Decreto di rigetto dell'omologa del piano del consumatore emesso in sede di reclamo: è ricorribile in Cassazione?
28 Dicembre 2017
Massima
Il decreto emesso a seguito del reclamo avverso il provvedimento di omologazione del piano del consumatore di cui agli artt. 6, 7, comma 1-bis, e 8 della legge n. 3/2012, è privo dei caratteri della decisorietà e definitività, sicché non è ricorribile per cassazione, non precludendo al debitore la possibilità di presentare un'altra proposta di accordo nei limiti temporali indicati dalla legge. Il caso
Tizio proponeva ricorso per cassazione avverso il decreto con il quale il Tribunale di Napoli, accogliendo il reclamo proposto da Caio, aveva annullato il provvedimento di omologazione del piano del consumatore presentato ai sensi della l. n. 3/2012. La questione
La questione in esame è la seguente: è ricorribile per cassazione il decreto, emesso dal tribunale in sede di reclamo, con il quale sia stato revocato il provvedimento che aveva in precedenza omologato il piano del consumatore? Le soluzioni giuridiche
La disposizione contenuta nell'art. 739, ultimo comma, c.p.c. viene comunemente intesa nel senso che avverso i decreti pronunciati in camera di consiglio dalla Corte d'appello, in sede di reclamo, come pure avverso i decreti del tribunale resi su reclamo, non è esperibile ricorso per cassazione (cfr. Cass. civ., 11 giugno 1997, n. 5228, GC, I, 3073). Secondo parte della dottrina (Redenti, Diritto Processuale civile, Giuffrè, III, 360) la disposizione riguarda solo i decreti, sicché le sentenze camerali sono ricorribili ai sensi dell'art. 360 c.p.c. quale che ne sia la natura. La giurisprudenza, però, con orientamento da lungo tempo consolidato, ritiene che l'art. 111, comma 7, Cost. postuli una nozione “sostanziale” e non meramente formale di sentenza, quale provvedimento giudiziale decisorio su diritti soggettivi o status, ed afferma, di conseguenza, che è ammesso il ricorso per cassazione (cd. “straordinario”), ai sensi di detta norma costituzionale, contro tutti i provvedimenti, emessi da un giudice, i quali abbiano i seguenti requisiti: a) contenuto decisorio, perché diretti a risolvere una controversia su contrapposte posizioni di diritto soggettivo o status; b) carattere definitivo, perché non suscettibili di alcun riesame da parte dello stesso o di altro giudice. In presenza di tali requisiti il provvedimento, quale che ne sia la forma, è idoneo ad acquistare l'incontrovertibilità propria del giudicato, per cui non può escludersi, senza violare il precetto costituzionale, che la parte, che si ritenga lesa, abbia la facoltà di avvalersi della garanzia del giudizio di legittimità in Cassazione, senza del quale essa sarebbe irreparabilmente pregiudicata (cfr. ex plurimis Cass. civ., sent., 22 aprile 2013, n. 9671). Nel quadro di tale indirizzo, la distinzione tra procedimenti camerali contenziosi e non contenziosi si presenta rilevante sotto un rimarchevole profilo: i primi, mirando alla soluzione di conflitti su diritti soggettivi, possono sfociare in provvedimenti che, nel concorso degli anzidetti requisiti, sono idonei al giudicato e, come tali, indipendentemente dalla loro forma esteriore, vanno qualificati sentenze in senso sostanziale, impugnabili per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.; i secondi, vertendo sulla gestione di meri interessi, anche quando vengono ad incidere su situazioni di diritto soggettivo o status, mettono capo a provvedimenti che non contengono una statuizione definitiva, non sono in grado di pregiudicare irreparabilmente le situazioni coinvolte e, quindi, non sono passibili di ricorso per cassazione (cfr. ex plurimis Cass. civ., Sez. Un., sent., 23 ottobre 1986, n. 6220). Alla stregua degli indicati parametri, la Cassazione non esita ad ammettere il ricorso ogni qualvolta il provvedimento camerale sia diretto precipuamente ad attribuire o negare un “bene della vita” ad un soggetto in confronto di un altro, così che esso intervenga ad accertare o costituire diritti soggettivi in situazioni di conflitto, anche solo potenziale, specie su questioni di natura patrimoniale, come in caso di provvedimenti su reclami avverso decreti decisori del giudice delegato ai fallimenti (si pensi alle decisioni sui piani di riparto: cfr. Cass. civ., sent., 22 febbraio 1996, n. 1401, in Fall. 655; alle liquidazioni di compensi ad incaricati, ecc.). Osservazioni
Proprio muovendo da tale distinzione (quella cioè tra procedimenti camerali contenziosi e non contenziosi), la Suprema Corte, nella pronuncia in commento, è giunta ad escludere la ricorribilità in Cassazione del decreto di rigetto della omologa del piano del consumatore emesso dal Tribunale in sede di reclamo. In particolare, i Giudici di Piazza Cavour, al fine di escludere la natura contenziosa del provvedimento impugnato, interpretano la norma di cui all'art. 7, comma 2, lett. b) l. n. 3/2012 – che consente al debitore in stato di sovraindebitamento di presentare la proposta a condizione che egli non abbia «fatto ricorso, nei precedenti cinque anni, ai procedimenti di cui al presente capo» – nel senso, sicuramente condivisibile, di effettiva fruizione dell'istituto e dei suoi effetti esdebitatori (il che, evidentemente, non è allorquando il piano non sia omologato ovvero sia stato caducato, come nella specie, in sede di reclamo). Tale impostazione si pone, del resto, in sintonia con i precedenti della giurisprudenza di legittimità e di merito (cfr. Cass. civ., 1 febbraio 2016, n. 1869; nello stesso senso Trib. Cagliari, 11 maggio 2016). In effetti, un procedimento che si chiude già nella fase dell'ammissibilità non è certo idoneo a favorire gli intenti dilatori e di deresponsabilizzazione del debitore perché in tal caso nessuno degli effetti previsti dalla legge (di sospensione o inibitoria all'esecuzione individuale, e tantomeno esdebitatorio) possono darsi. Nel senso qui proposto va l'art. 9 della legge delega cd. “Rordorf” (l. 19 ottobre 2017, n. 155 recante “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza”), il quale preclude nei cinque anni l'accesso alle procedure di sovraindebitamento, solo se entro tale spazio temporale il debitore abbia già beneficiato dell'esdebitazione, il che presuppone, appunto, una procedura che abbia avuto buon esito. Pacifico appare, invece, che il divieto si applichi alla possibilità di ripresentare la stessa tipologia di composizione della crisi nel termine di cui all'art. 7, comma 2, lett. b), l. n. 3/2012 anche a fronte di una semplice declaratoria di inammissibilità (cfr. Cass. civ., 1 febbraio 2016, n. 1869 cit.; in senso contrario Trib. Prato, 28 settembre 2016). Qui in effetti il vaglio dei requisiti di ammissibilità - che appunto coincidono - risulta già essere stato effettuato, ma forse uno spazio potrebbe sussistere in caso di radicale mutamento delle circostanze, com'è tipico dei procedimenti di volontaria giurisdizione e in generale di quelli emessi rebus sic stanti bus. È da segnalare che, nonostante l'identità della natura del procedimento (sempre camerale), le Sezioni Unite hanno invece affermato la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso il decreto, emesso dalla Corte d'appello, nell'ambito del procedimento di omologa degli accordi di ristrutturazione, sul presupposto, in tal caso, del carattere decisorio dello stesso (Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 27 dicembre 2016, in www.ilFallimentarista.it) il che, tuttavia, mal si concilia con la possibilità, per il debitore, di ripresentare, senza alcun vincolo temporale, un accordo di ristrutturazione non omologato.
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