Responsabilità sanitaria da contenzione

Cesare Taraschi
27 Novembre 2017

La legittimità del ricorso ai mezzi contenitivi, finalizzati a soddisfare le esigenze di cura e protezione del paziente, costituisce una delle più attuali tematiche in tema di responsabilità medica, registrandosi significative pronunce giurisprudenziali, sia nel settore civile che in quello penale, in ordine all'individuazione della posizione di garanzia del sanitario.
Inquadramento

Per “contenzione” nell'assistenza di anziani, disabili e soggetti incapaci si intende l'uso di mezzi fisici, farmacologici o ambientali che limitano la libertà di movimento volontario della persona assistita. Per “mezzi di contenzione” si intendono, quindi, quegli accessori o dispositivi creati per uso medico, adottati al fine di limitare i movimenti del paziente per il tempo necessario a consentirne il trattamento, l'esame clinico o la protezione.

Sebbene la “riforma Basaglia” (l. n. 180/1978), abrogando le leggi in materia di assistenza manicomiale, abbia evitato di prendere posizione in ordine alla contenzione, la problematica, giuridica ed etica, della legittimità del ricorso ai mezzi contenitivi si è recentemente riproposta all'attenzione degli studiosi, anche per alcune vicende di cronaca giudiziaria, che hanno avuto vasta eco a livello nazionale.

Invero, pur in mancanza di una specifica disciplina normativa, nella legislazione in vigore non è neppure rinvenibile un espresso divieto della contenzione, sicché alla stessa si può ancora ricorrere in presenza di determinati presupposti, e precisamente allorquando il quadro clinico renda opportuno, se non doveroso, il ricorso a tale strumento al fine di soddisfare le esigenze di cura e protezione del paziente, capace o incapace che sia.

Generalmente si distingue tra:

1) contenzione manuale, consistente nell'uso della forza fisica, senza utilizzo di strumenti di sorta, da parte del personale sanitario, al fine di bloccare il paziente o vincerne la resistenza;

2) contenzione meccanica, consistente nell'utilizzo di presidi per ridurre o controllare il movimento del malato. Tra questi, ad esempio, mezzi applicati al paziente a letto (fasce, cinture) o in carrozzina (corpetto); mezzi di contenzione per segmenti corporei (cinghie per caviglie e polsi); presidi inseriti come barriera nell'ambiente (spondine di protezione a letto); presidi posizionali sulla persona che la obbligano ad una determinata postura (cuscini anatomici, cintura pelvica, divaricatore inguinale, tavolino, carrozzine basculanti, poltrone basse). Occorre, però, precisare che l'uso terapeutico di ausili non costituisce contenzione in senso stretto, non dovendosi confondere la costrizione meccanica del paziente con l'impiego degli ausili standard o personalizzati, come quelli protesici, aventi funzione prettamente riabilitativa, ossia volta a facilitare, e non a limitare, i movimenti;

3) contenzione chimica o farmacologica, ossia attuata mediante somministrazione di farmaci, quali sedativi;

4) contenzione ambientale, consistente nell'apportare modifiche all'ambiente di vita del paziente, al fine di limitarne o controllarne i movimenti. Si va dal tenere le porte del reparto chiuse a chiave, alla limitazione delle uscite dal reparto di degenza in determinate fasce orarie, al divieto di uscire dallo stesso soli o accompagnati, alla limitazione delle visite e dei contatti con l'esterno, sino all'isolamento in apposita camera di degenza. Trattasi della pratica contenitiva più diffusa, tanto che la gran parte delle sentenze che si sono occupate del tema della contenzione riguardano la responsabilità di sanitari per eventi lesivi riportati da pazienti che erano usciti dalle strutture terapeutiche in assenza di controllo;

5) contenzione relazionale, vale a dire l'ascolto e l'osservazione empatica del paziente. Si tratta di interventi di desensibilizzazione, praticati mediante tecniche di comunicazione, volte principalmente a ridurre e placare l'aggressività di taluni pazienti.

Scopo del trattamento contenitivo

Sono molteplici gli scopi per i quali i predetti presidi terapeutici vengono impiegati: prevenire, ridurre o arrestare comportamenti del paziente, quali agitazione o aggressività. Ancora, consentire la somministrazione di farmaci, prevenire traumatismi da caduta, praticare l'alimentazione forzata di coloro che rifiutano di cibarsi.

La contenzione, se osservata nell'ottica per cui dovere del medico è non solo la cura della malattia, ma anche la tutela della salute fisica e psichica del paziente (come si desume dall'art. 3 del Codice di deontologia medica), è qualificabile come atto medico. Pur non potendo essere considerata di per sé cura o trattamento, la stessa si erge comunque a strumento preventivo necessario per curare il paziente dalla malattia che lo affligge.

In ambito ortopedico, ad esempio, tra i compiti del sanitario rientra anche quello di dare disposizioni per un'adeguata sistemazione logistica del paziente sottoposto ad intervento chirurgico, per evitare accidentali cadute dal letto.

Considerazioni analoghe possono essere espresse con riguardo al settore psichiatrico, nel caso, ad esempio, di un paziente depresso, con ideazione suicidaria: in questo caso, sarà compito dello psichiatra porre in essere tutti i mezzi a sua disposizione per impedire un tragico epilogo e, quindi, non solo somministrare la più idonea terapia farmacologica, ma altresì adottare una serie di misure, quali la sottrazione di oggetti metallici, cinture e quant'altro possa essere usato per fini autosoppressivi. In sostanza, qualora il quadro clinico riveli apertamente la possibilità di gesti auto o etero lesivi, lo psichiatra non potrà esimersi dall'attuare quelle misure che, seppur non squisitamente sanitarie, abbiano come finalità precipua quella di preservare la salute del malato. Sarà opportuno, altresì, fornire indicazioni al personale infermieristico affinché, ad intervalli più serrati, osservi il comportamento del paziente.

I predetti interventi non sono certo finalizzati al superamento dello stato depressivo o al ripristino del totale benessere del malato, ma rispondono comunque al principio ispiratore della professione sanitaria: la tutela della vita e della salute del paziente. Essi, dunque, non vanno intesi come strumenti a sé stanti, separati dalla cura, ma come interventi e mezzi, anche non prettamente sanitari, ma al contempo necessari, di carattere propedeutico all'atto medico vero e proprio, che calato in questo particolare contesto patologico tende a dilatarsi. In determinati casi, infatti, appare inevitabile il ricorso alla contenzione: un paziente in stato di grave agitazione psicomotoria o di eccitamento maniacale o, ancora, in preda ad una crisi pantoclastica, quando cioè distrugge ogni cosa di cui abbia disponibilità, che rappresenti un concreto e serio pericolo per sé o altri, come potrebbe essere altrimenti curato, se non mediante atti contenitivi?

È da sottolineare, però, come non ogni forma di violenza scaturente dal paziente psichiatrico autorizzi l'operatore sanitario ad intervenire mediante strumenti coercitivi. La contenzione, invero, si fonde col trattamento sanitario, fa corpo con esso, soltanto quando l'aggressività del paziente rappresenti un epifenomeno, una manifestazione, un sintomo della malattia mentale. È doveroso comunque ribadire che ogni misura intrapresa dovrà avvenire nel rispetto della dignità della persona, così come dispone il Codice di deontologia medica, in quanto esistono limiti precisi all'attività sanitaria, sia pure a tutela della vita e della salute del paziente. La contenzione può, quindi, essere praticata soltanto quando sia assolutamente necessario e per procurare benefici clinici al paziente. Non sarà sufficiente un generico bisogno di tutela della salute, ma condizioni cliniche del tutto particolari, che consentano l'applicazione della misura in casi del tutto eccezionali (artt. 15, 49 e 51 Codice di deontologia medica). Solo in questi termini è possibile risolvere l'apparente antinomia tra contenzione e attività medica.

In definitiva, asserire che la contenzione è sempre lecita quando è un intervento sanitario è vero solo in parte, in quanto occorre sempre verificare se il trattamento praticato da un sanitario sia rivolto alla cura del paziente, perché solo in questi termini è da considerarsi atto medico. Non basta, dunque, individuare la fonte dalla quale proviene la contenzione, ma è necessario verificarne i contenuti, le modalità e soprattutto le finalità che l'operatore sanitario si prefigge.

Posizione di garanzia del sanitario

Da tempo dottrina e giurisprudenza si interrogano sul se la contenzione sia un atto di per sé lecito, in quanto previsto dalla legge, oppure sia un atto illecito, in quanto tale vietato, che diviene lecito per l'eventuale ricorrere di una causa di giustificazione: nel caso dell'operatore psichiatrico, ad esempio, si pone il quesito se contenere un paziente costituisca un obbligo giuridico o un mero potere.

Tale problema è strettamente connesso all'individuazione dei contenuti della posizione di garanzia del sanitario, tradizionalmente scissa nelle due fattispecie della posizione di protezione, con cui si tutelano determinati beni contro tutte le fonti di rischio (es., obbligo di cura e custodia della persona assistita incapace), e della posizione di controllo, diretta a neutralizzare determinate fonti di pericolo a tutela di tutti i beni ad esse esposti (es., obbligo di controllare l'incapace per evitare che questi cagioni danni a terzi).

Occorre cioè chiedersi se, nel fascio di obblighi che compongono la posizione di garanzia, rientri l'obbligo giuridico, ex art. 40 comma 2 c.p. (secondo cui “non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”), di impedire gli atti auto ed etero aggressivi del paziente, avvalendosi di ogni strumento a disposizione per la tutela della salute di quest'ultimo, compreso il ricorso alla contenzione.

Secondo la giurisprudenza, affinché una condotta omissiva possa essere assunta come fonte di responsabilità per danni, non basta riferirsi al solo principio del "neminem laedere" di cui all'art. 2043 c.c. o ad una generica antidoverosità sociale della condotta del soggetto che non abbia impedito l'evento, ma occorre individuare, caso per caso, a carico di quest'ultimo, un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l'evento lamentato, il quale può derivare o direttamente da una norma, ovvero da uno specifico rapporto negoziale o di altra natura intercorrente fra il titolare dell'interesse leso e il soggetto chiamato a rispondere della lesione (Cass. civ. n. 13957/2005, Cass. civ. n. n. 13892/2005, Cass. civ. n. n. 9590/1998); è altresì possibile che, secondo le circostanze del caso concreto, insorgano a carico di quest'ultimo, per i principi di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., doveri e regole di azione la cui inosservanza integra un'omissione imputabile (Cass. civ. n. 22344/2014).

Il paradigma sostanziale che giustifica la stessa esistenza delle posizioni di garanzia è dato dalla sussistenza di una relazione di dipendenza a contenuto protettivo, nel senso che il fondamento degli obblighi impeditivi si coglie nella necessità, riconosciuta dall'ordinamento, di assicurare a determinati beni una tutela rafforzata, stante l'incapacità - totale o parziale - dei loro rispettivi titolari a proteggerli adeguatamente, donde l'attribuzione a taluni soggetti, diversi dai rispettivi titolari, della speciale posizione di garanti dell'integrità dei beni che si ha interesse a salvaguardare. In sostanza, la funzione del garante è volta a riequilibrare la situazione di inferiorità, in senso lato, di determinati soggetti, attraverso l'instaurazione di un rapporto di dipendenza a scopo protettivo.

Tali principi devono guidare la valutazione rimessa all'interprete - per tutti i casi della vita, non tipizzati dal legislatore, in cui sussiste una situazione di passività in cui versa il titolare del bene protetto - sia nella selezione della figura del garante, sia nella individuazione del contenuto degli obblighi impeditivi specificamente riferibili al soggetto che versa in posizione di garanzia.

Ad esempio, si è ritenuto che l'affidamento di una persona incapace di autodeterminarsi, e cioè incapace di esprimere una libera volontà consapevole, comporti per gli operatori sanitari ed il direttore amministrativo della residenza protetta il dovere di garantire la sicurezza della sua persona con diligenza professionale (art. 1176 c.c.), con conseguente responsabilità degli stessi a titolo di omicidio colposo nel caso in cui il paziente (nella specie affetto da alzheimer) non contenuto deceda a seguito di caduta da una finestra per omessa custodia (Cass. pen. n. 23661/2013).

Il controllo dell'auto o eteroaggressività dell'assistito rappresenta, dunque, un aspetto della prestazione terapeutica. Disinteressarsi di esso significherebbe non rispettare l'obbligo di adeguatezza della cura, nei casi in cui il quadro clinico del paziente manifesti uno stato di pericolosità foriero di gesti inconsulti.

Sulla base di questa lettura, pertanto, la posizione di garanzia dello psichiatra e di qualsiasi operatore di salute mentale esiste e deriva dall'obbligo di attuare un idoneo trattamento terapeutico, volto ad evitare l'aggravamento delle condizioni psicopatologiche del paziente e a favorire, nei limiti in cui sia possibile, la sua guarigione (Cass. pen. n. 45910/2009; Cass. pen. n. 18950/2009; Cass. pen. n. 8611/2008).

La Suprema Corte ha, così, ritenuto che la mancata contenzione ambientale della persona incapace, affidata alla custodia degli operatori in una residenza protetta sociale e deceduta a seguito di caduta dopo essersi allontanata pericolosamente dalla struttura per mancata vigilanza, configurasse un dovere di protezione disatteso dall'amministratrice e direttrice della casa di riposo (Cass. pen. n. 11136/2015, secondo cui, in relazione allo specifico contenuto degli obblighi impeditivi omessi, l'imputata, quand'anche non avesse previsto un adeguato numero di operatori addetti alla vigilanza, avrebbe comunque dovuto adempiere alla prescrizione imposta dalla Asl, in relazione alla necessità di dotare la porta di uscita di un sistema di allarme, che segnalasse l'apertura della stessa ad una postazione permanentemente presidiata. Tale adempimento avrebbe scongiurato, con elevata probabilità, il verificarsi della rovinosa caduta, giacché la lentezza con cui la paziente si muoveva, sulla carrozzina, avrebbe consentito agli operatori addetti di intervenire tempestivamente).

Nell'ambito del trattamento sanitario non obbligatorio (come, può aggiungersi, alla stregua della l. n. 833/1978, art. 33, anche nel caso di trattamento sanitario obbligatorio) di persone incapaci, la custodia del malato, finalizzata a soddisfare esigenze di ordine individuale, sociale e giuridico, comprese quelle di prevenzione di atti autolesivi ed eterolesivi, deve essere conciliata con la libertà terapeutica e la dignità del malato (Cass. pen. n. 28704/2015; nonché Cass. pen. n. 4407/1998, a proposito della legittimità, nell'esercizio del potere-dovere di cura e di custodia, di impedire, al soggetto che ne manifesti, anche con la fuga, l'intenzione, di allontanarsi dal luogo di ricovero volontario, facendo ricorso alla forza fisica, quale “brevis et modica vis” imposta dalle circostanze per sottrarre l'incapace al pericolo di gravi danni e per pretendere la sottoscrizione dell'atto di formale interruzione della degenza contro la volontà del medico).

Deve poi rammentarsi che, in caso di pluralità delle posizioni di garanzia, allorché i titolari delle stesse siano di pari grado, ciascuno è, per intero, destinatario dell'obbligo giuridico di impedire l'evento e non può fare affidamento sull'eliminazione da parte di altri coobbligati della situazione pericolosa da lui creata o consentita (Cass. pen. n. 4793/1990). E si è in particolare chiarito (Cass. pen. n. 38810/2005) che, in caso di più posizioni di garanzia, neppure il comportamento colposo del garante sopravvenuto è sufficiente ad interrompere il rapporto di causalità fra la violazione di una norma precauzionale operata dal primo garante e l'evento, quando tale comportamento non abbia fatto venir meno la situazione di pericolo originariamente determinata.

La giurisprudenza ha, quindi, riconosciuto l'appropriatezza dell'applicazione temporanea della contenzione fisica come extrema ratio nel momento eccezionale di pericolo grave ed immediato (Cass. pen. n. 28704/2015).

Ad analoghe conclusioni può pervenirsi anche in relazione alla figura dello psichiatra, il quale, anche fuori dalle ipotesi di ricovero coatto, è titolare di una posizione di garanzia, sullo stesso gravando doveri di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte autolesive (e, naturalmente, eterolesive). In applicazione dei consueti canoni in tema di responsabilità medica, il paziente che si trovi ricoverato in un reparto psichiatrico deve essere correttamente curato.

In altre parole, lo psichiatra, al pari di qualsiasi altro medico curante, ha l'obbligo giuridico di curare la malattia mentale nel miglior modo possibile, con tutti gli strumenti che ordinamento e scienza pongono a sua disposizione. Detto obbligo comprende quello di salvare il paziente dal rischio di condotte autolesive, dovendo ritenersi che le stesse rappresentino un'estrinsecazione, quando non una conseguenza, della patologia che lo affligge.

Ciò che l'ordinamento richiede allo psichiatra è di contrastare il rischio di condotte siffatte, attivandosi con gli strumenti terapeutici di cui può disporre. E se lo psichiatra ha in cura una persona che presenti un concreto pericolo di suicidio, la posizione di garanzia comporta l'obbligo di apprestare cautele specifiche (così, ad esempio, nel caso di ricovero volontario, invitare il personale infermieristico alla massima sorveglianza; prevedere, nel caso in cui il paziente intenda uscire dalla struttura, che lo accompagnino persone qualificate ed informate).

L'operatore psichiatrico pertanto, sulla base degli argomenti suesposti, avrebbe l'obbligo giuridico di praticare la contenzione per tutelare la salute e la vita del paziente. Egli, qualora sussistano determinati presupposti, ha dunque il dovere di contenere, non ne ha semplicemente la facoltà. Non è un fatto giustificato, poiché le cause di giustificazione scaturiscono da un contesto di base illecito, non lecito come in ipotesi di obbligo giuridico ex art. 40 comma 2 c.p. In altri termini, dove c'è obbligo giuridico di intervenire non c'è spazio per l'insorgere di una causa di giustificazione.

Anche per la giurisprudenza di legittimità, l'impedimento di atti auto ed etero lesivi del paziente rientra nell'obbligo di cura (Cass. pen. n. 48292/2008, che ha confermato la condanna per omicidio colposo del responsabile del reparto di psichiatria dell'ospedale, nonché dei medici in servizio presso detto reparto, per non avere previsto, con disposizioni al personale infermieristico, la sorveglianza del paziente – il quale, affetto da disturbo depressivo maggiore, era uscito dal reparto e, raggiunta la finestra del corridoio di altro piano dell'edificio, si era gettato nel vuoto - benché il medesimo paziente avesse dichiarato di provare improvvisi impulsi autolesivi e avesse già posto in essere un tentativo di defenestramento).

Significativo è il caso illustrato da Cass. pen. n. 21285/2013. Un uomo in stato di grave agitazione, disorientamento e confusione mentale, ricoverato nell'Unità di Terapia Intensiva Coronarica, muore in seguito a caduta accidentale dal letto di degenza, causata, come afferma la Corte d'Appello, dalla mancata apposizione delle sponde al letto del paziente «quale intervento non cruento e non invasivo atto ad evitare o, comunque a diminuire fortemente il rischio di cadute». Questa omissione, sempre secondo i giudicanti, è «connotata da elevatissima negligenza, in violazione di un chiaro obbligo di protezione gravante sul personale infermieristico del nosocomio a salvaguardia del rischio di caduta cui il paziente si trovò concretamente esposto, come comprovato dalle condizioni di disorientamento, di agitazione e di confusione mentale, documentate dal diario infermieristico, a partire dal (OMISSIS) e ribadite alle ore 6 dello stesso giorno dell'incidente». Il paziente cade più di venti ore dopo la prima annotazione di pericolo nel diario infermieristico.

L'infermiera di turno al momento dell'incidente, già condannata in primo grado di giudizio, propone ricorso per Cassazione, chiedendo, in particolare, di accertare i comportamenti degli altri infermieri, in servizio nei turni precedenti, visto che le annotazioni riportate in merito alle precarie condizioni del paziente avrebbero dovuto allarmare tutti i sanitari, sperando in tal modo di escludere, o almeno attenuare, la sua pozione. Ma tale accertamento è considerato inutile dalla Cassazione, poiché «non avrebbe condotto all'esclusione o alla limitazione della colpevolezza dell'imputata che, all'inizio del turno di servizio alle ore 21, constatata la mancata apposizione delle sponde al letto del paziente (concretamente esposto al rischio di cadere dal letto, per le condizioni di abnorme agitazione e di disorientamento documentate dalle ripetute e conformi annotazioni riportate sul diario infermieristico) era tenuta, in nome dell'obbligo di protezione su di lei gravante in ragione delle mansioni esercitate (e quindi della posizione di garanzia rivestita) ad adottare la suddetta misura volta ad evitare il verificarsi di eventi accidentali, peraltro ampiamente prevedibili, non potendo costei giovarsi del rifiuto opposto dal paziente, facilmente e doverosamente superabile richiedendo l'intervento del medico di guardia». Quindi, l'infermiere può e deve ricorrere a mezzi di contenzione se lo stato del paziente lo richiede, purché ne documenti i motivi in cartella infermieristica, indichi il dispositivo scelto e la durata del suo utilizzo. La contenzione è “atto straordinario”, ma è anche vero che in alcuni reparti rispetto ad altri si può trovare una tipologia di pazienti che richiede, proprio a causa delle proprie peculiarità, un suo ricorso più frequente. L'utilizzo dei dispositivi di contenzione non esime comunque l'infermiere da un serrato controllo del paziente. Pensiamo, ad esempio, come possano essere pericolose le sponde al letto se non associate alla vigilanza: il paziente, in stato confusionale, potrebbe cercare di scavalcarle e, cadendo ugualmente, rischierebbe di provocarsi un danno maggiore.

Anche Cass. pen. n. 9170/2013 ha condannato per omicidio colposo l'infermiere per violazione della norma cautelare posta a garanzia dell'incolumità del paziente ricoverato, caduto dal letto una prima volta e poi deceduto per i danni riportati a seguito di una seconda caduta “prevedibile”, imputata al mancato impiego di spondine di contenimento al letto, per omessa sollecitazione da parte dell'infermiere al medico affinchè prescrivesse il mezzo di contenzione necessario, nonchè per omessa vigilanza, anche se la costante vigilanza non è sempre oggettivamente esigibile.

Infine, va rilevato che il dovere professionale di contenere può, comunque, incontrare un limite in quelle situazioni che esporrebbero a serio pericolo l'incolumità dell'operatore, come nel caso di paziente nettamente più forte. Medici e infermieri non rientrano nel novero di soggetti che per legge abbiano il dovere istituzionale di esporsi a pericolo, come ad esempio vigili del fuoco, appartenenti alle forze dell'ordine, agenti della protezione civile. Al contempo, però, nei casi di emergenza non è consentito che l'operatore psichiatrico rimanga inerte. Egli, infatti, potrà adempiere l'obbligo di intervenire richiedendo la collaborazione di altri operatori o invocando l'intervento della forza pubblica.

Con riguardo all'intervento in situazioni di emergenza nei confronti di un paziente pericoloso per sé o altri, l'indirizzo maggioritario tende comunque ad invocare l'applicazione delle scriminanti della legittima difesa e dello stato di necessità, quali fonti di liceità dello strumento contenitivo.

Segue. Fonti normative

Come già visto, la giurisprudenza della Cassazione non nutre dubbi circa l'obbligo di imporre restrizioni della libertà personale del paziente, se ciò è funzionale alla prevenzione di atti auto o eterolesivi.

Ora, fermo restando che l'intervento sanitario verso l'assistito capace di intendere e di volere deve essere sempre preceduto dall'acquisizione di un valido consenso informato e, se attuato in presenza di un suo dissenso, costituisce reato (Cass. pen. n. 38914/2015), nel caso di soggetto incapace possono comunque sorgere perplessità circa la compatibilità di tali restrizioni con l'art. 13 Cost., che appunto tutela il diritto alla libertà personale, nel suo significato più lato di libertà dalla sottoposizione a coercizioni di qualunque tipo, nonché con l'art. 32 Cost., che tutela la salute quale fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e, inoltre, consente l'applicazione di trattamenti sanitari coattivi nei casi espressamente previsti dalla legge, senza che sia necessario un atto motivato dell'autorità giudiziaria, come invece richiesto dall'art. 13 Cost.

Come già rilevato, nell'attuale ordinamento non vi è una normativa specifica che disciplini e legittimi la contenzione. Nella precedente legge manicomiale vi erano, invece, riferimenti precisi alla stessa, il cui impiego era comunque limitato alle situazioni assolutamente eccezionali, nelle quali si richiedeva l'autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell'istituto.

Abrogata la legislazione di cui sopra, nulla più è stato previsto sulla contenzione. La legge 180/1978 di riforma dell'assistenza psichiatrica, meglio nota come “legge Basaglia”, è muta al riguardo.

Un riferimento normativo, sebbene settoriale, alla contenzione è contenuto nella legge di riforma dell'Ordinamento penitenziario del 1975, che all'art. 41 legittima l'uso di coercizione fisica nei casi previsti dal regolamento di esecuzione, che a sua volta all'art. 77, rubricato «Mezzi di coercizione fisica», parla espressamente di contenzione, stabilendo che «...la foggia e le modalità di impiego delle fasce devono essere conformi a quelle in uso, per le medesime finalità, presso le istituzioni ospedaliere psichiatriche pubbliche». Il nuovo regolamento penitenziario, introdotto nel 2000, riproduce nella sostanza la precedente disposizione.

A livello di fonti sovranazionali, poi, l'art. 5 della CEDU tutela il diritto alla libertà, vietando la sua privazione se non nei limiti previsti dalla legge e al ricorrere di una delle ipotesi elencate nelle varie lettere in cui si articola il paragrafo 1 della stessa disposizione convenzionale. Tra queste, la lett. e) consente la «detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo».

Inoltre, l'obbligo di contenere il paziente psichiatrico può scaturire non soltanto dalla legge, ma, come già in precedenza rilevato, anche da un atto di autonomia privata, come il contratto di ricovero, il quale produce, quale effetto naturale ex art. 1374 c.c., l'obbligo della struttura sanitaria di sorvegliare il paziente in modo adeguato rispetto alle sue condizioni, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne. Peraltro, la circostanza che il paziente sia capace di intendere o di volere, ovvero il fatto che non sia soggetto ad alcun trattamento sanitario obbligatorio, non esclude il suddetto obbligo, ma può incidere unicamente sulle modalità del suo adempimento (Cass. civ. n. 22331/2014, in ordine al caso di un paziente sofferente di disturbi mentali, il quale si era allontanato dalla clinica ove era ricoverato e, nel tentativo di suicidarsi, era stato investito da un treno, subendo l'amputazione della mano destra).

Ciò in quanto l'estensione ed il contenuto dell'obbligo di vigilanza di cui si è detto variano in funzione delle circostanze del caso concreto. Tale obbligo sarà tanto più stringente, quanto maggiore è il rischio che il degente possa causare danni, o patirne. Tuttavia nè la capacità di intendere e di volere, nè l'assoggettamento del paziente ad un trattamento sanitario obbligatorio, sono presupposti necessari perché sorga l'obbligo di vigilanza.
Anche una persona perfettamente capace di intendere e di volere, infatti, può aver bisogno di vigilanza e protezione per evitare che si faccia del male (come nel caso di degente non autosufficiente).

Segue. Posizione di controllo

Un referente normativo, in ambito civilistico, della posizione di controllo gravante (anche) sul sanitario è contenuto nell'art. 2047 c.c., il cui comma 1 statuisce che «In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto».

La norma in esame pone una presunzione di responsabilità applicabile solo nel caso di danni cagionati dall'incapace a terzi, e non anche nell'ipotesi in cui l'incapace sia il soggetto passivo dell'evento di danno, come nel caso di danni cagionati dall'incapace a se stesso o subiti da un terzo (Cass. civ. n. 11245/2003).

Più precisamente, la responsabilità civile del soggetto tenuto alla sorveglianza di una persona incapace, la quale abbia cagionato danni a terzi, dà luogo, ai sensi della predetta norma, ad una responsabilità diretta e propria di coloro che sono tenuti alla sorveglianza, per inosservanza dell'obbligo di custodia, ponendo a carico di essi una presunzione di responsabilità, che può essere vinta solo dalla prova di non aver potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio della sorveglianza impiegata (Cass. civ. n. 12965/2005, in relazione alla responsabilità risarcitoria di una struttura ospedaliera per l'uccisione di un paziente da parte di altro ricoverato incapace di intendere e di volere).

L'ampiezza dell'obbligo di sorveglianza dei soggetti incapaci di intendere o volere è da rapportare alle circostanze di tempo, luogo, ambiente, pericolo, che, considerando altresì la natura e il grado di incapacità del soggetto sorvegliato, possono consentire o facilitare il compimento di atti lesivi da parte del medesimo (Cass. civ. n. 4633/1997).

L'obbligo di vigilanza a carico delle persone che hanno la custodia dell'incapace non va, però, inteso soltanto con riferimento alla persona custodita, ma va, altresì, esteso a tutto l'ambiente che la circonda, il quale deve essere tale da non creare o lasciare permanere, in relazione allo stato di incapacità del soggetto vigilato, cause di pericolo (Cass. civ. n. 2157/1967).

Prima della l. n. 180/1978 sull'assistenza psichiatrica, la giurisprudenza aveva ritenuto che rivestissero la qualifica di sorveglianti gli infermieri di un ospedale psichiatrico (App. Cagliari, 24 dicmbre 1959, Rep. G. it. 60, Resp. Civ., 168). A seguito della citata riforma, che ha sancito l'abbandono della finalità di custodia che caratterizzava la legislazione precedente e il venire meno dei reati di omessa custodia e di omessa denuncia delle malattie mentali, si è dubitato della possibilità di assegnare al personale sanitario la qualifica di sorvegliante degli infermi di mente. Discostandosi da queste considerazioni, la giurisprudenza ha affermato che nei confronti di persona ospite di reparto psichiatrico, non interdetta né sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio ai sensi della l. n. 180/1978, la configurabilità di un dovere di sorveglianza a carico del personale sanitario addetto al reparto e della conseguente responsabilità risarcitoria ai sensi dell'art. 2047, comma 1, c.c. per i danni cagionati dal ricoverato presuppone soltanto la prova concreta della incapacità di intendere e di volere del medesimo (Cass. civ. n. 22818/2010, Cass. civ. n. 12965/2005).

Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza, la presunzione di responsabilità prevista dall'art. 2047 c.c. nei confronti di chi sia tenuto alla sorveglianza dell'incapace è configurabile a carico della struttura sanitaria soltanto in caso di ricovero ospedaliero del malato mentale, dovendosi, peraltro, considerare priva di tutela a carico del Servizio Sanitario l'esigenza di assicurare la pubblica incolumità che possa essere messa in pericolo dal malato mentale, rientrando tale compito tra quelli demandati in via generale agli organi che si occupano di pubblica sicurezza (nella specie, Cass. civ. n. 16803/2008, sulla scorta dell'enunciato principio, ha rigettato il ricorso proposto, nei confronti dell'ASL, dai parenti di un congiunto ucciso da un soggetto affetto da vizio totale di mente all'interno di un bar, non potendosi configurare nei riguardi della medesima ASL uno stretto obbligo di sorveglianza a carico dell'omicida risultato malato di mente nell'ipotesi esaminata, considerandosi, altresì, che il TSO può essere disposto solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure extraospedaliere e, senza trascurare che, nel caso in questione, l'aggressore omicida, fino a pochi giorni prima del compimento del fatto delittuoso, non aveva dato segni di squilibrio e premonitori di una possibile manifestazione di follia).

Per evitare l'imputazione della responsabilità per il fatto illecito dell'incapace, il sorvegliante dovrà, quindi, provare di aver adottato tutte le misure che apparissero idonee a scongiurare il danno, e dunque di non aver potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio della sorveglianza impiegata (Cass. civ. n. 12965/2005), quando, ad es., l'evento lesivo sia stato determinato da un comportamento imprevedibile dell'incapace (Cass. civ. n. 21972/2007).

Infine, si è precisato che l'accertamento in sede penale della mancanza di prova della colpa dei soggetti tenuti alla sorveglianza dell'incapace non comporta il superamento della presunzione di colpa su di essi gravante ai sensi dell'art. 2047 c.c., nè costituisce prova del caso fortuito (Cass. civ. n. 19060/2003).

Responsabilità penale

La contenzione, in virtù di quanto osservato, non rappresenta un'attività di per sé illecita; tuttavia, è necessario che il ricorso ad essa sia assistito da specifiche ragioni e avvenga entro limiti ben precisi, in quanto trattasi di un trattamento sanitario non accompagnato da valido consenso del paziente, poiché incapace di prestarlo. In mancanza dei presupposti che autorizzano il ricorso a procedure coercitive, la contenzione diviene perciò condotta penalmente rilevante, integrando diverse figure di reato.

L'estrinsecazione della forza sulla persona, il «mettere le mani addosso» al paziente è considerato il nucleo della nozione penalistica di violenza, punita a titolo di violenza privata dall'art. 610 c.p. La norma tutela la libertà di autodeterminazione del soggetto e, conseguentemente, la libertà di azione rispetto a costrizioni e limitazioni illegittimamente poste. Trattasi di reato a forma vincolata, in cui la costrizione della capacità di determinarsi e di agire del soggetto passivo è realizzata esercitando una violenza personale, fisica o psichica, come nella minaccia. Costituisce, inoltre, violenza personale penalmente rilevante ex art. 610 c.p. qualunque compressione della libertà di movimento, pur in assenza di contatto fisico tra l'agente e la vittima. Si pensi all'ipotesi di un paziente psichiatrico chiuso all'interno di una stanza, senza possibilità di muoversi all'interno di essa secondo le proprie determinazioni. Si discute, però, se i destinatari del reato di violenza privata debbano essere capaci di percepire l'offesa ricevuta. Secondo l'opinione maggioritaria, il reato è configurabile anche nei confronti dell'incapace di intendere e di volere, fatta comunque eccezione per l'incapacità totale (neonato, paziente in stato di coma), poiché si tratterebbe di reato impossibile. Nello specifico, mentre la costrizione a tollerare od omettere prescinderebbe dalla consapevolezza della vittima, la costrizione a fare richiederebbe, invece, un minimo filtro intellettivo. Occorrerebbe, dunque, verificare quale è stata la condotta del soggetto passivo al fine dell'applicabilità della fattispecie di cui trattasi. Diversamente, essa non sarebbe mai riferibile alla contenzione dei pazienti psichiatrici.

La giurisprudenza della Cassazione più recente difficilmente tratta il tema dell'applicabilità dell'art. 610 c.p. Si segnala un caso, risalente, analizzato dalla giurisprudenza di merito nel 1978 (Trib. S. Maria Capua Vetere): al direttore di un ospedale psichiatrico giudiziario viene contestato il reato di violenza privata, per aver utilizzato il letto di contenzione e consentito l'uso di psicofarmaci in assenza di presupposti previsti dalla legge. Allo stesso, così, si rimprovera di aver disposto, accettato e comunque non impedito l'uso di tali mezzi, costringendo in tal modo i pazienti a subire la limitazione della libertà personale.

Quando invece la contenzione viene ripetuta nel tempo, possono profilarsi altri reati: il sequestro di persona o i maltrattamenti in famiglia.

Il legare le mani e i piedi al letto d'ospedale, o l'incatenamento, costituiscono ipotesi paradigmatiche di sequestro di persona, qualora mantenute per un tempo apprezzabile, punite dall'art. 605 c.p., in quanto estinguono, annullano, sopprimono la libertà personale.

La possibile applicazione di questa fattispecie pone, quindi, una domanda: quanto può durare la contenzione? Nessun protocollo nazionale fornisce indicazioni precise al riguardo, poiché nessuno può saperlo in anticipo. I protocolli, tutt'al più, si limitano a prevedere che l'atto contenitivo possa essere applicato limitatamente al tempo necessario per la risoluzione della situazione che l'ha motivato e per una durata che, nel caso di contenzione a letto, in media non dovrebbe superare le dodici ore. Una volta trascorso tale termine, l'atto potrebbe essere rinnovato per un numero di volte e per una durata complessiva indefinibile “a priori”.

Anche il Comitato Nazionale per la Bioetica ha suggerito un impiego della contenzione contenuto nel tempo. Quando, dunque, l'atto coercitivo non resti circoscritto al lasso di tempo necessario per calmare il paziente o per somministrargli un farmaco, diventerebbe strumento illegittimo e comporterebbe l'applicazione dell'art. 605 c.p.

Un noto caso, di recente balzato agli onori della cronaca, è quello di Francesco Mastrogiovanni (Trib. Vallo della Lucania sent. n. 825/2012), ricoverato presso il reparto psichiatrico dell'Ospedale di Vallo della Lucania con trattamento sanitario obbligatorio in preda a «agitazione psicomotoria, alterazione comportamentale ed eteroaggressività». Il paziente viene prima sedato farmacologicamente (contenzione farmacologica) e successivamente anche meccanicamente attraverso «fascette dotate di viti di fissaggio applicate ai quattro arti e fissate alle sbarre del letto».

La motivazione della contenzione è attribuibile, inizialmente, ad una disposizione della polizia giudiziaria che ha richiesto il prelievo delle urine, necessario per l'applicazione della sanzione amministrativa costituita dal ritiro della patente di guida. Il paziente viene contenuto e cateterizzato, e dopo essere stato abbandonato a sé stesso, senza venire alimentato e idratato, all'interno di un reparto sprovvisto di aria condizionata, nel mese di agosto, muore, a distanza di ottanta ore dal ricovero. La contenzione “«non viene annotata in cartella clinica, né mai lo sarà». Il tutto viene ripreso dalle telecamere della videosorveglianzadel reparto che testimoniano anche il momento presumibile del decesso, scoperto però sei ore dopo dal personale. All'esito dell'esame autoptico i consulenti del P.M. individuano la causa della morte del Mastrogiovanni in un edema polmonare acuto, diretta conseguenza delle modalità con cui è stata effettuata la contenzione fisica.

Vengono condannati dal Tribunale di Vallo della Lucania il primario del reparto ed altri medici per sequestro di persona, realizzato mediante contenzione meccanica al letto di degenza in assenza di presupposti, nonché per il delitto di cui all'art. 586 c.p., per aver cagionato la morte del paziente, come conseguenza del delitto di cui all'art. 605 c.p.; vengono, invece, assolti gli infermieri.

In tale vicenda, per quanto desumibile dalla motivazione della sentenza di condanna, non sembrano esserci dubbi in ordine alla configurabilità del delitto di sequestro di persona, atteso che il reato di cui all'art. 605 c.p. sussiste non soltanto quando il soggetto venga privato della libertà di movimento nello spazio, ma anche quando sia sottoposto a misure coercitive sul corpo, come nel caso di specie, poiché in questo caso le stesse «di per sé ed obiettivamente sottraggono l'essere fisico alle relazioni spaziali, intercludendolo». Inoltre, non rileva che la persona offesa sia o meno dotata di capacità psichica, in quanto la Cassazione ritiene che «…deve prescindersi dall'esistenza nell'offeso di una capacità volitiva di movimento e di istintiva percezione della privazione della libertà per cui il delitto è ipotizzabile anche nei confronti degli infermi di mente o di paralitici» (Cass. pen. n. 15194/1990).

I medici, pertanto, non potevano ignorare, grazie alla loro competenza e professionalità, che la patologia riscontrata nel paziente non richiedeva il ricorso alla contenzione e, in particolare, che l'ininterrotto protrarsi di quest'ultima avrebbe considerevolmente aggravato le condizioni del paziente, influendo sul corretto funzionamento meccanico dell'apparato respiratorio. L'assoluzione degli infermieri viene, invece, fondata, dal tribunale vallese, sulla causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p., il cui comma 3 esclude la punibilità di colui che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.

La soluzione giudiziaria del caso desta varie perplessità, e non solo perché deve decisamente escludersi che il medico sia gerarchicamente superiore all'infermiere (tra medico e infermiere non sussiste un rapporto di soggezione di carattere pubblicistico, simile a quello previsto dal legislatore all'art. 51 c.p., in quanto il d.P.R. n. 25/1974 - c.d. Mansionario - è stato abrogato dalla l. n. 251/2000, che ha definitivamente abolito il principio della sottoposizione del personale infermieristico a quello medico), quanto soprattutto perché l'unico responsabile dell'assistenza infermieristica è comunque l'infermiere, il quale non può certo trincerarsi dietro un acritico spirito di abnegazione verso i medici e dietro la propria impreparazione professionale per andare esente da responsabilità. Invero, la posizione degli operatori infermieristici è ormai dotata di autonomia professionale, che consente agli stessi di prescindere dalle scelte operate dal medico, essendo l'infermiere chiamato, in prima persona, ad individuare i bisogni della salute della persona e a pianificare e gestire il più idoneo intervento assistenziale. Anche secondo la Corte Costituzionale, (Corte cost. n. 76/2015), «le direttive del medico hanno natura eminentemente tecnica e non si pongono in contraddizione con l'autonomia delle prestazioni dell'infermiere».

In sede di impugnazione, tuttavia, la Corte d'Appello di Salerno (App. Salerno, sent. 15 novembre 2016), parzialmente riformando la pronuncia di primo grado, ha confermato la responsabilità dei medici ed ha condannato anche gli 11 infermieri imputati, assumendo che «Durante il periodo di contenzione il paziente deve essere controllato ogni quindici minuti dal personale infermieristico e almeno ogni otto ore dal personale medico. La decisione del ricorso alla contenzione deve essere rivista qualora non sussista più la condizione che l'ha determinata». Inoltre, si assume che «l'assenza di ogni annotazione in cartella della contenzione era un elemento oggettivamente tale da ingenerare negli infermieri quantomeno un fondato sospetto sulla liceità del trattamento soprattutto in considerazione della sua lunga durata». Insomma, mentre la sentenza di primo grado aveva assolto gli infermieri ritenendo di non poterli rimproverare per aver “ubbidito” agli ordini dei medici, i giudici di appello ritengono che la qualificazione professionale dell'infermiere e la manifesta criminosità della condizione a cui era stato ridotto il paziente impongano di condannare chi ha assistito ed avallato con il suo operato tutto questo senza opporvisi.

Il reato di maltrattamenti in famiglia, invece, è stato configurato da Cass. pen. n. 6581/08, in relazione ad un caso in cui gli operatori di una casa protetta per pazienti psichiatrici maltrattano questi ultimi con percosse e ingiurie, infliggendo loro punizioni fisiche e tenendoli in precarie condizioni igieniche, nonché somministrando loro eccessive quantità di sedativi, per evitare di doversene prendere cura durante il servizio notturno o in altre circostanze. Dall'analitica lettura dei quaderni di consegna erano emersi il sistematico ricorso ad interventi di sedazione farmacologica, nonché episodi ripetuti di cadute con lesioni richiedenti il ricovero ospedaliero, che avevano manifestato uno stato di «artificioso intorpidimento» dei degenti, «uno stordimento costante che li inabilitava alle più elementari attività della vita quotidiana», in quanto tali idonei a realizzare la condotta tipica del reato di cui all'art. 572 c.p.

La condotta degli imputati nel caso da ultimo trattato induce, inoltre, all'approfondimento della dinamica dei rapporti che debbono sussistere tra operatori della struttura sanitaria e degenti con disturbi mentali. Rapporti nei quali si esclude, in capo agli operatori sanitari, la sussistenza di una sorta di “ius corrigendi”, che astrattamente possa giustificare interventi rieducativi in senso lato. Siamo distanti, infatti, dal rapporto che si instaura tra genitori e figli. Il paziente psichiatrico è «speciale»: non è in grado di percepire in termini razionali l'effetto deterrente di un atteggiamento punitivo, né tantomeno di coglierne l'aspetto rieducativo, qualora vi fosse. I malati mentali non hanno, dunque, bisogno di interventi rieducativi, ma di cure, anche contenitive, seppur nei limiti della tutela della loro salute. L'unica «vis modica», utilizzabile dai suddetti operatori, sarebbe potuta essere quella necessaria e sufficiente ad impedire la realizzazione di atti pericolosi per sé o per altri.

In alcuni casi, la giurisprudenza ha ritenuto potersi configurare anche il delitto di abbandono di persona incapace, ex art. 591 c.p., la cui condotta consiste nell'abbandono ovvero nel lasciare il soggetto passivo in balìa di se stesso o di terzi, con derivato pericolo per la sua vita o incolumità.

Precedente significativo è la già indicata sentenza Cass. pen. n. 6581/2008. Agli imputati non si era contestato il solo art. 572 c.p., ma altresì il delitto previsto dall'art. 591 c.p. Gli operatori della casa protetta, infatti, abbandonavano a loro stessi i degenti, omettendo ogni vigilanza nelle ore notturne e ogni misura di adeguata sorveglianza durante le uscite dalla struttura assistenziale. La Suprema Corte ribadisce, a sostegno della sussistenza della fattispecie, che essa si caratterizza per la natura di reato di pericolo concreto, evidenziando come il criterio distintivo delle condotte di effettivo abbandono di una persona incapace debba essere rapportato, in concreto, alla natura dell'incapacità. Non è necessario, pertanto, che si verifichi un danno nei confronti dell'abbandonato, ma è sufficiente il pericolo, la probabilità del suo realizzarsi. I degenti della casa protetta erano tutti affetti da patologie mentali croniche e gravi, che li privavano del tutto di autonomia funzionale e di raziocinio, nonché in diversi casi della capacità di orientamento spazio-temporale. La sentenza di appello – confermata nell'ultimo grado di giudizio – asserisce non esservi dubbio alcuno che l'incolumità dei degenti fosse a rischio ogni volta che restavano soli, in quanto i medici non si erano preoccupati di predisporre un sistema di sorveglianza all'uscita della struttura, né avevano rafforzato il controllo individuale sui pazienti a maggior rischio.

Conclusioni

L'analisi della casistica giurisprudenziale induce a ritenere come non sia possibile, data la molteplicità e varietà dei casi concreti, predeterminare in astratto tutte le regole di condotta poste a carico dei sanitari nella gestione delle situazioni in cui si renda possibile e doveroso il ricorso a strumenti contenitivi.

La configurabilità o meno della responsabilità professionale dei sanitari, sotto il profilo sia civile che penale, nei casi di contenzione omessa ovvero attuata illegittimamente o con modalità improprie, può dipendere dalle peculiarità della vicenda sostanziale sottoposta al vaglio dell'autorità giudiziaria. Ed, in tale ottica, la discrezionalità delle decisioni giudiziali può ritenersi in parte accentuata dalla mancanza di una normativa specifica in tema di contenzione, che ne orienti le valutazioni.

Nello sforzo, tuttavia, di sintetizzare gli approdi desumibili non solo dalla casistica giurisprudenziale, ma anche dalle evidenze scientifiche e dalle linee-guida dettate in ambito nazionale ed internazionale, può pervenirsi alle seguenti conclusioni.

La contenzione, se strumento finalizzato alla tutela della salute del paziente, è da considerarsi atto medico, sicché deve essere praticata soltanto previa prescrizione medica, con l'indicazione in cartella clinica delle motivazioni che la sorreggono, della durata del trattamento e delle modalità di intervento; nei casi di indifferibile urgenza che richiedono il pronto intervento del personale infermieristico, questo si trova a disporre da sé l'applicazione di mezzi contenitivi, salvo successiva sottoposizione a verifica medica.

Le modalità di contenzione devono poi essere rispettose del paziente, della sua salute nonché degli aspetti emotivi e relazionali, attraverso la contestuale valutazione delle sue condizioni somatiche, quali ad esempio età, patologie concomitanti, fattori di rischio specifici, etc.

Ai sensi dell'art. 32 del Codice deontologico dei medici del 2014, «il medico prescrive e attua misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali nei soli casi e per la durata connessi a documentate necessità cliniche, nel rispetto della dignità e sicurezza della persona».

La contenzione, quindi, deve essere praticata per il tempo strettamente necessario, in quanto finalizzata alla gestione della fase acuta ed essere rimossa il prima possibile, dopo aver esperito ogni intervento necessario per il ripristino della gestibilità e tutela del paziente e di eventuali terzi. In materia, ad esempio, le linee guida statunitensi del Department of Health and Human Services stabiliscono: che l'uso di tali pratiche non possa superare le dodici ore consecutive, salvo lo richiedano specifiche condizioni del paziente; una sorveglianza almeno ogni trenta minuti e una valutazione ogni tre-quattro ore dall'eventuale insorgenza di eventi dannosi; la garanzia della libertà di movimento per almeno dieci minuti ogni due ore, con esclusione della notte; l'impiego di una scheda ove registrare gli esiti delle operazioni effettuate e gli interventi eventualmente adottati.

Anche nel Codice deontologico degli infermieri del 2009 (art. 30) vi è una disposizione che si occupa della contenzione fisica e farmacologica, dalla quale si desume la necessità di praticarla solo quando sia funzionale alla cura del paziente e non per sopperire ad eventuali carenze strutturali presenti in reparto.

La contenzione va, poi, attuata con modalità adeguate, in quanto una scorretta gestione della stessa può compromettere sensibilmente la salute fisica. Una volta disposta la contenzione occorre, dunque, vigilare sull'evolversi del quadro clinico e monitorare la situazione in genere. Si pensi, ad esempio, all'azione depressiva sul sistema cardiocircolatorio, provocata da alcuni farmaci sedanti. O ancora, all'insorgere di determinate patologie da neurolettici, quale la sindrome da ipertermia maligna.

Le complicanze fisiche più gravi possono, inoltre, verificarsi in alcuni soggetti «a rischio», come pazienti fumatori, pazienti con deformazioni fisiche che possono impedire la corretta applicazione di mezzi contenitivi, pazienti che durante l'intervento assumono una posizione supina o prona, con conseguente predisposizione al rischio di asfissia, pazienti ricoverati presso locali esclusi dalla diretta vigilanza degli operatori sanitari. Ancora, danni successivi all'incongrua attuazione della contenzione possono scaturire da un'incompleta valutazione internistica o da una superficiale e sommaria ispezione del paziente nella fase di accettazione in reparto e durante il ricovero.

In sostanza, la scelta della contenzione può essere considerata corretta solo qualora, nel caso specifico, venga utilizzato lo strumento più idoneo. Ad esempio, lo psichiatra deve entrare nel merito della scelta del mezzo; deve sapere perché escludere il ricorso a cinture di sicurezza e preferire invece le fascette; qualora, poi, dovesse optare per queste ultime, dovrà utilizzare solo strumenti che possiedano precisi requisiti di fabbricazione, non accontentandosi di improvvisate soluzioni con bende o fasce reperibili sul momento in reparto. Appare significativo come negli Stati Uniti i mezzi per attuare la contenzione debbano essere approvati e contenere un'etichetta che ne imponga l'uso solo dietro prescrizione medica.

E che la contenzione non sia esente da controindicazioni è agevolmente desumibile dalla letteratura, che descrive le numerose conseguenze dannose (traumatiche, organiche, psichiche) connesse all'uso di mezzi contenitivi.

È, dunque, doveroso che il paziente sia contenuto in condizioni di sicurezza, onde evitare il rischio delle esposte conseguenze. Pertanto, prima di applicare un mezzo contenitivo sarebbe opportuno:

1) controllare l'ambiente circostante, eliminando gli oggetti inutili e quelli che potrebbero essere di intralcio;

2) disporre materassi o tappeti in prossimità del letto, al fine di attutire eventuali cadute;

3) rimuovere dalle tasche degli operatori oggetti come matite o penne, che potrebbero ferire il paziente;

4) indossare occhiali, guanti e mascherina;

5) procedere alla contenzione con un piccolo team di tre o al massimo sei operatori, guidato da un leader preventivamente indicato, chiedendo a tutti coloro che non sono coinvolti nella pratica di allontanarsi;

6) cercare di immobilizzare il paziente in prossimità del letto, per non doverlo eventualmente trascinare, e cercando di evitare, se possibile, l'assunzione di una posizione prona del malato, poiché questa potrebbe compromettere le sue funzioni respiratorie.

La scelta dello strumento impone, quindi, una proporzionale gravità e urgenza del quadro clinico, la cui sussistenza può essere verificata attraverso l'osservazione della cartella clinica, la quale riveste un ruolo fondamentale anche per gli accertamenti da compiere in sede giudiziaria, e quindi al fine di verificare la correttezza della scelta dello strumento contenitivo e sciogliere così qualsiasi dubbio sull'uso punitivo o terapeutico dello stesso.

È indispensabile, ad esempio, che in tale documento siano indicate le ragioni per le quali si è proceduto alla contenzione del paziente. Come del resto è necessario indicare l'ora in cui è stata attuata, le modalità, i tempi di revisione del procedimento, le disposizioni fornite al personale infermieristico, le ragioni del suo protrarsi o della sua sospensione, etc.

È, inoltre, necessaria un'adeguata dotazione di strumenti di contenzione in reparto, così come un'idonea dotazione farmacologica o qualsiasi altro strumento terapeutico. Al riguardo, occorre evidenziare come sul responsabile del reparto incomba l'onere di organizzazione, comprensivo tra l'altro della verifica di quanto necessario per fronteggiare le diverse esigenze, fra le quali quella di contenere il paziente. Eventuali mancanze o inadeguatezze strutturali non potranno essere invocate come esimenti della responsabilità, quantomeno per i vertici delle strutture pubbliche, per i quali è doveroso garantire standard di tutela sufficienti a tutelare il bene salute.

In tal senso, è fondamentale organizzare l'assistenza infermieristica secondo modelli integrati e multiprofessionali, poiché la tutela della salute psichica è il frutto della collaborazione di tutti gli operatori del settore. Peraltro, nello stesso personale infermieristico è sentita la necessità di ricevere indicazioni chiare sui processi decisionali da attuare nelle situazioni di pericolo per l'applicazione contemporanea della contenzione fisica.

Occorre, quindi, procedimentalizzare l'attività medica, poiché essa si compone di una moltitudine di discipline, dotate di una loro intrinseca specificità, di una loro storia e di una loro progressione evolutiva.

Per favorire il raggiungimento di tali risultati, è indispensabile innanzitutto basare la valutazione, la decisione e l'azione clinica sui risultati della ricerca e su adeguati indicatori e standard, mediante il ricorso a linee guida e protocolli, che siano però frutto della miglior scienza del settore. L'esistenza di tali parametri sembrerebbe garantire un maggior equilibrio fra esigenze di flessibilità da un lato e di determinatezza da un altro.

L'impiego delle linee guida comporta, poi, importanti conseguenze pratiche sul piano dell'accertamento della responsabilità colposa di ogni operatore sanitario, e quindi anche dell'infermiere, in quanto grazie ad esse l'individuazione della regola cautelare non è più rimessa all'intuizione del giudice o all'opinabile sapere del consulente, di volta in volta consultato per fornire al magistrato la cognizione scientifica per la soluzione del caso concreto. In assenza delle linee guida, infatti, il giudice deve richiamare il parere dell'esperto per costruire ex novo la regola cautelare, non essendo questa preesistente.

Guida all'approfondimento

R. CATANESI - L. FERRANNINI - P. F. PELOSO (a cura di), La contenzione fisica in psichiatria, Giuffrè, Milano, 2006;

G. DODARO, Il problema della legittimità giuridica dell'uso della forza fisica o della contenzione meccanica nei confronti del paziente psichiatrico aggressivo o a rischio suicidario, in Riv. it. med. leg., 2011, 6, pp. 1483 ss.;

M. MASSA, Diritti fondamentali e contenzione nelle emergenze psichiatriche, in Riv. it. med. leg., 2013, 1, pp. 179 ss.;

C. SALE, Analisi penalistica della contenzione del paziente psichiatrico, in Dir. Pen. Contemp., aprile 2014;

R. ZACCARIELLO, Questioni in tema di responsabilità penale dello psichiatra per condotte auto ed etero lesive poste in essere dal paziente, in www.psichiatria.it., pp. 1 ss.

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