Rapporto tra accertamento con adesione della S.r.l. ed accertamento emesso nei confronti del socio

Elisa Manoni
28 Dicembre 2017

Sono socio di una S.r.l. a ristretta base sociale a cui era stato notificato un avviso di accertamento con il quale, in sede di accertamento con adesione, è stata rideterminata la pretesa. Successivamente alla definizione al Sottoscritto, in qualità di socio, è stato notificato avviso di accertamento basato sulla presunzione di distribuzione di utili extracontabili. Avuta considerazione di ciò, mi chiedo se, stante l'intervenuta definizione della pretesa da parte della S.r.l., posso procedere a contestare l'avviso di accertamento elevato nei miei confronti.

Sono socio di una S.r.l. a ristretta base sociale a cui era stato notificato un avviso di accertamento con il quale, in sede di accertamento con adesione, è stata rideterminata la pretesa. Successivamente alla definizione al Sottoscritto, in qualità di socio, è stato notificato avviso di accertamento basato sulla presunzione di distribuzione di utili extracontabili. Avuta considerazione di ciò, mi chiedo se, stante l'intervenuta definizione della pretesa da parte della S.r.l., posso procedere a contestare l'avviso di accertamento elevato nei miei confronti.

Al fine di fornire una risposta al quesito in esame occorre prendere le mosse dalla decisione n. 441 del 10 gennaio 2013 resa dalla Suprema Corte.

Nella fattispecie sottoposta all'esame della Cassazione, l'Agenzia delle Entrate aveva notificato un avviso di accertamento ad una s.r.l., con il quale aveva rettificato il suo reddito, sulla base delle percentuali medie di ricarico. Successivamente, l'Ufficio avevano accertato anche la posizione fiscale del socio unico della s.r.l., “ribaltando” su questi il maggior reddito imputato alla società in forza della sopra illustrata presunzione di distribuzione. Dopo che l'atto impositivo nei confronti della società era ormai divenuto definitivo per decorrenza dei termini di impugnazione, il socio unico proponeva ricorso avverso l'avviso di accertamento a lui notificato.

La Suprema Corte ha affermato che il ricorso avverso l'atto impositivo notificato al socio di una società a ristretta compagine sociale è pregiudicato dall'esito dell'accertamento con cui l'Amministrazione finanziaria ha determinato il maggior reddito in capo alla società, per poi “ribaltarlo” pro quota sul socio. Pertanto, se l'atto impositivo notificato all'ente societario è divenuto definitivo per mancata impugnazione, il socio non può sollevare eccezioni sul merito della pretesa avanzata.

La lettura di questa passaggio argomentativo non sembrerebbe codivisbile sotto il profilo processuale.

Il fatto che l'avviso di accertamento della società sia divenuto definitivo, in quanto, nello specifico caso oggetto della sentenza, non impugnato nei termini dal curatore fallimentare, comporta che lo stesso sia incontrovertibile per la società destinataria, la quale non può più sperare di poter porre in discussione dinanzi a un giudice le ragioni che stanno alla base dello stesso, né di poter far annullare il debito tributario dallo stesso atto recato e in esso, oramai, definitivamente cristallizzato.

Tuttavia, nel giudizio instaurato dal socio, con l'impugnazione dell'atto di accertamento emesso nei suoi confronti, il ricorrente è, appunto, il socio e la materia del contendere è costituita dal predetto atto impositivo, che accerta un maggior reddito personale dello stesso sulla base di due circostanze:

  • che la società abbia prodotto un maggior utile rispetto a quello dichiarato, il c.d. utile occulto, che risulta dall'avviso di accertamento notificato alla stessa;
  • che tale utile occulto sia stato distribuito occultamente ai soci, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione nella società.

Orbene, è del tutto evidente che il socio è soggetto totalmente distinto dalla società di capitali previamente accertata e che egli ha il pieno diritto contestare i presupposti del proprio, successivo atto di accertamento, e ciò, principalmente, per due ragioni.

La prima è rinvenibile nel principio generale secondo cui il destinatario di ogni atto di accertamento ha il diritto di contestare i presupposti fattuali e giuridici alla base della pretesa fiscale rivolta nei suoi confronti, tra i quali nella fattispecie in esame figurano, senza dubbio, l'asserito maggiore utile “in nero” accertato alla società, distribuito al socio e le circostanze che lo giustificherebbero.

La seconda ragione è che la definitività di un atto impositivo non può mai essere opposta ad un soggetto al quale l'Amministrazione finanziaria non abbia notificato l'atto stesso (in questo caso, quindi, l'avviso di accertamento emesso nei confronti della S.r.l).

E ciò è tanto più vero se si considera che per le società di capitali, comprese quelle a ristretta base proprietaria, non ricorre l'ipotesi di litisconsorzio necessario (affermato per le sole società di persone; Cass. civ., Sezioni Unite, sentenza n. 14815 del 4 giugno 2008) e, dunque, il socio non è legittimato ad impugnare l'avviso di accertamento della società: l'unico soggetto legittimato a farlo è, infatti, la stessa società destinataria ed il socio non può vedersi preclusa in radice ogni difesa se la società non impugna il predetto avviso facendolo diventare definitivo.

Il socio si limita, infatti, a contestare legittimamente nel suo presupposto fondativo il proprio maggior reddito, che sarebbe costituito da una parte dell'utile occulto accertato alla società: questa pretesa sussistenza di un utile in nero, da cui scaturisce il dividendo occulto contestato al socio costituisce, dunque, materia del giudizio relativo all'atto di accertamento notificato ad esso ed è contestabile in ogni sua parte ai sensi dell'art. 24 Cost. (c.d. litisconsorzio successivo; in tal senso, CTR Roma, 29 settembre 2010, n. 574; CTR Ancona, 6 marzo 2009, n. 111).

Pertanto, qualora l'accertamento divenga definitivo perché non impugnato o perché su di esso sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all'Amministrazione Finanziaria, al socio non è precluso instaurare giudizio avverso l'avviso con cui l'Ufficio contesti l'attribuzione di utili extracontabili.

Tale conclusione non muta nel caso in cui la società abbia definito la propria posizione in sede di adesione: ai sensi dell'art. 2, comma 3, D.Lgs. n. 218/1997, “l'accertamento definito con adesione non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile o modificabile da parte dell'Ufficio”.

Sul punto, si rinvia alla pronuncia del 18 aprile 2013, n. 17706 della Corte di Cassazione, sezione penale, la quale ha statuito che l'accordo posto in essere tra contribuente ed Erario non è, di per sé, idoneo a fungere da prova ai fini della determinazione del quantum di imposta evasa, né come elemento di valutazione della punibilità del debitore. Esso rileva esclusivamente ai fini dell'applicazione di un'attenuante speciale. Per determinare l'entità complessiva dell'imposta dovuta, infatti, il giudice dovrà utilizzare gli ordinari strumenti processuali a disposizione sua e delle parti. Ne deriva che, ferma restando la totale autonomia fra ente partecipato e socio a responsabilità limitata, quanto definito in adesione dalla società non può rappresentare, in alcun modo, l'esatta quantificazione di un maggior reddito percepito dal socio né, a maggior ragione, l'adesione postula la “colpevolezza” del socio.

Sulla base delle considerazioni svolte, il Lettore potrebbe, quindi, impugnare l'avviso di accertamento che gli è stato notificato in quanto socio facendo valere l'illegittimità dello stesso perché basato su una presunzione (quella della ristretta base sociale) che non è grave, precisa e concordante, con conseguente violazione, da parte dell'Amministrazione Finanziaria, del proprio onere probatorio ai sensi dell'art. 2697 c.c.

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