Infortuni sul lavoro. L'indicazione del rischio salva il "Responsabile servizio prevenzione" dalla responsabilità penale?
05 Dicembre 2017
Massima
Non è configurabile la responsabilità penale in capo al responsabile del servizio di prevenzione e protezione (R.S.P.P.) per il reato di lesioni colpose aggravato dalla violazione antinfortunistica ex art. 590, comma 2, c.p. e aggravato ex art. 61, comma 3, c.p., qualora questi abbia diligentemente valutato e, conseguentemente segnalato, tramite un documento di valutazione rischi (D.V.R.) completo e idoneo, i fattori di rischio presenti in azienda, con ciò adempiendo all'obbligo, sullo stesso gravante in forza della posizione di garante ascrittagli di impedire l'evento (Ipotesi in cui la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza di proscioglimento dal reato di cui all'art. 590, comma 2, c.p. emessa in favore del R.S.P.P., il quale aveva segnalato tramite D.V.R. un rischio per la pericolosità intrinseca delle presse presenti in azienda, aggravato dalla inidoneità dei dispositivi di protezione non conformi alla legge). Il caso
Il caso riguarda un infortunio sul lavoro avvenuto in un'azienda sita nei pressi di Bolzano, a seguito del quale un lavoratore, nell'utilizzare una macchina piegatrice orizzontale idraulica in assenza di idonei dispositivi di protezione, ha riportato una lesione personale consistente nella subamputazione di un dito della mano sinistra con incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo pari a 90 giorni. La questione
La questione in esame concerne la configurabilità, o meno, in capo al R.S.P.P., della responsabilità penale a titolo di colpa per il reato di lesioni aggravate dalla violazione antinfortunistica ex art. 590, comma 2, c.p. consumatosi ai danni di un lavoratore, in situazioni nelle quali il R.S.P.P. abbia segnalato i potenziali rischi legati ai macchinari presenti in azienda ma l'evento lesivo dell'integrità personale si sia comunque verificato, presumibilmente a causa del mancato intervento del datore di lavoro in attuazione delle direttive contenute nel D.V.R. stesso. Le soluzioni giuridiche
Nel giudizio di primo grado il tribunale ha condannato sia l'amministratore delegato che il R.S.P.P.: il primo, rappresentando il vertice del sistema di sicurezza sul lavoro (S.S.L.)in qualità di datore di lavoro, per negligenza, imprudenza o colpa specifica ai sensi dell'art. 2087 c.c., nonché per violazione della normativa sulla prevenzione infortuni, di cui al d.lgs. 81/2008, per aver omesso di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature di lavoro conformi alle specifiche disposizioni e quindi idonee ai fini della salute e della sicurezza (la macchina sulla quale era avvenuto l'incidente risultava priva di dispositivi che impedissero alle mani dei lavoratori di venire a contatto con i movimenti del punzone); il secondo, per avere omesso di individuare specificamente i rischi connessi alla predetta macchina e di elaborare le misure preventive e protettive relative alla medesima e le conseguenti procedure di sicurezza. La Corte d'appello su ricorso degli imputati, da un lato, ha confermato la condanna per l'amministratore delegato, mentre, dall'altro, accoglieva il ricorso del R.S.P.P. e perciò lo proscioglieva dall'accusa, ritenendo che quest'ultimo non potesse essere chiamato a rispondere del reato ascrittogli, in concorso con il consigliere delegato, dato che il D.V.R. predisposto dallo stesso conteneva sufficiente indicazione ed individuazione del rischio presente nel reparto. Contro la sentenza di secondo grado hanno presentato, quindi, ricorso per Cassazione l'Amministratore Delegato, limitatamente alla sua condanna, e il PM, per la parte relativa al proscioglimento del R.S.P.P.. In particolare, da un lato, l'amministratore delegato impugnava il predetto provvedimento lamentando l'erronea individuazione, in capo al medesimo, del titolare della posizione di garanzia, posto che il D.V.R. aziendale indicava, quali soggetti coinvolti nel sistema sicurezza, il datore di lavoro, il R.S.P.P., il rappresentante delegato del datore di lavoro, il referente interno per la sicurezza, ma non faceva alcuna menzione dell'A.D. o CEO (Chief executive officer), qualità dallo stesso ricoperta. Dall'altro, l'avvocato generale presso la Corte di appello di Trento si è concentrato sulla figura del R.S.P.P., lamentando l'inosservanza degli artt. 28 e 33 del d.lgs. 81/2008, oltre che mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, sia relativamente all'affermata idoneità, completezza e concretezza del D.V.R. – il P.M. ha ritenuto, infatti, che definire come rischiose tutte le presse presenti nel reparto, senza specificare difetti e relativi rimedi da adottare, fosse da qualificare come affermazione oltremodo generica – sia in riferimento alla deposizione del consulente del RRSP, il quale riferiva della genericità, incompletezza e sostanziale inutilità del D.V.R. e alla testimonianza di un teste il quale aveva riferito del rifiuto del R.S.P.P. di indicare quali interventi fossero necessari per mettere in sicurezza le presse. Ad avviso dell'avvocato dello stato, è stato erroneamente individuato quale vertice del sistema di sicurezza sul lavoro della società in quanto nel D.V.R. aziendale la figura dell'A.D. o CEO non è nemmeno presa in considerazione e anzi il documento manca dell'individuazione dei ruoli dell'organizzazione aziendale che debbono provvedere all'adozione delle misure di sicurezza. Nel D.V.R., infatti, si elencano tutti i soggetti coinvolti nel SSL – così come prevede il d.lgs. 81/2008 – tra i quali figurano il datore di lavoro, il R.S.P.P., il rappresentante delegato dal datore di lavoro, il referente interno per la sicurezza ma non figura affatto l'A.D. La Cassazione ha ritenuto però inammissibile il suo ricorso poiché tardivo e, pertanto, ha confermato la sua condanna quale vertice aziendale del sistema di sicurezza sul lavoro. La Cassazione, con la sentenza in commento, ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'amministratore delegato, perché proposto oltre i termini, non pronunciandosi circa la questione sopra menzionata relativa all'individuazione nell'A.D., quale vertice del sistema di sicurezza sul lavoro della società, del soggetto titolare della posizione di garanzia, in assenza di un'apposita indicazione nel D.V.R. in tale senso. La Suprema Corte ha, invece, ritenuto infondato il ricorso presentato dal P.M. e ha conseguentemente confermato la sentenza di proscioglimento nei confronti del R.S.P.P., condividendo l'osservazione della Corte d'appello, secondo la quale il D.V.R. predisposto dal R.S.P.P. contenesse sufficiente indicazione e individuazione del rischio presente nel reparto, laddove veniva indicato un rischio per la pericolosità intrinseca delle presse, aggravato dalla inidoneità dei dispositivi di protezione. Il R.S.P.P., infatti, aveva correttamente indicato la pericolosità di ogni macchinario presente in azienda (con uno dei quali il lavoratore si è infortunato). Lo stesso aveva inoltre sollecitato il datore di lavoro a porre in essere le misure per eliminare o ridurre al minimo le possibilità di incidenti. A tal proposito, nella sentenza di secondo grado si legge: «può affermarsi che attraverso il D.V.R. vi è stata segnalazione al datore di lavoro idonea a sollecitarne i poteri di intervento per eliminare la situazione di rischio, sollecitazione alla quale il datore di lavoro non ha evidentemente reagito». In conclusione la Corte di cassazione ha precisato che è stato correttamente sanzionato il datore di lavoro, colpevole di non aver raccolto la sollecitazione ad intervenire per eliminare la situazione di rischio contenuta nel D.V.R. ritenendo, nel contempo, insussistente la responsabilità del reato di lesioni colpose aggravate, per l'incidente occorso all'operaio, a carico del R.S.P.P. in quanto lo stesso aveva espressamente segnalato con il D.V.R. la pericolosità della macchina e l'inidoneità dei dispositivi di protezione non conformi alla legge. La Suprema Corte ha, invece, dichiarato infondato il ricorso presentato dal P.M. sulla base di una motivazione di natura formale. Infatti, stando a quanto affermato dalla Corte stessa, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione «attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti». Alla luce di quanto detto, la Corte di cassazione ha affermato che la Corte d'appello di Trento abbia ineccepibilmente ritenuto che il D.V.R. predisposto dal R.S.P.P. contenesse sufficiente indicazione ed individuazione del rischio presente nel reparto dal momento che lo stesso indicava un rischio per la pericolosità instrinseca delle presse aggravato dalla inidoneità dei dispositivi di protezione non conformi alla legge. Da ciò discende, inevitabilmente, la conferma di quanto statuito dalla Corte di appello di Trento , la quale, lo si è visto, non ritiene configurabile la responsabilità penale a titolo di colpa del R.S.P.P. per il reato di lesioni verificatosi ai danni di un lavoratore, qualora lo stesso abbia diligentemente adempiuto agli specifici obblighi di consulenza e di ausilio ad esso conferiti ai sensi dell'art. 33 del d.lgs. 81/2008, dando avviso al datore di lavoro relativamente ai rischi presenti in azienda. Osservazioni
Sebbene la sentenza n. 27516/2017, della IV Sezione penale della Corte di cassazione rigetti il ricorso, alla medesima presentato, sulla base di una motivazione puramente formale, la stessa consente di tornare sul tanto dibattuto argomento della corretta individuazione dei soggetti penalmente responsabili nel caso di infortunio sul luogo di lavoro. Al fine di meglio comprendere la tematica in oggetto occorre preliminarmente definire i ruoli del datore di lavoro e del responsabile del servizio prevenzione e protezione (R.S.P.P.), nonché analizzare il rapporto intercorrente tra gli stessi, prendendo, a tale fine, le mosse dal d.lgs. 81/2008 (Testo unico sulla sicurezza) e dal relativo panorama giurisprudenziale. Come è noto, il datore di lavoro e il R.S.P.P. sono definiti rispettivamente all'art. 2, comma 1, lett. b) edf) d.lgs. 81/2008. Secondo tale norma, il primo è «il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa». Mentre il secondo è la «persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all'articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi» Dalle norme citate emerge chiaramente come il datore di lavoro rivesta un ruolo centrale nella gestione della sicurezza negli ambienti di lavoro, essendo quest'ultimo espressamente identificato quale soggetto a cui spetta la responsabilità dell'organizzazione dell'attività. In ragione di ciò, in capo al medesimo, la legge riconosce a pieno titolo la sussistenza di una posizione di garanzia (art. 299 d.lgs.81/2008) da cui discende un dovere di protezione, ossia l'obbligo giuridico ex art. 40, comma 2, c.p. di impedire che a fronte di uno specifico rischio lavorativo si verifichi un evento lesivo in danno dei lavoratori. Il ruolo di datore di lavoro è stato oggetto di un importante dibattito giurisprudenziale, soprattutto sotto il profilo dell'identificazione del soggetto che effettivamente lo ricopre. Nel caso di specie, tale ruolo è stato attribuito all'amministratore delegato, il quale però non risulta presente nello schema dell'organizzazione aziendale tracciato all'interno del D.V.R. La difesa dell'imputato ha lamentato un presunto automatismo adottato dalla Corte territoriale, la quale sul punto avrebbe violato il principio di effettività, non effettuando un'analisi sostanziale nell'individuazione del soggetto (persona fisica) che avesse assunto la figura di datore di lavoro. A questo proposito l'imputato ha richiamato una pronuncia della Suprema Corte del 2015, ove si è affermato che per individuare le responsabilità penali all'interno di organizzazioni complesse occorre sempre considerare «l'effettivo contesto organizzativo e le condizioni in cui detto organo ha dovuto operare» anziché operare in via automatica riconoscendo quale soggetto colpevole l'organo di vertice (Cass. pen., Sez. IV, n. 13858/2015). Tale principio si contrappone ad un precedente orientamento, secondo il quale, in tema di sicurezza e di igiene del lavoro, in assenza di deleghe specifiche, «nelle società di capitali il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda, e quindi con i vertici dell'azienda stessa, ovvero nel presidente del consiglio di amministrazione o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni» (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 49402/2013 e, precedentemente, Cass. pen., Sez. III, n. 12370/2005). Sul punto la sentenza in esame non prende una posizione in quanto il deposito del ricorso da parte dell'imputato è avvenuto oltre i termini utili previsti per legge. Passando ora ad analizzare lo svolgimento in concreto dell'attività propria del datore di lavoro, è noto come lo stesso sia affiancato da diversi soggetti, i quali sono inseriti all'interno di una catena gerarchica particolarmente complessa, alcuni con specifici poteri organizzativi, di gestione, controllo e spesa (dirigenti e preposti), altri con funzioni meramente di ausilio (componenti del Servizio di prevenzione e protezione e il loro coordinatore, il R.S.P.P.). I primi (dirigenti e preposti) devono avere professionalità, qualifiche ed esperienza adeguati ai compiti che vengono loro assegnati ed operano in forza di una delega di funzioni (c.d. investitura derivata), la quale, secondo l'art. 16 d.lgs. 81/2008, deve essere certa (ossia provata per iscritto) e specifica e costituisce lo strumento con cui il delegante-datore trasferisce a tali soggetti (delegati) l'adempimento – non la titolarità – di alcuni dei suoi obblighi unitamente all'esercizio dei relativi poteri e, quindi, la posizione di garante limitatamente alle funzioni oggetto di delega (art. 2 lett. d) ed e) e art. 299 d.lgs. 81/2008), fermo restando l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte dei delegati delle funzioni a loro trasferite (art. 16, comma 3 d.lgs. 81/2008). Nelle realtà aziendali più strutturate, nelle quali il datore di lavoro difficilmente riuscirebbe a gestire in prima persona gli innumerevoli compiti a lui assegnati dalla legge (spesso tecnicamente molto complessi), la delega diventa un elemento indispensabile per gestire ed organizzare l'attività aziendale. I secondi, invece, sono semplici consulenti, privi di poteri decisionali e i risultati dei loro studi ed elaborazioni vengono fatti propri dal vertice aziendale che li ha scelti e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui il medesimo è esclusivo destinatario (cfr. Cass. n. 32357 del 12/08/2010). Il ruolo del R.S.P.P. – essendo quest'ultimo incluso nel secondo gruppo di soggetti sopra individuato – nei confronti del datore di lavoro è, dunque, puramente consultivo, scevro di qualsivoglia apporto decisionale rispetto alla politica di impresa adottata. Egli infatti è designato dal datore ex art. 17 d.lgs.81/2008 e si limita a segnalare al datore di lavoro dati ed informazioni circa la sicurezza aziendale e l'operato del servizio di prevenzione e protezione – ossia quell'insieme di persone, sistemi e mezzi esterni o interni all'azienda finalizzati all'attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori (art. 2, lett. l) d.lgs. 81/2008) – nonché a suggerire, sulla base delle proprie competenze e di ciò che ha rilevato circa la condizione di sicurezza dell'azienda, possibili soluzioni e iniziative. Nello specifico gli obblighi del R.S.P.P. sono elencati all'art. 33 del T.U. sulla sicurezza. In sintesi, essi consistono nell'individuazione dei fattori di rischio caratteristici dell'azienda, nella valutazione dei rischi, nell'indicazione delle misure di sicurezza e nella proposta di programmi di formazione e informazione per i lavoratori. Con riferimento specifico alla valutazione dei rischi e all'elaborazione del relativo documento, di cui all'art. 28 del decreto (c.d. D.V.R.), l'art. 17 sopra richiamato prevede tali attività – insieme a quella di designazione del R.S.P.P. – come obblighi sussistenti in capo al datore di lavoro e da quest'ultimo non delegabili. Tale norma è fondamentale in quanto rivela i tratti principali del rapporto intercorrente tra i due soggetti, ossia un rapporto caratterizzato da due elementi: dipendenza e collaborazione. Il datore di lavoro, infatti, rimane il principale soggetto di riferimento per la sicurezza di un'azienda ma deve avvalersi della collaborazione del R.S.P.P., da lui stesso selezionato. Da qui l'insorgere della questione oggetto della pronuncia in commento, ossia la ripartizione della responsabilità penale tra datore e R.S.P.P. in caso di infortunio sul lavoro dovuto all'inadeguatezza delle misure di sicurezza adottate dall'azienda rispetto ai rischi presenti sul luogo di lavoro. Nonostante – stando alla lettera della normativa vigente e sopra segnalata – il potere decisionale e la responsabilità della sicurezza dei lavoratori appaiano ricadere sempre ed esclusivamente sul datore di lavoro ed il ruolo del R.S.P.P. consista (essenzialmente) in un'attività di consulenza tecnica ed organizzativa deve, tuttavia, escludersi che tale soggetto goda di un totale esonero da ogni responsabilità. Anche sotto questo aspetto la Suprema Corte ha emesso giudizi divergenti. Sul punto, infatti, la stessa IV Sezione si è già espressa affermando che anche in capo ai componenti del SPP possa sussistere una specifica posizione di garanzia, rilevato che anche questi soggetti sono destinatari di specifici obblighi giuridici (art. 33 d.lgs. n. 81/2008). Tali obblighi integrano e fanno pienamente parte della complessa procedura valutativa e decisionale, che culmina nelle scelte operative assunte dal datore in materia di sicurezza. Il contributo di questi soggetti, pertanto, può certamente rappresentare un antecedente causale dell'evento dannoso. Un primo indirizzo giurisprudenziale ha riconosciuto la rilevanza penale della condotta del R.S.P.P. attribuendo al medesimo una specifica posizione di garanzia richiamando il concetto di lavoro d'équipe, per cui più soggetti esercitano un'attività rischiosa – ma lecita – apportando ciascuno il suo contributo per il raggiungimento di uno scopo comune. In tali casi, due sono i principi per mezzo dei quali vengono tracciati i confini interni della responsabilità dell'equipe: quello dell'autoresponsabilità (che impone a ciascun membro di tenere un comportamento diligente) e quello dell'affidamento (che consente, in presenza di determinate condizioni, di confidare sul corretto comportamento altrui). Per arginare i rischi connessi all'attività svolta non è, quindi, sufficiente il rispetto delle norme cautelari relative al singolo frammento di attività, ma è necessario che tutti i soggetti coinvolti operino diligentemente. Secondo la Suprema Corte, dunque, l'operato del R.S.P.P. può trovare un corretto inquadramento proprio in uno schema simile. Infatti, se quest'ultimo non adempie diligentemente i propri obblighi, l'intera organizzazione ne risente, non riuscendo più ad arginare i rischi connessi all'attività realizzata. In questi termini sul R.S.P.P. ricadrebbe – a giudizio della Suprema Corte – una specifica posizione di garanzia (cfr. Cass. pen. n. 49821/2012). Secondo un diverso orientamento, invece, i componenti del S.P.P. essendo – come detto – dei semplici ausiliari del datore di lavoro, non possono essere chiamati a rispondere direttamente del loro operato, difettando di un effettivo potere decisionale. Non a caso il d.lgs. 81/2008 non prevede, in capo a questi soggetti, autonome sanzioni penali (cfr. (Cass. pen., n. 32357/2010). Di rilevante importanza la sentenza Sezioni unite sul caso Thyssenkrupp del 24 aprile 2014, n. 38343 che afferma: «In tema di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri». (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto penalmente rilevante la condotta del responsabile del servizio che aveva redatto il documento di valutazione dei rischi con indicazione di misure organizzative inappropriate, sottovalutando il pericolo di incendio e omettendo di indicare ai lavoratori le opportune istruzioni per salvaguardare la propria incolumità). Con riferimento al caso a mani, tuttavia, il discrimine tracciato dalla Suprema Corte nel decidere sul riconoscimento o meno della responsabilità penale in capo al R.S.P.P. per il fatto oggetto di contestazione è diverso da quello dell'esercizio di poteri decisionali da parte del medesimo. La Corte di Cassazione, infatti, ha assolto l'imputato sulla base della sufficiente completezza e specificità del D.V.R. Come noto, il D.V.R. è il documento che contiene l'analisi dei rischi presenti in azienda e deve essere obbligatoriamente redatto dal datore di lavoro ex art. 17 d.lgs. 81/2008, il quale – come detto – si avvale a tal fine del supporto di un tecnico qualificato, il R.S.P.P. La Suprema Corte ha aderito ad un diffuso orientamento giurisprudenziale secondo cui il soggetto, cui siano stati affidati i compiti del servizio di prevenzione e protezione, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio ogni qual volta l'evento sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa, che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare. In tema di prevenzione degli infortuni, infatti, già in passato la Suprema Corte ha in più occasioni affermato che le omissioni o le carenze del D.V.R. adottato dal datore di lavoro non esonerano da responsabilità per le lesioni occorse ai lavoratori gli ulteriori garanti della sicurezza sul lavoro, atteso che la constatazione dell'esistenza di un rischio impone loro, nell'ambito delle rispettive competenze, di adottare le misure appropriate per rimuoverlo (Cass. pen. Sez. IV n. 24452/2015). Nel caso di specie, a giudizio della Suprema Corte il R.S.P.P. ha correttamente adempiuto a tale obbligo avendo rilevato il rischio - la cui realizzazione ha poi effettivamente determinato l'infortunio- attraverso l'indicazione dello stesso nell'ambito del D.V.R. – in tal modo consentendo al datore di lavoro di attivarsi ed intervenire, osservando l'obbligo giuridico posto a suo carico dall'art. 33, comma 1, T.U. Sicurezza. |