Esecutorietà della sentenza nel processo del lavoro
28 Novembre 2017
Inquadramento
L'art. 431, comma 1 c.p.c. prevede l'immediata esecutività delle sentenze di condanna a favore del lavoratore per i crediti derivanti dai rapporti di cui all'art. 409 c.p.c.. Questa regola, che quando fu introdotta con la legge n. 533/1973 rappresentava per il nostro sistema processuale una novità di grande rilievo, è stata oggi generalizzata ed estesa a tutte le sentenze di primo grado, in virtù della novellazione degli artt. 282 e 283 c.p.c. operata con la riforma del '90. Tuttavia la disciplina prevista per le sentenze indicate dal comma 1 della disposizione in epigrafe continua a differenziarsi dalle regole ordinarie, per quanto attiene alla possibilità di procedere a esecuzione sulla base del solo dispositivo e di subordinarne la sospensione alla sussistenza, per la parte che detta esecuzione subisce, di un «gravissimo danno». Da ciò deriva la persistente attualità di individuare con esattezza le pronunce alle quali fa riferimento la norma in commento ed il loro contenuto, al fine di delimitare la portata applicativa della disciplina speciale. Ambito applicativo
Occorre innanzitutto rilevare che il riferimento ai «crediti derivanti dai rapporti di cui all'art. 409» va inteso nel senso che la tutela esecutiva immediata comprende tutti i rapporti di lavoro previsti da questa norma, e non il solo lavoro subordinato. Tale assunto può considerarsi pacifico, sia valorizzando il chiaro tenore letterale della disposizione in oggetto, sia argomentando a partire dalla ratio della norma, che è quella di assicurare l'esecuzione immediata dei crediti destinati a soddisfare le esigenze primarie cui fa riferimento l'art. 36 Cost.. Vi è invece contrasto in giurisprudenza in ordine all'oggetto delle sentenze di condanna indicate dall'art. 431 comma 1 c.p.c., discutendosi se debba trattarsi esclusivamente di un credito pecuniario o se, viceversa, nel raggio di azione della norma sia ricompresa qualunque prestazione di dare, con la sola esclusione delle sentenze di condanna ad un fare. É stato, ad esempio, sostenuto che la provvisoria esecutività riconosciuta dall'art. 431 comma 1 c.p.c. riguarda solo le sentenze contenenti una condanna al pagamento di somme di denaro, e non anche le sentenze che accertano il diritto del lavoratore ad una qualifica superiore e condannano il datore di lavoro all'attribuzione di detta qualifica, che ancorché in parte di accertamento e in parte di condanna, non sono comunque suscettibili di esecuzione forzata, non potendo l'attribuzione della qualifica e il conferimento delle relative mansioni avvenire senza la necessaria cooperazione del debitore (Cass. civ., 21 giugno 1985, n. 3738). É stato, inoltre, chiarito che la formula di carattere generale dell'art. 431 c.p.c., in tema di esecutorietà della sentenza nelle controversie di lavoro, pur dovendosi interpretare in senso ampio, suscettibile cioè di ricomprendere nel termine "crediti" tutte le obbligazioni che trovano il loro titolo in uno dei rapporti di cui all'art. 409 stesso codice e quindi anche quella di fare o di non fare, non può tuttavia utilmente operare al fine di consentire la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, in quanto l'immediata eseguibilità di questa trae origine da una valutazione legale tipica (art. 18 l. n. 300/1970), connessa alla ritenuta necessità di assicurare una tutela urgente in via provvisoria, che esclude l'applicabilità della normale disciplina codicistica attinente alla generale previsione normativa in materia di obbligazioni da rapporto di lavoro (Cass. civ., 26 luglio 1984, n. 4424).
La possibilità di procedere ad esecuzione forzata in base al solo dispositivo, riservata esclusivamente al lavoratore, costituisce l'elemento caratterizzante della disposizione in commento. Essa afferma testualmente che all'esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza. I sostenitori della necessità di operare un'interpretazione strettamente letterale del dettato normativo affermano che l'art. 431, comma 2 c.p.c. sembra limitare l'efficacia esecutiva del dispositivo ai quindici giorni entro i quali la sentenza deve essere depositata in cancelleria; argomentando in questi termini, si ritiene che l'efficacia esecutiva del dispositivo verrebbe meno allo scadere del termine per depositare la sentenza, così che una volta scaduto tale termine, ove la sentenza non sia stata depositata, l'esecuzione forzata non potrebbe essere né iniziata né, se iniziata, proseguita. Diversamente, giurisprudenza consolidata afferma che la copia del dispositivo ha piena efficacia di titolo esecutivo destinata a permanere, in relazione allo specifico fine perseguito dal legislatore di consentire al lavoratore una pronta e celere realizzazione dei suoi diritti, anche dopo il decorso del termine di quindici giorni fissato dall'art. 430 c.p.c. e nonostante il già avvenuto deposito della sentenza (Cass. civ., 28 aprile 2010, n. 10164). Può concludersi, allora, che la circostanza che la sentenza sia stata depositata, non essendo idonea a privare il dispositivo del suo valore di titolo esecutivo, non impedisce di iniziare l'esecuzione sulla sola base di esso, attesa anche per un verso l'irrilevanza della motivazione nella procedura esecutiva - dove non è consentito un controllo intrinseco del titolo esecutivo - e per altro verso la contraddittorietà tra il permettere l'esecuzione in presenza del solo dispositivo, e quindi di un atto incompleto, e l'impedirla quando, con il deposito della sentenza e la sua comunicazione, l'atto è ormai integro in ogni suo elemento. Deve comunque valere la regola generale per la quale il titolo esecutivo, per avere l'efficacia sua propria, deve contenere in sé tutti gli elementi idonei alla determinazione del quantum, rendendo possibile il calcolo sulla base di dati certi che non debbano essere tratti aliunde. Non mancano tuttavia opinioni differenti, più in generale, su quale debba essere il contenuto minimo del comando giudiziale, per procedere validamente all'esecuzione delle sentenze ex art. 431 c.p.c..
I commi 3 e 4 dell'art. 431 c.p.c. prevedono che il giudice d'appello può sospendere l'esecuzione della sentenza di condanna di cui al comma 1, quando dalla stessa possa derivare all'altra parte gravissimo danno; la sospensione può essere anche parziale, pur essendo testualmente esclusa l'inibitoria fino all'importo di euro 258. Secondo l'orientamento tradizionale, presupposti indispensabili per la sospensione dell'esecuzione sono l'inizio dell'esecuzione medesima e la proposizione dell'appello, in via principale o incidentale, o con riserva dei motivi ex art. 433, comma 2, c.p.c.. Proprio valorizzando la lettera di tale ultima norma – che prevede espressamente che l'appello con riserva dei motivi possa essere proposto solo qualora l'esecuzione sia già iniziata – parte della giurisprudenza ritiene inammissibile la proposizione dell'appello prima dell'inizio dell'esecuzione, al fine di ottenere la sospensione della semplice efficacia esecutiva della sentenza emessa a favore del lavoratore (Cass. civ., 6 marzo 2004, n. 4615). Seguendo altro indirizzo, invece, la sospensione ex art. 431, commi 3 e 4, c.p.c. va letta anche come sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza, con la conseguenza che il provvedimento potrebbe essere chiesto ed emesso anche prima dell'inizio dell'esecuzione. Muovendo dall'assunto che con la novella attuata dalla legge n. 353/1990 è stata normativamente riconosciuta la possibilità che la richiesta di inibitoria della sentenza di primo grado sia proposta quando l'esecuzione non è ancora iniziata (cfr. art. 283 c.p.c.), si argomenta nel senso che tale innovazione imponga la necessità di un'interpretazione correttiva della norma in commento, volta a consentire la proposizione della domanda di inibitoria per paralizzare anche solo l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado resa nel processo del lavoro (App. Genova, 19 febbraio 2004). Il gravissimo danno in capo al debitore esecutato, cui la legge subordina la concessione della sospensione, va valutato sia obiettivamente che soggettivamente, sia in attualità che in prospettiva, tenuto conto delle capacità patrimoniali del datore di lavoro e prescinde dalla fondatezza o meno dei motivi dell'appello (che del resto nella riserva d'appello non sono stati formulati). Secondo l'orientamento prevalente la formula va interpretata in senso restrittivo, importando una valutazione comparativa dei danni che subirebbe il lavoratore dal ritardo dell'esecuzione con quelli che subirebbe il datore di lavoro dall'esecuzione della sentenza. Pur nella difficoltà di fornire una nozione più precisa, stante la sua elasticità, è possibile pertanto affermare che il gravissimo danno deve identificarsi nel pregiudizio economico tale da esporre la controparte al rischio di vedere seriamente compromesso lo svolgimento della sua attività economico-produttiva; a mero titolo esemplificativo delle situazioni concrete in cui esso è ravvisabile si pensi al pericolo di cessazione dell'azienda o di fallimento. Resta fermo che non è di ostacolo all'inibitoria l'esecuzione spontanea della sentenza di condanna, non potendo tale esecuzione comportare di per se stessa acquiescenza alla sentenza stessa: la condotta del soccombente, che non abbia altrimenti manifestato la volontà di rinunciare all'impugnazione, è infatti ispirata unicamente allo scopo di impedire l'esecuzione forzata della sentenza (Cass. civ., 7 maggio 1991, n. 5068). L'ordinanza sull'inibitoria – di competenza del collegio - non è ricorribile in Cassazione ex art. 111, comma 7 Cost., trattandosi di provvedimento cautelare destinato ad operare per la durata del giudizio di secondo grado ed a restare assorbito dalla sentenza che lo conclude, come tal privo dunque di contenuto decisorio (Cass. civ., 6 novembre 1984, n. 5603). Al fine di adeguare l'anteriore regime speciale a quello generale introdotto con i novellati artt. 282 e 283 c.p.c., la riforma del '90 ha previsto la provvisoria esecutorietà ope legis anche della sentenza di primo grado a favore del datore di lavoro, e la conseguente disciplina dell'inibitoria, aggiungendo due commi alla norma in commento. Anche le sentenze di condanna pronunciate a favore del datore di lavoro sono dunque esecutive di diritto, pur nella permanenza di una disciplina diversa da quella, speciale, prevista per le sentenze di condanna favorevoli al lavoratore. Solo queste ultime, infatti, possono essere messe in esecuzione a mezzo del dispositivo ed essere appellate con riserva dei motivi. L'inibitoria della sentenza a favore del datore di lavoro, inoltre, ha come presupposto i “gravi motivi” – analogamente a quanto disposto in generale dall'art. 283 c.p.c. – e non il “gravissimo danno” previsto dall'art. 431, comma 3, c.p.c. per la sospensione dell'efficacia delle sentenze a favore del lavoratore, ed implica quindi la delibazione non solo sul periculum ma anche sulla fondatezza dei motivi d'appello. Segnatamente, la giurisprudenza maggioritaria, anche sulla base del carattere lato sensu cautelare dell'inibitoria, ricomprende nella formula dei gravi motivi valutazioni sia in merito al fumus boni iuris, e dunque alla fondatezza dell'impugnazione, sia in relazione al pregiudizio che la parte soccombente potrebbe subire a seguito dell'esecuzione, in contrapposizione con quello che deriverebbe all'avversario dalla sospensione, richiedendo, di regola, la coesistenza di entrambi i presupposti per la concessione della sospensiva. Si ritiene, in ogni caso, necessario che il motivo concreto posto a base della sospensiva, sia esso attinente alla fondatezza del gravame o al danno che derivi all'esecutato, integri il requisito della gravità e abbia, pertanto, particolare rilevanza e consistenza. Infine, nell'ipotesi di esecuzione di sentenze di condanna a favore del datore di lavoro non sussiste il limite di euro 258 stabilito dal comma 4 dell'articolo in epigrafe. Anche le sentenze pronunciate nei giudizi in materia di previdenza e assistenza (art. 442 c.p.c.) sono provvisoriamente esecutive in forza del disposto dell'art. 447 c.p.c., che a sua volta richiama la disciplina dell'art. 431 c.p.c.. Secondo l'indirizzo dominante, la provvisoria esecutorietà prevista dalla norma in questione riguarda tutte le sentenze pronunciate nelle materie previdenziali e assistenziali, indipendentemente dal destinatario della pronuncia; pertanto sono immediatamente esecutive non solo le sentenze di condanna a favore dell'assicurato o dell'assistito, ma anche quelle favorevoli all'ente previdenziale nei confronti di un soggetto obbligato. É stato chiarito, tuttavia, che considerato che la possibilità di procedere all'esecuzione forzata in base al solo dispositivo, a norma dell'art. 431, comma 2, c.p.c., è riservata al solo lavoratore, in quanto parte più debole, ne consegue che il rinvio all'art. 431 da parte del secondo comma dell'art. 447, se può implicare l'estensione al lavoratore - assicurato della possibilità di procedere ad esecuzione sulla base del solo dispositivo, non può essere interpretato nel senso di estendere la medesima facoltà anche al datore di lavoro creditore nei confronti di un istituto previdenziale. Detto rinvio deve intendersi limitato alla regola della immediata esecutività di tutte le sentenze di condanna, e comporta che a tale regola siano soggette tutte le sentenze emesse nelle controversie inerenti alla materia previdenziale o assistenziale, ma non implica altresì che a tutte le sentenze della indicata categoria sia applicabile anche la norma, di carattere speciale, che consente l'inizio dell'esecuzione sulla base del solo dispositivo della sentenza di primo grado, riguardando tale parziale deroga migliorativa le sole condanne in favore del lavoratore - assicurato (Cass. civ., 6 marzo 2000, n. 2522). Anche per la norma in commento, si ripropongono i medesimi interrogativi già segnalati in ordine al livello di completezza contenutistica che deve richiedersi alla pronuncia di condanna, ai fini della sua immediata esecuzione. In linea di massima anche per tali pronunce si è ritenuto che la provvisoria esecutività in tanto è possibile in quanto si tratti di condanna non generica, essendo affidato all'ente previdenziale inciso il semplice calcolo attuariale del comando giudiziale. In senso conforme si esprime la giurisprudenza di legittimità, secondo cui la sentenza di condanna dell'INPS al pagamento, in favore del creditore, di una prestazione (quale le differenze spettanti a titolo di indennità di disoccupazione) costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti all'esatta quantificazione del credito, solo se tale credito risulti da operazioni meramente aritmetiche eseguibili sulla base dei dati contenuti nella sentenza; se, invece, dalla medesima sentenza di condanna non risulta, ad esempio, il numero delle giornate non lavorate nelle quali sia maturata l'indennità giornaliera, così da rendersi necessari per la determinazione esatta dell'importo elementi estranei al giudizio concluso e non predeterminati per legge, la sentenza non costituisce idoneo titolo esecutivo ma è utilizzabile solo come idonea prova scritta per ottenerlo nei confronti del debitore in un successivo giudizio (Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8067). Riferimenti
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