Equo compenso … e "senso della misura"

29 Dicembre 2017

La legge n. 172/2017 ha introdotto l'art. 13-bis, che disciplina l'equo compenso e le clausole vessatorie nell'impianto normativo concernente il nuovo ordinamento professionale per avvocati, vale a dire la legge n. 247/2012.
Inquadramento

La legge n. 172/2017 ha introdotto l'art. 13-bis, nell'impianto normativo concernente il nuovo ordinamento professionale per avvocati, vale a dire la legge n. 247/2012.

Tale disposizione peraltro ha già registrato alcune modifiche a seguito dell'approvazione, da parte del Senato della Repubblica, della cosiddetta “legge di bilancio 2018”.

Si tratta, senza dubbio, di un intervento significativo: l'art. 13-bis sopra indicato disciplina, infatti, l'equo compenso e le clausole vessatorie.

Come vedremo il legislatore nell'approvare tale disposizione ha disatteso, fortunatamente, le considerazioni del 24 novembre 2017 dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato: considerazioni quest'ultime che, in buona sostanza, ritenevano la disposizione sull'equo compenso in contrasto con consolidati principi posti a tutela della concorrenza.

Non solo, sempre secondo le considerazioni del 24 novembre 2017, con l'equo compenso si verrebbe a determinare un'ingiustificata inversione di tendenza rispetto all'importante e impegnativo processo di liberalizzazione delle professioni in atto da oltre un decennio, a favore del quale l'Autorità Garante si è costantemente pronunciata.

A parere di chi scrive tuttavia le preoccupazioni dell'Autorità non sono condivisibili, non solo e non tanto perché la nuova norma introdotta pochi giorni orsono non lede la concorrenza per i motivi che analizzeremo poco oltre, ma anche perché, finalmente, viene valorizzato appieno il principio contenuto nell'art. 2233, comma 2, c.c., in forza del quale nelle professioni intellettuali la misura del compenso deve essere in ogni caso adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione.

Quando il compenso è equo

L'art. 13-bis, comma 2, così come modificato dalla legge di bilancio 2018, stabilisce che il compenso si considera equo allorquando risulti «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale e conforme ai parametri previsti per la determinazione dei compensi» (Com'è noto sono attualmente in vigore i parametri previsti dal d.m. n. 55/2014,

anche se è attualmente all'esame del Consiglio di Stato per il parere la nuova proposta di d.m. che apporterà qualche modifica al sistema parametrico introducendo, peraltro, una nuova tabella in materia di mediazione e procedura di negoziazione assistita).

Ne consegue quindi che il compenso è da considerarsi giusto (nel senso biunivoco del termine e cioè tanto per il professionista, quanto per il committente) quando risulta essere proporzionato rispetto a quattro indici di riferimento, due dei quali riferibili al lavoro svolto ed altri due alla prestazione, e precisamente:

- quantità del lavoro svolto;

- qualità del lavoro svolto;

- contenuto della prestazione legale;

- caratteristiche della prestazione legale.

Sembrerebbe, a chi scrive, che il legislatore abbia tenuto conto di quanto già indicato nell'art. 4, comma 1, e nell'art. 19, del d.m. n. 55/2014, sia pur semplificando e riducendo i criteri di riferimento non foss'altro perché, come vedremo, l'equo compenso si applica alle convenzioni.

L'art. 4 e l'art. 19 indicavano infatti, rispettivamente, i criteri di riferimento per la liquidazione del compenso dell'avvocato nell'attività giudiziale (art. 4) ed in quella stragiudiziale (art. 19).

Dette norme, pur applicabili in contesti diversi, proprio perché non riferibili ad accordi ma all'attività di liquidazione del compenso da parte del Giudice, contenevano numerosi indici di riferimento e valutazione delle attività svolte (si pensi, ad esempio, alle caratteristiche, al pregio dell'attività prestata, all'importanza, alla difficoltà della prestazione e anche alla quantità del lavoro svolto), i più significativi dei quali sono stati ripresi dalla norma in commento.

Casi di applicazione dell'equo compenso: convenzioni unilaterali predisposte da grandi imprese

L'art. 13-bis, comma 1, stabilisce i casi in cui la nuova previsione trova concreta applicazione.

Più precisamente l'equo compenso è applicabile ai rapporti professionali intercorrenti tra avvocati iscritti all'albo e imprese bancarie e assicurative, nonché imprese non rientranti nella categoria delle microimprese o delle piccole e medie imprese, quando il rapporto sia regolato da convenzioni con riferimento ai soli casi in cui queste ultime sono unilateralmente predisposte dalle predette imprese.

Ne consegue che la disciplina dell'equo compenso non potrà trovare applicazione nel caso in cui la convenzione venga redatta a seguito di una determinazione consensuale tra avvocato e committente anche se - come vedremo - è prevista una presunzione, relativa, di unilateralità.

La distinzione tra convenzione consensuale e convenzione unilaterale è estremamente importante ai fini della corretta applicazione della norma.

Non è scandaloso affermare infatti che di fronte alle cosiddette ‘grandi imprese' il contraente cosiddetto ‘debole' sia il professionista, nel caso di specie l'avvocato.

È oltretutto vero che già il codice civile, nel caso di predisposizione unilaterale del contenuto del contratto ad opera di una delle due parti, ha previsto una forma di tutela in forza delle disposizioni contenute negli artt. 1341 e 1342 c.c., ma è vero altresì che la medesima non appare, al giorno d'oggi, più di tanto efficace posto che si limita a prescrivere un requisito formale (quello dell'approvazione specifica, per iscritto, delle clausole cosiddette ‘vessatorie') tutto sommato semplice, per il contraente forte, da imporre all'altra parte.

Non è quindi un caso che si siano registrati numerosi interventi del legislatore volti a rafforzare la tutela del contraente debole, come ad esempio nel caso del consumatore.

Prova ne sia che già da oltre 10 anni il materiale via via accumulatosi è stato raccolto nel cosiddetto “Codice del consumo”, vale a dire il d.lgs. n. 206/2005, che peraltro ha subito già varie modifiche ed integrazioni, anche in virtù del necessario recepimento di alcune Direttive dell'Unione Europea.

Nell'ambito del “Codice del consumo” il professionista (inteso anche come lavoratore intellettuale) è considerato contraente forte nei confronti del proprio committente laddove quest'ultimo sia persona fisica: parrebbe pacifico, infatti, che una società, ma anche un Ente senza scopo di lucro, non possano godere delle tutele previste a favore del consumatore.

Sulla scorta di tale principio e cioè sulla necessità di riequilibrare il rapporto contrattuale tra soggetti che non possono considerarsi, per struttura e caratteristiche, di identica forza contrattuale, appare ragionevole, con buona pace dell'Autorità Garante, che il legislatore abbia scelto di tutelare l'avvocato, nei limiti e con le caratteristiche sopra indicate, allorquando sia contraente (debole) recettizio di convenzioni unilaterali predisposte da grandi imprese.

La presunzione di unilateralità della convenzione

Occorre precisare, sempre per definire correttamente l'ambito di applicazione dell'equo compenso, che le convenzioni di cui trattasi, a norma dell'art. 13-bis, comma 3, si presumono unilaterali salva la prova contraria: siamo quindi in presenza di una presunzione cosiddetta ‘legale'.

Com'è noto queste ultime possono dividersi in due gruppi: quelle assolute che non ammettono prova contraria e quelle relative che, invece, ammettono la prova contraria.

La disposizione è estremamente agevole da interpretare sotto questo profilo: siamo in presenza, senza dubbio, di una presunzione semplice. Ciò significa che la prova contraria circa il requisito dell'unilateralità della convenzione potrà essere fornita facendo ricorso a qualsiasi mezzo probatorio. Non sussiste, infatti, sotto questo profilo, nessuna limitazione del mezzo di prova utilizzabile ovvero all'oggetto di prova contraria.

Anche questa specifica previsione appare, in buona sostanza, dettata da criteri di giustizia e di ragionevolezza: si presume, nell'interesse dell'avvocato, che la convenzione sia unilaterale, ma d'altra parte alla grande impresa è consentito, con libertà di prova, di dimostrare il contrario.

Le clausole vessatorie di carattere generale e l'evidente squilibrio contrattuale a danno della parte debole

Il più volte citato art. 13-bis detta, ai commi 4 e 5, significative disposizioni in tema di clausole vessatorie.

Innanzitutto occorre precisare che sono considerate (comma 4) vessatorie le clausole contenute nelle convenzioni unilaterali tra grandi imprese e avvocato che determinano, anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista.

Anche questa disposizione pare, a chi scrive, assai chiara: tutto ciò che può portare ad uno squilibrio contrattuale deve ritenersi avere natura vessatoria anche con riferimento alla non equità del compenso e quindi alla sua determinazione secondo criteri non giusti.

Per clausole vessatorie, con riferimento ovviamente a quelle di carattere generale che valgono cioè tout court in materia contrattuale e che comunque potrebbero applicarsi per quanto non previsto stante il disposto del comma 11, debbono intendersi quelle indicate nel già richiamato art. 1341, comma 2, c.c. e più precisamente quelle che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte:

- limitazioni di responsabilità;

- facoltà di recedere dal contratto;

- facoltà di sospenderne l'esecuzione.

Ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente:

- decadenze;

- limitazione alla facoltà di opporre eccezioni;

- restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi;

- tacita proroga o rinnovazione del contratto;

- clausole compromissorie;

- deroghe alla competenza dell'Autorità Giudiziaria.

La giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione ha affermato, in più occasioni, che la specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie deve essere separata e autonoma rispetto a quelle delle altre.

Ciò per l'evidente motivo che solo attraverso la enucleazione della clausola viene ad essere adeguatamente richiamata sulla medesima l'attenzione del contraente debole.

Ne consegue che laddove le condizioni generali del contratto, oppure una parte considerevole di esse, ivi comprese le clausole vessatorie, vengano sottoposte ad una indiscriminata sottoscrizione da parte del contraente debole, non si può ritenere che sia garantita l'attenzione di quest'ultimo verso le disposizioni a lui sfavorevoli (cfr., per tutte, Cass. civ., sez. VI, 13 novembre 2014, n. 24193).

Se quanto sopra vale per le clausole vessatorie in generale, per l'equo compenso si deve tener conto che il già citato comma 5 prevede specifiche clausole vessatorie laddove ricorrano determinate situazioni e sempre che la clausola non sia stata oggetto di trattativa e approvazione.

Tanto è attento il legislatore ad evitare una possibile elusione della suddetta disposizione, che, si vedrà poco oltre, prevede addirittura l'applicabilità di idonei principi (di natura valutativa) in tema di prova della trattativa ed approvazione.

Specifiche clausole vessatorie previste in tema di equo compenso

Il comma 5 della norma in commento sopra richiamato prevede (dalle lettere a fino ad i) specifiche clausole vessatorie per l'equo compenso (da considerarsi quindi in via esclusiva nei casi di applicabilità della disciplina di cui trattasi, salvo il rinvio per quanto non previsto alle disposizioni del codice civile) che consistono:

a) nella riserva al cliente della facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto;

b) nell'attribuzione al cliente della facoltà di rifiutare la stipulazione in forma scritta degli elementi essenziali del contratto;

c) nell'attribuzione al cliente della facoltà di pretendere prestazioni aggiuntive che l'avvocato deve eseguire a titolo gratuito;

d) nell'anticipazione delle spese della controversia a carico dell'avvocato;

e) nella previsione di clausole che impongono all'avvocato la rinuncia al rimborso delle spese direttamente connesse alla prestazione dell'attività professionale oggetto della convenzione;

f) nella previsione di termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data di ricevimento da parte del cliente della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente;

g) nella previsione che, in ipotesi di liquidazione delle spese di lite in favore del cliente, all'avvocato sia riconosciuto solo il minore importo previsto nella convenzione, anche nel caso in cui le spese liquidate siano state interamente o parzialmente corrisposte o recuperate dalla parte;

h) nella previsione che, in ipotesi di nuova convenzione sostitutiva di altra precedentemente stipulata con il medesimo cliente, la nuova disciplina sui compensi si applichi, se comporta compensi inferiori a quelli previsti nella precedente convenzione, anche agli incarichi pendenti o, comunque, non ancora definiti o fatturati;

i) nella previsione che il compenso pattuito per l'assistenza e la consulenza in materia contrattuale spetti soltanto in caso di sottoscrizione del contratto.

Con la legge di bilancio 2018 sopra richiamata il legislatore, con riferimento alle suddette clausole, ha soppresso l'inciso salvo che siano state oggetto di specifica trattativa e approvazione.

Ne consegue che tutte le clausole richiamate siano da considerarsi ontologicamente caratterizzate da uno squilibrio che giova alla grande impresa e che è quindi, conseguentemente, a carico del difensore.

La maggior parte della clausole, peraltro, praticamente tutte ad eccezione di quella prevista alla lett. f), sono considerate così severe nei confronti dell'avvocato tanto che con le modifiche introdotte dalla legge di bilancio 2018 si ribadisce il loro carattere vessatorio in virtù della modifica apportata al comma 6 dell'articolo di cui trattasi.

Il legislatore si riferisce, con riguardo specifico a queste clausole di contenuto vessatorio, per così dire, rafforzato e ribadito:

- alla riserva del cliente della facoltà di modificare, sempre unilateralmente, le condizioni del contratto:

- all'attribuzione al cliente della facoltà di rifiutare la stipula in forma scritta;

- all'attribuzione della facoltà di pretendere prestazioni aggiuntive che l'avvocato deve eseguire a titolo gratuito;

- all'anticipazione delle spese di controversia a carico dell'avvocato;

- alla previsione di clausole che impongono all'avvocato alla rinuncia del rimborso spese;

- alla previsione che in ipotesi di liquidazione delle spese di lite in favore del cliente all'avvocato sia riconosciuto solo il minor importo previsto dalla convenzione;

- alla previsione che nel caso di nuova convenzione la nuova disciplina sui compensi si applichi, se comporta valori inferiori a quelli previsti nella precedente convenzione, anche agli incarichi pendenti o comunque non definiti o fatturati;

- alla previsione che il compenso pattuito per l'assistenza e consulenza spetti solo in caso di sottoscrizione del contratto.

Potremmo quindi supporre che il legislatore stesso si sia orientato, con la disposizione di cui sopra, a considerare la quasi totalità delle clausole vessatorie più inique di quella prevista alla lett. f).

La prova della trattativa in tema di clausole vessatorie

Come già anticipato in precedenza, il comma 7 della norma in commento si occupa del profilo probatorio con riferimento alla trattativa e all'approvazione delle clausole vessatorie, di natura specifica, analizzate in precedenza e previste al comma 5, anch'esso già richiamato.

Orbene, il legislatore ha ritenuto di precisare che non costituiscono prova della specifica trattativa ed approvazione delle clausole vessatorie di cui al comma 5 quelle dichiarazioni, contenute nelle convenzioni, che attestino genericamente l'avvenuto svolgimento delle trattative.

In altre parole, nel caso in cui non venga specificata l'indicazione della modalità con le quali sia la trattativa, sia l'approvazione, siano state svolte, il generico richiamo ad un accordo sulle medesime non ha alcun valore probatorio.

Pare quindi di poter dire che il legislatore vuole che le parti diano conto, in maniera puntuale, di come si sia arrivati a formare il consenso sulle clausole.

Laddove vi sia la prova che l'avvocato abbia partecipato effettivamente ed in concreto alla trattativa ed abbia approvato la clausola, ovverosia abbia consensualmente accettato la portata di quest'ultima, si potrà ritenere sussistente e quindi valida la clausola stessa: in caso contrario, cioè in assenza di una partecipazione effettiva alla trattativa e all'accordo, si dovrà diversamente giudicare.

È appena il caso di ricordare che, come visto poc'anzi, alcune clausole vessatorie specifiche sono ritenute, a prescindere dal fatto che siano state oggetto di trattativa ed accordo, idonee a produrre una condizione di iniquità tra le parti.

Nullità della clausola e validità residua del contratto

Le clausole vessatorie sono, ai sensi del comma 8, nulle.

La nullità, sempre secondo tale disposizione, opera solo ed esclusivamente a vantaggio dell'avvocato.

La norma prevede che il contratto (cioè la convenzione unilaterale) rimane valido per quanto attiene al resto delle disposizioni.

Interessante notare che, prima della riforma operata dalla legge di bilancio 2018, l'azione diretta alla dichiarazione di nullità di una o più clausole doveva essere proposta (comma 9), a pena di decadenza, entro 24 mesi dalla data di sottoscrizione delle convenzioni medesime.

Il legislatore ha soppresso tutto il comma 9.

Ne consegue che l'azione di nullità dovrà, pertanto, ritenersi imprescrittibile in virtù di quanto previsto dall'art. 1422 del codice civile.

Tale caratteristica coglie, senz'altro, la differenza più significativa rispetto all'azione cosiddetta ‘di annullamento' che invece si prescrive sempre in 5 anni stante il disposto dell'art. 1442, comma 1, del codice civile.

Se quindi l'intervento della legge di bilancio sulle clausole vessatorie poteva forse essere più organico, pare a chi scrive che quello concernente la soppressione, in toto, del comma 9, sia senz'altro da ritenersi opportuno proprio perché corregge un'evidente anomalia: quella di prevedere un'azione di nullità con decadenza biennale.

Accertamento della non equità e rideterminazione del compenso

Laddove l'Autorità Giudiziaria, in merito all'azione diretta ad ottenere la nullità di una o più clausole vessatorie proposta dall'avvocato, accerti la non equità del compenso e la vessatorietà della clausola (per violazione dei commi 4, 5 e 6 dell'art. 13-bis), dovrà dichiarare la nullità della clausola.

È importante notare che all'Autorità Giudiziaria è conseguentemente consentita la determinazione del compenso dovuto all'avvocato.

Determinazione, quella di cui sopra, che ovviamente dovrà tener conto dei parametri forensi e quindi, attualmente e salvo imminenti modifiche, quelli previsti dal già richiamato d.m. n. 55/2014.

Il senso della misura

Pochi giorni orsono, chi scrive, ha avuto la fortuna di ascoltare uno straordinario intervento del Prof. Francesco Palazzo nell'apertura dei lavori del Convegno Nazionale Giustizia Penale e Informazione Giudiziaria, svoltosi a Firenze il 15 dicembre 2017.

L'intervento ha toccato varie questioni che interessano, in senso lato, il giurista (e quindi non soltanto quello dedito alle discipline penalistiche) e, tra le altre, quella del cosiddetto "senso della misura" che talvolta pare essere perduto nella valutazione o nei commenti di determinate norme o, addirittura, nella loro concreta applicazione.

Vale la pena, a parere di chi scrive, richiamare un così autorevole invito che consente una valutazione, prudente e ragionevole, dell'art. 13-bis di cui trattasi.

In attesa di commenti più approfonditi e autorevoli ed anche della giurisprudenza che si formerà sulle varie questioni giuridiche affrontate dalla norma, è, almeno per il momento, condivisibile la scelta del nostro legislatore.

Finalmente è chiaro che l'avvocato non è contraente forte sempre e comunque: vi sono casi, infatti, nei quali diventa indiscutibilmente contraente debole soggetto ad una posizione di squilibrio contrattuale totalmente, o quasi, a suo carico.

Il legislatore si è quindi fatto carico di delineare nei rapporti tra grandi imprese e avvocato il cosiddetto limite inferiore della prestazione professionale con riferimento, evidentemente, agli aspetti contenutistici e di valore economico della stessa.

D'altra parte proprio il principio ispiratore del senso della misura porta a ritenere che non si possa condividere come principio assoluto quello della libera concorrenza tra soggetti economici allorquando il principio stesso venga applicato (o si pretenda di farlo) nei confronti della professione forense che, com'è noto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2, comma 2, l. n. 247/2012, ha la precipua funzione di garantire al cittadino l'effettività della tutela dei diritti.

*Fonte: ridare.it

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