Agevolazione per le operazioni di finanziamento a medio/lungo termine delle banche: estese agli intermediari finanziari

Nicola Mario Condemi
15 Dicembre 2017

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 242/2017, ha accolto la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, primo comma, d.P.R. n. 601/1973 – nella versione applicabile ratione temporis – sollevata dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost. La disposizione censurata esenta dalle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine effettuate da «aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni».
L'ordinanza di rimessione

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 242/2017, ha accolto la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, primo comma, d.P.R. n. 601/1973 – nella versione applicabile ratione temporis – sollevata dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.

La disposizione censurata esenta dalle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine effettuate da «aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni».

Ad avviso del giudice rimettente, il regime tributario in questione non era applicabile agli intermediari finanziari, quale il contribuente parte del giudizio principale. A tale conclusione è pervenuto dirimendo il contrasto insorto in seno alla sezione tributaria della medesima Corte tra due orientamenti. Quello prevalente escludeva l'applicabilità del trattamento privilegiato agli intermediari finanziari in quanto riservato esclusivamente alle «banche», a seguito dell'evoluzione della disciplina di settore, nonché in virtù del principio generale per cui le disposizioni eccezionali che riconoscano benefici fiscali in deroga al regime ordinario sarebbero di stretta interpretazione e insuscettibili di applicazione analogica. Il contrario orientamento, espresso in un'unica occasione, estendeva il trattamento di favore agli intermediari attraverso un'interpretazione logico-sistematica e costituzionalmente orientata della disposizione, ripercorrendo l'evoluzione storica dell'attività creditizia – aperta anche a tali soggetti – ed evidenziando il rischio di incoerenze, di dubbia legittimità costituzionale, nella relativa disciplina.

Escludendo di poter condividere la tesi ermeneutica minoritaria, il giudice a quo ha ritenuto che l'art. 15 d.P.R. n. 601/1973, interpretato nel senso dell'inapplicabilità agli intermediari finanziari, violasse gli artt. 3 e 41 Cost.

Sebbene non pienamente assimilabili alle banche, gli intermediari finanziari, con riguardo all'attività considerata dalla norma censurata, agirebbero con le medesime modalità e nello stesso mercato degli operatori bancari. Con la conseguenza che il diverso trattamento provocherebbe un effetto distorsivo sulla concorrenza per il vantaggio derivante alle banche dal minor costo del prodotto offerto per una mera scelta fiscale che non troverebbe giustificazione nelle differenze sul piano della costituzione della provvista che alimenta l'attività creditizia.

Di qui la violazione della libertà di concorrenza, riconducibile alla libertà di iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost., e dell'art. 3 Cost. in ragione dell'ingiustificata discriminazione realizzata dalla norma agevolativa.

La Corte costituzionale ha condiviso pienamente l'impostazione del giudice a quo e, muovendo dall'opzione interpretativa da questi condivisa, con la pronuncia additiva in commento ha esteso alle operazioni di finanziamento a medio e lungo termine realizzate dagli intermediari finanziari il beneficio previsto per quelle poste in essere dalle banche.

Connotati del regime tributario delle operazioni di credito a medio e lungo termine

L'art. 15 d.P.R. n. 601/1973 – nella versione censurata – prevede che «Le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine e tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità inerenti alle operazioni medesime, alla loro esecuzione, modificazione ed estinzione, alle garanzie di qualunque tipo da chiunque e in qualsiasi momento prestate e alle loro eventuali surroghe, sostituzioni, postergazioni, frazionamenti e cancellazioni anche parziali, ivi comprese le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti, effettuate da aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni che esercitano, in conformità a disposizioni legislative, statutarie o amministrative, il credito a medio e lungo termine, sono esenti dall'imposta di registro, dall'imposta di bollo, dalle imposte ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative».

In loro vece il successivo art. 17 prevede il pagamento di un'imposta sostitutiva – in seguito divenuta opzionale per effetto delle modifiche apportate alla disposizione dall'art. 12, comma 4, lettera b), D.L. n. 145/2013 – secondo quanto previsto dagli artt. da 18 a 20 del medesimo decreto.

Dunque, in presenza di determinati requisiti, alle operazioni di finanziamento, ed agli atti ad esse collegati, si applica, secondo le aliquote indicate dall'art. 18, un'imposta sostitutiva delle ordinarie imposte indirette cosiddette “d'atto”, da cui è prevista l'esenzione.

In linea generale, l'applicazione del regime in considerazione è subordinato a due presupposti, uno soggettivo e l'altro oggettivo, cui si aggiunge un ulteriore requisito territoriale.

Sotto il primo profilo, la norma si riferisce alle operazioni poste in essere da «aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni», eventualmente anche situati in altri Stati dell'Unione europea. Il problema di come vada interpretata simile locuzione è il fulcro della questione e verrà più approfonditamente trattato in prosieguo. Fin da ora si può evidenziare che detti enti sono i soggetti passivi dell'imposta sostitutiva, sebbene essi l'addebitino al cliente, con la conseguenza che, di fatto, l'onere tributario grava sul beneficiario del finanziamento.

Da un punto di vista oggettivo, il regime si applica alle operazioni relative ai finanziamenti (per la nozione di finanziamento, si veda Cass. civ. n. 2396/1990 – relativa all'imposta «di abbonamento», antecedente storico dell'imposta sostitutiva in considerazione – a cui si sono uniformate, nel nuovo contesto normativo, Cass. civ. n. 4530/2002, n. 4611 del 2002 e n. 695/2015) a medio e lungo termine, vale a dire a quelli la cui durata contrattuale sia stabilita in più di 18 mesi (art. 15, comma 3), salva l'eccezione prevista dall'art. 16.

Infine, la disciplina si applica agli atti posti in essere nel territorio dello Stato.

La ratio legis viene identificata «nel favore che il legislatore intende accordare agli investimenti produttivi, nella previsione che essi possono creare nuova ricchezza, sulla quale potrà più adeguatamente applicarsi il prelievo fiscale» (Cass. civ. n. 695/2015, n. 5270/2009, n. 9930/2008 e n. 4611/2002) o – in senso più ampio, argomentando dal dato testuale – «nell'esigenza di favorire l'accesso al credito, incrementando la possibilità del soggetto richiedente di attingere a nuove risorse finanziarie» (Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate del 13 dicembre 2011, n. 121/E).

Mentre, coerentemente con la ratio identificata, la giurisprudenza di legittimità attribuisce al regime tributario in commento natura agevolativa (tra le tante, Cass. civ. n. 6412/2014, n. 12928/2013, n. 6234/2012, n. 2605/2012, n. 9903/2011 e n. 5845/2011), la dottrina tende a negare che esso rappresenti un'agevolazione in senso tecnico – evidenziando che potrebbe dar luogo a un aggravio del prelievo (si rammenta che solamente a seguito del D.L. n. 145/2013 l'imposta sostitutiva è divenuta opzionale e, dunque, di fatto, troverà applicazione solo ove effettivamente rappresenti un'agevolazione rispetto al regime ordinario) – e preferisce qualificarlo come autonomo trattamento tributario, ritenendo che l'effetto agevolativo si verifichi essenzialmente quando il finanziamento sia assistito da garanzia ipotecaria, salva in ogni caso un'indiscutibile semplificazione degli adempimenti.

L'interpretazione dell'art. 15 d.P.R. n. 601/1973

Come accennato, il punto centrale della questione è rappresentato dall'interpretazione della locuzione «aziende e istituti di credito e […] loro sezioni o gestioni che esercitano, in conformità a disposizioni legislative, statutarie o amministrative, il credito a medio e lungo termine» contenuta nell'art. 15 d.P.R. n. 601/1973, locuzione che identifica il requisito soggettivo per poter accedere al regime tributario in considerazione.

Da un punto di vista del significato letterale, si evidenzia che la distinzione tra aziende e istituti di credito risale alla legge bancaria del 1926 (R.D.L. n. 1511/1926, recante «Provvedimenti per la tutela del risparmio», e R.D.L. n. 1830/1926, recante «Norme regolamentari per la tutela del risparmio»), al riguardo confermata da quella del 1936 (R.D.L. n. 375/1936, recante «Disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia», convertito dalla L. n. 141/1938): nella categoria delle aziende di credito venivano ricomprese le imprese bancarie che esercitavano la raccolta del risparmio a vista o a breve termine, cui si contrapponeva quella degli istituti di credito (di regola operanti in settori particolari e istituiti ad hoc per l'erogazione di finanziamenti in conformità a normative speciali), autorizzati alla raccolta del risparmio a medio e lungo termine (si vedano al riguardo, in particolare, gli artt. 5 e 6 e i Titoli V e VI del R.D.L. n. 375/1936).

Tale distinzione veniva trasposta sul piano degli impieghi – sebbene non vi fossero vincoli normativi in tal senso – onde le aziende esercitavano il credito a breve termine e gli istituti di credito quello a medio e lungo termine.

È in tale contesto normativo che ha trovato scaturigine la norma censurata, risultandone inevitabilmente condizionata.

La distinzione ha perso rilievo con il D.Lgs. n. 481/1992, recante «Attuazione della Direttiva 89/646/CEE relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l'accesso all'attività degli enti creditizi e il suo esercizio e recante modifica della Direttiva 77/780/CEE», che ha introdotto la nozione unitaria di «ente creditizio» (si vedano in particolare gli artt. 2, 3 e 6).

Quest'ultima è stata successivamente abbandonata dal D.Lgs. n. 385/1993, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia» (TUB), che non ha inteso recepire la nomenclatura comunitaria, preferendo optare per il termine «banca», senza offrire una definizione dell'ente ma qualificandolo attraverso la riserva dell'attività bancaria (art. 10, comma 2) – vale a dire la raccolta di risparmio tra il pubblico (definita dal successivo art. 11, comma 1, e vietata dal comma 2 ai soggetti diversi dalle banche) e l'esercizio del credito (art. 10, comma 1) – salvo consentirgli anche l'esercizio di ogni altra attività finanziaria non oggetto di specifica limitazione legislativa (art. 10, comma 3).

L'art. 106, comma 1, del TUB ha aperto agli intermediari finanziari iscritti in un apposito elenco (ora albo, a seguito delle modifiche apportate dall'art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 141/2010) l'esercizio nei confronti del pubblico delle attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma.

Alla luce di tale percorso dell'evoluzione normativa, il significato letterale della disposizione è stato limitato alle banche così come definite dall'art. 10 del TUB, “eredi” dei suindicati soggetti.

Tale conclusione – corroborata dal rilievo che fino agli anni '70, complice l'arretratezza della nostra cultura di settore, l'intermediazione finanziaria, da intendersi quale attività d'impresa che mira a intermediare l'offerta e la domanda di risparmio, è stata monopolizzata dalle banche – è condivisa dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. n. 5697/2014, n. 6234/2012, n. 5570/2011, n. 3454/1986 e n. 6183/1984) – anche da quella (Cass. civ. n. 5845/2011) che, discostandosi dall'orientamento precedente e successivo, ha ingenerato il contrasto descritto dall'ordinanza di rimessione – dalla Pubblica Amministrazione (risoluzione del Ministero delle Finanze del 26 giugno 1976, n. 250466/76, Risoluzione del Ministero delle finanze del 17 novembre 1994, n. IV-8-375, Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate del 10 giugno 2003, n. 131/E) e, diffusamente, in dottrina, magari con l'auspicio di un superamento de iure condendo.

Tuttavia, se l'orientamento prevalente si è fermato al significato letterale, assestando su di esso l'interpretazione della norma, sia l'isolata pronuncia della Cassazione più volte menzionata che una parte (minoritaria) della dottrina – seppur con diverse sfumature – hanno ritenuto possibile travalicare detto significato ed estendere la portata della locuzione anche agli intermediari finanziari.

Proviamo di seguito a dare sinteticamente conto delle ragioni e degli argomenti spendibili a sostegno delle due posizioni.

Il significato letterale della locuzione confina il presupposto soggettivo del regime tributario alle sole banche, secondo l'attuale definizione di cui all'art. 10 del TUB, mentre gli intermediari finanziari continuerebbero a non poter esservi assimilati – tanto da trovare disciplina nel Titolo V del TUB anziché nel precedente Titolo II – essendo alle prime istituzionalmente riservato l'esercizio dell'attività di raccolta del risparmio (“rimborsabile”) tra il pubblico (art. 11, commi 1 e 2, del TUB) – con l'eccezione, dunque, del cosiddetto “risparmio di rischio” – congiuntamente all'esercizio del credito (in tal senso Cass. civ. n. 5697/2014, n. 6234 del 2012, n. 5570/2011, n. 3454/1986 e n. 6183/1984).

Si rammenta al riguardo che l'art. 12 delle preleggi assegna al dato letterale un valore ermeneutico prioritario (Cass. civ. n. 13083 del 2009, n. 15789 del 2004 e n. 12081 del 2003), onde sarebbe precluso in caso di esito soddisfacente il ricorso ad altri canoni interpretativi (Cass. civ. n. 7454 del 2005 e n. 11359/1993).

Trattandosi poi di un regime tributario agevolativo – così considerato dalla giurisprudenza di legittimità – un'interpretazione che ne consenta l'applicazione al di fuori dei casi e delle situazioni riconducibili al significato letterale dovrebbe escludersi alla stregua del principio generale per cui le disposizioni di esenzione e agevolazione fiscale sono norme “di stretta interpretazione” (limitandoci alle pronunce più recenti, Cass. civ. n. 695/2015 e Cass. civ., sez. un., da n. 9560 a n. 9566 del 2014), con conseguente impossibilità di estenderne l'ambito soggettivo di operatività (Cass. civ. n. 16156/2016, n. 8322/2015, n. 24368/2013, n. 17961/2013, n. 11176/2005, n. 14170/2003, n. 14157/2003 e n. 15316/2002; contra, in passato, Cass. civ. n. 179/1971).

La ragione viene diffusamente ravvisata nel fatto che le disposizioni di esenzione/agevolazione derogano al principio di capacità contributiva (Corte Cost. n. 187/1981 e n. 292/1987) e al generale regime impositivo e dunque vi fanno eccezione (con specifico riferimento al regime tributario in esame, espressamente Cass. civ. n. 5570/2011; nello stesso senso, Cass. civ. n. 695 del 2015, n. 5697 del 2014, n. 6234 del 2012 e n. 5270 del 2009; con riferimento alle norme di agevolazione fiscale in generale, Corte cost. n. 153/2017, n. 111/2016, n. 103/2012, n. 144/2009, n. 275/2005, n. 86/1985 e n. 108/1983), con conseguente operatività del principio codificato nell'art. 14 delle preleggi.

D'altra parte, tale approccio è coerente con quello tendenzialmente dimostrato di recente nelle più diverse occasioni in cui la Corte di Cassazione ha rinvenuto una disposizione eccezionale, escludendo non solo l'analogia, ma anche l'interpretazione estensiva (a titolo esemplificativo, in tema di spese di giustizia Cass. civ. n. 23175/2015; in materia societaria Cass. civ. n. 23630/2015; in materia di pubblico impiego Cass. lav. n. 1035/2014; in materia previdenziale Cass. lav. n. 1609002/2013; in materia procedurale Cass. civ. n. 13711 del 2014 e Cass. lav. n. 20905 del 2013; in materia contrattuale Cass. n. 6572/2013), possibilità negata anche dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 187 del 1981 e n. 292 del 1987).

Tale ultima conclusione evoca alcune problematiche molto dibattute, specialmente in dottrina, relativamente alla nozione di norma eccezionale, alla distinzione tra interpretazione estensiva e analogia, nonché alla praticabilità dell'una e dell'altra.

Il dibattito, evidentemente, ha interessato anche il settore tributario.

In difetto di una definizione normativa, a fronte di un più ampio spettro di possibilità, le sezioni unite rimettenti, condividendo l'orientamento giurisprudenziale maggioritario in ordine al regime tributario in esame, dimostrano di considerare eccezionale la disposizione (di esenzione/agevolazione) che deroga a quella generale, valevole cioè per la generalità dei casi (il sistema definito dalla disciplina sulle imposte d'atto).

Tale conclusione – che finisce per rendere irrilevante stabilire se effettivamente l'applicazione del regime sostitutivo si accompagni o meno a un effettivo beneficio economico per il soggetto passivo e, a cascata, per il soggetto finanziato – conduce alla conclusione per cui l'art. 15 del d.P.R. n. 601/1973 non si applica oltre i casi in esso considerati (art. 14 delle preleggi), precludendo tanto un'interpretazione che travalichi il dato semantico quanto l'analogia.

Il rimettente sembra altresì condividere la teoria della “completezza delle fattispecie tassabili”, per cui il legislatore intenderebbe indicare compiutamente oggetti e soggetti suscettibili di imposizione, rendendo inconfigurabile una lacuna tecnica che necessiti di essere colmata.

Va al riguardo segnalato che in dottrina – per cenni e assolutamente senza pretese di esaustività – le posizioni si presentano molto variegate: anche in seno a coloro che escludono ogni diversità tra interpretazione estensiva (ossia eccedente l'enunciato lessicale) e analogia, non è mancato chi ha autorevolmente negato che alle disposizioni di esenzione o agevolazione debba essere comunque riconosciuto carattere di eccezionalità, diversamente tuttavia da altra dottrina, altrettanto autorevole, che ritiene ricorra sempre.

V'è inoltre da rilevare – come dato storico con cui confrontarsi – che l'art. 2, comma 1, lettera e), L. n. 80/2003, recante «Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale», tra i principi e criteri direttivi a cui doveva ispirarsi la codificazione del sistema tributario nel suo complesso annoverava il divieto di «applicazione analogica delle norme fiscali che stabiliscono il presupposto ed il soggetto passivo dell'imposta, le esenzioni e le agevolazioni».

La posizione giurisprudenziale non risulterebbe smentita dal fatto che l'art. 107, comma 7, del TUB disponesse (prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 141/2010: ora la previsione è contenuta nell'art. 110, comma 1) che agli intermediari finanziari iscritti nell'elenco si applicasse il precedente art. 47, ai sensi del cui comma 1 «[t]utte le banche possono erogare finanziamenti o prestare servizi previsti dalle vigenti leggi di agevolazione, purché essi siano regolati da contratto con l'amministrazione pubblica competente e rientrino tra le attività che le banche possono svolgere in via ordinaria. Ai finanziamenti si applicano integralmente le disposizioni delle leggi di agevolazione, ivi comprese quelle relative alle misure fiscali e tariffarie e ai privilegi di procedura».

La norma in considerazione, in combinato disposto con l'art. 107 (ora art. 110) del TUB, non intenderebbe estendere ai finanziamenti a medio e lungo termine erogati dagli intermediari finanziari il regime di cui all'art. 15 d.P.R. n. 601/1973: il secondo periodo – «Ai finanziamenti si applicano integralmente le disposizioni delle leggi di agevolazione, ivi comprese quelle relative alle misure fiscali» andrebbe letto in correlazione al primo, laddove si menzionano i «finanziamenti […] previsti dalle vigenti leggi di agevolazione», ossia le leggi agevolative di finanziamenti finalizzati a favorire determinati soggetti o la realizzazione di scopi di particolare rilevanza (ad es. imprenditoria giovanile, sviluppo imprenditoriale regionale, ecc.), senza ricomprendere le leggi recanti generiche agevolazioni tributarie in favore dell'attività finanziaria svolta dalle banche in quanto tali.

Quindi, in sostanza, le società di intermediazione finanziaria beneficerebbero dello stesso regime, anche fiscale, previsto per i finanziamenti “agevolati” delle banche, non del regime tributario previsto i finanziamenti a medio e lungo termine da queste ultime erogati (così la Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate del 14 giugno 2007, n. 137/E).

Infine, l'interpretazione restrittiva troverebbe avallo nell'approccio del legislatore, che in più occasioni ha ritenuto di dover intervenire esplicitamente al fine di estendere la portata del regime fiscale in considerazione a soggetti non bancari, vale a dire agli «enti, istituti, fondi e casse previdenziali» (per operazioni di mutuo relative all'acquisto di abitazioni nei confronti dei propri dipendenti e iscritti: art. 2, comma 1-bis, D.L. n. 220/2004), alla Cassa depositi e prestiti S.p.A. (per le operazioni di finanziamento da essa poste in essere: art. 1, comma 32, L. n. 244/2007), alle società di cartolarizzazione e imprese di assicurazione o organismi di investimento collettivo del risparmio (per le operazioni di finanziamento da esse realizzate: art. 17-bis d.P.R. n. 601/1973, introdotto dall'art. 22, comma 2, lettera b), D.L. n. 91/2014), nonché allo Stato e alle Regioni per i finanziamenti da essi direttamente erogati (art. 1, comma 660, L. n. 190/2014).

Il dato appare ancor più significativo in ragione del rilievo che, in particolare, la Cassa depositi e prestiti S.p.A. è assoggettata alle medesime disposizioni del TUB previste per gli intermediari finanziari, ai sensi dell'art. 5, comma 6, D.L. n. 269/2003.

Fin qui ci si è occupati dell'orientamento interpretativo maggioritario, seguito dalla giurisprudenza prevalente e fatto proprio dalle sezioni unite della Cassazione nell'ordinanza di rimessione.

Occorre dare ora conto dell'altra tesi ermeneutica, che ha trovato cittadinanza nella pronuncia che ha dato luogo al contrasto giurisprudenziale composto dal rimettente nella prima parte dell'atto di rinvio.

Come accennato, tale tesi condivide con l'altra l'assunto che da un punto di vista meramente letterale l'art. 15 d.P.R. n. 601/1973 si riferisca alle sole banche.

Ciononostante, ritiene che il dato letterale possa essere superato.

Al riguardo viene invocato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il criterio sussidiario costituito dalla ricerca della “mens legis” può «assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale […] nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo» (Cass. civ. n. 24630/2010, n. 5128 del 2001 e n. 3495 del 1996).

Nel fattispecie il significato letterale della disposizione censurata, confinando il regime in essa previsto alle sole banche, non terrebbe compiutamente conto dell'evoluzione della disciplina normativa degli intermediatori finanziari – e dei finanziamenti a medio e lungo termine, loro consentiti – la cui attività finisce per sovrapporsi a quella bancaria sia (parzialmente) quanto a raccolta del risparmio tra il pubblico (artt. 11, commi 4, lettera d), e 5, e 107, comma 6 – nel testo anteriore al D.Lgs. n. 141/2010 – del TUB) che quanto a erogazione del credito (artt. 106, comma 1, e 107, comma 7, del TUB, entrambi nel testo anteriore al D.Lgs. n. 141/2010).

D'altra parte, nel tempo, la disciplina degli intermediari finanziari si è andata via via assimilando a quella delle banche anche in ordine a requisiti e vigilanza, a tutela dei consumatori/risparmiatori (si veda al riguardo la Circolare Assonime n. 11/2011, La disciplina degli intermediari finanziari dopo i D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141 e 14 dicembre 2010, n. 218 – modifiche al testo unico bancario).

In tale contesto evolutivo si collocherebbe il richiamo all'art. 47 del TUB da parte del successivo art. 107, comma 7 (nel testo anteriore al D.Lgs. n. 141/2010) – ora art. 110, comma 1 – il quale determinerebbe l'applicazione dell'art. 15 d.P.R. n. 601/1973 anche ai finanziamenti concessi dagli intermediari finanziari o comunque dimostrerebbe come, seppur con riguardo ai finanziamenti “agevolati” – ove rientranti nell'alveo di quelli a medio e lungo termine – rilevi l'attività di erogazione e non la natura giuridica del soggetto erogatore, onde, per inferenza, l'inevitabile estensione del regime agevolativo ai finanziamenti posti in essere dagli intermediari (così sembra esprimersi Cass. civ. n. 5845/2011).

L'interpretazione storico–sistematica condurrebbe dunque a estendere il regime agevolativo in considerazione alle operazioni da questi ultimi realizzate.

Nello stesso senso deporrebbe l'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione.

Escludere l'applicazione del regime tributario in considerazione ai finanziamenti a medio e lungo termine erogati dagli intermediari finanziari significherebbe, da un lato, ingenerare una discriminazione tra gli stessi e le banche non giustificata alla luce della ratio dell'agevolazione e, dall'altro, alterare la concorrenza tra le due categorie di soggetti, in violazione, così, degli artt. 3 e 41 Cost.

L'opzione ermeneutica in esame troverebbe quindi conforto anche nell'orientamento della Corte costituzionale, secondo cui nessuna norma di legge può essere dichiarata illegittima perché è suscettibile di essere interpretata in senso contrastante con i precetti costituzionali, ma deve esserlo soltanto quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a essi (Corte Cost. n. 113/2015, n. 92/2015, n. 3/2015, n. 21/2013 e n. 49/2011).

Sia l'interpretazione storico-sistematica che quella costituzionalmente orientata sembrerebbero postulare la valorizzazione della ratio legis, alla stregua della quale procedere all'interpretazione logica della disposizione in modo da estenderne l'applicazione a casi simili a quelli da essa contemplati (in tal senso si esprime la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5845/2011), approccio che sarebbe possibile – in base a una giurisprudenza minoritaria, alla luce di quanto in precedenza rammentato – anche per le disposizioni eccezionali (Cass. civ. n. 14302/1999 e n. 5777/1990).

D'altra parte, esiste un orientamento giurisprudenziale di legittimità che, anche con riguardo alle disposizioni che accordano benefici fiscali, ammette sia l'interpretazione estensiva – volta a comprendere nella portata concreta della norma tutti i casi da essa anche implicitamente considerati, quali risultanti non solo dalla lettera ma anche dalla “ratio” della disposizione - sia l'interpretazione evolutiva, che si limita ad adeguare la formula legislativa ai mutamenti economico-sociali o tecnici intervenuti nel tempo (Cass. civ. n. 30722/2011).

Il “diritto vivente”

L'interpretazione da cui muovono le Sezioni Unite – che riserva alle sole banche il regime tributario in considerazione (salve le estensioni espressamente previste dalla normativa sopravvenuta) – viene considerato assurgere a “diritto vivente”.

Com'è noto, il concetto di diritto vivente «risponde ad una esigenza di rispetto del ruolo spettante ai giudici comuni – e segnatamente all'organo giudiziario depositario della funzione di nomofilachia – nell'attività interpretativa: in presenza di un indirizzo giurisprudenziale costante o, comunque, ampiamente condiviso – specie se consacrato in una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione – la Corte costituzionale assume la disposizione censurata nel significato in cui essa attualmente “vive” nell'applicazione giudiziale» (Corte Cost. n. 230/2012).

Nella fattispecie, il presupposto ermeneutico adottato dal rimettente è stato stabilmente seguito dalla Cassazione sia prima (Cass. civ. n. 6183/1984, n. 3454/1986 e n. 5570/2011) che dopo (Cass. civ. n. 6234/2012 e n. 5697/2014) l'unica pronuncia (Cass. civ. n. 5845/2011) di senso contrario e ha infine trovato consacrazione nella posizione delle Sezioni Unite chiamate a comporre il contrasto giurisprudenziale, espressa nella prima parte dell'ordinanza di rimessione (sull'effetto di consolidazione in diritto vivente della pronuncia dell'organo di nomofilachia, Corte Cost. n. 109/2016, n. 220/2015, n. 78/2015, n. 156/2014 e n. 291/2013).

Ciò comporta che il rimettente ben può assumere proprio quel “diritto vivente” a oggetto delle proprie censure e limitarsi a contestarlo senza dover previamente esperire il tentativo di un'interpretazione adeguatrice (Corte Cost. n. 203/2016, n. 191/2016, n. 201/2015, n. 113/2015 e n. 11/2015).

Il merito della decisione

Le disposizioni legislative concernenti agevolazioni e benefici tributari di qualsiasi specie, quali che ne siano le finalità, costituiscono il frutto di scelte discrezionali del Legislatore, che incontrano il limite della palese arbitrarietà o irrazionalità (Corte Cost. n. 103/2012, n. 144/2009, n. 46/2009, n. 124/2006, n. 275/2005, n. 346/2003 e n. 108/1983), sicché la Corte costituzionale non può estenderne l'ambito di applicazione, se non quando lo esige la ratio dei benefici stessi (Corte Cost. n. 103/2012, n. 144/2009 e n. 10/1999).

Si trattava dunque di identificare il fondamento dei benefici in esame, per poi verificare se la ratio così individuata si potesse considerare comune (Corte cost. n. 177/2017, n. 153/2017 e n. 111/2016) a banche e intermediari finanziari, per l'omogeneità delle situazioni poste a raffronto (Corte Cost. n. 174/2001 e n. 431/1997).

Orbene, s'è già evidenziato che al § 2 che la ratio della norma censurata viene ravvisata dalla giurisprudenza di legittimità (apparentemente condivisa da una certa dottrina) nel favore che il legislatore intende accordare agli investimenti produttivi, prevedendo che essi possano creare nuova ricchezza, su cui più adeguatamente applicare il prelievo fiscale, mentre l'Agenzia delle Entrate (con l'apparente consenso di altra dottrina) la riscontranell'esigenza di favorire l'accesso al credito, incrementando la possibilità di attingere a nuove risorse finanziarie.

La posizione giurisprudenziale – maggiormente restrittiva e condivisa dalla sentenza in commento – sembra valorizzare il profilo di durata del finanziamento, destinato a essere restituito entro un termine medio o lungo; quella dell'Amministrazione – più estensiva – si appiglia al dato letterale, nella preoccupazione che il regime agevolativo non venga riconosciuto in ragione dello specifico utilizzo cui la provvista venga destinata.

Comunque, a prescindere dalla tesi, la ratio dell'agevolazione attiene alle «operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine», non al soggetto da cui promanano, onde l'indifferenza della sua natura. D'altra parte, quale sarebbe la ragione per cui facilitare, agevolare le operazioni realizzate dalle banche ed escludere quelle degli intermediari finanziari, cui l'art. 106, comma 1, TUB ha dischiuso l'attività di concessione dei finanziamenti? Perché gli investimenti produttivi o l'accesso al credito – a seconda dell'ottica in cui ci si intende porre – andrebbero favoriti ove le risorse finanziarie provengano dalle banche e non anche nel caso in cui esse siano offerte dagli intermediari finanziari parimenti legittimati a erogarle? Se da un punto di vista storico la risposta a questi interrogativi risulta semplice – come in precedenza ricordato, nel momento dell'introduzione della disposizione in considerazione aziende ed istituti di credito, antesignani delle odierne banche, erano gli unici attori sulla scena dei finanziamenti a medio e lungo termine, onde l'inevitabile condizionamento legislativo – attualmente, in un contesto in cui il novero degli operatori abilitati è mutato, la discriminazione non trova ragionevole giustificazione in relazione alla ratio sottesa al regime normativo previsto.

Né convince l'argomento speso dall'Avvocatura dello Stato, che sottolinea come solo alle banche sia consentita la raccolta del risparmio, la cui tutela, assicurata dall'art. 47, primo comma, Cost., spiegherebbe il diverso trattamento loro riservato dalla norma censurata.

Anzitutto, la tesi contamina il percorso logico tracciato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui occorre identificare la ratio sottesa al beneficio onde poi stabilire se sia comune a entrambe le fattispecie messe a confronto. Poiché essa afferisce al profilo dell'erogazione del credito e non a quello della predisposizione della provvista, riferirsi alla raccolta del risparmio come modalità di apprestamento di quest'ultima sarebbe un fuor d'opera, venendo in rilievo solo il momento del finanziamento. È questa la motivazione addotta dalla Corte costituzionale.

Si può aggiungere che, anche a voler seguire l'impostazione dell'Avvocatura, non si potrebbe condividere il presupposto da cui essa muove. Sebbene, ai sensi dell'art. 10 del TUB, l'attività bancaria sia definita dall'endiadi raccolta del risparmio ed esercizio del credito (comma 1), sia riservata alle banche (comma 2) e l'art. 11, comma 2, del TUB vieti a soggetti diversi la raccolta del risparmio tra il pubblico, in realtà dal successivo comma 4 (lettere c e d, nel testo attualmente vigente), nonché dall'art. 107, comma 6, del TUB (nel testo anteriore al D.Lgs. n. 141/2010) si evince che agli intermediari finanziari è assolutamente preclusa soltanto la raccolta di «fondi a vista» (art. 11, comma 5, del TUB) e non anche quella del cosiddetto “risparmio di rischio”, viceversa consentita (si veda al riguardo, in particolare, l'art. 9 della deliberazione del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio del 19 luglio 2005, n. 1058, intitolata «Raccolta del risparmio da parte di soggetti diversi dalle banche»). Poiché l'art. 47, primo comma, Cost. tutela il risparmio «in tutte le sue forme», esso non è utilmente invocabile per giustificare la discriminazione. D'altra parte, la disciplina relativa ai requisiti per l'autorizzazione all'attività di intermediazione finanziaria e alla vigilanza è stata progressivamente resa più penetrante e sostanzialmente uniformata a quella dettata per le banche (si veda al riguardo la circolare Assonime n. 11/2011, cit.) in funzione di una «sana e prudente gestione» degli operatori e della «stabilità complessiva» del sistema finanziario (art. 5, commi 1 e 2, del TUB) a tutela dell'interesse dei risparmiatori ad affidare il loro risparmio in mani sicure.

Sintomatica in tal senso è la direttiva n. 93/22/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari), il cui terz'ultimo considerando evidenzia il «duplice intento di tutelare gli investitori e garantire un buon funzionamento dei mercati».

In dottrina è diffusa l'opinione che la progressiva uniformazione del sistema di controllo su banche e intermediari finanziari si giustifichi alla stregua dell'esigenza di tutelare, oltre al risparmio oggetto dell'intermediazione, la concorrenzialità del mercato e non è mancato chi ha rimarcato come sia quest'ultimo profilo quello più significativo onde assicurare «parità di condizioni concorrenziali» tra banche e intermediari finanziari, che, se non sottoposti alla stessa vigilanza, risulterebbero avvantaggiati in relazione allo svolgimento di attività identiche.

Alla luce dei rilievi che precedono, sembra viepiù condivisibile la conclusione secondo cui banche e intermediari finanziari si presentino in concorrenza a raccogliere il risparmio oltre che a impiegarlo, tanto da esigere una disciplina dell'attività finanziaria sostanzialmente unitaria – così come desumibile dall'art. 5 del TUB, laddove menziona con riferimento a entrambe le categorie di operatori l'esigenza di assicurare «l'efficienza e […] la competitività del sistema finanziario» – di fatto confinando la differenza tra banche e intermediari finanziari che esercitano in credito alla cosiddetta “funzione di cassa”.

L'assunto concorrenziale trova peraltro conforto nella direttiva n. 93/6/CEE (Direttiva del Consiglio relativa all'adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi), il cui nono considerando afferma che «in un mercato comune finanziario gli enti, a prescindere dal fatto che siano imprese di investimento o enti creditizi, sono direttamente concorrenti tra di loro», massimamente nel caso di coincidenza oggettiva dei prodotti offerti, come i finanziamenti a medio e lungo termine.

In tale contesto, la discriminazione realizzata mediante l'esclusività del regime agevolativo a pari configurabilità della ratio che lo supporta, beneficiando le operazioni di finanziamento poste in essere dalle banche e non quelle effettuate dagli intermediari finanziari, rende più appetibile il prodotto offerto dalle prime – non gravato dell'onere fiscale che viceversa i secondi riverserebbero sul cliente – e finisce per distorcere la concorrenza tra le due categorie di operatori in questo specifico settore di mercato.

Risulta così violato non solo l'art. 3 Cost., ma, conseguentemente, anche l'art. 41 Cost. sotto il profilo della libertà di concorrenza, manifestazione della libertà d'iniziativa economica privata (sentenza n. 94/2013).

È ben vero che essa, ai sensi del secondo e del terzo comma dell'art. 41 Cost., «è suscettibile di limitazioni giustificate da ragioni di “utilità sociale” e da “fini sociali” (sentenze n. 46/1963 e n. 97/1969)», ma resta comunque «ferma l'esigenza che l'individuazione delle medesime “non appaia arbitraria” e che le stesse non siano perseguite dal legislatore mediante misure palesemente incongrue» (sentenza n. 94/2013). La necessità che «dette misure siano ragionevoli e non realizzino una ingiustificata disparità di trattamento rende chiara la correlazione, ancora un volta, tra gli artt. 3 e 41 Cost.» (sentenza n. 270/2010).

Alla stregua delle ragioni precedentemente esposte, la mancata applicazione dell'art. 15 del d.P.R. n. 601/1973 agli intermediari finanziari altera la concorrenza senza mirare al soddisfacimento di alcun fine o utilità sociale, risultando così sguarnita di idonea giustificazione e pertanto arbitraria.

Sintetizzando gli argomenti fin qui illustrati, la Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione in riferimento a entrambi i parametri, dichiarando l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non si applica agli intermediari finanziari. Nel farlo non ha operato un richiamo all'art. 106, comma 1, del TUB, ma si è limitata alla loro generica indicazione, in tal modo lasciando aperta la possibilità per l'interprete di stabilire di volta in volta se tale sia il soggetto coinvolto nella fattispecie concreta. È stato così soddisfatto l'auspicio della parte costituita, a cui, in virtù del decreto del Ministero dell'economia e delle finanza del 10 ottobre 2012 adottato ai sensi dell'art. 114, comma 2, del TUB – sopravvenuto rispetto alla fattispecie oggetto del giudizio principale – non si applica più il Titolo V del TUB (dunque, nemmeno l'art. 106), sebbene, come ritenuto dalla Corte dei conti (si veda al riguardo la determinazione della Corte dei conti, sezione del controllo sugli enti, del 16 luglio 2014, n. 60, e la relativa relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell'Agenzia per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa S.p.a. per l'esercizio 2012 – § 7.1 – e la determinazione della Corte dei conti, sezione del controllo sugli enti, del 9 luglio 2015, n. 75, e la relativa relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa S.p.a. per l'esercizio 2013 – § 7.1), l'ente mantenga la natura di intermediario finanziario, anche se sottoposto a diverse – ma equivalenti – forme di vigilanza.

La non praticabilità di una pronuncia interpretativa di rigetto

Giustamente, la Corte costituzionale non si è lasciata tentare da una sentenza interpretativa di rigetto – alternativamente sollecitata dalla parte privata intervenuta – alla stregua della quale intendere la disposizione censurata nel senso che il regime ivi previsto si applicasse anche agli intermediari finanziari. Tale via si sarebbe forse potuta percorrere anche in caso di consolidamento in diritto vivente dell'opzione ermeneutica prescelta dal rimettente, visto che, recentemente, ciò non ha impedito simile pronuncia (Corte Cost. n. 3/2015) e che, comunque, «non sussiste un obbligo […] di conformarsi agli orientamenti della Corte di cassazione (salvo che nel giudizio di rinvio)» (Corte Cost. n. 113/2015) – per cui, non essendovi tenuto il giudice a quo (Corte Cost. n. 191/2016), potrebbe non esservi astretta nemmeno la Corte Costituzionale – «essendo la “vivenza” della norma una vicenda per definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali» (Corte Cost. n. 242/2014).

Tuttavia, la declaratoria di fondatezza della questione, ancorata a un'interpretazione restrittiva della disposizione censurata, è senza dubbio la soluzione più corretta:

  • risulta la più rispettosa del dato testuale (è unanime l'opinione, anche in seno alla giurisprudenza di legittimità nel cui ambito era insorto contrasto, che, da un punto di vista letterale, l'art. 15 del d.P.R. n. 601/1973 si riferisca alle sole «banche»);
  • la stessa Corte Costituzionale, nel caso di inequivocabilità del tenore letterale della disposizione, è orientata nel senso di ritenere preclusa una diversa interpretazione (limitandoci alle pronunce più recenti, Corte cost. n. 241/2016, n. 203/2016, n. 36/2016 e n. 11/2016);
  • la Corte costituzionale qualifica come eccezionali e derogatorie le disposizioni che prevedono benefici fiscali (Corte Cost. n. 177/2017, n. 153/2017, n. 111/2016, n. 103/2012, n. 144/2009, n. 275/2005 e n. 108/1983). Ciò, da un lato, coincide con l'orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità – condiviso dalle sezioni unite rimettenti – e, dall'altro, esclude la possibilità di ricorrere all'analogia per ampliare l'ambito soggettivo di applicazione del beneficio, operazione dalla quale è obbiettivamente difficile distinguere l'interpretazione estensiva intesa come idonea a travalicare il significato letterale della disposizione in nome della sua ratio;
  • d'altra parte, la Corte costituzionale ha negato la possibilità dell'interpretazione estensiva delle disposizioni di esenzione fiscale, derogatorie del principio di capacità contributiva (Corte cost. n. 187/1981 e n. 292/1987), e, di recente, ha affermato l'esigenza di assoggettare a stretta interpretazione disposizioni di carattere eccezionale (Corte Cost. n. 6/2017);
  • tanto considerato, data l'impraticabilità dell'interpretazione che renda la norma conforme a Costituzione, in virtù del noto principio (Corte Cost. n. 113/2015, n. 3/2015, n. 21/2013 e n. 49/2011) è ben possibile dichiararla illegittima;
  • coerentemente con quanto evidenziato ai punti precedenti, la Corte costituzionale, proprio in nome della comunanza di ratio (Corte Cost. n. 177/2017, n. 111/2016, n. 144/2009, n. 27/2001, n. 10/1999, n. 431/1997 e n. 86/1985), ha proceduto all'estensione delle norme che accordano un beneficio tributario – o l'ha prospettata – attraverso una sentenza di accoglimento additivo (Corte cost. n. 6/2014 e n. 86/1985);
  • l'interpretazione restrittiva dell'art. 15 del d.P.R. n. 601/1973 – da cui muove la declaratoria di fondatezza della questione – risulta coerente con il “diritto vivente”;
  • tale opzione ermeneutica rispetta la funzione nomofilattica delle sezioni unite della Corte di cassazione. Viceversa, una sentenza interpretativa di rigetto avrebbe inevitabilmente avallato la posizione giurisprudenziale minoritaria, da esse smentita nella prima parte dell'ordinanza di rimessione, così sovrapponendosi al compito loro spettante e sconfessandone le valutazioni;
  • una pronuncia interpretativa di rigetto, dovendo ammettere l'estensione quantomeno in via ermeneutica del beneficio tributario oltre il dato semantico che lo connota, avrebbe scardinato il principio su cui la Corte di Cassazione appare essersi assestata circa la “stretta interpretazione” da riservare alle disposizioni eccezionali in generale e a quelle sulle agevolazioni fiscali in particolare;
  • infine, l'interpretazione restrittiva alla base di una declaratoria di fondatezza della questione, oltre a esser più rispettosa del principio di certezza del diritto, risulta coerente con l'approccio concretamente manifestato dal legislatore, che, quando l'ha ritenuto, ha esteso espressamente l'ambito soggettivo di applicazione del beneficio in questione, peraltro anche e proprio in un caso (Cassa depositi e prestiti S.p.A.) assimilabile a quello degli intermediari finanziari quanto a disciplina applicabile.
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