Aspetti qualificanti del “riordino” della disciplina relativa al concordato preventivo

07 Novembre 2017

Nell'ambito della legge delega per la riforma della disciplina delle crisi d'impresa (L. 19 ottobre 2017, n. 155) pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 ottobre, assumono notevole rilevanza i principi ed i criteri direttivi dettati per il riordino della normativa in materia di concordato preventivo. I temi in merito ai quali il Governo è stato delegato ad intervenire sono numerosi, al punto da interessare sostanzialmente l'intero svolgimento della procedura.
Premessa

Nell'ambito della legge delega per la riforma della disciplina delle crisi d'impresa (L. 19 ottobre 2017, n. 155) pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 ottobre, assumono notevole rilevanza i principi ed i criteri direttivi dettati per il riordino della normativa in materia di concordato preventivo. I temi in merito ai quali il Governo è stato delegato ad intervenire sono numerosi, al punto da interessare sostanzialmente l'intero svolgimento della procedura.

Nella maggior parte dei casi, gli interventi di riforma prospettati si pongono l'obiettivo di fare chiarezza su alcuni nodi problematici emersi nell'interpretazione e nell'applicazione della normativa vigente; soltanto per fare alcuni esempi, si possono leggere in tal senso i criteri direttivi di cui all'art. 6, comma 1, lett. c) (che prevede la revisione della disciplina delle misure protettive seguenti alla proposizione della domanda di concordato) ed alla successiva lett. i) (relativo alla disciplina dei provvedimenti riguardanti i rapporti pendenti), oppure, ancora, quelli enunciati nella lett. l) (riguardanti l'integrazione della disciplina con continuità aziendale, nell'ambito dei quali riveste particolare rilevanza la previsione relativa alla continuità aziendale c.d. indiretta).

Data l'ampiezza e l'eterogeneità del contenuto della delega in materia di concordato preventivo, non è possibile effettuare in queste sede un analitico esame di tutte le direttive di intervento impartite dal legislatore delegante, né sarebbe prospettabile una completa ricognizione di tutte le eventuali soluzioni normative astrattamente percorribili nel rispetto di tali direttive. L'esame dovrà invece necessariamente concentrarsi su alcuni punti qualificanti della delega conferita; la disamina di detti aspetti dovrebbe peraltro risultare molto interessante, consentendo di intravedere la fisionomia complessiva che l'istituto concordatario dovrebbe assumere all'esito del processo di riforma avviato con l'approvazione della legge in commento, nonché il ruolo sistematico che la procedura medesima sarà in futuro chiamata a svolgere nel più ampio contesto della regolazione della crisi d'impresa.

La limitazione dell'ambito applicativo dei concordati di tipo liquidatorio

Il primo ed il principale di quelli che sono stati indicati come punti qualificanti del futuro intervento legislativo delegato consiste nella decisa limitazione dell'ambito applicativo riservato ai concordati c.d. liquidatori, cioè quelli il cui piano non prevede la continuazione dell'attività d'impresa ma la mera dismissione dei beni del debitore.

A tal riguardo è opportuno ricordare come un primo risoluto passo nella direzione appena indicata sia stato compiuto con gli interventi di modifica del 2015, ed in particolare con l'introduzione della soglia di soddisfacimento minimo del 20 per cento per i creditori chirografari, attualmente prevista dall'art. 160, ultimo comma, l. fall. (inserito ad opera dell'art. 4, primo comma, lett. a), del d.l. 27 giugno 2015, convertito con L. 6 agosto 2015, n. 132).

Lo schema di disegno di legge inizialmente elaborato dalla “commissione Rordorf” prevedeva invero l'abbandono del vincolo della soglia minima di pagamento; data la pacifica opportunità di impedire gli abusi cui lo strumento concordatario si è negli ultimi anni prestato, tuttavia, in quello stesso schema si prevedeva di limitare l'ammissibilità delle proposte liquidatorie alle ipotesi in cui fosse previsto un “apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori”. In sostanza, configurando il concordato liquidatorio di per sé come un'eccezione, giustificata soltanto dalla messa a disposizione dei creditori di un quid pluris rispetto al compendio patrimoniale del debitore, agli estensori di quella proposta era sembrato inopportuno imporre anche una soglia minima di soddisfacimento dei creditori chirografari, ferma comunque la necessità che il vantaggio derivante dalle risorse esterne non fosse irrisorio.

Tali indicazioni, le cui ragioni erano chiaramente esposte nella relazione di accompagnamento, non hanno però trovato seguito nell'iter di proposta ed approvazione della legge in commento. L'originario disegno di legge di fonte ministeriale eliminava del tutto la possibilità di prevedere proposte concordatarie di natura “essenzialmente liquidatoria”; il testo di legge scaturito all'esito dei lavori parlamentari, invece, conserva l'astratta possibilità di proposte concordatarie di tipo liquidatorio, ma subordina l'ammissibilità di una simile domanda al congiunto ricorrere di due condizioni: il vincolo della migliore soddisfazione dei creditori derivante dall'apporto di risorse esterne al debitore ed il rispetto di una soglia minima di pagamento dei creditori chirografari, pari sempre al 20 per cento. L'art. 6, comma 1, lett. a), della legge delega dispone, infatti, che il legislatore delegato dovrà prevedere l'ammissibilità di proposte che abbiano natura liquidatoria esclusivamente quando “è previsto l'apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori” e che, in ogni caso, deve essere assicurato “il pagamento di almeno il 20 per cento dell'ammontare complessivo dei crediti chirografari”.

Tralasciando ogni valutazione in merito alla bontà ed alla opportunità di una simile scelta, non si può non rilevare come la stessa, ove attuata, condurrà inevitabilmente (o meglio, accentuerà la tendenza già manifestata con la novella del 2015) verso una nuova marginalizzazione della procedura di concordato preventivo rispetto al ruolo dalla stessa assunto a partire dalla riforma organica degli anni 2006/2007; marginalizzazione peraltro non necessariamente da deprecare se, come giustamente messo in luce da diversi osservatori, l'obiettivo della legge non è quello di massimizzare il numero di concordati, ma quello di assicurare la realizzazione di concordati di “buona qualità”, tanto per i creditori quanto per il sistema economico nel suo complesso.

Passando ad esaminare le principali questioni che il legislatore delegato sarà chiamato ad affrontare nel dare attuazione alla delega ricevuta, vi sarà innanzitutto la necessità di chiarire cosa si intende per “risorsa esterna”. Data l'ampiezza della formula impiegata, sarebbe certamente legittimo, oltre che opportuno, recepirne una nozione tale da ricomprendervi non soltanto l'apporto di denaro o beni, ma qualunque intervento in grado di portare ad un significativo aumento della misura di soddisfazione dei creditori (si pensi alla rinuncia o alla postergazione volontaria di un credito), a patto che tali misure provengano effettivamente dall'esterno, cioè da soggetti diversi dal debitore e, probabilmente, non collegati a quest'ultimo. Si dubita, invece, che potrà essere considerata alla stregua di “risorsa esterna” una garanzia sull'esecuzione del concordato diretta a coprire l'eventuale differenza tra quanto realizzato con la cessione e la percentuale di soddisfazione indicata nella proposta, dato che in tal caso l'apporto esterno sarebbe per sua natura soltanto eventuale e, comunque, non idoneo ad aumentare la soddisfazione dei creditori rispetto alla liquidazione giudiziale, bensì soltanto a rendere certo lo stesso livello di soddisfazione prevedibile a seguito della liquidazione.

Altra rilevante questione sarà quella di individuare i criteri in base ai quali valutare l'aumento del grado di soddisfazione dei creditori concordatari. La legge fa riferimento ad un aumento di “misura apprezzabile” e sul punto, nella relazione di accompagnamento allo schema di disegno di legge elaborato dalla commissione Rordorf, si afferma che l'apporto di risorse esterne dovrebbe essere tale da “rendere il concordato più vantaggioso per i creditori in termini non irrisori, ma la relativa misura ben potrà essere valutata caso per caso o eventualmente in seguito specificata dal legislatore delegato”.

Dubitando dell'opportunità di una precisa indicazione da parte del legislatore delegato, che peraltro dovrebbe essere coordinata con la previsione della soglia minima di soddisfazione dei creditori chirografari (soglia non prevista, come già detto, dallo schema di disegno di legge cui la relazione si riferiva), sembra invece preferibile rimettere il giudizio di “non irrisorietà” al prudente apprezzamento del giudice, che lo dovrebbe effettuare tenendo conto, da un lato, degli attendibili valori di liquidazione del patrimonio del debitore e, dall'altro, del contenuto del piano e della proposta concordataria.

Quanto poi al vincolo della soglia minima di soddisfazione dei creditori chirografari, la norma delegante, pur riprendendo la formulazione del già vigente ultimo comma dell'art. 160 l.fall., fa espresso riferimento all'ammontare complessivo dei crediti chirografari, così chiarendo (in accordo con quanto già affermato dalla maggior parte degli osservatori con riguardo alla disposizione vigente) che la soglia minima di pagamento dovrà riguardare il ceto creditorio chirografario nel suo complesso, e non necessariamente ciascun credito chirografario singolarmente inteso. Ciò vuol dire, nella sostanza, che potranno esservi classi di creditori chirografari ai quali viene assicurata una soglia di pagamento inferiore alla percentuale stabilita dalla legge, a patto che ad altre classi sia assicurata una percentuale di pagamento superiore alla ridetta soglia minima, così da assicurare il pagamento del 20 per cento dell'intero ammontare dei crediti chirografari. Sarebbe invece opportuno che il legislatore delegato si facesse carico di stabilire se la soglia minima di pagamento debba riguardare soltanto i creditori chirografari propriamente detti oppure, come ritiene la dottrina prevalente, anche i crediti privilegiati per la quota non coperta dal valore dei beni sui quali insiste la prelazione.

Nella legge delega, infine, è contenuto anche il criterio in base al quale distinguere i concordati liquidatori da quelli in continuità, non soggetti alla disciplina specificamente applicabile ai primi (ed in particolare, al vincolo della migliore soddisfazione dei creditori ed alla soglia minima di pagamento dei chirografari). L'art. 6, comma 1, lett. l), n. 2) stabilisce, infatti, che la disciplina del concordato con continuità aziendale dovrà essere integrata prevedendone l'applicabilità anche “alla proposta di concordato che preveda la continuità aziendale e nel contempo la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, a condizione che possa ritenersi, a seguito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale”. In definitiva tale norma, delimitando l'ambito di applicabilità della disciplina in materia di concordato con continuità aziendale, delimita in negativo anche la sfera di operatività delle norme sul concordato liquidatorio, ivi comprese quelle che dettano i presupposti di ammissibilità appena illustrati.

Al riguardo è interessante notare come il criterio di prevalenza da impiegare per ascrivere i concordati misti nell'ambito dei concordati in continuità piuttosto che in quelli liquidatori non sia riferito al valore dei cespiti liquidati, bensì alle risorse impiegate per la soddisfazione dei creditori. Secondo la norma in commento, in altri termini, potrà essere considerato alla stregua di un concordato in continuità anche quello il cui piano preveda la liquidazione della maggior parte del patrimonio del debitore, a condizione che le risorse con le quali si prevede di soddisfare i creditori provengano in misura prevalente dalla continuazione dell'esercizio dell'impresa.

Per concludere sul punto, a prescindere dalle opzioni normative che il legislatore delegato riterrà di percorrere sulle questioni appena indicate, sembra davvero che l'eventuale attuazione della delega legislativa in commento potrebbe dare luogo ad un notevole ridimensionamento del ruolo assunto dal concordato preventivo di tipo liquidatorio (e quindi, dal concordato preventivo in generale) negli ultimi anni; ciò, peraltro, soprattutto se le modifiche in tema di fallimento sortiranno gli effetti (forse in maniera troppo ottimistica) sperati.

In effetti, una volta venuti meno o attenuati ulteriormente i residui caratteri di afflittività insiti in alcuni aspetti della disciplina fallimentare propriamente detta (a partire dal nome della procedura), rese più veloci ed efficienti le procedure di accertamento del passivo e di liquidazione dell'attivo ed ampliato notevolmente l'ambito applicativo dell'istituto dell'esdebitazione (tra l'altro, con l'introduzione di ipotesi di esdebitazione operanti ipso iure), l'incentivo a ricorrere al concordato preventivo di tipo liquidatorio potrebbe consistere unicamente nel maggior coinvolgimento del debitore nella gestione della procedura. È tuttavia ragionevole presumere che ben pochi debitori troverebbero conveniente assumersi l'onere di un concordato liquidatorio rispettoso delle nuove condizioni di ammissibilità al solo fine di beneficiare di detto vantaggio; e sarà poi ancora meno probabile che un debitore orientato in tal senso riesca ad ottenere “risorse esterne” sufficienti per predisporre una proposta ammissibile secondo la nuova disciplina.

D'altro canto, come già anticipato in precedenza, il ridimensionamento del ruolo del concordato preventivo cui si è appena fatto riferimento non costituisce necessariamente un effetto negativo, soprattutto tenendo conto delle evidenti distorsioni cui l'attuale disciplina ha dato luogo e gli scarsi risultati prodotti dalla stessa, in termini di effettiva idoneità della procedura alla rapida emersione della crisi ed alla più efficiente sistemazione della stessa rispetto al fallimento.

La verifica giurisdizionale sulla fattibilità anche economica del piano concordatario

Un altro aspetto molto significativo della delega in materia di concordato preventivo è quello relativo all'ampliamento dell'oggetto del sindacato giurisdizionale sul contenuto del piano e della proposta concordataria.

Il contesto nel quale si colloca l'opzione legislativa in commento è assai noto: i limiti mostrati dalla summa divisio tracciata dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 1521 del 2013) tra “fattibilità giuridica” (intesa come legittimità formale e rispondenza del contenuto della proposta alla “causa in concreto” del concordato), la cui verifica è riservata al Tribunale, e “fattibilità economica” (intesa come prognosi favorevole sulla effettiva realizzabilità del piano concordatario), sulla quale gli unici legittimati a pronunciarsi sarebbero l'esperto attestatore, in sede di ammissione, ed i creditori in sede di deliberazione, erano già evidenti secondo parte della dottrina e si sono ulteriormente acuiti dopo la novella del 2015, che ha introdotto tra i presupposti di ammissibilità della domanda la soglia minima di pagamento da assicurare ai creditori chirografari (art. 160, quarto comma, l.fall.) e l'obbligo di indicazione dell'“utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore” (art. 161, comma 2, lett. e), l.fall.).

In tale situazione, il mero richiamo ai “criteri desumibili da consolidati orientamenti del giudice di legittimità” per la valutazione della fattibilità del piano, contenuto nello schema di disegno di legge elaborato dalla commissione Rordorf, è parso ad alcuni, e non senza ragioni, insufficiente a fare definitiva chiarezza su un aspetto così delicato della procedura concordataria.

Assai più incisiva era invece la proposta di intervento delineata nel disegno di legge delega d'iniziativa ministeriale, nella quale si proponeva di delegare il Governo ad esplicitare i poteri del Tribunale, “con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla realizzabilità economica dello stesso” (così l'art. 6, comma 1, lett. f), del disegno di legge originario).

All'esito dell'iter parlamentare, il risultato raggiunto è di apparente compromesso tra i due orientamenti appena richiamati: l'art. 6, comma 1, lett. f) della legge delega incarica il futuro legislatore delegato di “determinare i poteri del tribunale, con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla fattibilità anche economica dello stesso, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”.

È indubbio che il criterio direttivo appena riportato conduca ad un ampliamento dei poteri di sindacato del giudice sul contenuto del piano concordatario, includendovi anche i profili attinenti alla “fattibilità economica” dello stesso; il Tribunale, insomma, dovrà essere legittimato a valutare, su base prognostica, l'idoneità del piano ad assicurare la realizzazione della proposta concordataria, oltre che a verificare che tale proposta sia conforme alla “causa in concreto” del concordato. Il richiamo ai rilievi del commissario giudiziale, inserito durante l'iter parlamentare, potrebbe tuttavia indurre a prefigurare una normazione delegata che escluda la possibilità di esercitare tale potere di sindacato già in sede di ammissione della domanda, limitandolo alla sola fase successiva alla nomina del commissario giudiziale medesimo. Secondo tale impostazione, insomma, il Tribunale dovrebbe poter valutare la fattibilità economica del piano soltanto tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale, e quindi soltanto dopo la nomina del commissario giudiziale, che interviene normalmente con il provvedimento di apertura della procedura (tranne che nell'ipotesi di domanda di concordato con riserva).

In realtà, non è affatto certo che l'inciso “tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale” sia di per sé idoneo a vincolare il legislatore delegato nel senso di prevedere il sindacato giurisdizionale sulla fattibilità economica del piano soltanto dopo l'apertura della procedura; l'inciso potrebbe essere letto, invece, nel senso di imporre al Tribunale di tenere conto dei rilievi del commissario giudiziale, nei casi in cui tale organo sia stato nominato ed abbia effettivamente formulato rilievi, nulla ostando a che il Tribunale eserciti comunque i suoi poteri di sindacato anche prima che l'organo in questione sia nominato, cioè già in fase di giudizio sull'ammissibilità della domanda.

Poiché il criterio direttivo in parola sembra lasciare aperte entrambe le possibilità, la scelta sull'effettiva estensione dei poteri di sindacato giurisdizionale sulla fattibilità economica del piano concordatario è inevitabilmente rimessa alla discrezionalità tecnica e politica del legislatore delegato. È chiaro che, in sede di giudizio sull'ammissibilità della domanda, il Tribunale potrebbe non avere (e normalmente non ha) gli strumenti necessari a formulare una prognosi sulla fattibilità economica del piano. Non sembra inoltre opportuno che il Tribunale, già in sede di giudizio di ammissibilità, sia sistematicamente indotto a fare ricorso all'eventuale nomina di consulenti tecnici ed altri ausiliari (periti e stimatori dei cespiti aziendali, ecc.) al fine di accertare la predetta fattibilità economica; eventualità, quest'ultima, che tra l'altro contrasterebbe con la manifestata (e giusta) intenzione di ridurre i costi della procedura, e porrebbe anche il problema di determinare la sorte dei compensi di tali ausiliari nel caso in cui la prognosi di fattibilità fosse negativa e conducesse alla declaratoria di inammissibilità della domanda.

Alla luce di tali considerazioni, si può ritenere che il giudizio del Tribunale sulla fattibilità economica del piano dovrà essere generalmente rimandato ad un momento successivo all'apertura della procedura e, nel caso, potrà portare ad un provvedimento di diniego dell'omologazione. Ciò non vuol dire, però, che al Tribunale debba necessariamente essere precluso ogni esame sulla fattibilità economica del piano già in sede di giudizio sull'apertura della procedura; al contrario, il riconoscimento di un potere di controllo già in sede di giudizio di ammissibilità potrebbe condurre ad un innalzamento della “qualità” delle domande concordatarie presentate, consentendo l'immediata declaratoria di inammissibilità di quelle fondate su piani già prima facie economicamente insostenibili. Per tale ragione, la soluzione preferibile de jure condendo sembrerebbe quella di consentire al Tribunale di esercitare il proprio potere di sindacato sulla fattibilità economica anche in sede di giudizio di ammissibilità (cioè, generalmente, prima che sia nominato il commissario giudiziale), salva la possibilità di esercitarlo anche nel prosieguo della procedura, con il supporto in quest'ultimo caso dei rilievi formulati dal commissario giudiziale o dagli eventuali creditori dissenzienti.

Introduzione del voto “per teste” e della disciplina sul conflitto di interessi dei creditori

Nell'ottica di delineare la fisionomia che la procedura in questione potrebbe assumere con l'attuazione della legge delega, meritano alcune riflessioni anche gli interventi previsti in materia di deliberazione del concordato. Le linee di intervento individuate dal legislatore delegante in proposito sono molteplici e di diversa portata. La lett. h) dell'art. 6, comma 1, dispone ad esempio sulla necessità di disciplinare il voto dei creditori con diritto di prelazione il cui pagamento sia dilazionato e dei creditori con utilità diverse dal denaro; la lett. l), n. 1), prevede inoltre che, nel caso di concordato con continuità, sia possibile prevedere una moratoria per il pagamento in favore dei creditori privilegiati per un periodo anche superiore ad un anno, riconoscendo in tale ipotesi il diritto di voto ai predetti creditori privilegiati.

In entrambi i casi si tratta di questioni già emerse nella prassi, ed è perciò assai prevedibile che il legislatore delegato si limiterà a recepire gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali maturati sul punto, ancorché non sempre del tutto condivisibili.

Di ben più rilevante portata, in ogni caso, sono gli interventi di riforma i cui criteri direttivi vengono enunciati dalla lett. g) dell'art. 6, primo comma, nella quale si prevede innanzitutto la soppressione dell'adunanza dei creditori, “previa regolamentazione delle modalità telematiche per l'esercizio del voto e la formazione del contraddittorio sulle richieste delle parti”, e poi, soprattutto, l'adozione di un “sistema di calcolo delle maggioranze anche "per teste", nell'ipotesi in cui un solo creditore sia titolare di crediti pari o superiori alla maggioranza di quelli ammessi al voto, con apposita disciplina delle situazioni di conflitto di interessi”. Proprio su quest'ultimo punto, il compito demandato al legislatore delegato sarà assai delicato.

In merito al criterio di calcolo delle maggioranze nell'ipotesi in cui vi sia un creditore “maggioritario”, occorre innanzitutto rilevare come la norma imponga di prevedere un sistema di calcolo “anche <<per teste>>”; l'utilizzo della congiunzione “anche” induce dunque a ritenere che il criterio della maggioranza per teste non potrà sostituirsi a quello della maggioranza per valore, bensì che i due criteri debbano coordinarsi, mediante l'individuazione di soglie di approvazione del concordato determinate in una quota minima del valore dei crediti e, congiuntamente, in un numero minimo di creditori.

Davvero eccessivamente vago sembra, invece, il riferimento ad una “apposita disciplina delle situazioni di conflitto di interessi”, considerando anche che il tema del conflitto di interessi nelle deliberazioni concordatarie (il discorso vale, in linea di principio, tanto per il concordato preventivo quanto per quello fallimentare) è tra i più controversi.

Sul punto, si sono fin qui registrate posizioni assai distanti tra la giurisprudenza prevalente (si veda la sentenza della Suprema Corte del 10 febbraio 2011, n. 3274, cui si sono conformate alcune successive pronunce di merito), che ha nettamente escluso la possibilità di applicare alle deliberazioni concordatarie la categoria logica del voto in conflitto di interessi, e la dottrina, generalmente più incline a riconoscerne l'operatività anche nella materia che ci occupa. Peraltro, anche i più convinti sostenitori dell'applicabilità in subiecta materia dei principi in tema di voto in conflitto di interessi, non sempre sono stati in grado di dissipare tutti i dubbi in ordine alla ratio ed al contenuto di una eventuale regolamentazione del voto in conflitto di interessi nel concordato, non essendo certamente possibile trasporre tal quali le regole ed i principi elaborati nella materia societaria con riguardo al voto del socio, come talvolta qualcuno ha semplicisticamente affermato. In merito alla distinzione tra interessi comuni ai votanti ed interessi “esterni”, in grado di entrare in conflitto con i primi, sussiste infatti una fondamentale differenza tra i soci votanti nell'assemblea sociale ed i creditori deliberanti sulla proposta di concordato, e cioè il fatto che la compagine sociale è per definizione animata da un medesimo scopo (quello di esercitare in comune di un'attività economica e dividerne gli utili, secondo la definizione dell'art. 2247 c.c.) che trova fondamento in un vincolo di tipo negoziale volontariamente costituito tra tutti i soci; nulla di tutto ciò accade, invece, con riguardo ai creditori concordatari, che non sono legati tra loro da null'altro salvo che dall'avventura di essere tutti creditori di un soggetto in crisi. Non sembra dunque così facile spiegare il motivo per il quale, nel votare sulla proposta di concordato, oltre a perseguire i propri personali interessi i creditori dovrebbero tener conto anche degli interessi degli altri creditori, se non forse richiamando concetti astratti quale il presunto interesse comune alla migliore sistemazione possibile della crisi del debitore.

Anche ammettendo che la fattispecie del voto in conflitto di interessi abbia ragione di essere applicata in ambito concordatario, non v'è poi nemmeno uniformità di vedute sul trattamento da riservare al creditore in conflitto; le ipotesi astrattamente percorribili sono infatti diverse, e vanno dal mero divieto di voto alla sterilizzazione del voto in caso di danno attuale o potenziale agli altri creditori, oppure ancora a particolari vincoli nella c.d. “classificazione” dei creditori.

In definitiva, il tema del voto in conflitto di interessi dei creditori nel concordato preventivo era ed è tuttora davvero troppo articolato perché il legislatore delegato potesse limitarsi a conferire una delega in bianco avente ad oggetto la sua regolamentazione, com'è avvenuto con la previsione in commento. Nella norma di delega, infatti, non soltanto non v'è alcuna traccia di principi e criteri direttivi effettivamente in grado di orientare il legislatore delegato nel delineare la disciplina sul tema in questione; a ben vedere, data l'equivoca formulazione sintattica della disposizione, non è nemmeno chiaro se la “apposita disciplina delle situazioni di conflitto di interessi” debba avere portata generale o debba invece riguardare soltanto l'ipotesi in cui sia presente un creditore maggioritario, come pure potrebbe ricavarsi da una lettura della norma delegante.

Per le ragioni sin qui accennate, dunque, l'attuazione di tale parte della delega richiederà una forte dose di cautela da parte del legislatore delegato. Se, da un lato, l'obiettivo di impedire comportamenti abusivi da parte dei creditori “forti” in danno di quelli “deboli” (obiettivo cui sembrano ispirate le previsioni in tema di voto capitario e di conflitto di interessi) appare certamente degno di grande considerazione, non si potrà nemmeno trascurare che gli stessi creditori “forti” (fornitori strategici, banche, ecc.) sono quelli il cui sostegno assume importanza decisiva soprattutto nelle ipotesi di concordato con continuità aziendale; occorrerà perciò interrogarsi sulla coerenza sistematica e sull'effettiva utilità di una disciplina che, mentre si propone di favorire il ricorso alla procedura di concordato in continuità, pretendesse allo stesso tempo di marginalizzare in misura rilevante il voto di simili creditori sulla deliberazione sul concordato.

L'introduzione di ipotesi di obbligatoria formazione delle classi

Alcune brevi considerazioni sono infine necessarie con riguardo alla previsione della legge delega riguardante l'introduzione di ipotesi di obbligatoria suddivisione in classi dei creditori.

Nonostante sul punto non siano mancate opinioni dissonanti (tanto in dottrina quanto nella giurisprudenza), nel contesto normativo tuttora vigente può ritenersi prevalente e condivisibile l'orientamento secondo cui la suddivisione in classi del ceto creditorio costituisce una mera facoltà del debitore. Secondo l'attuale art. 160, comma 1, lett. c), l.fall., il piano oggetto della proposta di concordato può (ma non deve) prevedere la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; conseguentemente, ai sensi del vigente art. 163, comma 1, secondo periodo, l.fall. il Tribunale ha il potere di controllare la correttezza dei criteri seguiti nella eventuale formazione delle classi, ma non anche quello di sindacare la mancata formazione delle classi medesime e rigettare, per tale ragione, la domanda di apertura della procedura o di omologazione del concordato.

L'art. 6, primo comma, lett. e) della legge stabilisce, invece, che il legislatore delegato dovrà “individuare i casi in cui la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei, è obbligatoria, prevedendo in ogni caso, che tale obbligo sussiste in presenza di creditori assistiti da garanzie esterne”. Anche su tale aspetto, dunque, la direttiva impartita dal legislatore delegante assume carattere decisamente innovativo, prefigurando l'introduzione di ipotesi nelle quali la classificazione del ceto creditorio dovrà ritenersi obbligatoria.

La ratio sottesa a tale innovazione, nella sostanza, è la stessa di quella posta a base delle previsioni in tema di voto capitario e di conflitto di interessi dei creditori: l'intento, cioè, di assicurare una maggiore tutela ai creditori “deboli” e minoritari, rispetto a proposte concordatarie orientate verso le ragioni dei creditori più “forti”. In tale ottica, la suddivisione del ceto creditorio in classi consente di attenuare il peso del voto dei creditori maggioritari, richiedendo che la maggioranza dei voti favorevoli sia raggiunta anche nel maggior numero di classi, e legittima ciascun creditore appartenente ad una classe dissenziente a sollevare contestazioni riguardanti la convenienza del concordato.

Come già posto in evidenza con riferimento al voto per teste ed alla disciplina del conflitto di interessi, peraltro, anche sul tema in oggetto l'intervento del legislatore delegato dovrà essere particolarmente cauto. In effetti, se da un lato l'obbligo di classificazione dei creditori potrebbe contribuire a superare le criticità cui si è fatto cenno in precedenza, impedendo che una categoria di creditori possa prevalere sulle altre comprimendo eccessivamente i legittimi interessi di queste ultime, dall'altro lato è evidente che una eccessiva parcellizzazione del ceto creditorio potrebbe dare luogo ad effetti altrettanto censurabili, comportando il rischio di una “dittatura” delle minoranze contrarie all'approvazione del concordato. Tale ultima considerazione induce a ritenere che la concreta individuazione dei casi di obbligatorietà della formazione delle classi dovrà essere effettuata dal legislatore delegato cum grano salis.

Una delle ipotesi in relazione alle quali dovrà essere prevista l'obbligatoria formazione di classi è peraltro indicata direttamente dalla legge delega, la quale stabilisce che ciò dovrà in ogni caso avvenire “in presenza di creditori assistiti da garanzie esterne”.

L'obbligo di raggruppare in classe i creditori assistiti da garanzie esterne, non previsto dallo schema elaborato dalla commissione Rordorf né dal disegno di legge di fonte ministeriale, troverebbe fondamento nella preoccupazione di evitare che i creditori garantiti possano inquinare, con il loro voto presumibilmente favorevole, l'ipotetica contrarietà al concordato dei creditori non garantiti. Sull'effettiva ragionevolezza di un simile obbligo, in passato prospettato in alcune pronunce di merito (si veda, tra le altre, Trib. Piacenza, decr. 1 settembre 2011, in questo portale, 20 aprile 2012, con commento di A.M. Azzaro, Formazione delle classi e giudizio di “fattibilità” nel concordato preventivo), si potrebbero in astratto manifestare alcune perplessità; data la chiara indicazione contenuta nella legge delega in commento, tuttavia, è indubbio che il legislatore delegato non disporrà al riguardo di alcun margine di discrezionalità.

Non così, invece, con riferimento alle altre ipotesi nelle quali un obbligo di classificazione è stato in passato sostenuto, come nel caso dei crediti privilegiati falcidiati, dei crediti fiscali e previdenziali, dei crediti postergati e dei crediti dei soci e di società controllate dal debitore o a questo collegate. In tutti questi casi, come già detto, le scelte del legislatore delegato dovranno essere particolarmente ponderate, al fine di evitare che una giusta tutela prevista in favore dei creditori “deboli” trasmodi nella concreta impossibilità di approvare qualunque concordato sulla quale non sia raggiunta l'unanimità dei consensi.

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