Superamento del periodo di comporto: licenziamento legittimo purché in un termine ragionevole

Pasquale Staropoli
03 Novembre 2017

Nel caso in cui il datore di lavoro intimi un licenziamento per superamento del periodo di comporto dopo la ripresa dell'attività lavorativa da parte del dipendente, l'allegazione e la prova di circostanze che integrino una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso spetta al lavoratore in quanto fatto estintivo del potere di recesso.
Massima

Nel caso in cui il datore di lavoro intimi un licenziamento per superamento del periodo di comporto dopo la ripresa dell'attività lavorativa da parte del dipendente, l'allegazione e la prova di circostanze che integrino una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso spetta al lavoratore in quanto fatto estintivo del potere di recesso.

Il caso

La Corte d'Appello dichiarava illegittimo il licenziamento irrogato per superamento del periodo di comporto, in considerazione dell'intervallo temporale (35 giorni) trascorso tra il rientro in servizio e la comunicazione del recesso, che aveva ingenerato nella lavoratrice un incolpevole affidamento circa la prosecuzione del rapporto e la volontà datoriale di rinunciare alla facoltà di recedere.

Ricorreva per la cassazione della sentenza la società, denunciando l'avvenuta inversione dell'onere della prova in ordine alla sussistenza di una tacita manifestazione di volontà, che doveva essere provata dalla dipendente.

La questione

La Corte di Cassazione torna sulla questione della tempestività del licenziamento: a chi spettano l'allegazione e la prova di circostanze che integrino una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso?

Le soluzioni giuridiche

Malattia, diritto alla conservazione del posto di lavoro e tempestività del licenziamento
Una delle norme fondamentali in materia di tutela della salute dei lavoratori è rappresentata dall'art. 2110 c.c. che prevede, fra l'altro, il diritto alla conservazione del posto di lavoro per il dipendente che versi in uno stato di malattia e perciò debba assentarsi dal lavoro. In tal caso, al datore di lavoro è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto soltanto dopo aver verificato il superamento del c.d. periodo di comporto, ambito temporale – normalmente individuato dalla contrattazione collettiva – entro il quale di contro il lavoratore ha riconosciuta la predetta garanzia di mantenere il posto di lavoro.

Corollario delle considerazioni circa le modalità attraverso le quali il contemperamento delle due opposte posizioni giuridiche possono atteggiarsi, è quello della tempestività del licenziamento, concetto già diffusamente scrutinato da interpreti e giurisprudenza in relazione al licenziamento disciplinare, che presenta sfumature diverse quando riferito a questa particolare fattispecie. È piuttosto consolidato in giurisprudenza infatti il concetto per il quale mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi (Cass., sez. lav., 28 marzo 2011, n. 7037) che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della sua presenza in rapporto agli interessi aziendali.

La sentenza n. 16392/2017 della Corte di Cassazione si colloca in questo solco. Nello specifico il datore di lavoro aveva atteso ben trentacinque giorni dopo la ripresa dell'attività lavorativa del dipendente per licenziarlo per superamento del periodo di comporto. Tale circostanza aveva fatto ritenere il licenziamento illegittimo, in entrambi i gradi del giudizio di merito, sulla scorta della considerazione che l'intervallo temporale trascorso tra il rientro nel posto di lavoro e la comunicazione del licenziamento aveva determinato un incolpevole affidamento del lavoratore nella prosecuzione del rapporto e nella volontà del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere.

La Cassazione capovolge le conclusioni dei giudici di merito, valorizzando la potestà datoriale che si realizza con il riconoscimento, ex art. 2110 c.c., del diritto del datore di lavoro di disporre il licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia del lavoratore, assegnando all'esercizio di tale diritto un significativo ambito discrezionale. Secondo la Cass. sez. lav., n. 16392/2017, fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo suddetto (e quindi anche prima del rientro del prestatore), nell'ambito dell'esercizio di tale riconosciuto diritto, il datore di lavoro ha la facoltà di attendere il rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno dell'assetto organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda. Ne deriva – è l'assunto della sentenza che ne richiama di precedenti conformi – che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l'eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente. In mancanza di detto rientro, non può prospettarsi alcun ritardo nell'intimazione del recesso (Cass., sez.lav., 20 settembre 2016, n. 18411).

Il percorso logico-giuridico della Corte manifesta un orientamento in termini di flessibilità del concetto di tempestività del licenziamento che, come affermato, ha nello specifico un quid di maggiore ampiezza rispetto al licenziamento disciplinare, mancando l'urgenza di provvedere di quel caso, essendo limitata la liceità del licenziamento disposto in un momento successivo al rientro del lavoratore assente per malattia da criteri di ragionevolezza, che consentano di escludere che il decorso del tempo possa rappresentare un disinteresse verso la risoluzione del rapporto di lavoro, con la conseguente necessità di tutelare la buona fede del lavoratore che a causa del predetto decorso, confida nella prosecuzione del rapporto di lavoro.

Lo spatium deliberandi del datore di lavoro

Il periodo di tempo che trascorre tra il momento in cui il datore di lavoro matura il diritto a irrogare il licenziamento (nel caso specifico il superamento del periodo di comporto) e quello in cui effettivamente vi provvede, può assumere dunque significato ambivalente: legittimo diritto del datore di lavoro di verificare la possibilità di proseguire il rapporto di lavoro, valutando l'utilità del rientro e della prestazione lavorativa, verso la possibilità che il decorso del tempo possa assumere il significato di una rinuncia, tacita, dello stesso datore di lavoro, di esercitare la prerogativa che gli riconosce l'art. 2110 c.c.. Ciò secondo una valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative, la cui valutazione non è neppure sindacabile in sede di giudizio di legittimità (Cass. sez. lav., 15 settembre 2014, n. 19400).

La determinazione di questo assetto, ed il riconoscimento al datore di lavoro della possibilità di differire ragionevolmente il momento in cui irrogare il licenziamento per superamento del periodo di comporto, purché entro limiti ragionevoli, ad un momento successivo al raggiungimento del limite contrattuale ed anche in caso di ripresa della prestazione lavorativa, è da ricollegare alla qualificazione della tipologia della giustificazione del licenziamento in discorso.

Come noto infatti, il licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia è considerato dalla dottrina come una sorta di tertium genus, perché non può dirsi evidentemente un licenziamento per colpa del lavoratore, né di fatto conseguente ad una determinazione originaria esclusiva del datore, come avviene per il licenziamento economico. Tuttavia, il licenziamento in esame è ontologicamente ascrivibile alla categoria del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche se speciale. La malattia non è infatti addebitabile a responsabilità del lavoratore (e comunque l'assenza che ne consegue non è rilevante di norma ai sensi dell'art. 2110 c.c. in tali termini), la scelta di risolvere il rapporto di lavoro, che è un diritto riconosciuto al datore di lavoro, è subordinata alla sussistenza dei due presupposti necessari: l'assenza per malattia ed il protrarsi della stessa per un periodo superiore a quanto previsto dal contratto collettivo).

Si tratta pur sempre però di un licenziamento sorretto da ragioni latu sensu oggettive, i requisiti non dipendono dalla volontà delle parti. Pertanto è legittimo che la decisione di esercitare il diritto riconosciuto dalla legge possa soggiacere, e così spostarsi il momento dell'effettiva disposizione, alla preventiva valutazione della opportunità di proseguire il rapporto di lavoro la cui prestazione era stata sospesa dalla malattia, valutazione che, evidentemente, non potrà che avvenire dopo la ripresa della prestazione stessa ed il reinserimento del lavoratore assente per malattia, del quale il datore di lavoro è legittimato a valutare la convenienza ed utilità della prosecuzione del rapporto.

Osservazioni

Il significato del tempo e l'onere della prova

L'attesa del datore di lavoro nel provvedere al licenziamento una volta superato il comporto e soprattutto la ripresa della prestazione lavorativa, esige pur alla luce della obiettiva plausibilità di quanto premesso, la necessità di assegnare un significato certo a tale comportamento, verificando che altrimenti nel decorso del tempo non possa riconoscersi la rinuncia del datore di lavoro al licenziamento stesso.

È evidente che la sentenza qui brevemente annotata esclude tale automaticità. Tuttavia è necessario definire la distribuzione dell'onere della prova in capo alle parti quando entrambi assumano posizioni contrapposte, come nella vicenda decisa dalla sentenza n. 16392/2017.

È principio piuttosto consolidato, non a caso ripreso proprio dalla sentenza in esame, come ampiamente premesso, che nell'ipotesi in cui si verifichi il superamento del periodo di comporto il fatto che il datore di lavoro accetti che il dipendente riprenda l'attività non significa che abbia rinunciato al diritto di recedere dal rapporto. Qualora esista il nesso causale tra la intimazione del licenziamento e il fatto addotto a sua giustificazione, il diritto al recesso rimane sempre valido. La prova della sussistenza di tale nesso (che è in re ipsa in ipotesi di licenziamento intimato non appena superata la soglia del comporto) deve essere fornita dal datore di lavoro nel caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo mentre, nel caso di licenziamento intimato dopo pochi giorni dalla riammissione in servizio, è onere del lavoratore provare che tale riammissione costituisca nel caso concreto – eventualmente in concorso con altri elementi – una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso (Cass. sez. lav., 6 agosto 2015, n. 16462).

Riassumendo, il datore di lavoro ha diritto a risolvere il rapporto di lavoro (anche soltanto) per il superamento del periodo di comporto, e se lo fa nell'immediatezza del superamento del limite o comunque prima del rientro del lavoratore malato, per ciò solo il licenziamento è legittimo, assolto l'onere della prova del superamento del comporto, che incombe sul datore di lavoro.

Diversamente, nel caso in cui il datore di lavoro intimi un licenziamento per superamento del periodo di comporto dopo la ripresa dell'attività lavorativa da parte del dipendente, l'allegazione e la prova di circostanze che integrino una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso spetta al lavoratore, in quanto fatto estintivo del potere di recesso (Cass. sez. lav., n. 16392/2017). Sempreché, è la stessa sentenza ad affermarlo richiamando la propria giurisprudenza, il licenziamento sia avvenuto entro un tempo ragionevolmente circoscritto rispetto alla data di maturazione del periodo di comporto ed alla ripresa dell'attività lavorativa da parte del dipendente.

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