Il termine per l'inizio della mediazione: dalla perentorietà all'improcedibilità della domanda

Giampaolo Di Marco
Silvio Campidelli
06 Dicembre 2017

I provvedimenti in commento affrontano il tema della natura perentoria o ordinatoria del termine di quindici giorni che, ai sensi dell'art. 5, commi 1-bis e 2, d.lgs. n. 28/2010, il giudice assegna alle parti per la presentazione della domanda di mediazione, quando decide di disporne l'esperimento, una volta «valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti». L'autore, ricostruendo il dato normativo, sia codicistico, sia derivante dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, analizza la questione giungendo a conclusioni difformi da quelle raggiunte dal tribunale.
Il quadro normativo

I provvedimenti resi dal tribunale di Vasto che, con l'odierno commento, s'intendono esporre ed analizzare, riguardano le conseguenze prodotte dalla tardiva introduzione del procedimento di mediazione civile e commerciale ex d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, nelle ipotesi in cui sia il giudice a disporne l'esperimento, assegnando alla parte più diligente il termine di 15 giorni per la sua introduzione.

La natura del termine di quindici giorni

Il giudice perviene a conclusioni in un certo senso divisive del tema affrontato, assumendo, dapprima, che il termine di 15 giorni giudizialmente assegnato ai contenenti non sia perentorio e, al contempo, che la domanda proposta dalle parti sia procedibile nella sola ipotesi in cui la parentesi conciliativa si sia esaurita anteriormente all'udienza di rinvio.

Per quanto concerne il primo profilo, si argomenta che l'art. 152, comma 2, c.p.c. consente di dichiarare perentori i soli termini espressamente qualificati come tali dalla legge e che, d'altronde, non vi sarebbero ragioni sistematiche per sanzionare con l'improcedibilità domande giudiziali presentate da soggetti che abbiano la sola colpa di aver tardivamente depositato l'istanza di mediazione.

Sul punto, il tribunale di Vasto invoca, a sostegno del suo opinamento, l'art. 6 del d.lgs. n. 28/2010.

Talune pronunzie di merito intervenute in materia di mediazione hanno predicato la perentorietà del termine propulsivo di quindici giorni per l'attivazione del meccanismo conciliativo, affermando che, incidendo sulla stessa procedibilità dell'azione e, comunque, su valori così importanti come la rapidità e la giustezza del processo, il termine in esame non possa senz'altro derubricarsi ad ordinatorio.

Da ciò deriverebbe, a giudizio degli assertori di tale indirizzo interpretativo, che l'infruttuosa scadenza del termine impedisce la prosecuzione del giudizio di cognizione, ancorché la mediazione si sia conclusa anteriormente alla successiva udienza; conseguenza, questa, che, peraltro, si verificherebbe anche laddove si optasse per il carattere ordinatorio del termine, la cui violazione, difatti, se non accompagnata da una richiesta di proroga ex art. 154 c.p.c., avanzata al giudice prima della scadenza, produce gli stessi effetti preclusivi generati dall'inosservanza dei termini perentori.

Di contrario avviso è altra giurisprudenza di merito, la quale, nel richiamare l'attenzione sull'assenza, nell'articolato normativo sulla mediazione, di qualunque elemento che militi in favore della perentorietà del termine in oggetto, riconosce al medesimo natura ordinatoria.

D'altro canto, non appare dirimente il fatto che il termine in esame sia orientato a garantire la rapidità del processo, trattandosi di funzione che, a ben vedere, è assolta da tutti i termini propulsivi, alcuni dei quali, cionondimeno, sono pacificamente ordinatori. In altre parole, i principi del giusto processo e della ragionevole durata del giudizio, pur rappresentando un monito per il legislatore a non introdurre dei meccanismi idonei a posticipare immotivatamente l'emissione della sentenza, non possono rappresentare, se singolarmente considerati, un argomento sufficiente ad assegnare connotati di perentorietà ad ogni termine processuale acceleratorio, visto che, tra di essi, ve ne sono alcuni di natura indiscutibilmente ordinatoria.

Senza contare, poi, le anomale implicazioni che sorgerebbero dall'assegnazione di natura perentoria al termine in parola.

La soluzione del tribunale di Vasto

Dalla previsione normativa su riportata i provvedimenti in disamina deducono che la tempestività dell'istanza di mediazione deve essere censita, non già con riguardo al termine di quindici giorni dall'ordinanza che ne dispone lo svolgimento, quanto, piuttosto, rispetto all'udienza di rinvio, nel senso che, qualora il deposito della domanda di mediazione preceda di almeno tre mesi la data della successiva udienza, la condizione di procedibilità dell'azione deve reputarsi perfezionata. Infatti, prosegue il tribunale di Vasto, qualora l'avvio della mediazione preceda la nuova udienza di un periodo almeno corrispondente alla sua durata, l'infrazione del termine di quindici giorni diviene ininfluente e, conseguentemente, non determina l'improcedibilità dell'azione giudiziale.

Non è, quindi, l'effettività del diritto di accesso alla giustizia, a cui la disciplina sulla mediazione s'ispira, a dipingere come ordinatorio un termine che la legge non definisce espressamente come perentorio, bensì l'idoneità della mediazione tardivamente promossa a concludersi anteriormente alla successiva udienza e, dunque, a non ritardare i tempi del processo.

Aleggia, pertanto, nel ragionamento sviluppato dal tribunale di Vasto, l'allusione al principio di ragionevole durata del giudizio, oggi consacrato dall'art. 111, comma 2, Cost., che priverebbe di meritevolezza giuridica ogni comportamento idoneo a prolungare indebitamente il corso del processo.

Tale stigmatizzabile condotta, con specifico riferimento alla tematica della mediazione, si riscontrerebbe nell'ipotesi in cui l'udienza fissata per la prosecuzione del processo fosse differita per un colpevole ritardo nell'avvio del procedimento di mediazione, ma non già nell'evenienza in cui, nonostante la tardiva introduzione della parentesi conciliativa, essa si sia comunque esaurita prima del nuovo incombente processuale.

Ancorché siffatta soluzione ermeneutica appaia ragionevole, quantomeno ad un esame di primissima approssimazione, essa non fornisce risposta ad una serie di interrogativi piuttosto intuitivi e, anzi, genera ulteriori problematiche.

Innanzitutto, non è chiaro perché lo spostamento dell'udienza di prima comparizione e di trattazione, determinato dall'esigenza di espletare la procedura conciliativa, possa provocare una violazione del diritto del consociato alla celerità del processo, se è vero che tale intervallo temporale, con tutta verosimiglianza, non concorre alla quantificazione della durata del giudizio, ai fini dell'attribuzione dell'indennizzo di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, se non altro perché, ai sensi dell'art. 2, comma 2-quater, di codesta previsione normativa.

In secondo luogo, simile impostazione interpretativa tende a favorire i comportamenti dilatori della parte invitata che, consapevole della tardiva promozione della mediazione, voglia speculare sull'errore avversario, prolungando inutilmente il procedimento al solo scopo di eccepire, alla successiva udienza, che lo stesso non si è ancora concluso e che, per l'effetto, la domanda giudiziale antagonista è diventata improcedibile.

Non va trascurata, poi, la difficoltà di raccordare la libertà delle parti di derogare di comune accordo alla durata massima del procedimento (fissata dall'art. 6 in un trimestre) con la natura pubblicistica delle norme istitutive di condizioni di procedibilità della domanda, che, quantomeno in linea teorica, non dovrebbero essere sensibili alla diversa volontà dei contenenti.

Più precisamente, è lecito interrogarsi sulla coerenza e sulla razionalità di una disposizione normativa (come, appunto, l'art. 6), la quale, nel disciplinare l'esigenza di ordine pubblico ad una mediazione snella ed efficace, al contempo, assegni alle parti (o, per meglio dire, non neghi loro) il potere insindacabile di protrarla ad nutum con un numero imprecisato di differimenti.

Al riguardo, pare opportuno rimarcare la necessità (più volte evidenziata) di differenziare radicalmente la mediazione delegata e/o obbligatoria dalla mediazione facoltativa, sottoponendo, la prima, ad una serie di regole predefinite, tutte ispirate ai principi di efficienza e di rapidità ed avocando, la seconda, all'autonomia organizzativa dei contenenti, legittimati a regolare l'incedere procedimentale anche secondo formule non coerenti ad un suo celere sviluppo.

Infine, merita una sottolineatura la decisione del giudice di pronunziarsi nel merito sulle spese di lite (disponendone la compensazione nella controversia esitati nella dichiarazione di improcedibilità della domanda giudiziale, a cagione dell'assoluta novità della materia trattata): se l'improcedibilità è sostanzialmente equiparabile ad una causa di estinzione del processo per inattività delle parti ex art. 309 c.p.c., quantomeno secondo una lettura ampia sui generis di tale fattispecie, allora il giudice non dovrebbe neppure intervenire sulla questione delle spese, limitandosi ad una decisione di mero rito, ai sensi degli artt. 181 e 309 c.p.c..

D'altro canto, la condizione di procedibilità, anche se derivante dalla decisione giudiziale di demandare la mediazione, conserva i suoi connotati di neutralità, nel senso che entrambe le parti possiedono, quantomeno astrattamente, l'interesse a promuovere un procedimento proteso alla conciliazione della lite, pur rimanendo differenti le sanzioni in ipotesi di ingiustificata inerzia.

In buona sostanza, l'assegnazione ai litiganti del potere di derogare al termine di tre mesi per l'espletamento della procedura di mediazione non si coniuga agevolmente con la predicata necessità (quest'ultima espressione di valori di ordine pubblico) di non dilatare, senza giusto motivo, il decorso del processo civile.

Infine, merita un rilievo critico la decisione del giudice di pronunziarsi nel merito sulle spese di lite (disponendone la compensazione nella controversia esitata nella dichiarazione di improcedibilità della domanda giudiziale, a cagione dell'assoluta novità della materia trattata): se l'improcedibilità è sostanzialmente equiparabile ad una causa di estinzione del processo per inattività delle parti ex art. 309 c.p.c., quantomeno secondo una lettura ampia sui generis di tale fattispecie, allora il giudice non dovrebbe neppure intervenire sulla questione delle spese, limitandosi ad una decisione di mero rito, ai sensi degli artt. 181 e 309 c.p.c..

D'altro canto, la condizione di procedibilità, anche se derivante dalla decisione giudiziale di demandare la mediazione, conserva i suoi connotati di neutralità, nel senso che entrambe le parti sono titolari, quantomeno in termini generali ed astratti, dell'interesse a promuovere un procedimento proteso alla conciliazione della lite, pur rimanendo differenti le sanzioni in ipotesi di ingiustificata inerzia. In alternativa, si finirebbe per concentrare esclusivamente su uno dei contraenti l'interesse e l'onere di avviare e di coltivare la mediazione, dissuadendo conseguentemente l'altro dal tenere un comportamento collaborativo, capace di favorire il raggiungimento dell'accordo amichevole.

Conclusioni

In definitiva, se è condivisibile l'assunto circa la non perentorietà del termine giudizialmente assegnato per l'introduzione della mediazione, non sono così chiare le sanzioni che si associano alla violazione di tale termine e, più precisamente, la compatibilità delle medesime con i supremi obiettivi di deflazione del contenzioso giudiziale, di garanzia di una giustizia rapida ed efficiente e di promozione di soluzioni consensuali delle controversie.

L'idea di ancorare la sanzione dell'improcedibilità all'inattitudine dell'istanza di mediazione di provocare l'apertura di un procedimento conciliativo che si concluda prima della successiva udienza, pur suggestiva e, forse, valorizzabile nei casi più estremi (come, ad esempio, nell'ipotesi in cui la mediazione sia richiesta proprio a ridosso dell'udienza di rinvio) non appare complessivamente sostenibile, per la semplice ragione che lo sviluppo della parentesi conciliativa non dipende esclusivamente dalla volontà delle parti e l'esigenza di esaurirla rapidamente potrebbe pregiudicare l'opportunità di stipulare l'accordo amichevole.

De iure condendo, sembrerebbe interessante se il legislatore, anziché contemplare la sanzione dell'improcedibilità per le domande giudiziali in cui l'obbligo di mediazione è stato eluso, si limiti a prevedere, a carico delle parti, un insieme di penalità (come, ad esempio, la desunzione di argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c.) a carico delle parti che, in qualche modo, abbiano violato norme procedimentali o adottato dei contegni processuali poco leali. In questo modo, la mediazione demandata dal giudice riconquisterebbe il suo naturale ruolo di strumento per indurre i contendenti a negoziare la definizione di controversie per la risoluzione di liti che non necessitano dell'intervento giudiziale, depurandosi, al contempo, di ogni attitudine a prolungare sterilmente la durata del processo.

Guida all'approfondimento
  • G. Di Marco, La mediazione delegata, Milano, 2017, p. 31;
  • G. Falco e M. Spina, La nuova mediazione, Milano, 2014;
  • C. M. Ferri (a cura di), Manuale della nuova Mediazione e conciliazione giudiziale, Padova, 2014.

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