Parcheggiare l'auto in modo da impedire al guidatore di altra vettura di uscire dall'abitacolo costituisce violenza privata

Luigi Salciarini
18 Dicembre 2017

A volte non c'è la consapevolezza nell'automobilista che alcuni comportamenti, quanto meno prepotenti, possono rientrare nell'applicazione del diritto penale e comportare anche una formale condanna (nella specie, per violenza privata).

Il fatto sottoposto al vaglio del giudice penale è questo: il conducente di un'autovettura si posizionava col suo mezzo a pochi centimetri dello sportello “lato autista” di altra autovettura, che, a causa della presenza di altri veicoli parcheggiati avanti e dietro, non poteva in alcun modo essere spostata, in tal modo costringendo il relativo guidatore a scendere dal proprio mezzo dal “lato passeggero”.

La Suprema Corte è stata investita della valutazione della condanna inflitta (sia in primo, sia in secondo grado) a tale incauto conducente ritenuto colpevole del reato previsto dall'art. 610 c.p. che si verifica quando «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa…».

I giudici ermellini hanno confermato la condanna precisando che il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione e che nel caso di specie, non rileva che la persona offesa sia stata comunque in grado di scendere dall'autovettura, essendosi comunque con tale condotta pesantemente condizionata la sua libertà di autodeterminazione e di movimento.

Va ricordato che la S.C. si era già espressa nel passato relativamente a casi simili, peraltro svoltisi all'interno di un condominio, come è avvenuto nel 2006 quando ha ritenuto che dovesse integrare la violenza normativamente prevista il comportamento di colui che mantiene il proprio veicolo - già parcheggiato irregolarmente in un'area condominiale alla quale non aveva il diritto di accedere - in modo tale da impedire ad altri di transitare con il proprio veicolo per uscire sulla pubblica via, rifiutando reiteratamente di liberare l'accesso (Cass. pen., sez. V, 20 aprile 2006, n. 16571).

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