Le sanzioni per l’abuso dei contratti a termine nel pubblico impiego privatizzato: breve excursus e ultimi approdi della giurisprudenza

22 Novembre 2017

Il tema delle misure sanzionatorie previste dal legislatore contro l'abuso dei contratti a termine nell'impiego pubblico privatizzato rappresenta, alla luce della specialità della normativa di settore e delle disposizioni della Direttiva n.1999/70/CE, uno dei più fertili terreni di confronto fra la giurisprudenza interna e quella comunitaria. Il presente contributo, partendo dalle ultime sentenze in materia, ricognitive dei principi già tracciate dalle Sezioni Unite con sentenza n. 5072 del 15/03/2016, intende ripercorrere, per sommi e decisivi capi, la tormentata vicenda giurisprudenziale, in attesa di ulteriori e (sperabilmente) definitivi sviluppi interpretativi.
L'orientamento attuale

Con quattro recenti arresti (sentenze nn. 23119, 23120, 23121 del 4 ottobre 2017 e n. 25117 del 24 ottobre 2017), la Suprema Corte, pronunciandosi in tema di abusiva reiterazione di contratti a termine nel pubblico impiego privatizzato, ha da ultimo confermato il principio, tracciato dalle Sezioni unite (Cass. civ., S.U., 15 marzo 2016, n. 5072) e adottato da numerose altre decisioni (Cass. sez. lav., 2 agosto 2016, n. 16095; Cass. sez. lav., 24 gennaio 2017, n. 1805; Cass. sez. lav., 6 aprile 2017, n. 8885), secondo cui la misura risarcitoria prevista dal legislatore interno con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, deve essere interpretata in chiave adeguatrice e in conformità al canone di effettività delle tutele affermato dalla Corte di Giustizia UE (Ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13).

In particolare, la Corte di legittimità, dopo aver qualificato come “incongruo”, ai fini del risarcimento del danno comunitario, il ricorso ai criteri previsti per il risarcimento del licenziamento illegittimo, indica quale idoneo parametro di riferimento la fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, inteso quale danno presunto con valenza sanzionatoria, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto.

Trattasi, peraltro, come giustamente specificato, di scelta interpretativa che non determina una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico: atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito.

La richiamata regula iuris costituisce, come noto, l'approdo di un percorso interpretativo articolato e complesso, animato dalla Corte di Giustizia e miratamente volto a colmare, sul piano ermeneutico, la ravvisata carenza all'interno della disciplina del pubblico impiego diversamente da quella privatistica, di una sanzione efficace in grado di fronteggiare il fenomeno del precariato pubblico: fenomeno che ha trovato origine nell'uso sempre più disinvolto e distorto, ai fini del reclutamento del personale, dei contratti a termine di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001 ed oggi di cui al D.Lgs. n. 81 del 15 gugno 2015.

Ai fini di una adeguata disamina della questione giuridica in esame, è opportuno procedere ad una sintetica esposizione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, nell'ambito del quale si è affermato il principio compendiatosi, da ultimo, nelle menzionate pronunce.

Occorre premettere, sul piano sistematico, che l'esame dei rapporti fra la normativa privatistica dei contratti a termine e l'omologa disciplina del pubblico impiego non può prescindere, in via generale, da quanto disposto dall'art. 2 comma 2 del D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente Decreto che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”.

La suddetta disposizione -già contemplata nel testo di legge prima della modifica di cui al D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150- cristallizza in maniera univoca il regime di specialità che connota la regolamentazione dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001 rispetto alla disciplina privatistica, applicabile al pubblico impiego solo in misura parziale.

In particolare, fra le disposizioni del D.Lgs. n. 165 del 2001 che, per espressa previsione di legge, devono essere “fatte salve” (poiché speciali rispetto al lavoro privatistico e comunque imperative), vanno semplificativamente richiamate le norme regolanti la disciplina delle mansioni superiori (art. 52 del D.Lgs.), il regime delle incompatibilità (art. 53 e ss.) nonché il principio di accesso per pubblico concorso di cui all'art. 97 Cost.: con conseguente divieto di procedere a stabilizzazioni del personale precario al di fuori di specifiche procedure selettive e dunque anche per effetto della conversione di contratti invalidi.

A quest'ultimo riguardo, assume valore dirimente il disposto dell'art. 36 comma 5 del D.Lgs. n. 165/2001 che, in chiara difformità rispetto alla disciplina privatistica, introduce un espresso divieto di trasformazione del contratto invalido, disponendo testualmente che: “In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”.

Inoltre, con previsione (art. 36 comma 5-ter) inserita dall'articolo 4, comma 1, lettera b), del D.L. 31 agosto 2013, n. 101, in seguito abrogata dall'art. 9, comma 1, lettera e) del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, il legislatore si è premurato di rafforzare il divieto de quo, ribadendo che, pur estendendosi al personale delle Pubbliche Amministrazioni la normativa di cui al D.Lgs. n. 368/2001, restano fermi, per tutti i settori, sia l'obbligo di ricorrere ai contratti di lavoro a termine solo per rispondere a precise esigenze organizzative sia il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato.

Trattasi peraltro di principio che, più di recente, è stato confermato dal legislatore del Jobs Act con il D.Lgs. n. 81 del 2015 che, abrogando la previgente normativa di cui al D.Lgs. n. 368/2001, all'art. 29 comma 4, ha confermato, recependo il tratto di specialità della disciplina, che per i contratti con le Pubbliche Amministrazioni resta comunque “fermo quanto disposto dall'art. 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001”.

È proprio in relazione al ravvisato tratto differenziale tra le due discipline (pubblica e privatistica) ed, in particolare, tra le diverse forme di tutela ivi contemplate per le ipotesi di abusiva reiterazione dei contratti a termine che si è sviluppato, negli ultimi anni, un serrato dibattito giurisprudenziale incentrato sulla legittimità costituzionale e comunitaria delle misure sanzionatorie previste in ambito pubblicistico (art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001) e ritenute non adeguate e comunque non equivalenti rispetto alla più incisiva misura della conversione contrattuale, prevista dal D.Lgs. n.368/2001.

Breve excursus: i principi costituzionali e europei

Volendo ripercorrere, ai fini riepilogativi, l'evoluzione della questione giuridica in esame, occorre prendere le mosse dalla storica pronuncia della Corte Costituzionale n. 89 del 13 marzo 2003.

In tale pronuncia, il giudice delle leggi, chiamato a pronunziarsi proprio sulla prospettata disparità di trattamento fra lavoratori pubblici e privati, asseritamente ingenerata, secondo la corte remittente (Trib. Pisa, Ordinanza del 7 agosto 2002) dal citato divieto di conversione, ha sottolineato, rigettando la relativa questione di legittimità, i tratti di specialità del rapporto di pubblico impiego, chiarendo ipsis verbis che il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell'accesso mediante concorso, enunciato dall'art. 97, terzo comma, della Costituzione.

Per l'effetto, secondo il giudizio della Corte Costituzionale, proprio la sussistenza di tale “principio fondamentale” -posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.)- rende di per sépalese “la non omogeneità - sotto l'aspetto considerato - delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati”. (Corte Cost. cit.).

Richiamando tali principia, la Corte di Cassazione ha quindi potuto enunciare, fondandola su basi più solide, la regola per cui, in tema di assunzioni temporanee alle dipendenze di Pubbliche Amministrazioni con inserimento nell'organizzazione pubblicistica dell'Ente, trovano applicazione le discipline specifiche che escludono la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato anche per i rapporti di lavoro di diritto privato, avendo riguardo l'art. 97 Cost. non già alla natura giuridica del rapporto ma a quella dei soggetti, salvo che una fonte normativa non disponga diversamente per casi particolari (Cass sez. lav., 29 maggio 2004, n. 10453 e Cass. sez. lav., 18 marzo 2004, n. 5517).

Risolta dunque la questione di legittimità costituzionale in senso favorevole alla coesistenza, nell'ambito dei due settori, di diversi regimi di tutela, si osserva che, anche sul piano sovranazionale, la normativa interna ha superato il vaglio della Corte di Giustizia, pur se con dovute .

Come noto, la fonte di riferimento, a livello comunitario, è costituito dalla clausola 5 dell'Accordo quadro allegato alla Direttiva n. 1999/70/CE del 18 marzo 1999 che, al dichiarato fine di tracciare un quadro normativo comune per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti a tempo determinato, al punto 1 stabilisce quanto segue: “per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a specificare: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati "successivi"; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato”.

Secondo la Corte di Giustizia, tale clausola e l'intera Direttiva n. 1999/70/CE -ritenuta priva di efficacia diretta e non incondizionata (da ultimo, CGUE, 10 marzo 2011, C-109/09, Deutsche Lufthansa)- vanno intese come non ostative, in linea di principio, ad una normativa nazionale che escluda, in caso di abuso derivante dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi ultimi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per quanto riguarda i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un'altra misura effettiva destinata a evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico. (CGUE, 7 Settembre 2006, C-180/2004).

In altri termini, l'orientamento della CGUE si è consolidato nel senso che, la clausola 5 dell'Accordo quadro non contempla affatto un obbligo di trasformazione del contratto abusivo in contratto a tempo indeterminato, lasciando di contro agli Stati membri un autonomo e significativo margine di discrezionalità in materia, in particolare, consentendo che uno Stato membro possa riservare una sorte diversa all'abuso di ricorso a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a seconda che i detti contratti o rapporti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico (v. CGUE, 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04; 7 settembre 2006, Vassallo, C-180/04; 4 luglio 2006, Adeneler e altri, C-212/04; ordinanza 1° ottobre 2010, Affatato, C-3/10; sentenza 3 luglio 2014, Fiamingo, C-362/13, C-363/13 e C-407/13 – riunite).

Orbene, dalla coordinata lettura delle richiamate pronunce, appare dunque segnato un percorso interpretativo ormai inemendabile e riassumibile nei seguenti corollari:

  • l'art. 36 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 si connota quale norma speciale rispetto alla disciplina privatistica, in ragione di un proprio e specifico regime sanzionatorio, che risulta alternativo a quello disciplinato dall'art. 5 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, escludendone in ogni caso l'applicazione (ad litteram: Cass. sez. lav., 6 dicembre 2011-13 gennaio 2012, n. 392; Cass. sez. lav., 21 agosto 2013, n. 19371);
  • l'art. 36 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in alcun modo integrabile con le sanzioni previste dall'art. 5 del D.Lgs 368/2001, non consente censure di costituzionalità, ai sensi dell'art. 3 Cost. per supposta disparità di trattamento rispetto al lavoro privato;
  • la richiamata disciplina interna non osta poi alla normativa comunitaria, ben potendo uno Stato membro riservare un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro del settore pubblico (sentenze Marrosu e Sardino, punto 48, nonché Vassallo, punto 33 e ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 122).

Operate tali premesse, ed esclusa dunque la (pur ripetutamente prospettata) possibilità di ricorrere, nelle ipotesi de quibus, a sanzioni costitutive del rapporto, mediante l'estensione al pubblico impiego del regime della conversione dei contratti illegittimi, la giurisprudenza nazionale ha inteso dunque vagliare l'effettiva compatibilità comunitaria dell'unica disposizione sanzionatoria prevista dal legislatore interno: l'art. 36 del D.Lgs n. 165/2001.

A riguardo, valenza primaria ai fini interpretativi ha assunto l'ordinanza Papalia della Corte di Giustizia del 12 dicembre 2013, resa nel giudizio C-50/13, in cui, rimarcata l'astratta legittimità comunitaria di una normativa nazionale che prevede, a fonte di abusi contrattuali, misure diverse dalla trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato, la Corte ha affermato che le autorità nazionali sono tenute ad adottare misure che rivestano carattere non soltanto proporzionato ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo, e tanto al fine di garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro.

In particolare, la Corte, aggiungendo un importante tassello al principio di diritto esposto nei precedenti arresti, ha affermato che l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale che, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all'obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione.

L'interpretazione della Corte di Cassazione

La pronuncia comunitaria ha quindi evidenziato l'esistenza, all'interno dell'ordinamento, di un parziale vuoto di tutela che la Suprema Corte ha inteso colmare adeguandosi, dato anche il silenzio del legislatore interno, all'obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale al diritto comunitario, (in tal senso vedi, tra le molte, le sentenze della CGUE 5 ottobre 2004, C-397/01-403/01; 22 maggio 2003, C-462/99; 15 maggio 2003, C- 160/01; 13 novembre 1990, C- 106/89) e proponendo, con le prime pronunce successive alla sentenza della CGUE, di qualificare il danno previsto dall'art. 36, comma 5 del D.Lgs. n. 165 del 2001, secondo una nozione peculiare di pregiudizio, denominato "danno comunitario" (Cass. sez. lav., 30 dicembre 2014, n. 27481; Cass. sez. lav., 23 gennaio 2015, n. 1260).

In particolare, la Corte di Cassazione, assolvendo alla propria funzione nomofilattica, ha enunciato il principio per cui, fermo restando che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, salva l'applicazione di ogni responsabilità e sanzione, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, nella parte in cui prevede che "il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative", deve essere interpretato -con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico- nel senso che la nozione di danno applicabile nella specie deve essere quella di "danno comunitario", il cui risarcimento, in conformità con i canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della PA di contratti a termine, è configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro.

Inoltre, con particolare riferimento alla determinazione del quantum del suddetto danno da perdita del lavoro, la Corte ha, nello specifico, ritenuto “utilizzabile come criterio tendenziale, quello indicato dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8, considerando, invece, “improprio”, il ricorso in via analogica sia al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 sia al criterio previsto dall'art. 18 dello St. Lav., in quanto criteri che, per motivi diversi, non avrebbero alcuna attinenza con l'indicata fattispecie.

Tali principi, sebbene timidamente recepiti nell'immediato dalla giurisprudenza di merito, non hanno avuto il tempo di consolidarsi sul pieno ermeneutico, per essere stati rimessi in discussione ed in seguito rimodulati dalla fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite, n. 5072 del 15 marzo 2016.

Ed invero, in tale pronuncia, pur accogliendo la citata nozione di danno comunitario, la Suprema Corte ha disatteso il canone ermeneutico adottato nei suindicati arresti, qualificando persino “incongruo” il richiamo operato alla disciplina del licenziamento illegittimo, “sia quella dell'art. 8 della L. n. 604/66 che dell'art. 18 della L. n. 300/1970, che altresì, in ipotesi, quella del regime indennitario in caso di contratto di lavoro a tutele crescenti (D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3)”, considerando infine più corretto “il riferimento all'art. 32, comma 5, cit. che appunto riguarda il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine” (v. Cass. civ. S.U., 15 marzo 2016, n. 5072).

Più nel dettaglio, il giudice di legittimità, all'esito di una articolata disamina della disciplina in esame, anche alla luce delle diverse pronunce rese nel tempo dalla Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia, ha affermato che, nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, nei casi di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una P.A., il dipendente che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

Trattasi, in particolare, di sanzione applicabile a tutte le ipotesi in cui il lavoratore abbia reso una prestazione lavorativa in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale e per i quali lo stesso, a differenza del lavoratore privato, ha diritto a tutto il risarcimento del danno e per essere agevolato nella prova (perché ciò richiede l'interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall'onere probatorio, all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. (Cass. cit, in seguito richiamata, fra le altre, da Cass. civ., sez. VI, n. 8885/2017).

Come opportunamente puntualizzato nelle motivazioni, infatti, la norma rinvenuta nell'ordinamento, all'esito del percorso di interpretazione adeguatrice e ritenuta “congrua” in chiave di effettività della tutela, offre al lavoratore pubblico una quota minima di tutela svincolata dall'onere della prova del danno subito, secondo un sistema di agevolazione probatoria che tuttavia non preclude di provare l'ulteriore danno subito, dimostrando “che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato".

Conclusioni

La soluzione interpretativa adottata dalla Suprema Corte ha riscosso, come evincibile dalle recenti sentenze richiamate all'inizio del contributo, un consenso pressoché unanime nella successiva giurisprudenza di legittimità e di merito.

Fra le voci critiche devono, tuttavia, segnalarsi due importanti pronunce del Tribunale di Foggia e del Tribunale di Trapani che, non persuase dalla richiamata regula iuris, hanno rispettivamente optato, in ragione di distinti ma complementari rilievi, per la proposizione della questione di legittimità Costituzionale e per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

Nello specifico, il giudice pugliese, con ordinanza del 26 ottobre 2016, ha sollevato la questione di costituzionalità dell'art. 36 commi 5, 5-ter e 5-quater, con riferimento agli artt. 3, 111 Cost. e 117 Cost, per violazione della clausole 4, punto 1, e 5, punti 1 e 2, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999.

Il Tribunale di Trapani, invece, sulla scorta delle ritenuta inidoneità della misura di cui alla L. n. 183/2010 ad offrire una tutela effettiva e dissuasiva, con ordinanza del 5 settembre 2016, ha chiesto alla Corte di Giustizia in primis di esprimersi sulla compatibilità comunitaria della soluzione prospettata dalle Sezioni unite, alla luce dei principi espressi con le pronunce Mascolo e Marrosu ed in secundis di chiarire se il detto principio sia da intendersi o meno nel senso di garantire al lavoratore pubblico, qualora non sia ammessa la conversione, la medesima utilità, mediante un risarcimento del danno che abbia ad oggetto il valore del posto di lavoro a tempo indeterminato.

In attesa delle pronunce sollecitate dai giudici rimettenti, ci limitiamo a rilevare che la regola enunciata dalla giurisprudenza di legittimità, sebbene frutto di compromesso e con i limiti che di seguito si indicheranno, rappresenta, allo stato, l'unica soluzione in grado di garantire una posizione di equilibrio fra l'esigenza unionale di fissare misure effettive e adeguate contro l'abuso dei contratti a termine e la necessità di preservare il regime differenziato, previsto a livello costituzionale, fra i pubblici dipendenti e i lavoratori privati.

Riteniamo infatti dirimente, anche ai fini del superamento dei rilievi di chi vorrebbe parametrare il risarcimento del danno al valore del posto di lavoro, quanto affermato dalla Corte in ordine all'insussistenza, nei casi di specie, di una situazione di pregiudizio che incida su un diritto soggettivo (diritto all'assunzione) del tutto eventuale in quanto conseguibile, secondo un principio acquisito anche dalla Corte di Giustizia, solo a seguito della vittoriosa partecipazione al concorso pubblico (ex art. 97 Cost.).

Inoltre, sotto distinto ma complementare profilo, la valutazione circa la conformità comunitaria della soluzione adottata, non può prescindere da una lettura complessiva e coordinata della clausola 5 dell'Accordo quadro che, come già rilevato nelle conclusioni rassegnate dall'Avvocato Generale, nella cause Mascolo e Marrosu, prevede ai fini attuativi un duplice livello di misure: le misure di prevenzione degli abusi di cui alla clausola 5 punto 1 e le misure sanzionatorie previste dalla clausola 5 punto 2 lett. b).

Con particolare riguardo a queste ultime, che operano ex post rispetto alle prime e che lo Stato membro ha il potere di individuare liberamente, sembra improprio giudicarne la portata, sul piano della effettività e dissuasività, facendo esclusivo riferimento alla soluzione indennitaria individuata “in chiave agevolativa” dal giudice nazionale, peraltro a corredo della ordinaria tutela risarcitoria, dovendosi di contro tenere conto del complessivo e più ampio quadro di sanzioni che il legislatore italiano ha predisposto al fine di arginare il fenomeno.

Giova infatti ricordare che, a fronte dell'abuso nei contratti a termine, l'art. 36 del D.Lgs n. 165 del 2001, lungi dal limitarsi a prevedere la possibilità per il dipendente abusato di ottenere, in luogo della conversione, un risarcimento del danno nei termini poi precisati dal giudice di nomofilachia, dispone, a seguito dell'introduzione del comma 5-quater, ad opera dell'art. 4, comma 1, lettera b), del D.L. 31 agosto 2013, n. 101, convertito con modificazioni, dalla Legge 30 ottobre 2013, n. 125, quanto segue:

  • le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave;
  • i dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell'art. 21 del Testo Unico (id est, ferma restando la responsabilità disciplinare, la violazione in esame può determinare l'impossibilità di rinnovo dell'incarico dirigenziale ovvero, pur se nei casi più gravi, la revoca dell'incarico e infine il recesso dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo);
  • delle compiute violazioni deve tenersi conto in sede di valutazione dell'operato del dirigente, ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 286;
  • l'accertata violazione della normativa determina, sempre in capo ai dirigenti responsabili, responsabilità erariale;
  • al dirigente responsabile di irregolarità nell'utilizzo del lavoro flessibile non può erogarsi la retribuzione di risultato.

Trattasi, a ben vedere, di una complessa e coordinata rete di sanzioni aggiuntive rispetto alla tutela risarcitorio-indennitaria assicurata al dipendente, aventi indubbia portata deterrente in quanto direttamente incidenti sugli autori dell'illecito e che pertanto non possono essere ignorate ai fini della verifica del grado di dissuasività delle misure previste dal legislatore interno rispetto a quelle del settore privato.

Non sembra infatti ragionevole, nell'ottica complessiva dell'accordo quadro, limitare l'esame della congruità delle misure enunciate dalla giurisprudenza sul calco dell'art. 36, senza tenere in debita considerazione l'intero plesso sanzionatorio apprestato dalla citata disposizione e la cui portata deve essere necessariamente valutata in senso omnicomprensivo, considerando l'effetto combinato delle molteplici sanzioni previste.

Tanto premesso e spostando l'asse prospettico della disamina, si osserva che se un rilievo può essere mosso all'interpretazione proposta dalla Suprema Corte, esso riguarda invece la previsione di un limite massimo di mensilità (pari a dodici ex art. 32 co. 5 del L. n. 183/2010), riconoscibili al lavoratore a fronte dell'accertata violazione della normativa in materia, e dunque a prescindere dalla durata e dall'entità dell'abuso perpetrato.

Appare infatti evidente che la scelta di stabilire, ai fini indennitari, un tetto massimo e indeclinabile determini, almeno nei casi più gravi, un vulnus all'adeguatezza e proporzionalità della sanzione, ponendo irragionevolmente sullo stesso piano tutti i dipendenti precarizzati, compresi coloro che, pregiudicati ad esempio da abusi pluriennali, dovrebbero poter accedere ad una indennità di valore superiore, e tanto anche in violazione dell'art. 3 della Costituzione.

Inoltre, come di recente affermato dall'Avvocato Generale, nelle conclusioni presentate il 26 ottobre 2017 nella causa C-494/16, la descritta “standardizzazione della sanzione” finisce, a ben vedere, con l'ottenere un effetto contrario rispetto a quello perseguito dall'Unione, risultando potenzialmente idonea, in considerazione della natura indifferenziata della tutela, a favorire piuttosto che disincentivare la recidiva degli abusi più gravi.

Alla luce di tanto e condivisa l'opportunità di prevedere, ad integrazione della previsione di cui all'art. 32 della L. n. 183/2010, dei limiti crescenti dell'indennità parametrati alle concrete modalità e alla effettiva durata dell'abuso contrattuale, non può che concludersi con la presa d'atto della natura magmatica e ancora sfuggente di una questione giuridica che, dopo più di un decennio, resta ancora in attesa degli ultimi e (sperabilmente) definitivi tasselli interpretativi.

Guida all'approfondimento
  • V. Tenore, Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, Roma, 2015.
  • D. Marino, Il "danno comunitario" da illegittima reiterazione di contratti di lavoro a termine: conforme al diritto dell'Unione?, in Dir. Rel. Ind., 2015, 4, pag. 1108.
  • M. De Luca, Il giusto risarcimento per illegittima apposizione termine a contratti privatizzati di pubblico impiego, in www.europeanrights.eu, 2017.

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