La rilevanza fiscale della rinuncia del socio-amministratore al trattamento di fine mandato

Fabio Gallio
14 Dicembre 2017

Nel caso in cui gli amministratori rinuncino al loro credito sorto, nei confronti della società, per il trattamento di fine mandato (TFM) e con il fine di verificare la conseguente tassazione, sia in capo alla società, che in capo alle persona fisica, è necessario distinguere la situazione in cui il soggetto rinunciante sia anche socio da quella in cui non lo è. Nel primo caso, a fronte della mancata tassazione della sopravvenienza da parte della società, corrisponde la tassazione dell'amministratore; nel secondo caso, invece, la società assoggetta ad imposizione l'importo rinunciato, mentre la persona fisica non tassa nulla.
Premessa

Nel caso in cui gli amministratori rinuncino al loro credito sorto, nei confronti della società, per il trattamento di fine mandato (TFM) e con il fine di verificare la conseguente tassazione, sia in capo alla società, che in capo alle persona fisica, è necessario distinguere la situazione in cui il soggetto rinunciante sia anche socio da quella in cui non lo è. Nel primo caso, a fronte della mancata tassazione della sopravvenienza da parte della società, corrisponde la tassazione dell'amministratore; nel secondo caso, invece, la società assoggetta ad imposizione l'importo rinunciato, mentre la persona fisica non tassa nulla.

L'interpello: la rinuncia degli amministratori al trattamento di fine mandato

Il caso esaminato nella Risoluzione n. 124/E, del 13 ottobre 2017, riguarda la rinuncia da parte degli amministratori della loro quota di trattamento di fine mandato (di seguito anche TFM), maturata nei confronti della società. Il motivo di questa rinuncia è dovuta dal fatto che la maggioranza delle quote della società deve essere venduta ad una società cinese, e, pertanto, il veicolo societario ha bisogno di una ricapitalizzazione.

Due dei suddetti amministratori sono anche soci della società, mentre gli altri due non possiedono alcuna quota di partecipazione.

La Risoluzione affronta la problematica della tassazione di tale operazione di rinuncia, sia in capo alle persone fisiche, che in capo alla società.

Il trattamento fiscale del TFM: la deducibilità degli accantonamenti

La risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 124, prima di esaminare la normativa di riferimento, si sofferma sulla definizione del TFM e sul suo trattamento fiscale.

In particolare ricorda che tale trattamento è un'indennità, non disciplinata in modo specifico dalla normativa civilistica, che la società può corrispondere agli amministratori alla scadenza del loro mandato.

Il suo ammontare è determinato, secondo criteri di ragionevolezza e congruità rispetto alla realtà economica dell'impresa, attraverso una specifica previsione statutaria ovvero mediante delibera assembleare dei soci.

Per quanto concerne la deducibilità ai fini IRES degli accantonamenti per l'erogazione del TFM, trova applicazione l'art. 105, comma 4, TUIR.

La norma appena citata consente la deduzione degli accantonamenti relativi alle indennità di fine rapporto di cui all'art. 17, comma 1, lettera c), TUIR. Trattasi, in particolare, delle indennità per la cessazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'art. 50, comma 1, lettera c-bis, TUIR, vale a dire le indennità dovute “in relazione agli uffici di amministratore”.

Appare evidente, quindi, come gli accantonamenti a fondi del passivo per le indennità di trattamento di fine mandato, per effetto del rinvio contenuto nel citato art. 105, comma 4, del TUIR rientrino nel tassativo novero degli accantonamenti per i quali è riconosciuta rilevanza fiscale, essendo sostanzialmente equiparati a quelli di quiescenza e previdenza.

Gli accantonamenti al fondo per il TFM sono quindi fiscalmente deducibili in base al principio di competenza, prescindendo dal momento in cui l'indennità sia effettivamente pagata.

L'Agenzia sostiene anche in questa sede che, per effetto del rinvio all'art. 17, comma 1, lettera c), TUIR, la deducibilità dell'accantonamento per TFM sarebbe legata alla condizione che il diritto all'indennità risulti da un “atto di data certa anteriore all'inizio del rapporto”. In caso contrario, la deduzione del relativo costo avverrà nell'anno di effettiva erogazione dell'indennità medesima (cfr. Risoluzione n. 211/E del 22 maggio 2008).

Tale conclusione, però, non pare condivisibile, in quanto la data certa sembra essere necessaria solamente per usufruire della tassazione (separata) prevista dall'art. 17 da applicare alla persona fisica, mentre il rinvio effettuato dall'art. 105 all'art. 17 servirebbe solo per identificare la natura dell'accantonamento.

(Segue) Il trattamento fiscale della rinuncia ai crediti

Relativamente allo specifico trattamento fiscale della rinuncia ai crediti, la Risoluzione ricorda che recentemente vi sono state delle modifiche alla normativa applicabile ai soci.

Infatti, il comma 4-bis dell'art. 88 TUIR, inserito dall'art. 13 D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. “Decreto internazionalizzazione”), e applicabile a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello di entrata in vigore del decreto internazionalizzazione (7 ottobre 2015), così stabilisce: “La rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. A tal fine, il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, comunica alla partecipata tale valore; in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito è assunto pari a zero. (…)”.

In particolare, viene ricordato che, tanto per le operazioni di rinuncia diretta a crediti originariamente sorti in capo al socio, quanto per quelle precedute dall'acquisto del credito (o della partecipazione) da parte del socio (o del creditore), il nuovo regime qualifica fiscalmente come “apporto” la sola parte di rinuncia che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto del credito.

A tal fine, il socio è tenuto a fornire alla partecipata una comunicazione relativa al valore fiscale del credito; in assenza di tale comunicazione, il medesimo valore fiscale è assunto pari a zero, con la conseguenza che il debitore assoggetta a tassazione tutta la sopravvenienza attiva.

In altri termini, nei limiti del valore fiscale del credito, il socio aumenta il costo della partecipazione (come previsto dagli artt. 94, comma 6, e 101, comma 7, TUIR, modificati dall'art. 13 del “decreto internazionalizzazione”) e il soggetto partecipato rileva fiscalmente un apporto (non tassabile).

L'eccedenza, invece, costituisce per il debitore partecipato una sopravvenienza imponibile, a prescindere dal relativo trattamento contabile, con la conseguenza che si può generare un fenomeno di tassazione da gestire con una variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi.

Al contrario, nel caso in cui la rinuncia avvenga da parte di soggetto diverso dal socio e, quindi, tale operazione trovi causa, non nella volontà di patrimonializzare la società, ma nell'animus donandi o nella remissione del debito, l'intera sopravvenienza attiva dovrà essere tassata in capo all'ente giuridico in base all'art. 88, comma 1, TUIR.

La rinuncia del socio amministratore

L'Agenzia delle Entrate, facendo proprio, anche in questa sede, il principio dell'incasso giuridico, sostiene che, nel caso in cui sia l'amministratore socio ad effettuare la rinuncia, si verifica l'imponibilità in capo alla persona fisica, a fronte della mancata tassazione della sopravvenienza attiva in capo alla società.

Si ricorda che tale conclusione è stata fatta valere dall'Amministrazione finanziaria nella Circolare del 27 maggio 1994 n. 73, secondo la quale: “La rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l'avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l'obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta”.

Il principio dell'incasso giuridico è stato sostenuto anche da alcune pronunce della giurisprudenza.

In particolare, con l'ordinanza n. 1335 del 26 gennaio 2016 la Corte di Cassazione ha sancito che il socio-amministratore, il quale ha rinunciato al proprio credito per indennità di fine mandato maturate (c.d. TFM) nei confronti della società, deve essere tassato per il relativo importo. In caso contrario, la società potrebbe beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti, dal momento che non subisce alcuna tassazione al momento della rinuncia, mentre il socio incrementa il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione, generando reddito esente da imposizione.

La sentenza della Corte di Cassazione del 18 dicembre 2014, n. 26842, ha stabilito la tassabilità in capo al socio rinunciatario del credito, anche se non materialmente incassato, ma conseguito ed utilizzato, tramite la rinuncia, in favore della società. In questo modo, secondo la Suprema Corte, si eviterebbe un "salto di imposta" che si verrebbe a determinare a fronte dell'intassabilità della rinuncia del credito, sia in capo alla società ex art. 88, comma 4 (ora 4-bis) del TUIR, sia in capo al socio, trattandosi di reddito tassabile in base al principio di cassa.

In altri termini, con la suddetta interpretazione, si cercherebbe di evitare che la società possa dedurre costi, rilevati per competenza in diversi esercizi (come appunto il TFM), per poi beneficiare, all'atto della rinuncia dei soci a tali redditi, di un componente positivo di reddito (sopravvenienza attiva) escluso da tassazione ai sensi dell'art. 88, comma 4-bis, del TUIR.

Al contrario, invece, nel caso in cui l'amministratore non sia socio, la relativa sopravvenienza deve essere tassata in capo alla società, mentre la persona fisica, in assenza di una contropartita e non potendo incrementare il valore della partecipazione, non viene assoggettata ad alcuna imposizione fiscale, non essendo applicabile il principio dell'incasso giuridico.

Criticità del principio dell'incasso giuridico

La tesi dell'Agenzia in merito al trattamento fiscale in capo ai soci amministratori, si scontra con quanto previsto dal legislatore, sia per le società, sia per i soci.

Infatti, in capo all'ente giuridico, si è voluto favorire la capitalizzazione delle società da parte dei soci, prevedendo la mancata tassazione delle rinunce dei crediti, salvo quanto previsto in merito al loro valor fiscale.

Del resto, come previsto dai principi contabili, si tratta di operazioni che interessano il patrimonio dell'ente giuridico e vanno iscritte tra le riserve di capitale e non di utile (OIC 28, paragrafo 49).

Relativamente, invece, alla posizione del socio, è stato stabilito che l'importo del credito rinunciato non è ammesso in deduzione ed il relativo ammontare si aggiunge al costo della partecipazione (art. 94, comma 6 e art. 101, comma 7, TUIR). Secondo la nuova normativa, la rilevanza fiscale dell'operazione è limitata al valore fiscalmente riconosciuto del credito.

Pertanto, secondo quanto stabilito dalla legge, la rinuncia del socio non dovrebbe avere mai rilevanza reddituale.

Le conclusioni a cui arriva la Risoluzione in esame, se, da un lato, possono trovare giustificazione nell'intento di evitare che il componente di reddito relativo al credito rinunciato non venga apparentemente mai tassato, dall'altro lato, però, si scontrano con la normativa i vigore, che non prevede mai una tassazione in capo ai soci in caso di una rinuncia del loro credito. E questo a prescindere se per un determinato reddito è prevista l'imposizione per il principio di cassa, secondo il quale il reddito ha rilevanza fiscale solo al momento dell'effettivo pagamento.

Infatti, nell'ipotesi di redditi tassati per cassa, il presupposto per il sorgere dell'obbligazione tributaria è l'effettiva disponibilità del denaro o del corrispettivo in natura, a nulla rilevando i crediti maturati e non riscossi.

Del resto, nel momento in cui il socio rinuncia al credito, la sua posizione di creditore si trasferisce a quella di socio con l'incremento del valore della partecipazione, simmetricamente a quanto succede nella società, dove il debito viene trasformato in patrimonio.

Il fatto che la società abbia potuto dedursi per competenza il relativo onere, come nel caso del TFM, nulla cambia alla tesi che si cerca di sostenere: è il legislatore che ha previsto la deduzione per competenza in capo all'ente, mentre la tassazione del reddito per cassa in capo al socio.

Pertanto, tale assimmetria temporale è sancita dalla legge.

Del resto, se si seguisse la tesi dell'incasso giuridico, verrebbero tassate in capo al socio anche quelle componenti di reddito mai dedotte dalla società, come ad esempio, i compensi dei soci/amministratori, rilevanti solo al momento dell'effettivo pagamento, o il mancato pagamento di dividendi già deliberati ed iscritti a debito dalla società.

In forza delle considerazioni appena esposte, si ritiene criticabile la tesi dell'incasso giuridico, in quanto consentirebbe la tassazione di un componente di reddito, basandosi su una finzione giuridica, quale può essere quella di paragonare una mera rinuncia di un credito ad un effettivo pagamento. Per sostenere questo principio, dovrebbe essere introdotta dal legislatore una specifica disposizione normativa.

Infine, si vuole sottolineare un importante chiarimento contenuto nella Risoluzione in esame e che riguarda il nuovo obbligo in capo ai soci di comunicare il valore del credito.

In particolare, l'Agenzia delle Entrate non ritiene necessaria la comunicazione da parte di persone fisiche alla società partecipata del valore fiscale dei crediti oggetto di rinuncia (art. 88, comma 4-bis, secondo periodo), in quanto non dovrebbero verificarsi quelle distorsioni, dovute appunto alla mancata coincidenza tra il valore nominale dei crediti e il loro valore fiscale (ad esempio, per effetto di svalutazione), che il legislatore ha inteso scongiurare e che sono ravvisabili soltanto in presenza di un'attività di impresa.

Tale conclusione potrebbe essere valida anche relativamente ad altri soggetti, come, ad esempio, nei confronti di soci esteri che non esercitano attività di impresa in Italia.

E' necessario, però, rilevare che la Relazione illustrativa al D.Lgs n. 147/2015 fa rientrare anche i soggetti esteri in tale normativa, riportando che: “il socio è tenuto a fornire alla partecipata una comunicazione – mediante dichiarazione sostitutiva di atto notorio o atto estero di natura equivalente”.

Secondo attenta dottrina (Assonime, Circolare n. 17/2017), “[…] una delle ragioni che ha indotto il legislatore ad adottare questa soluzione, molto probabilmente, è stata quella di assoggettare a tassazione la sopravvenienza attiva derivante dalla rinuncia del credito in tutti i casi in cui si verifichi questo evento e, cioè, anche quando il socio che rinuncia al proprio credito sia un soggetto non residente estraneo al nostro ordinamento. In realtà, si tratta di una questione controversa. L'esigenza di far scattare la disciplina in esame in presenza di socio non residente, in effetti, è del tutto evidente e comprensibile nel caso in cui il socio non residente rinunci a crediti precedentemente acquistati da soggetti cedenti residenti nel nostro Stato. In questo caso, infatti, le eventuali perdite e svalutazioni su crediti che hanno assunto rilevanza fiscale nel nostro ordinamento potrebbero non essere “intercettate” in occasione della rinuncia del credito da parte del socio non residente, visto che tale soggetto non è suscettibile di subire tassazione nel nostro ordinamento. Meno comprensibile appare, invece, l'applicazione di questa disciplina nel diverso caso in cui il credito sia sorto originariamente in capo al socio non residente, visto che le eventuali perdite e svalutazioni del credito oggetto di rinuncia hanno (se del caso) assunto rilevanza fiscale nel Paese di residenza del socio estero (e non nel nostro), sicché non si porrebbe nemmeno in astratto l'esigenza di garantire la tassazione presso il debitore della corrispondente sopravvenienza attiva”.

In questo caso, sarebbe auspicabile un chiarimento da parte delle Autorità competenti, con l'intento anche di chiarire quale sia il valore fiscale di riferimento da tenere in considerazione in capo alla società italiana per decidere l'importo della sopravvenienza da tassare o meno.

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