Ius variandi dopo il Jobs Act e diritto alle mansioni: poteri e limiti del datore di lavoro
28 Novembre 2017
Quadro normativo
Per analizzare lo ius variandi e le modifiche intervenute in ordine a siffatto potere datoriale, è necessario partire dalla lettera della norma, ossia l'art. 2103 c.c., novellato nel 2015 dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 3, attuativo del c.d. Jobs Act. La precedente versione dell'art. 2103 c.c., vale a dire quella dell'impianto del codice civile del 1942, già oggetto di modifiche ad opera dell'art. 13 della L. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), era la seguente: “Mansioni del lavoratore: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo.”
Con le modifiche apportate dal summenzionato Decreto attuativo del Jobs Act, applicabile ai rapporti di lavoro subordinato in essere alla sua entrata in vigore, la lettera della norma ora vigente è la seguente: “Prestazione del lavoro: Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Nelle sedi di cui all'art. 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione di cui all'art. 76 del D.Lgs n. 10 settembre 2003, n. 276, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo”. È proprio dall'analisi esegetica della norma che si deve partire per comprendere le importanti novità introdotte dal legislatore del 2015. Il previgente testo della norma consentiva la variazione di mansioni a condizione che le nuove fossero "equivalenti alle ultime effettivamente svolte", il testo attualmente in vigore permette l'assegnazione a "mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte" (mobilità orizzontale). Il giudizio di equivalenza alla base della precedente formulazione della norma, doveva tenere conto di due aspetti: un aspetto oggettivo (parità di contenuto professionale delle mansioni) ed un aspetto soggettivo (considerazione dell'esperienza professionale acquisita e valutazione delle possibilità di sviluppo futuro), la nuova norma invece implica che tale giudizio sia condotto assumendo quale parametro non più il concreto contenuto delle mansioni svolte in precedenza, bensì il sistema di classificazione adottato dal contratto collettivo applicabile al rapporto. In altri termini, l'elemento di novità rispetto al passato è che non si fa più riferimento al requisito dell'equivalenza tra le ultime mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione, il datore di lavoro ha invece la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale (operai, impiegati, quadri, dirigenti) pertanto, fermo restando il divieto di discriminazione, se in base al contratto collettivo applicato, il mutamento di mansioni non comporta alcuna variazione di livello e di categoria, non sussiste alcun limite nell'assegnazione di nuove mansioni. Da ciò emerge l'importanza primaria del sistema di classificazione adottato dalla contrattazione collettiva che assurge ad unico parametro di riferimento per la valutazione della legittimità di un provvedimento di variazione delle mansioni. In realtà il principio sembra mutuato da quanto già previsto per il settore pubblico, dall'art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 ma per il settore privatistico è una novità di assoluto rilievo che, a prescindere da ogni valutazione sul rischio di abusi, rappresenta indubbiamente un'apertura a favore dei datori di lavoro verso nuove forme di flessibilità organizzativa.
Art. 2103 c.c. - Tabella per la lettura comparata dei due testi
Per maggior chiarezza è necessario sgombrare il campo da eventuali dubbi in merito alla facoltà di esercizio dello ius variandi in modo indiscriminato: il nuovo testo non legittima in alcun modo un demansionamento ingiustificato ovvero arbitrario del datore di lavoro. Nel testo previgente la legge e la giurisprudenza avevano affermato il concetto di equivalenza quale limite al demansionamento ed alla dequalificazione professionale dei lavoratori anche in relazione alla salvaguardia della dignità e della personalità del singolo lavoratore. Dottrina e giurisprudenza poi si sono orientate su un concetto di equivalenza intesa non esclusivamente quale criterio formalistico alla base del corretto inquadramento, del livello o della categoria di appartenenza del lavoratore, ma anche volto a tutela del contenuto concreto, della natura e delle modalità di effettivo svolgimento della prestazione. In una visione più dinamica, la giurisprudenza sul tema si è evoluta passando dal rispetto della professionalità specifica acquisita durante lo svolgimento delle mansioni precedenti e sull'omogeneità di contenuti rispetto a quelle successivamente assegnate, nell'ambito della medesima area professionale, alla facoltà di assegnare i lavoratori a mansioni non perfettamente identiche alle precedenti ma in ogni caso rientranti nella competenza tecnico-professionale acquisita, senza pregiudizio di carriera (v. Cass. sez. lav., 19 maggio 2001, n. 6856 e Cass. sez. lav., 2 maggio 2006, n. 10091).
In altri termini, il concetto di equivalenza aveva assunto un significato più ampio, non necessariamente inquadrabile nell'identità di mansioni ma nella tutela contro la dispersione e lo svilimento del patrimonio tecnico-professionale acquisito anziché garanzia di sostanziale continuità col passato. Il legislatore del 2015 sfuma i limiti del passato ma non esenta il datore di lavoro da limitazioni nell'esercizio dello ius variandi. Demansionamento
Il demansionamento è ora consentito in tre casi:
Fermo restando il principio ispiratore della nuova disciplina, basato sulla medesima categoria legale, tra gli elementi di maggior impatto, la norma attualmente in vigore consente al datore di lavoro la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni appartenenti al livello d'inquadramento immediatamente inferiore in presenza di una modifica degli assetti organizzativi aziendali incidente sulla posizione del lavoratore.
In realtà, considerata l'ampiezza della formula utilizzata, non è difficile prevedere casi di ricorso alla magistratura del lavoro per chiarire nelle singole fattispecie il concetto di "modifica degli assetti organizzativi aziendali" pertanto, in mancanza di una espressa indicazione normativa dei parametri oggettivi, in caso di contestazione, la dimostrazione dell'esistenza di un processo di riorganizzazione e soprattutto del nesso di causalità con il demansionamento del lavoratore ricorrente, sarà onus probandi del datore di lavoro. Il giudice, nella valutazione della sussistenza dei menzionati presupposti, non potrà entrare nel merito dell'opportunità e/o della necessità del cambiamento organizzativo, ma dovrà limitarsi ad accertare che la modifica organizzativa sia reale e che abbia inciso sulla posizione del lavoratore. Si noti che non è consentito lo stravolgimento arbitrario ed irrazionale delle mansioni originarie adibendo il lavoratore a mansioni eterogenee rispetto a quelle stabilite al momento dell'assunzione, ciò significa che non sarebbe legittimo, ad esempio, un drastico passaggio da impiegato a operaio.
In merito al secondo caso, il legislatore ha lasciato spazio alle dinamiche sindacali e di contrattazione ad ogni livello (si ricordi quanto disposto dall'art. 51, D.Lgs. n. 81/2015), per la previsione di ipotesi di assegnazione a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale. Il passaggio a mansioni inferiori richiede un requisito di forma e deve essere comunicato per iscritto a pena di nullità.
La legge non prevede l'obbligo di indicazione scritta delle motivazioni e la mancanza di esse non comporta invalidità dell'atto, tuttavia è consigliabile farne menzione, seppur sinteticamente. La norma prevede espressamente che il mutamento di mansioni deve essere accompagnato, "ove necessario", dall'assolvimento dell'obbligo formativo. Non sono previste sanzioni per il mancato assolvimento di detto obbligo, difatti la stessa norma esclude, in tali casi, l'invalidità del demansionamento. Sull'argomento tuttavia è bene fare alcune riflessioni di carattere pratico: la mancanza dell'obbligo formativo potrebbe rilevare qualora in futuro ricorrano ipotesi di contestazioni disciplinari a cui il lavoratore potrebbe opporsi eccependo la mancata formazione quale causa dell'errore in cui è incorso, con la conseguenza che il datore di lavoro potrebbe vedersi costretto ad annullare la sanzione irrogata. Ancora in tema di mancato assolvimento degli obblighi formativi, non deve escludersi la possibilità che il lavoratore eccepisca l'inadempimento da parte del datore di lavoro rifiutandosi di svolgere le nuove mansioni fintantoché non si ritenga adeguatamente formato, a tal fine è consigliabile documentare l'avvenuta formazione per iscritto, nei modi che il datore ritenga più opportuni, ad esempio consegnando un'informativa al lavoratore, trattenendone copia sottoscritta da quest'ultimo.
Giova infine ricordare che, a seguito della variazione, il lavoratore conserva il livello di inquadramento che aveva al momento dell'assegnazione alle nuove mansioni e la relativa retribuzione, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento delle mansioni precedentemente assegnate. Venendo al terzo caso di variazione in pejus, il comma 6 del novellato art. 2103 c.c. prevede che nelle sedi c.d. protette previste dall'art. 2113 c.c. (Direzione Territoriale del Lavoro, sede sindacale etc.) o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione. Ciò è consentito nelle seguenti ipotesi:
Nei casi summenzionati, il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, ovvero da un avvocato o da un Consulente del lavoro. Conseguenze del demansionamento illegittimo
Il mancato rispetto delle condizioni sin qui esposte, o la difformità dalle stesse, comportano la nullità di ogni patto, secondo quanto previsto dall'ultimo comma dell'art. 2103 c.c. esponendo il datore di lavoro a pretese risarcitorie sotto il profilo patrimoniale. Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, infatti, il demansionamento è illegittimo ed il lavoratore può
Giova in questa sede ribadire alcuni principi basilari, tra questi si rammenta che l'obbligo gravante in capo al datore di lavoro, di adibire il lavoratore alle mansioni "corrette", ha natura contrattuale, con la conseguenza che in tema di onere della prova, si applicano i principi di cui all'art. 1218 c.c., pertanto non vi è l'onere di provare l'esistenza di uno specifico intento datoriale al declassamento del lavoratore. Per quanto concerne invece i diversi profili attinenti al risarcimento del danno, dobbiamo rilevare che nel caso di accertamento del danno da demansionamento, il giudice può ordinare al datore di lavoro di rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento illegittimo di assegnazione a mansioni inferiori, assegnando il lavoratore alle mansioni originarie oltre al risarcimento del danno (v. Cass. sez. lav., 11 luglio 2014, n. 16012, richiamata dalla sentenza Trib. Milano, sez. lav, 15 luglio 2016, n. 2146) con onere a carico del lavoratore di provare il pregiudizio reddituale. Tra i profili risarcitori vanno inoltre menzionati quelli legati al riconoscimento del c.d. danno biologico o esistenziale, quello specifico della perdita di occasioni di lavoro (sempre che il lavoratore sia in grado di fornire la prova delle chance di lavoro perse a causa del comportamento illegittimo del datore di lavoro) e in ultimo il profilo strettamente attinente al mobbing, che come noto presenta particolare complessità anche ai fini probatori. Rapporto con altri principi garantiti
In generale, i limiti posti all'esercizio dello ius variandi dal datore di lavoro ed in particolare al demansionamento previsto dall'art. 2103 c.c. cedono il passo alla tutela del posto di lavoro nelle ipotesi in cui il legislatore intenda perseguire la realizzazione dei principi costituzionali (art. 35 Cost.) di tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, nonché promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro riconosciuto a tutti i cittadini (art. 4, comma 1 Cost.).
Pertanto, nel caso in cui la fattispecie concreta non rientri nelle ipotesi derogatorie espressamente previste dal legislatore, è consentito al datore di lavoro adibire il lavoratore a mansioni inferiori quando ricorrano due presupposti, di carattere oggettivo o soggettivo:
Abbiamo esaminato il secondo caso trattando dell'esercizio dello ius variandi in sede protetta e assistita, in merito alle condizioni oggettive invece va rilevato che anche la dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno ritenuto legittima la modificabilità in pejus delle mansioni in applicazione di una sorta di bilanciamento tra i principi espressi nell'art. 2103 c.c. ed i diritti costituzionalmente garantiti. In sintesi, il demansionamento è consentito nel rispetto di alcune condizioni, nei casi seguenti:
Mansioni superiori
Nelle ipotesi in cui il lavoratore venga assegnato a mansioni superiori, la norma prevede il diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore stesso, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi (anche aziendali) ovvero, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. Il dipendente ha il diritto di rinunciare a vedersi attribuito l'inquadramento superiore corrispondente alle ultime mansioni svolte. Di fatto, la facoltà di adibire il lavoratore a mansioni superiori era prevista già nella precedente disciplina e comportava, oltre al diritto del lavoratore alla retribuzione corrispondente alle nuove mansioni svolte, l'assegnazione definitiva dopo un periodo di tre mesi. Le disposizioni in vigore dal 2015 hanno, invece, fissato tale termine a sei mesi, salvo diversa volontà del lavoratore o diversa disposizione prevista dalla contrattazione collettiva che, si badi, potrebbe stabilire termini più brevi o ampliare quello previsto. Si evidenzia la necessità di un'attenta valutazione di questi ultimi aspetti onde evitare casi di "sovrainquadramento automatico" al superamento dei limiti temporali previsti.
Infine, per completezza, si deve rilevare il divieto di trasferire il lavoratore da un'unità produttiva ad un'altra se non in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, laddove la norma al nuovo comma 8, a differenza di quanto contenuto nella versione precedente stabilisce che ogni patto contrario è nullo salvo quanto previsto nei precedenti commi 2 e 4 (variazioni in pejus a seguito di modifica degli assetti organizzativi ovvero per ulteriori ipotesi previste da contratti collettivi) Conclusioni
A due anni dall'introduzione delle modifiche normative sin qui esaminate è difficile effettuare una valutazione. Taluni hanno parlato di "regressione" e di riscrittura dell'art. 2103 c.c. a danno dei lavoratori, altri vedono invece il legittimo ampliamento dei margini di manovra dei datori di lavoro, per l'attuazione di politiche di riorganizzazione aziendale, naturalmente nel rispetto dei limiti precedentemente esaminati. Va, peraltro, sottolineato che anche in vigenza della precedente versione dell'art. 2103 c.c. ci si muoveva in acque pericolose, andando ad intaccare alcuni diritti della personalità e non soltanto gli aspetti puramente economici legati al rapporto di lavoro. Va inoltre detto che, come abbiamo visto, anche la precedente disciplina consentiva talune situazioni in cui era possibile derogare al dettato dell'art. 2103 c.c., in forza di prioritarie esigenze di tutela di diritti e di beni che il legislatore ha ritenuto di importanza primaria rispetto al cambio di mansioni, in primis il mantenimento del posto di lavoro o la salvaguardia delle condizioni di salute dei lavoratori. Si può pertanto ritenere che questa sorta di "semplificazione" o di "alleggerimento" operato dal legislatore del 2015 sia in linea con l'orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. sez. lav., n. 18269/2006) secondo cui "deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro" . |