La revoca del decreto ingiuntivo che costituisce titolo esecutivo, fra impossibile reviviscenza e principio del contraddittorio

08 Novembre 2017

Con la decisione in commento la Suprema Corte affronta due “snodi” processuali particolarmente rilevanti dal punto di vista pratico ed operativo: quello dell'ambito di applicazione del cd. divieto di sentenze della cd. “terza via” e quello del potere ufficioso di verifica del titolo esecutivo da parte del giudice dell'opposizione all'esecuzione, unitamente agli effetti che determina la revoca del decreto ingiuntivo.
Massima

La revoca del decreto ingiuntivo operata dalla sentenza di primo grado di accoglimento dell'opposizione ex art. 645 c.p.c. è definitiva, ed il titolo giudiziale revocato non è destinato a riviviscenza neppure nel caso di eventuale riforma della sentenza di primo grado da parte del giudice d'appello; pertanto, il decreto revocato è inidoneo a fondare l'esecuzione e la sua caducazione può essere rilevata d'ufficio dal giudice dell'opposizione all'esecuzione.

Il secondo comma dell'art. 101 c.p.c., laddove prescrive una particolare modalità per l'instaurazione del contraddittorio, qualora il giudice ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, non è norma tassativa, per cui è possibile che in alternativa il giudice rimetta la causa sul ruolo istruttorio provocando la discussione orale, o che il contraddittorio sia direttamente assicurato dalla concessione dei termini per comparse conclusionali o repliche dopo detta udienza di discussione.

Il caso

La decisione del Supremo Collegio riguarda un'opposizione all'esecuzione collegata ad altro procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo pendente - avanti un diverso ufficio giudiziario - fra le medesime parti.

Il Tribunale di Brescia aveva accolto l'opposizione all'esecuzione procedendo ad una compensazione giudiziale fra rispettivi debiti e crediti e condannando la parte opposta/esecutante alla refusione integrale delle spese. La Corte d'appello, invece, pur confermando l'opposizione all'esecuzione, ha modificato la motivazione senza entrare nel merito dell'accertamento delle rispettive pretese creditorie, ma limitandosi ad osservare che il titolo esecutivo su cui detta esecuzione si fondava, costituita da un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Firenze, era stato nel frattempo revocato con sentenza da parte dello stesso Tribunale, seppur successivamente appellata. I giudici di secondo grado hanno tuttavia, accogliendo la censura sul punto, riliquidato le spese e disposto la compensazione delle stesse nella misura di un quinto, lasciando i restanti 4/5 a carico della società appellante (in primo grado opposta).

Avverso tale provvedimento collegiale ha avanzato ricorso per cassazione la parte soccombente in primo grado ed appellante, ritenendosi ingiustamente pregiudicata (anche) dalla decisione di secondo grado.

Le questioni

I quattro motivi di impugnazione proposti possono essere così riassunti (i primi due già avanzati e non accolti dal giudice del gravame):

  1. violazione delle disposizioni in tema di costituzione dell'organo giudicante, in quanto la sentenza di primo grado era stata redatta da un giudice onorario non assegnatario delle controversie in materia di opposizione all'esecuzione immobiliare, nonché dal medesimo sottoscritta in qualità di giudice dell'esecuzione invece che – come avrebbe dovuto – quale giudice monocratico ordinario;
  2. violazione delle disposizioni in tema di contraddittorio e corrispondenza fra chiesto e pronunciato, per avere il giudice di prime cure disposto la rimessione della causa di opposizione sul ruolo istruttorio, al fine di acquisire la sentenza del Tribunale di Firenze che aveva revocato il decreto ingiuntivo costituente titolo esecutivo, senza successivamente concedere l'apposito termine per memorie previsto dall'art. 101, comma 2, c.p.c.;
  3. violazione e falsa applicazione di plurime disposizioni processuali, per aver ritenuto il giudice dell'impugnazione irrilevante la circostanza che la sentenza che aveva operato la revoca del citato decreto ingiuntivo fosse stata, a sua volta, appellata, non potendosi perciò ritenere che tale revoca avesse determinato il venir meno del titolo fondante l'esecuzione;
  4. violazione delle disposizioni in tema di liquidazione delle spese, per avere il giudice dell'appello compensato unicamente nella misura di 1/5 le spese del secondo grado, lasciando tutte le spese – seppur riliquidate – del primo grado ed i 4/5 del gravame a carico dell'appellante, seppur il suo motivo specifico di impugnazione sulle spese di primo grado fosse stato accolto.
Le soluzioni giuridiche

La Corte ha respinto, in primo luogo, le censure relative ai presunti vizi di costituzione del giudice, rilevando - da un lato - che i giudici onorari ben possono decidere ogni tipo di controversia per la quale non esista uno specifico divieto di legge e che – dall'altro – la violazione delle disposizioni tabellari non determina alcuna nullità, così come genera semplice irregolarità la circostanza che il giudicante si sia attribuito una qualificazione difforme dalla funzione in concreto esercitata.

Centrale nel ragionamento dei Giudici di legittimità è la disamina del secondo e terzo motivo di ricorso, che infatti avviene congiuntamente. Al riguardo il Supremo Collegio osserva, quanto al lamentato difetto di contraddittorio, che la norma di cui all'art. 101, comma 2, c.p.c. non ha contenuto tassativo e che il diritto di difesa può essere rispettato sia dalla discussione orale sulla questione rilevata d'ufficio dal giudice, sia (dopo che la questione sia stata sollevata in sede di precisazione delle conclusioni) attraverso la ordinaria concessione dei termini per comparse conclusionali e repliche. Invece, quanto al titolo esecutivo giudiziale costituito da decreto ingiuntivo, il collegio ha richiamato il proprio consolidato orientamento sul fatto che il giudice dell'opposizione all'esecuzione sia comunque tenuto, in via pregiudiziale, a verificare l'idoneità e quindi la stessa sussistenza del titolo su cui l'esecuzione si fonda, in particolare osservando che quando lo stesso sia costituito da decreto ingiuntivo la sua caducazione operata da altra pronuncia giudiziale di primo grado deve ritenersi irreversibile, a nulla rilevando il fatto che questa pronuncia sia stata a sua volta oggetto di impugnazione, posto che anche un'eventuale sentenza favorevole non avrebbe l'effetto di far “rivivere” quel provvedimento monitorio revocato.

Pure respinta, infine, ogni questione sollevata in ordine alla liquidazione delle spese ed alla disposta parziale compensazione.

Osservazioni

La decisione in commento affronta in termini pienamente convincenti due “snodi” processuali particolarmente rilevanti dal punto di vista pratico ed operativo: quello dell'ambito di applicazione del cd. divieto di sentenze della cd. “terza via” (cioè di quei provvedimenti che si fondino su una motivazione che dà rilievo a questioni non affrontate dal contraddittorio processuale) e quello del potere ufficioso di verifica del titolo esecutivo da parte del giudice dell'opposizione all'esecuzione, unitamente agli effetti che determina la revoca del decreto ingiuntivo, quando tale tipologia di provvedimento costituisca il titolo su cui l'esecuzione stessa si fonda.

Si può iniziare con il ricordare che l'art. 101 c.p.c. esprime una regola basilare del nostro ordinamento processualcivilistico, solitamente riassunta con il brocardo audiatur et altera pars: il principio del contraddittorio si ricollega infatti alla fondamentale esigenza che nessuno possa subire gli effetti pregiudizievoli di una sentenza (o altro provvedimento giudiziario) senza avere avuto la possibilità di partecipare ed interloquire nel processo che ne ha determinato l'emanazione. Tale principio ha avuto nel corso del tempo una declinazione ulteriore, non solo classico-liberista, come diritto di informazione-reazione nel processo, ma anche in termini di dovere positivo di sollecitazione e collaborazione fra le parti ed il giudice, strumentale ad una soluzione più giusta e partecipata del processo. Da questa elaborazione culturale è nato un orientamento giurisprudenziale che è stato poi recepito a livello normativo, attraverso la novella dell'art. 101 c.p.c. del 2009, il cui secondo comma prevede che «se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione».

La sentenza in esame ci ricorda, innanzitutto, che la modalità ivi prevista di contraddittorio processuale è soltanto esemplificativa e non tassativa. Nulla vieta, infatti, che il giudice che ritenga di porre a fondamento della propria decisione una questione rilevata d'ufficio si limiti, più semplicemente, ad innescare la discussione orale in udienza sulla stessa oppure, come risulta avvenuto nel caso di specie, rimetta in istruttoria il procedimento al fine di sollevare la questione in udienza per poi concedere, invece che uno specifico ed apposito scambio di memorie ad hoc, i normali termini processuali di cui all'art. 190 c.p.c., considerando l'appendice scritta delle comparse conclusionali e repliche sede idonea per lo sviluppo e discussione della questione medesime (oltre che delle ulteriori affrontate nel corso del giudizio e sollecitate dalle domande ed eccezioni di parte). L'art. 101, comma 2, c.p.c., in altri termini, non richiede che sia sempre concesso un termine per memorie rivolte appositamente a trattare la sola questione rilevata d'ufficio, essendo sufficiente che dopo il rilievo vi sia un momento processuale – orale o scritto che sia - nel quale il contraddittorio abbia comunque modo di svolgersi.

Inoltre, sia pure come motivo rafforzativo della decisione di rigetto del motivo di ricorso, il Collegio ricorda e dà continuità a quell'orientamento che – a partire da Cass. civ., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20935 – ha enucleato la questione di puro diritto non sottoposta dal giudice al contraddittorio, per cui «non sussiste la nullità della sentenza, in quanto da tale omissione non deriva la consumazione di altro vizio processuale diverso dall' "error iuris in iudicando" ovvero dall' "error in iudicando de iure procedendi", la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore sia in concreto consumato»; diversamente dalle questioni di fatto o c.d. miste, rispetto alle quali la violazione di quel dovere di indicazione può avere «vulnerato la facoltà di chiedere prove o, in ipotesi, di ottenere una eventuale rimessione in termini».

Tale distinzione appare particolarmente rilevante quando si tratti di apprezzare l'effetto puramente giuridico (esistenza/inesistenza, validità/nullità) di un atto o titolo prodotto nel giudizio, come pure della eventuale inammissibilità della domanda o della impugnazione (su questo secondo profilo Cass. civ., 29 luglio 2015, n. 16060, che ritiene non necessario il preventivo contraddittorio; nello stesso senso Cass. civ., 21 luglio 2016, n. 15019, in ordine alla non necessità di provocare il contraddittorio sul rilievo della tardività dell'opposizione agli atti esecutivi, ex art. 617, comma 2, c.p.c.). Da ricordare anche Cass. civ., 4 maggio 2016, n. 8795, che estende al campo delle delibere assembleari societarie, pur a fronte del venir meno del rinvio dell'art. 2393 c.c. agli artt. 14211423 c.c., il principio della ammissibilità del rilievo "ex officio" delle nullità del contratto diverse da quelle denunciate dalla parte, in ragione della natura non etero determinata delle stesse, sia pure richiedendo (evidentemente sul presupposto della natura mista e non di puro diritto della questione) il preventivo contraddittorio con le parti.

Quanto detto appare suscettibile di ampia applicazione nel settore delle opposizioni all'esecuzione, nel quale – quando si discuta del diritto di procedere in executivis sulla scorta di un certo titolo – «la sopravvenuta carenza del titolo esecutivo può essere rilevata d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio ed anche per la prima volta nel giudizio per cassazione, trattandosi di presupposto dell'azione esecutiva» (cfr. Cass. civ., n. 11021/2011; nonché Cass. civ., n. 16610/2011; Cass. civ., n. 3977/2012; Cass. civ., n. 10875/2012; Cass. civ., ord., n. 1925/2015). Sul punto, con particolare chiarezza anche Cass. civ., 11 giugno 2014, n. 13249, secondo cui «il titolo esecutivo quale condizione necessaria dell'azione esecutiva, deve esistere già nel momento in cui questa e minacciata con la notificazione dell'atto di precetto, e - quindi - non si può formare successivamente all'inizio del processo esecutivo e deve permanere sino alla conclusione di questo. Tale principio, che sta a fondamento dei poteri-doveri del giudice dell'esecuzione, il quale è tenuto alla verifica di cui sopra all'inizio e per tutto il corso del processo esecutivo, incide anche sui poteri del giudice dell'opposizione alla esecuzione. Quando - infatti - è contestato il diritto di procedere a esecuzione il giudice dell'opposizione deve verificare non solo l'esistenza originaria, ma anche la persistenza del titolo esecutivo, perché la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo determina l'illegittimità, con efficacia "ex tunc", della esecuzione, in atto ovvero solo minacciata, sì che la sopravvenuta carenza del titolo esecutivo può essere rilevata d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio di opposizione e anche per la prima volta nel giudizio di cassazione».

Nella specie, poi, quando il titolo giudiziale sia costituito da un decreto ingiuntivo, la Corte aggiunge che la sua revoca da parte di una sentenza di primo grado è irreversibile, in quanto anche laddove l'impugnazione di tale decisione venisse accolta, la stessa non avrebbe l'effetto di determinare alcuna reviviscenza del provvedimento monitorio. Questa conclusione va ribadita, afferma la decisione in commento, anche nel caso in cui tale sentenza d'appello fosse impropriamente conclusa con un dispositivo con il quale si “conferma” il decreto ingiuntivo già revocato, ragion per cui lo stesso non può costituire titolo per iniziare o proseguire l'esecuzione forzata (sul punto anche Cass. civ., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4071, sia pure con riferimento peculiare al caso degli effetti della mancata riassunzione del giudizio di rinvio successivo ad una pronuncia della Cassazione di accoglimento ed al componimento del contrasto fra artt. 653 e 343 c.p.c.).

Sotto diverso profilo, del resto, proprio il carattere definitivo della revoca giudiziale del decreto ingiuntivo (oltre che la corretta delimitazione della domanda) spiega quell'orientamento secondo cui “nel giudizio introdotto con opposizione a decreto ingiuntivo, la richiesta dell'opponente di ripetizione delle somme versate in forza della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto non è qualificabile come domanda nuova e deve ritenersi implicitamente contenuta nell'istanza di revoca del decreto stesso, così come formulata nell'atto di opposizione, costituendo essa solo un accessorio di tale istanza ed essendo il suo accoglimento necessaria conseguenza, ex art. 336 c.p.c., dell'eliminazione dalla realtà giuridica dell'atto solutorio posto in essere” (Cass. civ., 3 febbraio 2017, n. 2946). Alla “impossibile reviviscenza” del decreto ingiuntivo revocato (come icasticamente argomenta l'estensore) inoltre, si collega altresì quell'indirizzo per il quale «l'ordinanza con cui il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, abbia dichiarato la propria incompetenza, contiene necessariamente la declaratoria, ancorché implicita, di invalidità e di revoca del decreto stesso e non implica, quindi, alcuna declinatoria della competenza a conoscere dell'opposizione al decreto stesso, sicché l'eventuale riassunzione del giudizio dinanzi al giudice competente non concerne la causa di opposizione, ormai definita, ma soltanto l'accertamento del credito dedotto nel ricorso monitorio, in ordine al quale, pertanto, il giudice "ad quem" non può chiedere d'ufficio il regolamento di competenza» (Cass. civ., 17 ottobre 2016, n. 20935 e n. 1372/2016). Anche in quel caso, infatti, si osserva come il decreto ingiuntivo opposto sia definitivamente venuto meno a seguito della pronuncia di incompetenza, sì che l'eventuale giudizio riassunto non prosegue per la conferma o meno di un decreto ingiuntivo che ormai non esiste più, bensì per l'accertamento nel merito dell'esistenza di un credito alla cui verifica e condanna al pagamento era implicitamente rivolta la richiesta di emissione del provvedimento monitorio da parte dell'originario ingiungente.

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