La gestione del periodo di preavviso in caso di licenziamento o dimissioni

Pasquale Staropoli
12 Dicembre 2017

Attraverso il preavviso il legislatore ha inteso modulare gli effetti della risoluzione del rapporto di lavoro. La gestione della modalità temporale di esercizio del recesso prevede il differimento del momento dell'effetto estintivo del rapporto di lavoro, con l'intenzione di evitare gli effetti pregiudizievoli che altrimenti ricadrebbero sulle parti in caso di cessazione immediata. L'Autore del presente contributo, attraverso l'analisi di alcune pronunce di Cassazione, presenta l'evoluzione, da reale ad obbligatoria, della natura del diritto al preavviso per poi concludere con il rapporto di quest'ultimo con le dimissioni.
Introduzione

Attraverso il preavviso il legislatore ha inteso modulare gli effetti della risoluzione del rapporto di lavoro. La gestione della modalità temporale di esercizio del recesso prevede il differimento del momento dell'effetto estintivo del rapporto di lavoro, con l'intenzione di evitare gli effetti pregiudizievoli che altrimenti ricadrebbero sulle parti in caso di cessazione immediata.

La norma di riferimento è l'art. 2118 c.c., che fissa il principio della necessità di concessione del periodo di preavviso per la parte che recede dal rapporto di lavoro, prevedendo al secondo comma il diritto alla indennità alternativa in caso di mancato riconoscimento.

Nonostante l'apparente semplicità della norma che lo prevede, l'applicazione concreta della stessa e la gestione del periodo di preavviso ha dato luogo nel tempo a non poche criticità, nella maggior parte dei casi incentrate sulla individuazione della corretta qualificazione della natura del preavviso e dell'efficacia alla previsione dell'art. 2118 c.c., se cioè al diritto al preavviso dovesse essere riconosciuta efficacia reale o obbligatoria. Ciò con ovvie ricadute sulla gestione del rapporto di lavoro

Il diritto al preavviso

Ai sensi dell'art. 2118 c.c. ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti. La norma prosegue individuando nelle norme corporative, usi ed equità, i canoni per la determinazione di tempi e modi, che in realtà trovano la propria disciplina nella contrattazione collettiva, giusta l'abrogazione delle prime e la prevalenza, nell'ambito della gestione del rapporto di lavoro, dell'autonomia collettiva sulle altre.

Il periodo di preavviso regola gli effetti temporali dell'esercizio del diritto di recesso ed assolve ad una funzione “cuscinetto”, al fine di evitare gli effetti pregiudizievoli di una risoluzione immediata per la parte che subisce la cessazione.

L'art. 2118 c.c. realizza, cioè, uno scostamento tra il momento in cui il recesso è conosciuto e quindi validamente esercitato nei confronti dell'altra parte e quello in cui spiega effettivamente la propria efficacia risolvendo il rapporto. Pertanto, durante il periodo di preavviso, il rapporto di lavoro prosegue materialmente in ogni suo aspetto, fino allo spirare del termine di preavviso che risolve effettivamente il contratto di lavoro.

La durata del periodo di preavviso è individuata dai contratti collettivi, che normalmente la determinano con riferimento alla categoria dei lavoratori subordinati, al livello di inquadramento ed alla anzianità di servizio. È possibile, e lecito, che il contratto individuale di lavoro preveda un periodo di preavviso dalla durata superiore a quella prevista dal contratto collettivo applicato, ma tale circostanza deve essere accompagnata dalla previsione di benefici economici o comunque di un trattamento compensativo giuridicamente apprezzabile in favore del lavoratore che accetta tale patto. Ciò perchè, come riconosciuto da un orientamento della giurisprudenza piuttosto consolidato (Cass., sez.lav., 9 giugno 2017, n. 14457), l'accordo per un periodo di comporto più lungo rientra nell'ambito della riconosciuta disponibilità del diritto al posto di lavoro e pertanto fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso, nelle quali viene in rilievo la norma inderogabile di cui all'art. 2119 c.c., nessun limite è posto dall'ordinamento all'autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purchè limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nella ipotesi di mancato rispetto del periodo minimo di durata.

Alla possibilità di una pattuizione individuale di questa portata deve corrispondere però il riconoscimento in capo al lavoratore di un diritto ad un corrispettivo della limitazione delle sue facoltà rispetto al tipo contrattuale. Tale corrispettivo della clausola di durata minima garantita nell'interesse del datore di lavoro, dunque, è sì necessario ma può essere liberamente stabilito dalle parti e può consistere nella reciprocità dell'impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria, purchè non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore (Cass. sez. lav., n. 14457/17).

Il periodo di preavviso decorre dal momento in cui è conosciuto dall'altra parte ed è interrotto dalla malattia o dalle ferie.

Ipotesi di esclusione

Il riconoscimento del periodo di preavviso, giuste le finalità generali alla cui tutela è preordinato, è da considerarsi di norma sempre obbligatorio, salve le ipotesi eccezionali espressamente previste dalla legge che, per ragioni diverse, trovano la giustificazione nelle ragioni specifiche nei motivi che sorreggono determinate fattispecie di risoluzione del rapporto di lavoro.

È il caso, ad esempio, del licenziamento per giusta causa, non a caso comunemente noto come licenziamento “in tronco”, laddove sulla necessità di evitare il trauma dell'interruzione repentina del rapporto di lavoro, prevale l'esigenza di tutelare in via prioritaria l'ambiente di lavoro, minacciata dalla gravità dell'addebito mosso, che non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Il diritto al preavviso è escluso, inoltre, nel caso di licenziamento durante il periodo di prova, durate il quale il rapporto di lavoro, pur formalmente e sostanzialmente instaurato, è ancora sottoposto al giudizio del datore di lavoro conseguente alla verifica connessa, per cui non è assistito da nessuna garanzia di stabilità, tant'è che si tratta di un'ipotesi di licenziamento c.d. “ad nutum”, e dunque presuppone la possibilità della risoluzione, venendosi a realizzare la condizione risolutiva espressa del contratto, rappresentata dalla clausola di prova.

Allo stesso modo non c'è preavviso per lo spirare del termine nel rapporto di lavoro a tempo determinato, essendo la risoluzione del rapporto non soltanto prevedibile, bensì certa e già individuata sin dall'inizio della stipula del contratto di lavoro. Ancora nessun periodo di preavviso può essere imputato o preteso nel caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, ipotesi in cui la volontà delle parti, consolidata nell'accordo di risoluzione del rapporto di lavoro, esclude esigenze di tutela ulteriori rispetto a quanto determinato dalle parti con la risoluzione medesima.

L'efficacia del diritto al preavviso

Come premesso, il preavviso ha la funzione di interporre tra la comunicazione della risoluzione del rapporto di lavoro e l'effettività della stessa un periodo di tempo durante il quale il rapporto di lavoro continua nella sua ordinarietà. Durante tale periodo ogni obbligazione del rapporto di lavoro è mantenuta, identica, in capo ad entrambe le parti, pertanto il datore di lavoro che abbia irrogato il licenziamento è tenuto, fino allo scadere del preavviso, a tutte le obbligazioni normalmente connesse al rapporto di lavoro, compreso il riconoscimento di eventuali aumenti e maturazione di ogni diritto. È evidente che identici obblighi gravano sul lavoratore, il quale a sua volta conserva tutti i diritti ed obblighi del rapporto di lavoro, fino alla sua effettiva cessazione.

Accanto all'appena accennata ipotesi ordinaria, scolastica, che contempla i tre momenti della comunicazione del licenziamento; della prosecuzione del rapporto di lavoro sino al compimento del periodo di preavviso; della risoluzione del rapporto di lavoro, si pone l'altra fattispecie, non meno frequente per la verità, nella quale il preavviso non è effettivo. Il rapporto di lavoro è comunque interrotto immediatamente con la perfezione della comunicazione del licenziamento ed al lavoratore è riconosciuto il diritto all'indennità – parametrata allo stipendio che avrebbe percepito se avesse continuato a lavorare – prevista dall'art. 2118 c.c., per la durata prevista dal contratto collettivo.

La questione, apparentemente lineare nella asciutta chiarezza della norma del codice civile che la regola, rappresenta un momento risolutivo nella interpretazione delle modalità applicative concrete del diritto al preavviso, dibattito che si è sviluppato lungo due filoni giurisprudenziali: uno, più risalente, che riconosceva una efficacia reale al diritto al preavviso, e quello contrario, più recente, per il quale la previsione del periodo di preavviso assegnerebbe a questo una efficacia di natura soltanto obbligatoria.

L'efficacia reale del periodo di preavviso

Secondo l'orientamento, come premesso risalente, che individua la natura reale del periodo di preavviso, in caso di mancato riconoscimento l'obbligazione non è assolta con la sola erogazione della indennità alternativa, ma in considerazione del fatto che durante il decorso del periodo di preavviso proseguono tutti gli effetti del contratto, il datore di lavoro che non consente di lavorare nel periodo di preavviso, oltre alla indennità è soggetto a tutte le obbligazioni connesse alla continuazione del rapporto di lavoro. Pertanto, anche se l'attività lavorativa non è svolta, secondo la considerazione dell'efficacia reale del periodo di preavviso, tutte le eventuali variazioni contrattuali intervenute nel periodo di preavviso (ipotetico), anche se successive alla risoluzione effettiva del rapporto di lavoro, devono considerarsi maturate in capo al lavoratore (ferie, aumenti, etc…) che, al contempo, è vincolato agli stessi obblighi di chi è ancora in forza (riservatezza, concorrenza…) fino allo scadere del periodo di preavviso, anche se non gli è stato concesso di lavorare (Cass. sez. lav., 21 novembre 2001, n. 14646).

Alcune aperture rispetto a questo rigore hanno riconosciuto la possibilità di derogare all'impianto così ritenuto, in forza di un accordo delle parti, tale che pur confermando la natura reale premessa, ne riconosce la derogabilità per accordo delle parti quando queste, prima della scadenza del periodo di preavviso, concordano l'esonero immediato dagli obblighi relativi alle reciproche prestazioni (Cass. sez.lav., 8 maggio 2004, n. 8797).

Si tratta pur sempre di considerazioni che continuano a fondarsi sulla ritenuta efficacia reale del preavviso, finendo per riconoscere effetti diversi e derogatori a quelle ipotesi che sostanzialmente configuravano una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro che in quanto tale prescinde dalla considerazione della natura e degli effetti del periodo di preavviso.

L'efficacia obbligatoria del periodo di preavviso

L'orientamento più recente, al contrario, sposa l'approccio della efficacia obbligatoria del periodo di preavviso. Conseguentemente, nel caso di disconoscimento della possibilità di prestare l'attività lavorativa durante il suo decorso, il rapporto di lavoro si risolve definitivamente con la perfezione della sua irrogazione, senza alcuna imputazione di prosecuzione fittizia del rapporto di lavoro sino allo spirare del termine del preavviso.

La mancata prestazione è ristorata con il riconoscimento della indennità alternativa.

Secondo l'attuale posizione della giurisprudenza di legittimità infatti, “alla stregua di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell'art. 2118 c.c., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale – che comporta, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine – ma obbligatoria. Ne consegue che, ove una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l'unico obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva del preavviso e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del periodo di preavviso” (Cass. sez.lav., 6 giugno 2017, n. 13988).

Si delinea pertanto un assetto ben definito dei canoni e della portata dell'art. 2118: la risoluzione del rapporto di lavoro – sussistendo i requisiti di legge – è un diritto potestativo, cui si accompagna l'onere della indennità in caso di mancata prestazione del preavviso, senza che però la previsione del secondo comma possa incidere sulla individuazione del momento di effettiva interruzione del rapporto di lavoro, che deve ascriversi al momento della perfezione della comunicazione.

Dimissioni e preavviso

Anche quando la risoluzione del rapporto di lavoro avviene per volontà del lavoratore che rassegna le proprie dimissioni, l'effettività della cessazione del rapporto di lavoro è subordinata allo spirare del periodo di preavviso, così come avviene per il licenziamento. Ciò è evidente dalla lettera dell'art. 2118, che fa riferimento a “ciascuno dei contraenti” e dalla interpretazione della giurisprudenza, che ancora di recente in materia di preavviso fa riferimento a indifferentemente a “una delle parti” (Cass. sez. lav., n. 13988/17).

Pertanto anche il lavoratore, quando si dimette, salvo accordi diversi, deve continuare a svolgere la prestazione lavorativa fino al decorso del periodo di preavviso previsto dal contratto collettivo, pena la possibilità per il datore di lavoro, in caso di dimissioni immediate, di imputare tale periodo e decurtarlo dalle competenze dovute con il trattamento di fine rapporto.

Il lavoratore è invece esentato dal concedere il periodo di preavviso al datore, ed anzi può imputare e pretenderne l'indennità e recedere immediatamente quando le dimissioni sono sorrette da una giusta causa.

Conclusioni

Come premesso, la disciplina del preavviso appare immediatamente chiara ed univoca così per come emerge dal dato letterale della norma che la prevede. L'art. 2118 c.c. differisce il momento di effettiva risoluzione del rapporto di lavoro in caso di licenziamento o dimissioni allo spirare di un periodo, la cui durata è individuata dalla contrattazione collettiva, al fine di evitare gli effetti negativi di una cessazione immediata. Durante il periodo di preavviso il rapporto di lavoro prosegue regolarmente in ogni sua obbligazione, a meno che chi è tenuto alla sua garanzia (chi recede dal contratto), non decida di non garantire tale effettiva prestazione lavorativa sostituendola, giusto il secondo comma dell'art. 2118, con una indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.

Sulla natura del diritto al preavviso si sono confrontate le due teorie appena brevemente citate, della efficacia reale, per la quale anche quando la prestazione lavorativa non è effettivamente resa tutti i diritti connessi continuano a maturare fino allo spirare del periodo, e della efficacia obbligatoria, che vede invece il rapporto di lavoro comunque risolversi immediatamente con la comunicazione del licenziamento o delle dimissioni e l'obbligazione della indennità equivalente che si aggiunge semplicemente quale ulteriore importo ad un contratto già definitivamente spirato.

Questa seconda posizione appare meglio condivisibile rispetto alla tesi dell'efficacia reale. Ciò non soltanto per ragioni cronologiche, legate alla oggettiva attualità (le più recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità proseguono in maniera conforme fino all'anno in corso), ma soprattutto per la maggiore coerenza con il dato normativo, rispetto al quale risulta meglio apprezzabile dal punto di vista letterale e soprattutto logico-giuridico.

L'art. 2118 c.c. infatti, prevede la possibilità di recedere dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dando preavviso. Al secondo comma, l'ipotesi della mancanza del preavviso è regolata dalla previsione del riconoscimento di una indennità alternativa, equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. In nessun caso la norma contempla vincoli o soggezione della volontà dell'una o dell'altra parte in ordine alla disciplina effettiva delle modalità di fruizione del preavviso. Non il datore di lavoro che intende procedere al licenziamento nè il dipendente che vuole dimettersi, soggiaciono alla pretesa dell'altro circa la prosecuzione effettiva del rapporto di lavoro.

L'art. 2118 prevede finalità la cui garanzia è individuata nella indennità alternativa quale strumento esclusivo della eventualità che il periodo di preavviso non venga lavorato. Nè il lavoratore licenziato, nè il datore che riceve le dimissioni, possono costringere l'altro alla prestazione lavorativa durante il preavviso, soccorrendo a ciò l'indennità di cui al secondo comma.

Conseguentemente, come correttamente osservato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, non può ritenersi alcuna natura reale nel diritto al preavviso e, dunque, nessuna malintesa isoprosecuzione del rapporto di lavoro quando la prestazione non è effettiva e reale.

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