Il risarcimento del danno derivante da mobbing e da demansionamento

Giovanni Mimmo
29 Dicembre 2017

Costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo. L'Autore del Focus analizza la responsabilità del datore di lavoro per mobbing e il demansionamento del lavoratore con i relativi danni risarcibili e le modalità di accertamento e di liquidazione di questi, proseguendo la propria disamina con l'onere della prova e il regime dell'autotutela.
Responsabilità del datore di lavoro per mobbing

Costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo (Cass. sez. lav., n. 18836/2013).

Così integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti), diretti alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 c.c. - la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica); né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. - ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (Cass. sez. lav., n. 10037/2015).

Il fenomeno in esame si caratterizza pertanto, sotto il profilo soggettivo, dal dolo del soggetto agente, da intendersi nell'accezione di volontà di nuocere o infastidire o comunque svilire in qualsiasi modo il proprio sottoposto o collega di lavoro. Nel caso di mobbing orizzontale, tuttavia, al comportamento doloso del collega di lavoro si accompagna quello di tipo colposo del datore di lavoro, il quale, in violazione in questo caso del disposto generale dell'art. 2087 c.c., non avrebbe posto in essere tutte quelle cautele necessarie ad evitare che il luogo di lavoro possa divenire fonte di danno alla persona (complessivamente intesa) del proprio dipendente.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

  • la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
  • l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
  • la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cass. sez. lav., n. 17698/2014).

Si deve precisare che per la sussistenza della fattispecie non sarebbe comunque sufficiente provare la presenza di uno o più atti eventualmente illegittimi posti in essere dal datore di lavoro, ma è necessario provare il loro nesso causale con un intento discriminatorio, vessatorio e persecutorio nei confronti del dipendente, finalizzato all'estromissione del lavoratore, condotta che avrebbe cagionato dei danni al prestatore.

La circostanza che talune condotte del datore di lavoro, ovvero di altri colleghi con l'avallo dello stesso, siano state percepite dal lavoratore quali atti vessatori posti in essere contro di lui, non può portare a ritenere sussistente l'ipotesi di mobbing, la quale deve in ogni caso essere ancorata a risultanze oggettive nel senso che gli atti devono avere una intrinseca potenzialità lesiva secondo un giudizio collegato all'id quod plerunque accidit e non alla sola percezione lesiva che il destinatario degli atti, sulla base di una particolare sensibilità, possa avere.

Danno risarcibile

Il mobbing costituisce un inadempimento contrattuale quale violazione di un obbligo di non fare nel caso di mobbing discendente (che si configura nelle ipotesi in cui la condotta vessatoria provenga dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici) e quale violazione di un obbligo di fare, consistente nella doverosa protezione del lavoratore nei confronti dell'aggressione dei colleghi o dei sottoposti, nel caso di mobbing orizzontale o ascendente (che si configura nelle ipotesi in cui la condotta vessatoria provenga dai colleghi o dai sottoposti).

In tema di danno da mobbing, il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l'onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (Cass. sez. lav., n. 1327/2015).

Nell'ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente persecutoria, il giudice del merito è tenuto a valutare se i comportamenti denunciati possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e se siano causalmente ascrivibili a responsabilità del datore che possa esserne chiamato a risponderne nei limiti dei danni a lui specificamente imputabili (Cass. sez. lav., n. 4222/2016).

In caso di accertamento giudiziale di una condotta illecita di mobbing, oggetto del risarcimento possono essere sia il danno patrimoniale in senso stretto per la ridotta capacità di guadagno, sia il danno non patrimoniale, con riferimento al danno biologico derivante dalla lesione all'integrità psico-fisica e al danno morale per la sofferenza interiore.

Trovano, anche in tema di mobbing, applicazione i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di risarcimento del danno non patrimoniale, per cui questo è risarcibile, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.:

  • quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale;
  • quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni);
  • quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (Cass. civ., SU., n. 26972/2008).

Il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia e onnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con una valenza meramente descrittiva. Le Sezioni Unite partono dal presupposto che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso, ad esempio nelle ipotesi in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato, e quella in cui la risarcibilità del danno in esame, pur non essendo prevista da una norma di legge ad hoc deve ammettersi per avere l'illecito vulnerato in modo grave un diritto inviolabile della persona direttamente tutelato dalla Costituzione.

Altre pronunce, invece, hanno fatto esplicito riferimento alla categoria del danno esistenziale come aspetto del danno non patrimoniale, qualificandolo come pregiudizio al fare aredittuale determinante una modifica peggiorativa da cui consegue uno sconvolgimento dell'esistenza e in particolare delle abitudini di vita con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell'ambito della comune vita di relazione, sia all'interno che all'esterno del nucleo familiare (Cass. civ. sez. III, n. 14402/2011).

Anche il danno morale viene considerato una specie di danno autonoma e distinta dal danno biologico, entro l'ampio genere del pregiudizio non patrimoniale (Cass. n. 18641/2011). La Corte ha precisato che la fattispecie del danno morale intesa come voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale non è mai stata cancellata.

Il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto espressamente stabilito - sul piano normativo – dall'art. 5, lettera c), del D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, ma soprattutto in ragione della differenza ontologica esistente tra di essi, corrispondendo, infatti, tali danni a due momenti essenziali della sofferenza dell'individuo, il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana (Cass. civ., sez. III, n. 11851/2015).

La giurisprudenza al fine di ancorare il risarcimento ad elementi oggettivamente valutabili, fa costante riferimento al cosiddetto metodo tabellare che considera come parametro di riferimento della determinazione del danno il punto di invalidità e ne predetermina le oscillazioni in base alla percentuale d'invalidità, con un criterio progressivo che fa innalzare il valore punto in relazione all'aggravarsi della patologia e l'età del danneggiato, che lo fa decrescere proporzionalmente all'anzianità.

Al fine di garantire una uniformità di trattamento sull'intero territorio nazionale la Suprema corte ha recentemente affermato che nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale - e al quale la S.C., in applicazione dell'art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono. L'applicazione di diverse tabelle, ancorché comportante liquidazione di entità inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell'applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito (Cass. civ., sez. III, n. 28290/2011).

Il demansionamento del lavoratore

Il comportamento del datore di lavoro che demansioni il dipendente spesso viene associato al mobbing, in quanto costituisce nella pratica giudiziaria una delle fattispecie principali che compongono la serie di comportamenti lesivi propri della fattispecie.

Oggetto della prestazione lavorativa subordinata non è la sola messa a disposizione del datore di lavoro di energie lavorative, ma anche di una specifica professionalità che costituisce una delle estrinsecazioni della personalità (art. 4 Cost.).

Ed è per questo che oggetto della pretesa del datore di lavoro non è il mero svolgimento di una attività lavorativa, ma lo svolgimento di prestazioni lavorative corrispondenti alla professionalità del prestatore: l'art. 2103 c.c., infatti, impone al datore di lavoro di adibire il prestatore a mansioni o equivalenti o superiori rispetto a quelle di assunzione, implicitamente vietando l'adibizione del prestatore a mansioni inferiori. Anche con le modifiche apportate all'art. 2103 c.c. dall'art. 3 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori rimane pur sempre una situazione eccezionale, consentita in presenza di determinate condizioni.

Il demansionamento può configurarsi o attraverso la privazione di mansioni o attraverso l'assegnazione del dipendente a mansioni corrispondenti ad una qualifica inferiore, ovvero attraverso l'assegnazione di mansioni che, seppure formalmente equivalenti a quelle svolte in precedenza e corrispondenti alla qualifica di appartenenza, abbiano oggettivamente un contenuto professionale inferiore.

Il danno risarcibile

In tema di demansionamento illegittimo, ove venga accertata l'esistenza di un comportamento contrario all'art. 2103 c.c., il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, di contenuto satisfattorio dell'interesse leso, intesa a condannare il datore di lavoro a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione delle mansioni inferiori, affidando al lavoratore l'originario incarico, ovvero un altro di contenuto equivalente. In tal caso, l'obbligo del datore di lavoro sarebbe derogabile solo nel caso in cui provi l'impossibilità di ricollocare il lavoratore nelle mansioni precedentemente occupate, o in altre equivalenti, per inesistenza in azienda di tali ultime mansioni o di mansioni ad esse equivalenti (Cass. sez. lav., n. 16012/2014).

Oltre al diritto al ripristino delle mansioni, o anche nei casi in cui tale ripristino non risulti possibile a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore demansionato ha diritto al risarcimento del danno che può essere sia patrimoniale sia non patrimoniale.

Normalmente il demansionamento del lavoratore avviene di fatto, senza alcuna formale modifica di inquadramento e di livello retributivo: rimane, infatti, estranea alla tematica del risarcimento del danno l'ipotesi di legittima assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori ai sensi dell'art. 3 del D.Lgs. n. 81 del 2015. Pertanto, dal demansionamento il lavoratore, nella normalità dei casi, non subisce un diretto pregiudizio alla retribuzione, nel senso che continua a percepire la retribuzione propria del livello di appartenenza.

Può, tuttavia, configurarsi un danno patrimoniale risarcibile quale pregiudizio della possibilità di carriera anche economica, ivi compresa anche la retribuzione di posizione non più percepita in conseguenza dell'illegittimo mutamento di mansioni (Cass. civ., sez. VI, n. 172/2015) ovvero la retribuzione corrispondente alla qualifica superiore non potuta conseguire in conseguenza del demansionamento (Cass. sez. lav., n. 6110/2012).

Dalla condotta illecita del datore di lavoro può scaturire per il lavoratore un danno alla professionalità, derivante dall'impoverimento della capacità professionale per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando e dalla mancata acquisizione di ulteriori capacità, all'immagine, all'integrità psicofisica, alla dignità con conseguente sofferenza interiore, a seguito della conseguente mortificazione e della mancata realizzazione della persona nel lavoro (Cass. sez. lav., n. 12253/2015).

Nell'ipotesi di demansionamento, il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo (pure in mancanza di intenti discriminatori o persecutori idonei a qualificarlo come mobbing), alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente, nonché all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore (Cass. civ., SU, n. 4063/2010).

La condotta del datore di lavoro, ovvero di un superiore gerarchico, che estrometta un dipendente da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l'esercizio delle mansioni cui era addetto, costituisce elemento strutturale sia della lesione della sua posizione soggettiva di lavoratore professionista, costituzionalmente protetta ai sensi degli art. 1, 4 e 35 Cost., che gli attribuisce la legittimazione ad agire contro il soggetto agente, sia del danno ingiusto inerente al vulnus della prestazione professionale e dell'esercizio effettivo della qualifica, il quale è risarcibile quale danno conseguenza sia nei suoi aspetti patrimoniali sia nei suoi aspetti non patrimoniali, ove determini un pregiudizio che incida sulla vita professionale e di relazione del professionista danneggiato (Cass. civ., sez. III, n. 2352/2010).

Il demansionamento incide sulla dimensione sociale del rapporto di lavoro, arrecando anche un danno all'immagine del lavoratore, in termini di considerazione sociale derivante dall'espletare determinate mansioni. Il diritto all'immagine professionale del lavoratore rientra tra quelli fondamentali tutelati dall'art. 2 Cost. la cui risarcibilità va riconosciuta anche in presenza di lesioni di breve durata (Cass. sez. lav., n. 8709/2016).

Il danno all'immagine professionale può considerarsi come una componente del danno alla professionalità in quanto consiste nel pregiudizio che il lavoratore subisce non direttamente al suo saper fare, bensì alla posizione raggiunta nell'organizzazione vista nei suoi aspetti di posizione gerarchica e di prestigio e, per certi versi di status maturati all'interno del luogo di lavoro, ma anche nell'ambiente esterno all'azienda: si può configurare, pertanto, un danno all'immagine anche in assenza di un diretto pregiudizio alla professionalità, cioè al bagaglio delle conoscenze acquisite dal lavoratore. La risarcibilità del danno all'immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi (Cass. sez. lav., n. 5237/2011): elemento essenziale, in tal caso, per valutare la gravità della lesione è dato dalla maggiore o minore importanza delle mansioni sottratte e dal grado di responsabilità ad esse conseguente.

Oltre ai profili più direttamente connessi all'espletamento della prestazione lavorativa, il demansionamento, con il conseguente carico di frustrazione che da esso deriva, può incidere negativamente sull'integrità psico-fisica del prestatore. Il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, mentre il danno esistenziale, da intendere come ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni (Cass. sez. lav., n. 29832/2008).

In caso di dequalificazione del lavoratore, che lamenti un danno biologico conseguente alla modifica delle mansioni, il rapporto eziologico tra il provvedimento di modifica delle mansioni e la malattia sussiste anche quando il provvedimento costituisca solo una concausa della malattia ed abbia operato su di un substrato patologico preesistente (Cass. n. 1575/2010).

Onere della prova e di allegazione

Allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall'art. 1218 c.c., da un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass. sez. lav., n. 4211/2016).

Secondo un risalente orientamento giurisprudenziale, poiché il demansionamento professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore, in quanto, non solo viola lo specifico divieto di cui all'art. 2103 c.c., ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, al pregiudizio correlato a tale lesione - che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato - va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell'ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale (Cass. n. 13033/2001).

Più recentemente, invece, è prevalso un orientamento opposto che richiede, ai fini della liquidazione del danno, la necessaria prova del danno stesso. Si è così affermato che in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio – dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (Cass. sez. lav., n. 1327/2015).

Pertanto, da un lato il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia ed ha, quindi, l'onere di allegare gli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio del potere datoriale, e non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate, dall'altro il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell'esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall'interessato, nonché da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo (Cass. sez. lav., n. 15527/2014).

Ai fini dell'accertamento del danno, la Suprema Corte ha distinto l'ipotesi di assegnazione del lavoratore a mansioni non equivalenti dall'ipotesi di totale privazione delle mansioni, ritenendo, in quest'ultimo caso che il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l'art. 2103 c.c., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa (Cass. civ, sez. VI, n. 7963/2012).

Modalità di accertamento e di liquidazione del danno

In tema di demansionamento e di dequalificazione, mentre il risarcimento del danno patrimoniale è collegato alla diminuzione economica patita e il danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile e la liquidazione di tale danno è collegata alla gravità della lesione subita dal lavoratore, per le altre voci di danno la giurisprudenza fa ampio riferimento alla prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti quali qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto, ecc., si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno (Cass. sez. lav., nn. 22930/2015 e 19778/2014).

Tale prova può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché, a tal fine, possono essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. Rimane, naturalmente, affidato al giudice di merito - le cui valutazioni, se corrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare, di volta in volta, se, in concreto, il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l'ammontare, anche, se del caso, con liquidazione fondata sull'equità (Cass. sez. lav., n. 26666/2005).

Pertanto, una volta accertata in via presuntiva l'esistenza del danno sulla base dei parametri sopra evidenziati, la liquidazione avviene in via equitativa, parametrandola, normalmente, ad una percentuale della retribuzione dovuta per il periodo di demansionamento, percentuale calcolata in base al tipo di attività pregressa e di professionalità lesa, alla durata e alla gravità della dequalificazione, alla tempestività della reazione del lavoratore (Cass. sez. lav., n. 12253/2015).

L'autotutela

È discusso se il lavoratore demansionato, in via di autotutela, possa rifiutare lo svolgimento delle mansioni inferiori, come tali non dovute.

Secondo un orientamento, il lavoratore non sarebbe obbligato a svolgere mansioni non dovute, assegnategli unilateralmente ed illegittimamente dal datore di lavoro, per cui il rifiuto di espletare tali mansioni sarebbe sempre legittimo e non potrebbe portare ad alcuna conseguenza pregiudizievole sia sul piano disciplinare, sia su quello retributivo.

La posizione della giurisprudenza, invece, risulta più articolata. Si è sostenuto, infatti, che nel rapporto di lavoro subordinato non è legittimo - ed è sanzionabile con il licenziamento per giusta causa- il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa dovuta, a causa di una ritenuta dequalificazione, ove il datore di lavoro adempia a tutti gli altri obblighi derivantigli dal contratto (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale ed assicurativa etc.), essendo giustificato il rifiuto di adempiere alla propria prestazione, ex art. 1460 c.c., solo se l'altra parte sia totalmente inadempiente, negli altri casi potendo il lavoratore rifiutare lo svolgimento di singole prestazioni lavorative non conformi alla propria qualifica, ma non potendo rifiutare lo svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa (Cass. sez. lav., n. 12696/2012).

Un orientamento meno rigoroso ha affermato che nella controversia concernente la validità di un licenziamento intimato per insubordinazione del lavoratore consistita nel rifiuto di svolgere le nuove mansioni affidategli dal datore di lavoro, ove il dipendente deduca l'illegittimo esercizio dello ius variandi in relazione all'art. 2103 c.c., con ciò formulando un'eccezione di inadempimento nei confronti della controparte, il giudice adito deve procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti, verificando in primo luogo la correttezza dell'operato del datore di lavoro in relazione all'eventuale illegittimità dell'esercizio dello ius variandi e, tenendo conto della rispondenza a buona fede del comportamento del lavoratore, occorrendo valutare alla luce dell'obbligo di correttezza ex art. 1460 c.c. il rifiuto di quest'ultimo.

Secondo altro orientamento, invece, il rifiuto del lavoratore di ottemperare al provvedimento del datore di lavoro di trasferimento ad una diversa sede, ove giustificato dalla contestuale assegnazione a mansioni asseritamente dequalificanti, impone una valutazione comparativa, da parte del giudice di merito, dei comportamenti di entrambe le parti, onde accertare la congruità tra le mansioni svolte dal lavoratore nella sede di provenienza e quelle assegnate nella sede di destinazione; queste ultime, peraltro, debbono essere vagliate indipendentemente dal loro concreto svolgimento, non essendo accompagnati i provvedimenti aziendali da una presunzione di legittimità che ne imponga l'ottemperanza fino ad un diverso accertamento in giudizio (Cass. sez. lav., n. 4060/2008).

Tuttavia, l'illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell'assegnazione del dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., purché la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede (Cass. sez. lav., n. 17713/2013), cioè in presenza di un demansionamento grave e talmente mortificante da rendere giustificato il rifiuto della prestazione e in presenza dell'offerta da parte del dipendente di prestazioni corrispondenti alla qualifica originaria. In una fattispecie particolare, in cui il recesso datoriale era stato determinato dal rifiuto parziale del lavoratore a continuare a svolgere mansioni superiori a quelle assegnate in considerazione del mancato riconoscimento del superiore inquadramento nonostante che tali mansioni fossero state svolte da più di tre anni, la Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento rilevando che integra gli estremi dell'eccezione di inadempimento il caso in cui tale rifiuto sia determinato dal mancato riconoscimento del superiore livello, ritenendo il rifiuto del lavoratore proporzionato all'inadempimento del datore di lavoro (Cass. sez. lav., n. 20222/2016).

È stata, però, criticata la ricostruzione della situazione giuridica in termini di eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., sul rilievo che il lavoratore non rifiuta la prestazione dovuta affermando un inadempimento dell'altra parte, ma più semplicemente si limita a rifiutare di rendere una prestazione non dovuta.

Guida all'approfondimento

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