Divieto di azioni esecutive e risoluzione del contratto di locazione

27 Novembre 2017

Il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore opera esclusivamente con riferimento alle azioni esecutive individuali, non rientrando in tale divieto l'azione diretta alla risoluzione del contratto di locazione ed al rilascio dell'immobile locato, la quale azione non pregiudica gli interessi degli altri creditori, avendo ad oggetto un bene che al patrimonio del fallito è sempre rimasto estraneo.
Massima

Il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore opera esclusivamente con riferimento alle azioni esecutive individuali, non rientrando in tale divieto l'azione diretta alla risoluzione del contratto di locazione ed al rilascio dell'immobile locato, la quale azione non pregiudica gli interessi degli altri creditori, avendo ad oggetto un bene che al patrimonio del fallito è sempre rimasto estraneo.

Il caso
Con l'ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Venezia convalida l'intimazione di sfratto per morosità proposta nei confronti del conduttore ammesso al concordato preventivo, ordinando il rilascio dell'immobile locato e disponendo la prosecuzione del giudizio nelle forme del rito speciale locatizio ex art. 667 c.p.c. In particolare, il Tribunale, in rigetto dell'opposizione del debitore intimato allo sfratto, ha valutato non sussistere gravi motivi ostativi all'emissione dell'ordinanza di rilascio, ritenendo ammissibile l'azione di risoluzione del contratto di locazione proposta nei confronti del conduttore successivamente al deposito della domanda di concordato preventivo, sulla base del fatto che tale azione, essendo diretta alla restituzione di un bene non appartenente al patrimonio del debitore, era, pertanto, inidonea a determinarne un impoverimento.
Le questioni giuridiche. L'ammissibilità di un'azione di risoluzione contrattuale promossa dal contraente in bonis successivamente al deposito della domanda di concordato

L'ordinanza in commento sottende la definizione di due questioni giuridiche tra loro strettamente legate da un nesso di pregiudizialità logica: da un lato, l'ammissibilità di un'azione di risoluzione contrattuale successiva al deposito di una domanda di concordato e, dall'altro lato, l'estensione oggettiva del divieto di azioni esecutive sul patrimonio del debitore concordatario, sancito dal primo comma dell'art. 168 l.fall., all'azione di rilascio dell'immobile oggetto di locazione.

La prima questione viene generalmente risolta positivamente dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria, nella misura in cui l'azione di risoluzione sia promossa congiuntamente a una pretesa di risarcimento danni, ritenendosi in tal caso prevalente la natura cognitoria dell'azione rispetto a quella esecutiva.

Opinioni divergenti sul tema si riscontrano invece qualora la medesima azione venga promossa successivamente al deposito della domanda di concordato al fine di ottenere la restituzione di beni allo stato appartenenti al patrimonio dell'imprenditore.

L'opinione contraria alla legittimità della domanda trova il proprio fondamento normativo nell'art. 168 l.fall., nella convinzione che lo stesso, limitando la proponibilità di qualsiasi azione volta a realizzare unilateralmente il contenuto dell'obbligazione del debitore concordatario, renda inammissibile anche l'effetto esecutivo conseguente all'accoglimento di un'azione di risoluzione (Trib. Vicenza 11.05.2016).

Di diverso avviso è altra parte della giurisprudenza (Trib. Prato, 29.02.2016) supportata da autorevole dottrina (F. LAMANNA, La nozione di contratti pendenti nel concordato preventivo, in questo portale, 07.11.2013; P. F. CENSONI, La continuazione e lo scioglimento dei contratti pendenti nel concordato preventivo, in Il caso; S. ZIINO, Domanda di ammissione al Concordato Preventivo e "divieto" di azioni esecutive, in Dir. Fall., 2014), che ritiene che, in assenza di un procedimento giurisdizionale di verifica dei crediti quale quello previsto dalle norme di cui al Capo V della legge fallimentare, non vi sia ragione per considerare inammissibile un'azione di risoluzione fondata sulla disciplina di diritto comune, indipendentemente dal fatto che la stessa sottenda delle pretese restitutorie su beni appartenenti al patrimonio del debitore in concordato.

Ciò premesso, è tuttavia necessario valutare se le medesime conclusioni possano essere condivise anche qualora ad essere oggetto di risoluzione sia un contratto ad esecuzione continuata e periodica, quale un contratto di locazione.

Elemento di discrimine è, in tal caso, il momento cronologico in cui si colloca l'inadempimento presupposto alla domanda di risoluzione, se antecedente o successivo al deposito del ricorso per concordato.

Qualora le obbligazioni oggetto dell'inadempimento in questione siano maturate prima della data del deposito, la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria sono concordi nel ritenere l'azione di risoluzione promossa dal terzo contraente in bonis inammissibile, e ciò in quanto un suo eventuale accoglimento determinerebbe una contraddizione di sistema rispetto al divieto, per il contraente in concordato, di pagare crediti che, collocati anteriormente alla domanda di concordato, e afferenti, pertanto, a situazioni giuridiche definitivamente cristallizzate, sarebbero soggetti alla falcidia concordataria (Cass. 12 gennaio 2007, n. 578 secondo cui “dopo l'ammissione alla procedura di concordato preventivo non sono consentiti pagamenti lesivi della par condicio creditorum”; A. PATTI, I rapporti giuridici pendenti nel concordato preventivo, in Fall., 2013; Trib. Modena 06.08.2015, in Il caso; Trib. Alessandria 18.01.2016 in Il caso).

Non si può non rilevare, tuttavia, come tale tesi, se da un lato, protegge dal rischio di risoluzione il debitore in concordato che si trova impossibilitato a soddisfare crediti che, anteriori al deposito della domanda, sarebbero soggetti alla falcidia concordataria, dall'altro lato è idonea a determinare una situazione di ingiustizia sostanziale nei confronti della controparte adempiente: la rigidità di tale interpretazione, infatti, potrebbe valere ad incentivo poco virtuoso per il debitore che, dopo aver accumulato morosità pregresse a seguito dell'interruzione del pagamento dei propri fornitori, tenti di obliterare una probabile azione di risoluzione della propria controparte contrattuale depositando domanda di concordato preventivo.

In questa prospettiva, si pone la tesi proposta da una parte della giurisprudenza di merito più recente (App. Venezia, 30.01.2014) che, valorizzando un concetto “mobile” di “spossessamento attenuato” postulato dall'art. 167 l.fall., e così di “atto di straordinaria amministrazione”, ritiene efficace il pagamento di debiti pregressi qualora tale adempimento si ponga come propedeutico al “miglior soddisfacimento dei creditori”: in tal caso il pagamento si configurerebbe quale “atto di ordinaria amministrazione”, non necessitando, pertanto, per la sua ammissibilità di una previa autorizzazione da parte del giudice delegato.

In più precisi termini, con la pronuncia sopra citata, la Corte d'Appello ha ritenuto che il criterio del “miglior soddisfacimento dei creditori” - a cui devono tendere le prestazioni il cui pagamento può essere autorizzato da parte del giudice delegato ai sensi dell'art. 182 quinquies l.fall. - possa considerarsi come una sorta di clausola generale, applicabile non solo al concordato preventivo con continuità aziendale, ma, in via analogica, a tutte le tipologie di concordato, anche liquidatorio.

In questo senso, il presupposto del “miglior soddisfacimento dei creditori” si declinerebbe quale criterio per lo scrutinio della legittimità degli atti del debitore in pendenza della decisione del tribunale sulla ammissibilità della proposta, criterio che, secondo l'orientamento della Corte d'Appello di Venezia, potrebbe ritenersi soddisfatto qualora i pagamenti di debiti anteriori effettuati dopo il deposito della proposta, da un lato, si rivelino coerenti con la percentuale prevista dal piano concordatario e, dall'altro lato, siano produttivi di maggiori utilità economiche per tutti i creditori (F. CANAZZA, (Il)Legittimità del pagamento non autorizzato di debiti anteriori nel concordato preventivo con finalità liquidatoria – limiti del divieto di pagamento dei crediti pregressi nel concordato preventivo (di natura liquidatoria), in Fall., 2014: secondo tale autore tale interpretazione, pur in nuce corretta, non dovrebbe essere circoscritta alla sola ipotesi di incremento della garanzia patrimoniale offerta dal debitore, dovendosi considerare anche quella che, pur non producendo una maggiore utilità patrimoniale, garantisca un vantaggio lato sensu conservativo del patrimonio della società).

Ammettendo, allora, che in presenza di alcune specifiche circostanze, sia possibile adempiere al pagamento di debiti pregressi al deposito della domanda, verrebbe meno uno dei fondamenti della tesi dell'inammissibilità dell'azione di risoluzione proposta dal contraente in bonis successivamente al deposito della domanda.

Inoltre, com'è stato correttamente osservato da parte della dottrina , lo stesso dettato normativo dell'art. 182 quinquies l.fall. si giustifica solo nella misura in cui l'autorizzazione concessa dal giudice, a superamento della par condicio creditorum, sia idonea a impedire una risoluzione contrattuale promossa dal contraente in bonis che allora, senz'altro, dovrà ritenersi legittima (A. BRIGUGLIO, Domanda di ammissione al concordato preventivo e reazione all'inadempimento contrattuale del richiedente, il Dir. Fall. 2014).

Segue. L'ammissibilità dell'azione di rilascio dell'immobile locato al debitore in concordato preventivo

La seconda questione che emerge dall'ordinanza in commento è quella relativa alla valutazione dell'ammissibilità di un'azione di rilascio promossa dal locatore di un immobile nei confronti del conduttore moroso ammesso alla procedura di concordato preventivo.

Il fondamento dei contrapposti orientamenti che si rinvengono in giurisprudenza e dottrina sul tema muove dalla diversa estensione ricollegata al divieto per i creditori anteriori al deposito del ricorso, di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari, sotto pena di nullità, fino alla data in cui il decreto di omologazione non sia divenuto definitivo (art. 168, comma 1, l.fall.).

Secondo l'interpretazione che si registra come dominante in giurisprudenza, l'azione del terzo, in quanto tesa alla restituzione di un bene non appartenente al patrimonio del debitore, deve ritenersi ammissibile.

Il divieto di cui all'art. 168 l.fall., secondo tale prospettiva, ha infatti come oggetto esclusivamente le azioni esecutive individuali tendenti a pretese restitutorie verso beni allo stato appartenenti al patrimonio del debitore in concordato, non rientrando nell'ambito applicativo della norma azioni, quali quelle di consegna o rilascio, concernenti la restituzione dei beni di terzi (Cass. 16 aprile 2006, n. 2157; Trib. Aosta 20.02.2014, in Il caso; Trib. Bolzano 22.03.13, in Il caso; in dottrina: F. DEL VECCHIO, Il divieto di azioni esecutive nel Concordato Preventivo, in Fall., 1995, M. MONTANARI, La protezione del patrimonio nel concordato preventivo in Dir. Fall., 2013; G. Lo CASCIO, sub Art. 168 l.fall., in Codice commentato del fallimento 2015, Milano, 2015, 1976; G. LO CASCIO, Procedure esecutive e concordato preventivo, in Il Fallimenton. 11/2015; M. ARATO, La protezione del patrimonio del debitore dalle azioni cautelari ed esecutive dei creditori. L'acquisto di titoli di prelazione e l'iscrizione di ipoteche giudiziali; O. CAGNASSO, L. PANZANI (a cura di), Crisi d'impresa e procedure concorsuali, III, Torino, 2016; G. B. NARDECCHIA, Gli effetti del concordato preventivo sui creditori, Milano 2011, 119; M. FERRO, Effetti della presentazione del ricorso, sub art. 168 l.fall. in La legge fallimentare, Padova 2014). Isolato in giurisprudenza, anche se supportato da parte della dottrina, appare l'orientamento volto a considerare applicabile l'art. 168 l.fall. anche all'azione di rilascio di un bene non appartenente al patrimonio del debitore (Trib. Milano 17.07.2015, in dottrina S. SCARAFONI, Effetti della presentazione del ricorso e dell'ammissione al concordato preventivo. la dichiarazione di fallimento in corso di procedurain L. GHIA, C. PICCININNI, F. SEVERINI (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali, IV 4, Torino, 2011), sulla base del fatto che tale norma di legge non farebbe alcuna espressa distinzione in ordine al tipo e all'oggetto dell'azione esecutiva oggetto del divieto; secondo tale prospettiva il divieto di cui all'art. 168 l.fall. si porrebbe allora come ombrello protettivo contro ogni qualsiasi azione esecutiva idonea a incidere sul patrimonio del debitore che insta per il concordato.

La prima tesi, che poggia su un'interpretazione letterale della locuzione “patrimonio del debitore”, muove da una lettura della ratio del divieto posto dall'art. 168 l.fall. ispirata a garantire il corretto adempimento, in ossequio al principio della par condicio creditorum, del piano concordatario da parte del debitore, nella logica che sia quest'ultimo, e non i terzi, a dover rispondere dei suoi debiti.

Di conseguenza, così come nel fallimento è previso l'obbligo per il curatore di garantire la restituzione ai terzi dei propri beni, anche nel concordato preventivo, informato alla medesima ratio, vi deve essere tale obbligo, assicurando alla finalità del concordato i beni di effettiva titolarità del debitore, e non i beni di terzi da quest'ultimo detenuti o a qualsiasi titolo utilizzati.

L'opposto, e più recente orientamento, ritiene al contrario che la ratio del concordato preventivo, così come quella che misura l'estensione dell'art. 168 l.fall., debba discostarsi nettamente dai principi ispiratori posti a base della procedura fallimento, e ciò all'esito della riforma di cui al D.L. 35/2005, tesa a valorizzare il concordato come strumento processuale volto al risanamento e alla conservazione dell'azienda, più che alla mera liquidazione dei beni.

Una lettura conforme all'impianto sistematico della novella legislativa condurrebbe, in particolare, a considerare il divieto di cui all'art. 168 l.fall. quale norma a presidio delle concrete possibilità di successo del piano di risanamento dell'imprenditore, volta ad inibire qualsiasi azione individuale promossa dal terzo proprietario di beni facenti parte del complesso aziendale organizzato in funzione del piano concordatario, nella misura in cui la stessa sia concretamente idonea a compromettere la funzionalità economica della proposta.

Così un'azione di convalida di sfratto proposta nei confronti del debitore in concordato, diretta a ottenere il rilascio dell'immobile locato ove è esercitata l'attività aziendale, potrebbe condizionare irrimediabilmente la capacità dell'imprenditore di predisporre un piano fattibile e idoneo a ricostituire l'equilibrio finanziario ed economico dell'impresa.

In questo senso la nozione di “patrimonio del debitore” individuata dall'art. 168 l.fall. viene intesa alla stregua non già di singoli beni oggetto di diritti bensì di tutte le situazioni giuridiche attive e passive facenti capo ad un soggetto, comprese le aspettative e i diritti di obbligazione.

Osservazioni

L'ordinanza in commento, statuendo in merito all'ammissibilità di un'azione di convalida di sfratto e della conseguente azione di rilascio del bene immobile locato, ha fatto proprio l'orientamento favorevole, da un lato, alla proponibilità un'azione di risoluzione di un contratto di durata per inadempimenti anteriori al deposito della domanda di concordato e, dall'altro lato, all'ammissibilità di un'azione esecutiva tendente alla restituzione di un bene non appartenente al patrimonio del debitore, in piena aderenza al dato letterale della locuzione del divieto di azioni esecutive “sul patrimonio del debitore”.

La prospettiva interpretativa accolta dal Giudice veneziano pare porsi in modo del tutto coerente, non solo con la lettera del dispositivo dell'art. 168 l.fall., ma anche con il tessuto normativo in cui tale precetto si incardina, in un'ottica di uniformità sistematica della disciplina fallimentare.

Si ritiene, infatti, che l'analisi interpretativa del divieto posto dall'art. 168 l.fall., e così della sua ratio, debba necessariamente trovare il proprio fondamento esegetico nel divieto, sostanzialmente speculare, posto dall'art. 51 l.fall. in tema di fallimento.

La ratio di tale articolo, che preclude l'avvio e la prosecuzione di azioni esecutive e cautelari sui beni compresi nel fallimento dalla data della sua dichiarazione, si coglie se raccordata all'art. 52 l.fall., norma posta a presidio della concorsualità creditoria: il combinato disposto di tali norme si pone a paradigma dei principi di universalità soggettiva ed oggettiva, garantendo che ogni posizione debitoria del fallito venga accertata secondo il necessario iter dell'istanza di ammissione al passivo, inibendo al singolo creditore qualsiasi azione autonoma e unilaterale, a salvaguardia del rispetto della par condicio creditorum.

In tale prospettiva, l'ambito di applicazione del divieto posto dall'art. 51 l.fall. dovrà conseguentemente estendersi fino a ricomprendere ogni azione che potrebbe influire, sia direttamente che indirettamente, sulla consistenza dell'attivo e del passivo fallimentare, rientrando quindi nel relativo perimetro anche le azioni di risoluzione con domanda di restituzione del bene proposta in via accessoria, così come le azioni di consegna e rilascio su beni detenuti dal debitore, ancorché di proprietà di terzi.

Del tutto coerentemente dispongono gli artt. 93 e 103 l.fall., in forza dei quali se un creditore intende ottenere la restituzione di un proprio bene detenuto dal fallito, in conseguenza di un inadempimento anteriore al fallimento, dovrà necessariamente svolgere apposita istanza per la restituzione del bene nelle forme della insinuazione al passivo.

Sulla scorta di tali premesse, è possibile allora rilevare come, nonostante il tenore letterale dell'art. 168 l.fall. spinga l'interprete ad una inevitabile analogia con il corrispondente divieto posto in ambito fallimentare, la mancanza, nella disciplina del concordato, di un iter di accertamento dei crediti analogo a quello disposto in tema di fallimento, non può che condurre ad una differente interpretazione della portata normativa del divieto.

All'interno della disciplina concordataria, infatti, non vi è alcuna norma che ponga una regola procedimentale analoga a quella disposta dall'art. 52 l.fall. per i creditori anteriori al deposito della domanda di concordato, limitandosi l'art. 184 l.fall. a indicare quali siano i destinatari degli effetti del concordato una volta che lo stesso è stato omologato.

Se così è, allora, l'azione per convalida di sfratto promossa dal contraente non inadempiente nei confronti del conduttore ammesso al concordato preventivo dovrà ammissibilmente potersi svolgere in applicazione delle regole di diritto comune.

Se, infatti, in ambito fallimentare è possibile per il locatore proporre azione di rilascio, seppur nelle forme della domanda di ammissione al passivo, risulterebbe ingiustamente pregiudizievole nei confronti del locatore di un immobile locato a un soggetto in concordato preventivo essere soggetto ad un veto procedimentale nell'ottenere, successivamente al deposito della domanda, la restituzione di un bene che mai è appartenuto al patrimonio del debitore.

Sulla base di tali premesse, pare possibile ritenere che una diversa interpretazione dell'art. 168 l.fall., volta a comprendere nelle maglie del divieto anche l'azione di convalida di sfratto e successivo rilascio, seppur funzionale alla realizzazione dell'obiettivo di conservazione aziendale così come delineato dalla riforma del concordato preventivo del 2005, si rivelerebbegravemente incoerente rispetto al sistema normativo attuale, in cui la struttura di tale procedura è coniugata rispetto all'archetipo della disciplina fallimentare.

Ulteriore elemento dissonante è poi costituito dalla circostanza che un'accezione estensiva della locuzione “patrimonio del debitore” di cui all'art. 168 l.fall. avrebbe una propria ragion d'essere solo nell'ambito di un concordato in continuità, nella misura in cui il mantenimento in capo al debitore del bene concesso in locazione venisse accertato come effettivamente funzionale al risanamento aziendale declinato dal piano di concordato.

Se così è, tuttavia, è agevole osservare come l'applicabilità di una tale tesi, fondata sulla necessaria verifica di un presupposto di fatto, si rivelerebbe foriera di problemi pratici di non poco momento, costringendo il giudicante ad un' analisi in concreto dell'effettiva sussistenza di un nesso funzionale tra il bene esecutato e il piano di risanamento aziendale.

Da ultimo, si osserva come l'intento che vorrebbe garantire l'interpretazione estensiva testé citata, tesa a neutralizzare gli effetti depauperatori dell'attivo concordatario idonei a compromettere la realizzazione del risanamento aziendale, parrebbe in ogni caso potersi raggiungere attraverso l'ambito applicativo dell'art. 182-quinquies, comma quinto, l.fall., norma che permette al debitore - in presenza di determinati presupposti attestati da un professionista avente i requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d) - di ottenere l'autorizzazione del giudice al pagamento di debiti pregressi, superando così il rischio di essere soggetto a eventuali azioni di risoluzione promosse dalle controparti con riguardo a beni aziendali necessari alla prosecuzione dell'attività aziendale.

Minimi riferimenti giurisprudenziali e bibliografici

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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