbia depositato, anche nella fase a cognizione piena ed esauriente, tutta la documentazione concernente il giudizio presupposto idonea a dimostrare la sussistenza della spiegata pretesa di equa riparazione, la domanda dello stesso dovrebbe essere rigettata, non essendo stata rispettata la regola posta dall'art. 2697 c.c. È peraltro opportuno precisare che, in questo caso, non si avrebbe necessariamente un accoglimento dell'opposizione proposta dall'Amministrazione essendo legittimato il medesimo ricorrente privato a proporre opposizione avverso il decreto di pagamento per l'ipotesi di accoglimento parziale del ricorso monitorio e ciò quale effetto «naturale» della formazione del giudicato sul rigetto dello stesso, eccezionalmente previsto dalla legge Pinto a differenza del sistema generale di cui agli artt. 634 e ss. c.p.c.

Nella delineata prospettiva, coerente con l'operatività dei richiamati principi generali in tema di procedimento monitorio, autorevole dottrina ha evidenziato che l'espressa previsione da parte della legge n. 89/2001, così come modificata dalla legge n. 134/2012, dell'onere del ricorrente di depositare in copia autentica gli atti e documenti di causa dovrebbe operare anche nel procedimento camerale aperto dal ricorrente nell'ipotesi di rigetto, totale o parziale, della domanda monitoria proprio in ragione della carenza documentale relativa al giudizio presupposto, senza che il collegio possa supplire d'ufficio alle eventuali carenze probatorie ex art. 738 c.p.c. (cfr., sebbene in una prospettiva critica rispetto ad un assetto che, così come configurato, diviene eccessivamente oneroso per il ricorrente privato, Consolo-Negri, 2013, 1438 ss.).

Nonostante la coerenza di tali autorevoli argomentazioni con il generale sistema in tema di rapporti tra procedimento monitorio e fase di opposizione, a nostro sommesso parere le conclusioni devono essere diverse, non potendosi tenere in non cale rispetto alla fase di opposizione la previsione delle forme del procedimento in camera di consiglio con il conseguente operare dei poteri officiosi del giudice ex art. 738 c.p.c.

A tal proposito, in particolare, appare non priva di rilevanza la considerazione della giurisprudenza di legittimità in omaggio alla quale, anche nei procedimenti camerali c.d. su diritti, sebbene operino il principio della domanda e quello dell'onere della prova, ciò deve intendersi in una prospettiva più attenuata rispetto a quanto avviene nei procedimenti disciplinati secondo il rito di cognizione ordinario ed, in particolare, nel senso che alla parte interessata spetta il potere di allegazione, deduzione ed eccezione, esercitato il quale, nondimeno, l'autorità giudiziaria potrà attivare i propri poteri istruttori officiosi (Cass. n. 14200/2004).

Gli atti e documenti relativi al giudizio presupposto costituiscono prova fondamentale dei fatti costitutivi del diritto all'equa riparazione fatto valere dal ricorrente nei confronti dello Stato per l'irragionevole durata dei processi. Pertanto, l'istruttoria, per tali aspetti, anche nel procedimento di opposizione sarà soprattutto scritta (Ronco, 298).

Ai fini della dimostrazione del dedotto danno, invece, potrebbero essere ritenuti rilevanti ulteriori mezzi istruttori da parte della Corte d'Appello e ciò, attesa l'ormai consolidata presunzione nel senso della ricorrenza del danno non patrimoniale in base al criterio dell'id quod plerumque accidit (v., tra le molte, Cass. n. 7559/2010), in particolare laddove venga richiesto dal cittadino anche il danno patrimoniale subito per effetto dell'irragionevole durata del processo, dovendo tale danno essere per converso oggetto di specifica e puntuale allegazione e prova.

È consolidato, invero, il principio in forza del quale la legge n. 89 del 2001, nel ricollegare l'equa riparazione alla mera constatazione dell'avvenuto superamento del termine di ragionevole durata del processo, attribuisce alla relativa obbligazione natura indennitaria, la quale esclude la necessità di una verifica in ordine all'elemento soggettivo della violazione, non vertendosi in tema di obbligazione ex delicto, ma non comporta alcun automatismo in favore del soggetto che lamenti l'inosservanza dell'art. 6, par. 1, Cedu, non configurandosi il pregiudizio patrimoniale indennizzabile come «danno evento», riconducibile al fatto in sé dell'irragionevole protrazione del processo, pertanto incombe al ricorrente l'onere di fornire la prova della lesione della propria sfera patrimoniale prodottasi quale conseguenza diretta ed immediata della violazione, sulla base di una normale sequenza causale (Cass. n. 1616/2011).

Il danno in questione, correlato ad esempio alla mancata disponibilità di un immobile o di una somma di denaro per un periodo rilevante, potrebbe essere dimostrato mediante una consulenza tecnica d'ufficio.

Decisione

L'opposizione è decisa dalla Corte d'Appello all'esito di un procedimento modellato secondo il rito camerale di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c., mediante decreto impugnabile per cassazione, decreto che è immediatamente esecutivo.

A riguardo, la S.C. ha chiarito che in tema di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo il provvedimento conclusivo del relativo procedimento è emesso nella forma del decreto immediatamente esecutivo, impugnabile per cassazione, ed esso, pertanto, nonostante la forma collegiale ed il contenuto decisorio, che lo rendono sostanzialmente assimilabile ad una sentenza, richiede la sottoscrizione del solo presidente del collegio e non anche la contestuale firma del giudice relatore, ex art. 135, comma 4, c.p.c. (v., tra le altre, Cass. n. 2134/2010; Cass. n. 2969/2006).

Nonostante il silenzio normativo sul punto, la circostanza che il decreto in questione si pronunci su diritti soggettivi e sia ricorribile per cassazione comporta che lo stesso debba essere congruamente motivato, nel rispetto, peraltro, del disposto dell'art. 111 Cost. (Martino, 595), a ciò non ostando il disposto dell'art. 135 c.p.c. secondo cui il decreto non deve essere motivato salva una diversa previsione di legge essendo precisato dallo stesso art. 737 c.p.c. che il decreto conclusivo del procedimento in camera di consiglio deve essere motivato (Ronco, 307).

La necessità che il decreto emesso all'esito del giudizio di opposizione dalla Corte d'Appello sia motivato deriva, inoltre, anche dai principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione all'art. 6 Cedu. Invero, la Corte di Strasburgo ha affermato, almeno a partire dalla pronuncia concernente il caso Hiro Balani c. Spagna, che l'obbligo di motivare ragionevolmente le sentenze costituisce parte essenziale delle garanzie del processo equo, sebbene non sia espressamente contemplata dall'art. 6 Cedu (Corte Edu, 9 dicembre 1994, Hiro Balani c. Spagna, in Dalloz, 1996, somm. com. 202, con osservazione di Fricero).

La Corte di Strasburgo ha quindi individuato il nucleo essenziale della garanzia in esame, precisando, in primo luogo, che l'obbligo di motivazione non comporta quello del giudice di rispondere in maniera dettagliata a ciascuna argomentazione delle parti (Corte Eud, 9 marzo 1999, Soc. Immeuble groupe Kosser c. Francia; Corte europea dir. uomo, 19 apr. 1994, Van de Hurck c. Paesi Bassi, in Ajda, 1995, 138, con nota di Flauss) e che, in generale, la portata dell'obbligo di motivazione può variare a seconda della natura della decisione e deve quindi essere esaminata alla luce delle circostanze del caso concreto (Corte Edu, 9 dicembre 1994, Hiro Balani c. Spagna).

La medesima Corte di Strasburgo ha poi chiarito che la motivazione delle pronunce, comunque sia, non deve avere carattere meramente apparente (Corte Edu, 29 maggio 1997, Georgiadis c. Grecia, in Riv. trim. dir. civ., 2000, 493, con osservazione di Marguénaud) o essere completamente omessa (Corte europea dir. uomo, 19 febbraio 1998, Higgins c. Francia).

Con riferimento specifico alla questione in esame, comunque sia, la Corte di Cassazione ha confermato la necessità che il decreto della Corte d'Appello che si pronuncia sulla domanda di equa riparazione debba essere motivato, avendo a riguardo chiarito che in tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, il giudice è tenuto, ai fini della liquidazione del danno in via equitativa (Cass. n. 8/2003), a fornire indicazioni sui criteri che lo hanno guidato nel giudicare proporzionata una certa misura del risarcimento, precisando che sebbene la relativa motivazione possa assumere, trattandosi di provvedimento adottato con decreto, anche caratteri di sommarietà, purché si riescano ad individuare, almeno per grandi linee ed anche dall'insieme delle indicazioni espresse nel provvedimento, i fondamentali elementi di giudizio sui quali la decisione è basata (Cass. n. 3934/2013). In altre e più chiare parole, la sufficienza della motivazione del decreto con cui la corte di appello si pronuncia sulla domanda di equa riparazione proposta ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, occorre sia valutata in coerenza con il tipo del provvedimento — benché esso abbia natura sostanziale di sentenza — e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare, di talché l'onere motivazionale deve ritenersi adempiuto qualora si accerti che il giudice dell'equa riparazione ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, dimostrando di avere avuto riguardo ai parametri fattuali a questo scopo indicati dall'art. 2, comma secondo, legge citata ed esplicitando le ragioni del suo convincimento, mentre non è invece necessario che egli ripercorra analiticamente tutti i passaggi del processo oggetto d'esame, sempre che le argomentazioni e le ragioni svolte non siano intrinsecamente contraddittorie (Cass. n. 21020/2006).

Si è anche ritenuto, in proposito, che il giudizio di irragionevolezza della durata del processo espresso nel decreto della corte territoriale non richiede, in coerenza con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso privilegiare con la previsione del tipo di provvedimento destinato a definire detto procedimento, una motivazione particolarmente diffusa ove le conclusioni raggiunte non si discostino dalle linee fondamentali della giurisprudenza europea in ordine allo standard medio di durata ragionevole del processo, che costituiscono le linee guida per il giudice nazionale (Cass. n. 28864/2005; Cass. n. 1600/2003; cfr. anche Cass. n. 6939/2004, secondo cui il danno non patrimoniale cagionato dalla irragionevole durata del processo, indennizzabile ai sensi dell'art. 2 l. n. 89/2001, deve essere liquidato in ragione del tempo eccedente il suo termine ragionevole, da determinare non con riferimento a parametri astratti, ma in concreto, tenuto conto della complessità del caso e degli altri elementi indicati dall'art. 2 comma 2 della detta legge; pertanto è viziato per difetto di motivazione il decreto con il quale la Corte d'appello abbia quantificato l'equa riparazione del danno non patrimoniale senza determinare quale dovesse essere nel caso concreto la ragionevole durata del processo).

Tuttavia, poiché il danno non patrimoniale cagionato dalla irragionevole durata del processo, indennizzabile ai sensi dell'art. 2 l. n. 89/2001, deve essere liquidato in ragione del tempo eccedente il suo termine ragionevole, da determinare non con riferimento a parametri astratti, ma in concreto, tenuto conto della complessità del caso e degli altri elementi indicati dall'art. 2 comma 2 della detta legge, è viziato per difetto di motivazione il decreto con il quale la Corte d'appello abbia quantificato l'equa riparazione del danno non patrimoniale senza determinare quale dovesse essere nel caso concreto la ragionevole durata del processo (Cass. n. 7297/2005).

Sotto altro profilo, è stato chiarito in sede di legittimità che in materia di equa riparazione ai sensi della legge n. 89/2001, la competenza del giudice adito costituisce presupposto processuale e non già requisito di ammissibilità della domanda, sicché la corte d'appello, adita con l'opposizione di cui all'art. 5-ter della stessa legge, ove ritenga di non essere investita della competenza a provvedere, non può rigettare la domanda, ma deve dichiarare la propria incompetenza e, indicato il giudice competente, fissare il termine di riassunzione del procedimento in applicazione dell'art. 50 c.p.c. (Cass. n. 17380/2015).

Quanto alla disciplina processuale del ricorso per cassazione proposto avverso il decreto emesso dalla Corte di appello nel procedimento di opposizione, si tratta di ricorso ordinario (ed il termine c.d. lungo di cui all'art. 327 c.p.c. decorre quindi dalla pubblicazione della decisione: Cass. n. 22726/2014).

Ricorso per cassazione

Il decreto emanato dalla Corte d'Appello una volta conclusa la fase di opposizione è ricorribile per Cassazione, alla medesima stregua del provvedimento reso dalla stessa Corte d'Appello sulla domanda di equa riparazione nell'assetto previgente.

Il potere delle parti di proporre ricorso per cassazione avverso il decreto pronunciato dalla Corte d'Appello nell'ambito del procedimento di opposizione promosso ai sensi della legge c.d. Pinto si fonda direttamente sul disposto dell'art. 5-ter, comma quinto, di tale legge, di talché, come già nel sistema previgente, si tratta di ricorso ordinario e non già di ricorso c.d. straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. (Martino, 597).

Peraltro, a riguardo non si può trascurare di osservare che, almeno quanto ai motivi di ricorso proponibili, dopo la riforma realizzata dal d.lgs. n. 40/2006, deve ritenersi che siano venute meno le importanti differenze enucleate dalla giurisprudenza pregressa tra tali mezzi di ricorso.

Sul punto, premesso in via assolutamente generale che il ricorso c.d. straordinario per cassazione è esperibile avverso i provvedimenti che, pur non avendo la veste formale di sentenza siano nondimeno decisori e definitivi (Cass. n. 15341/2012), la Corte di Cassazione aveva ritenuto, prima della citata riforma del 2006, che il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. consente la denuncia di violazione di legge o dell'assenza totale di motivazione, ma non anche censure riguardanti l'insufficiente o contraddittoria esposizione dei motivi del provvedimento impugnato (Cass. n. 11619/1997). Peraltro, l'art. 360 c.p.c. è stato ormai espressamente modificato nel senso che il ricorso c.d. straordinario per cassazione è proponibile per i medesimi motivi, previsti dallo stesso articolo, in forza dei quali è esperibile ricorso ordinario in sede di legittimità.

A seguito dell'ulteriore restrizione del perimetro del sindacato di legittimità sul vizio di motivazione con la riforma del 2012, la S.C. ha evidenziato che l'accertamento della sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo costituisce apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformato dal d.l. n. 83 del 2012 ovvero, altrimenti, nei casi di "mancanza assoluta di motivi", di "motivazione apparente", di "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e di "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile" (Cass. n. 17684/2021).

La possibilità di proporre avverso tale provvedimento esclusivamente il rimedio del ricorso per Cassazione consente a nostro avviso di ritenere che, anche dopo la riforma del procedimento realizzata nel 2012, conservi valenza il principio, già affermato in giurisprudenza nell'assetto previgente, per il quale, sebbene in tema di equa riparazione per l'irragionevole durata del processo sia prescritto il procedimento in camera di consiglio, la cui caratteristica è normalmente l'inidoneità al passaggio in giudicato dei provvedimenti assunti, stante la loro modificabilità e revocabilità e quindi la loro sottoposizione alla clausola c.d. rebus sic stantibus, non può revocarsi in dubbio che il provvedimento che conclude tale procedimento, in quanto impugnabile unicamente con ricorso per Cassazione, abbia natura contenzioso — decisoria e sia idoneo, una volta che avverso lo stesso non sia stata proposta nel termine di legge alcuna impugnazione, ad incidere con efficacia di giudicato sull'interesse della parte all'equa riparazione da ritardata giustizia.

Per alcuni, l'espressa presa di posizione del legislatore circa la ricorribilità per cassazione del decreto conclusivo del procedimento comporta che siano inapplicabili nel procedimento in esame tutte le disposizioni del procedimento camerale incompatibili con l'immutabilità della cosa giudicata, come ad esempio l'art. 742 c.p.c. (Martino, 597).

In giurisprudenza, è stato affermato che le riportate acquisizioni giurisprudenziali hanno trovato conferma nell'art. 112 comma 2, lett. c) del nuovo codice del processo amministrativo, a tenore del quale l'azione di ottemperanza innanzi al G.A. può essere proposta per conseguire anche l'attuazione delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario (quale è appunto il decreto della Corte d'Appello exl. n. 89 del 2001), al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della P.A. di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato (Tar Trentino Alto AdigeTrento I, 13 dicembre 2011 n. 305, in Foro amm.Tar, 2011, n. 12, 3866; Cass. n. 14885/2002, in Giust. civ., 2003, I, 2803).

L'idoneità al giudicato del provvedimento reso dalla Corte d'Appello a seguito dell'opposizione proposta avverso il decreto pronunciato sulla domanda di equa riparazione comporta che i termini per impugnare siano quelli previsti dagli artt. 326 e 327 c.p.c. (Ronco, 317).

In particolare il termine c.d. breve di sessanta giorni per proporre ricorso per cassazione decorre, trattandosi di decreto pronunciato a seguito di procedimento camerale contenzioso, dalla notificazione del provvedimento ad istanza di parte (cfr. Cass.S.U., n. 3670/1997, in Giust. civ., 1997, I, 1502, con osservazione di Giacalone, la quale, andando a risolvere il pregresso contrasto giurisprudenziale sulla questione, ha chiarito che a norma del comma secondo dell'art. 739 c.p.c., nei procedimenti in camera di consiglio che si svolgono nei confronti di più parti, la notificazione del provvedimento che abbia definito il relativo procedimento è idonea a far decorrere il termine di dieci giorni per la proposizione del reclamo solo quando sia stata effettuata ad istanza di una delle parti e non, quindi, quando sia stata eseguita a ministero del cancelliere del giudice a quo o su istanza di quell'ausiliare e tale disciplina vale anche con riferimento ai procedimenti contenziosi assoggettati per legge al rito camerale, salvo che non sia diversamente disposto in modo espresso, con la conseguenza che, stante l'assenza di una diversa espressa previsione legislativa, la notifica del decreto del tribunale in ordine all'ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, di cui all'art. 274 c.c., eseguita dal cancelliere del giudice «a quo», o su istanza di detto ausiliare, non è idonea a determinare la decorrenza del termine breve per il reclamo avverso detto provvedimento).

Prima delle modifiche realizzate, in senso restrittivo, rispetto alla possibilità di denunciare tale vizio, dall'art. 360, n. 5, c.p.c., la S.C. aveva più volte ribadito che la sufficienza della motivazione del decreto con cui la corte di appello si pronuncia sulla domanda di equa riparazione proposta ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, occorre sia valutata in coerenza con il tipo del provvedimento — benché esso abbia natura sostanziale di sentenza — e con le esigenze di speditezza che il legislatore ha inteso evidentemente privilegiare, di talché l'onere motivazionale deve ritenersi adempiuto qualora si accerti che il giudice dell'equa riparazione ha dato conto, anche sinteticamente, dei criteri in base ai quali ha formulato il giudizio, dimostrando di avere avuto riguardo ai parametri fattuali a questo scopo indicati dall'art. 2, comma 2, legge citata ed esplicitando le ragioni del suo convincimento; non è invece necessario che egli ripercorra analiticamente tutti i passaggi del processo oggetto d'esame, sempre che le argomentazioni e le ragioni svolte non siano intrinsecamente contraddittorie (Cass. n. 21020/2006).

Il procedimento dinanzi alla Corte di Cassazione seguirà poi le forme ordinarie e non necessariamente quelle del procedimento in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.

In astratto il giudizio di legittimità potrà concludersi, nell'ipotesi di accoglimento, con una decisione di rinvio alla Corte d'Appello che dovrà attenersi al principio di diritto enunciato dalla S.C. ovvero con una pronuncia sostitutiva nel merito resa dalla stessa Corte di Cassazione laddove non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto. Le precipue esigenze di celerità del procedimento per l'equa riparazione dei danni da irragionevole durata dei processi e la natura documentale dello stesso rendono particolarmente praticabile e opportuna la definizione del giudizio mediante una decisione di merito della medesima Corte di Cassazione che potrà invero limitarsi, individuato ad esempio un diverso criterio di liquidazione del danno, a rideterminare direttamente, attraverso un semplice calcolo matematico, l'entità della somma dovuta al ricorrente, evitando così un inutile giudizio di rinvio. In questi termini si pone la giurisprudenza di legittimità per la quale, annullando per violazione o falsa applicazione di norme di diritto o per vizio di motivazione il decreto della Corte d'appello di rigetto di domanda di equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001, la Corte di cassazione può, ai sensi dell'art. 384, comma secondo, c.p.c., decidere la causa nel merito liquidando il chiesto indennizzo, se dagli atti risultino la protrazione del giudizio, cui la domanda si riferisce, oltre il limite della sua ragionevole durata ed il ricorso non abusivo al processo (Cass. n. 22873/2009).

Competenza per la revocazione

Contro il decreto che abbia pronunciato sulla opposizione ex art. 5-ter della stessa l. n. 89 del 2001, la domanda di revocazione deve essere proposta davanti alla Corte d'appello e contro la sentenza sulla revocazione, resa dalla Corte d'appello, deve essere spiegato ricorso per cassazione (Cass. n. 11057/2024).

Bibliografia

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