Corrispondenza tra chiesto e pronunciatoFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 112
01 Dicembre 2017
Inquadramento
Il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato comporta il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda di merito (Verde, 1989, 5). In giurisprudenza è stato pertanto più volte affermato che tale principio deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell'azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell'ambito del petitum, rilevi d'ufficio un'eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall'attore, può essere sollevata soltanto dall'interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (Cass. civ., n. 7269/2015; Cass. civ., n. 11455/2004). Interpretazione della domanda
Per individuare le richieste formulate dalle parti è necessario, in primo luogo, interpretare la domanda. A riguardo, è pacifico che il potere di interpretare la domanda al fine di accertare gli scopi pratici di colui il quale agisce in giudizio è riservato al giudice di merito (Verde, 1989, 9), che, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass. civ., n. 21087/2015; Cass. civ., n. 23794/2011). In tale prospettiva è stato ad esempio affermato che, ai fini di una corretta interpretazione della domanda, il giudice di primo grado è tenuto ad interpretare le conclusioni contenute nell'atto di citazione, alle quali si è riportato l'attore in sede di precisazione delle conclusioni, tenendo conto della volontà della parte quale emergente non solo dalla formulazione letterale delle conclusioni assunte nella citazione, ma anche dall'intero complesso dell'atto che le contiene, considerando la sostanza della pretesa, così come è stata costantemente percepita dalle parti nel corso del giudizio di primo grado, tenendo conto non solo delle deduzioni e delle conclusioni inizialmente tratte nell'atto introduttivo, ma anche della condotta processuale delle parti, nonché delle precisazioni e specificazioni intervenute in corso di causa (Cass. civ., n. 18653/2004). In generale, ai fini della interpretazione della domanda giudiziale non sono utilizzabili i criteri di interpretazione del contratto dettati dagli artt. 1362 ss. c.c., in quanto non esiste una comune intenzione delle parti da individuare, e può darsi rilevo alla soggettiva intenzione della parte attrice solo nei limiti in cui essa sia stata esplicitata in modo tale da consentire al convenuto di cogliere l'effettivo contenuto della domanda formulata nei suoi confronti, per poter svolgere una effettiva difesa. L'interpretazione della domanda si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in Cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione e non per violazione di legge (Cass. civ., n. 4754/2004). Peraltro, il potere-dovere del giudice di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicché deve ritenersi precluso al giudice dell'appello di mutare d'ufficio — violando il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato — la qualificazione ritenuta dal primo giudice in mancanza di gravame sul punto ed in presenza, quindi, del giudicato formatosi su tale qualificazione (Cass. civ., sez. II, n. 24028/2004; Cass. civ., sez. II, n. 15589/2002).
Omessa pronuncia
Il vizio di omessa pronuncia sussiste quando manchi, rispetto ad una domanda o eccezione della parte, un'espressa statuizione del giudice, nonché il provvedimento indispensabile per la risoluzione della controversia. Ad integrare tale vizio non basta la mancanza di un'espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass. civ., sez. II, n. 20311/2011). Il vizio di omessa pronuncia non è prospettabile in relazione a domande diverse da quelle di merito: il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale — infatti — non può dare luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito e non può assurgere a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall'art. 112, in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. civ., sez. III, n. 21424/2014). Inoltre non è configurabile vizio di omesso esame di una questione quando: a) debba ritenersi che la stessa sia stata esaminata e decisa implicitamente (Cass. civ., n. 7406/2014); b) una domanda non espressamente esaminata debba ritenersi rigettata — sia pure con pronuncia implicita — in quanto indissolubilmente avvinta ad altra domanda che ne costituisce il presupposto e il necessario antecedente logico-giuridico, che sia stata decisa e rigettata dal giudice (Cass. civ., n. 17580/2014); c) si tratti di una questione esplicitamente o anche implicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza e, quindi, suscettibile di riesame nella successiva fase del giudizio, se riprospettata con specifica censura (Cass. civ., n. 1360/2016; Cass. civ., n. 3417/2015). Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l'omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. civ., Sez. Un., n. 15982/2001). Il dovere del giudice di pronunciare su tutta la domanda, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., va riferito all'istanza con la quale la parte chiede l'emissione di un provvedimento giurisdizionale in merito al diritto sostanziale dedotto in giudizio: pertanto, il vizio di omessa pronuncia non può correlarsi alla richiesta di un provvedimento di carattere ordinatorio, come quello relativo alla sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c. (Cass. civ., n. 4120/2016). In caso di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su un punto della domanda, l'appellante, ai fini della specificità del motivo di gravame, deve soltanto reiterare la richiesta non esaminata in prime cure, stante l'assenza di qualsivoglia motivazione sulla quale costruire la doglianza; tale soluzione, consentendo al giudice di appello di decidere sulla domanda non considerata in primo grado, risponde anche ad esigenze di economia e concentrazione processuale, posto che, ove venisse invece dichiarata l'inammissibilità dell'impugnazione (per difetto di specificità), la parte conserverebbe la facoltà di riproporre la domanda dichiarata inammissibile in un separato giudizio (Cass. civ., n. 4388/2016). Il vizio di omessa pronuncia, in quanto incidente sulla sentenza pronunciata dal giudice del gravame, è inoltre deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 4, e, risolvendosi nella violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, integra un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione è anche giudice del fatto ed ha il potere-dovere di esaminare direttamente gli atti di causa e, in particolare, le istanze e le deduzioni delle parti (Cass. civ., n. 375/2005). Ne deriva che la censura di omessa pronuncia non può essere dedotta come violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell'art. 360, n. 3, ed a maggior ragione, come vizio motivazionale a norma dell'art. 360, n. 5 (Cass. civ., n. 5701/2011). Tuttavia, in sede di legittimità occorre tenere distinta l'ipotesi in cui si lamenti l'omesso esame di una domanda, o la pronuncia su una domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l'interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa, poiché solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell'art. 112, per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all'esame diretto degli atti giudiziari, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini delle pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in considerazione l'interpretazione del contenuto o dell'ampiezza della domanda, tali attività integrano un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. civ., sez. III, n. 3349/2010; Cass. civ., sez. II, n. 12259/2002). Ultrapetizione
Il potere-dovere del giudice di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire il nomen iuris al rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità rispetto alle deduzioni delle parti, trova un limite — la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione — nel divieto di sostituire l'azione proposta con una diversa, perché fondata su fatti diversi o su una diversa causa petendi, con la conseguente introduzione di un diverso titolo accanto a quello posto a fondamento della domanda, e di un nuovo tema di indagine (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 18868/2015). Pertanto, detto vizio ricorre nell'ipotesi di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato in ordine all'effetto giuridico e al comando dà luogo al vizio di ultra-extrapetizione (Grasso, 1264). In ogni caso, il potere di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va, inoltre, coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicché, ad esempio, con riferimento all'appello, deve ritenersi precluso al giudice di secondo grado di mutare d'ufficio, in mancanza di gravame sul punto, la qualificazione operata dal primo giudice (Cass. civ., n. 3980/2004). Il vizio di ultrapetizione comporta una nullità relativa della sentenza, che va fatta valere con gli ordinari mezzi d'impugnazione e non può essere rilevata d'ufficio dal giudice del gravame, la cui pronunzia, in caso contrario, incorre nel medesimo vizio (Cass. civ., sez. II, n. 465/2016). In particolare, in materia di ricorso per cassazione, il motivo con cui il ricorrente lamenti che la sentenza di appello sia incorsa nel medesimo vizio di ultrapetizione dal quale sarebbe stata già affetta la sentenza di primo grado è inammissibile, allorché la deduzione di quel vizio non abbia costituito oggetto, in precedenza, di uno specifico motivo di gravame (Cass. civ., sez. II, n. 10172/2015). Extrapetizione
Il vizio di extrapetizione ricorre quando il giudice abbia pronunciato oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo ad una di esse un bene della vita non richiesto (o diverso da quello domandato), mentre spetta al giudice di merito il compito di definire e qualificare, entro detti limiti, la domanda proposta dalla parte. La diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso da parte del giudice d'appello rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado non costituisce vizio di extrapetizione, rientrando tale potere-dovere nelle attribuzioni del giudice dell'impugnazione, senza necessità, quindi, di specifica impugnazione o doglianza di parte, purchè egli operi nell'ambito delle questioni riproposte con il gravame e lasci inalterati il petitum e la causa petendi, non introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass. civ., sez. I, n. 16213/2015). In sede applicativa, la Suprema Corte ha ad esempio ritenuto che la disciplina sulle distanze delle costruzioni dalle vedute, di cui all'art. 907 c.c., ha natura giuridica, presupposti di fatto e contenuto precettivo diversi da quella delle distanze tra costruzioni, di cui all'art. 873 c.c., poiché la prima mira a tutelare il proprietario del bene dall'indiscrezione del vicino, mentre la seconda è volta ad evitare la formazione di intercapedini dannose, sicché incorre nel vizio di extrapetizione il giudice che, a fronte di una domanda che denuncia la violazione delle distanze tra le costruzioni, condanni il convenuto per la violazione dell'art. 873 c.c. (Cass. civ., sez. II, n. 16808/2016). Sotto altro profilo, è stato precisato, sempre all'interno della giurisprudenza di legittimità, che nella domanda di condanna al pagamento di una determinata somma di danaro deve ritenersi sempre implicita la richiesta della condanna al pagamento di una somma minore, con la conseguenza che la pronuncia del giudice del merito di condanna ad una somma minore di quella richiesta non è viziata da extrapetizione (Cass. civ., n. 28660/2013). La diversa quantificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi di essa, non comporta prospettazione di una nuova causa petendi in aggiunta a quella dedotta in primo grado e, pertanto, non dà luogo ad una domanda nuova, inammissibile in appello, né comporta una pronunzia extra petita, quando manchi una limitazione quantitativa della domanda e l'attore, dopo avere indicato un importo, fa riferimento alla somma maggiore o minore che risulterà dovuta in corso di causa (Cass. civ., sez. I, n. 7137/2015). Riferimenti
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