Infezione nosocomiale e ammissione della prova testimoniale di soggetti estranei al giudizio
19 Dicembre 2017
In merito ad una infezione nosocomiale, dopo l'espletamento della CTU, il giudice ha ammesso la prova testimoniale del dirigente sanitario della struttura, dei medici e degli infermieri. È ammissibile tale prova testimoniale, nonostante la controparte abbia eccepito l'incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. degli stessi in quanto potrebbero essere convenuti in giudizio come possibili responsabili della diffusione dell'infezione?
Trattandosi di infezione ospedaliera, va accertato il momento e lo specifico contesto e settore (nell'ambito dell'ospedale) nel quale l'infezione è insorta, ragione per cui il nosocomio ha l'onere di fornire la prova seria e rigorosa di avere fatto tutto il possibile per evitare l'insorgenza dell'infezione stessa, vale a dire di provare di avere posto in essere ogni cautela e precauzione, funzionale, strutturale e di metodo, al fine di realizzare e mantenere costante un'ottimale sanificazione della struttura, dei locali, degli ambienti, dei mezzi e del personale addetto. Sulla struttura convenuta grava quindi l'onere di provare quali siano state in concreto le misure utili e necessarie poste in essere dall'Istituto per una efficace e consapevole opera di sanificazione (che implica, da parte del management ospedaliero a ciò deputato, ad esempio del Comitato per le I. O., del Risk Manager, etc., l'adozione di tutta una serie di attenzioni e misure organizzative, effettive e non meramente burocratiche, la predisposizione di percorsi di formazione del personale a vario titolo operante nella struttura diretti alla conoscenza delle problematiche e delle condotte virtuose) al fine di evitare la contaminazione dei pazienti ad opera dei batteri cd. nosocomiali. Al riguardo è opportuno osservare che il rispetto delle norme in materia di tutela contro il rischio di contrazione di infezioni non riguarda solo i pazienti ma anche il personale che lavora nella struttura sanitaria. In altri termini, la convenuta deve fornire la prova che l'evento dannoso (contagio da batterio nosocomiale) non era nella fattispecie concreta prevenibile, rientrando in quella percentuale di casi che la scienza medica ha enucleato come eventi che possono sfuggire ai controlli di sicurezza apprestabili e di fatto apprestati dalla struttura sanitaria. Qual è il modo di adempiere a tale prova? Quello di dimostrare di avere fatto tutto quanto la scienza del settore ha finora escogitato per evitare o quanto meno ridurre al massimo il rischio di contaminazione. Vale a dire la prova che siano stati attuati specifici protocolli diretti all'applicazione, monitoraggio, aggiornamento e verifica dei risultati delle pratiche dirette ad evitare o contenere le infezioni nosocomiali; che sia stato istituito un comitato o gruppo di lavoro a ciò deputato, e che sia rappresentato come abbia operato e quali siano state le iniziative intraprese. Il tutto al fine di pervenire ad una ragionevole e motivata valutazione sulla sussistenza di profili di colpa a carico del nosocomio, ovvero per escluderlo, mediante l'affermazione che avendo adempiuto il nosocomio a quanto era possibile ed esigibile allo stato dell'arte, l'evento dannoso infezione andrebbe ascritto nel novero delle complicanze imprevedibili ed inevitabili collegate alla presenza della paziente nel nosocomio.
L'ammissione della prova testimoniale a mezzo del dirigente sanitario della struttura, dei medici e degli infermieri per dimostrare il rispetto e l'osservanza di quanto sopra evidenziato, è in linea con l'orientamento formatosi in materia, atteso che l'incapacità a deporre prevista dall'art. 246 c.p.c., si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., sì da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione, non avendo invece rilevanza nè l'interesse di fatto a un determinato esito del giudizio stesso, nè un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio (Cass. civ., sez. II, 23 luglio 2015, n. 15537). La sussistenza del suddetto interesse va puntualmente allegata da colui che solleva l'eccezione ex art. 246 c.p.c.. Infatti, la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull'attendibilità del teste, operando su piani diversi, atteso che l'una, ai sensi dell'art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza di un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva e di carattere soggettivo, come ad esempio, la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite (Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2015, n. 19215; Cass. civ., sez. III, 30 marzo 2010, n. 7763).
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