Litisconsorzio processuale necessario per l'ASD cessata
04 Gennaio 2018
Un'associazione sportiva dilettantistica non riconosciuta, già cessata, viene raggiunta da un avviso di accertamento chiamando in causa la stessa associazione e più coobbligati (litisconsorzio necessario art. 14 Legge n. 546/1992 e art. 38 c.c.). Il ricorso dell'associazione, in primo grado, è accolto. L'ufficio provvede ad appellarsi chiamando in causa solo l'associazione, non provvedendo alla notifica specifica ai coobbligati. Si richiede specificatamente se il ricorso è ammissibile, se la commissione tributaria può agire permettendo all'ufficio di notificare ai coobbligati il ricorso, e valutare altri aspetti sottesi al caso, tipo litisconsorzio processuale, posto in esame.
L'aspetto meno noto della vita di una associazione sportiva dilettantistica costituita in forma di associazione non riconosciuta appare essere quello del suo scioglimento. L'associazione non riconosciuta si estingue per le cause previste nell'atto costitutivo o nello statuto, quali, a titolo esemplificativo:
Il verificarsi di una delle suddette cause, tuttavia, non determina ancora l'estinzione dell'associazione ma colloca questa in uno "stato di liquidazione" e, pertanto, si dovrà provvedere ad esigere i crediti e a pagare i debiti previa vendita, se necessaria, dei beni dell'associazione e, solo quando tutti i debiti siano stati pagati, si determina la vera e propria estinzione dell'ente.
Se dopo le operazioni di liquidazione residua un attivo, questo sarà devoluto per finalità altruistiche di natura sportiva o, in mancanza, sarà destinato dalla pubblica autorità ad altri enti che perseguano scopi analoghi. Eventuali passivi dovranno essere ripianati dagli associati. È, comunque, da ritenersi esclusa una ripartizione del residuo attivo fra gli associati superstiti, incompatibile con la natura ideale e non economica degli scopi dell'associazione.
Ciò è confermato, implicitamente, anche dalle disposizioni dell'art. 24 c.c. che al comma 4 nega ogni diritto sul patrimonio dell'associazione all'associato che receda o sia escluso; e sarebbe, quindi, incongruo ammettere che gli associati superstiti al momento dell'estinzione possano ripartirsi tra loro il patrimonio dell'ente. L'organo competente a deliberare lo scioglimento dell'associazione e l'eventuale devoluzione del suo patrimonio residuo è l'assemblea degli associati che ai sensi dell'art. 23, comma 3, c.c., delibera validamente con il voto favorevole dei tre quarti degli associati stessi. Tale quorum deliberativo potrà essere modificato in sede statutaria.
Nel caso di specie l'avviso di accertamento è stato notificato ad un'associazione già estinta per cui si tratta di un atto tamquam non esset. Secondo giurisprudenza consolidata, però, l'ex legale rappresentante dell'associazione non ha titolo per impugnare l'atto: dovrà attendere che l'atto impositivo venga notificato a lui personalmente per contestarlo dinanzi al giudice tributario.
Lo ha stabilito la Cassazione, con l'ordinanza n. 23625 del 9 ottobre 2017 con cui ha rigettato il ricorso proposto dal legale rappresentante e socio accomandatario di una società cessata ancora prima dell'emissione dell'avviso di accertamento ad essa indirizzato.
Secondo tale orientamento “la cancellazione dal Registro delle Imprese, con estinzione della società prima della notifica dell'avviso di accertamento e dell'instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto della sua capacità processuale e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell'ex liquidatore, sicché eliminandosi ogni possibilità di prosecuzione dell'azione, consegue l'annullamento senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, ricorrendo un vizio insanabile originario del processo, che avrebbe dovuto condurre da subito ad una pronuncia declinatoria di merito” trattandosi di impugnazione improponibile, poiché l'inesistenza del ricorrente è rilevabile anche d'ufficio (cfr. Cass. civ., nn. 5736/2016, 20252/2016). La tesi è stata ribadita anche in tema di società di persone (cfr. Cass. civ., nn. 4778/2017, 4853/2015, 21188/2014, 14266/2006).
Ciò non determina una lesione del diritto di difesa in quanto i soci potranno esporre le loro argomentazioni negli eventuali giudizi che dovessero riguardarli secondo le ordinarie regole sulla legittimazione attiva e passiva. Gli stessi, infatti, potrebbero essere chiamati a rispondere dei debiti sociali nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione, ovvero illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate (cfr. Cass. civ., SS.UU., nn. 6070/2013 e 5736/2016).
Ad ogni modo si sottolinea come per le associazioni non riconosciute la legge preveda un meccanismo di responsabilità solidale che esclude l'esistenza di un litisconsorzio necessario. Le associazioni non riconosciute rispondono delle obbligazioni contratte sia con il proprio patrimonio (definito, non a caso, fondo comune), sia con i beni personali degli amministratori e di chi abbia agito in nome e per conto dell'Associazione. Invero, per eventuali debiti, risponde prima di tutto il patrimonio dell'associazione e, solo se questo non è sufficiente, rispondono il presidente e i membri del Consiglio Direttivo con il loro patrimonio.
Si assiste, quindi, in questo caso ad una discreta separazione tra il patrimonio dell'ente e quello dei suoi associati (c.d. autonomia patrimoniale imperfetta) in quanto per i debiti dell'ente risponde in primo luogo il fondo comune dell'associazione e poi coloro che hanno convenuto ed effettuato l'operazione in nome e per conto dell'ente.
La previsione dell'articolo 38 c.c. (secondo cui “per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione”) è giustificata dal fatto che l'associazione non riconosciuta è priva di personalità giuridica e non presenta quindi quella netta separazione tra la propria sfera giuridica e quelle dei soggetti che partecipano all'organizzazione, che è invece caratteristica delle persone giuridiche. Il legislatore, per la stessa ragione ha dovuto predisporre in un contesto carente di mezzi pubblicitari un sistema volto a tutelare l'affidamento dei terzi i quali, potendo ignorare la consistenza del fondo comune dell'ente con cui vengono ad intrattenere rapporti giuridici, devono poter sempre contare sulla solvibilità personale di chi agisce in nome e per conto dell'associazione. La sentenza n. 19486/2009, con cui la Cassazione, nell'accogliere l'eccezione di un contribuente (che lamentava la ritenuta sussistenza della responsabilità ex art. 38 c.c., del precedente rappresentante legale per la semplice titolarità della carica ed a prescindere dalla prova che lo stesso avesse agito in concreto o meno per conto dell'associazione) precisa che “La responsabilità personale e solidale, prevista dall'art. 38 c.c., di colui che agisce in nome e per conto dell'associazione non riconosciuta non è collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell'associazione, bensì all'attività negoziale concretamente svolta per conto di essa e risoltasi nella creazione di rapporti obbligatori fra questa e i terzi. Tale responsabilità non concerne, neppure in parte, un debito proprio dell'associato, ma ha carattere accessorio, anche se non sussidiario, rispetto alla responsabilità primaria dell'associazione stessa, con la conseguenza che l'obbligazione, avente natura solidale, di colui che ha agito per essa è inquadrabile fra quelle di garanzia ex lege, ne consegue, altresì, che chi invoca in giudizio tale responsabilità ha l'onere di provare la concreta attività svolta in nome e nell'interesse dell'associazione, (Cass civ. sentt. nn. 5089/1998, n. 8919/2004), non essendo sufficiente la sola prova in ordine alla carica rivestita all'interno dell'ente” (cfr., ex multis, Cass. civ. sentt. nn. 2471/2000, 26290 del 2007 e, recentemente, n. 25748 del 2008)”.
La solidarietà tributaria paritaria genera, infatti, “un fascio di obbligazioni distinte”, collegate dall'identità di titolo e di contenuto; l'esistenza di tale insieme di vincoli non crea un unico rapporto plurisoggettivo ma tanti rapporti quanti sono i coobbligati solidali (Cass. civ., n. 7053/1991).
Se non rientra tra le ipotesi di litisconsorzio necessario la solidarietà tributaria paritaria a maggior ragione non vi può rientrare quella dipendente. Quindi è legittima l'instaurazione e la prosecuzione distinta di tanti giudizi quanti sono i coobbligati o comunque è possibile che solo alcuni coobbligati decidano di presentare ricorso in quanto da un punto di vista processuale c'è completa autonomia tra le posizioni. È invece possibile l'estensione del giudicato nei confronti degli altri coobbligati anche qualora non abbiano instaurato alcun giudizio.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che l'estensione ad uno dei debitori in solido degli effetti del giudicato favorevole ottenuto da uno degli altri coobbligati trova un limite nella formazione di un giudicato diretto nei confronti del debitore medesimo. Al riguardo, si richiama l'ordinanza 13 settembre 2010, n. 19482, nella quale la Corte di Cassazione, alla luce del proprio consolidato orientamento, ha confermato che “…in tema di solidarietà tributaria, il principio che il coobbligato d'imposta può avvalersi del giudicato favorevole emesso in un giudizio promosso da un altro obbligato, secondo la regola generale stabilita dall'art. 1306 c.c., opera sempre che non si sia già formato un diverso giudicato”.
Pertanto, prosegue la Corte, “il coobbligato non può invocare a proprio vantaggio la diversa successiva pronuncia emessa nei riguardi di altro debitore in solido, nel caso in cui egli non sia rimasto inerte, ma abbia a propria volta promosso un giudizio già conclusosi (in modo a lui sfavorevole) con una decisione avente autonoma efficacia nei suoi confronti (ex plurimis, Cass. civ., nn. 13997/2002, 3306 e 5595/2003, 18025/2004, 1589/2006, 28881/2008)”.
Significativa è anche la sentenza n. 476/2013 secondo cui “…nel caso l'acquirente ed il venditore di un immobile abbiano impugnato, con autonomi ricorsi, l'avviso di liquidazione emesso ai sensi del d.P.R. n. 131/1986, art. 52 a ciascuno di essi notificato, l'acquirente nei confronti del quale sia intervenuta la definizione della obbligazione tributaria con sentenza passata in giudicato, non può chiedere, impugnando la cartella di pagamento notificatagli in base al predetto titolo giudiziale, di avvalersi ai sensi dell'articolo 1306 c.c., comma 2 del giudicato più favorevole formatosi nei confronti del venditore, in quanto la norma invocata presuppone che nei confronti del condebitore solidale che chiede l'applicazione del giudicato più favorevole intervenuto nei confronti dell'altro condebitore non si sia già formato altro giudicato”. Ciò in quanto, “l'art. 1306 c.c. dispone in deroga ai limiti soggettivi ma non anche ai limiti oggettivi del giudicato, non consentendo pertanto di rimettere in discussione l'"an" ed il "quantum" della pretesa definitivamente accertata con sentenza irrevocabile”.
Nel caso di specie, il giudice d'appello deve ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutte le parti pretermesse (nel caso di specie gli associati). Infatti, l'omessa notificazione dell'appello a una delle parti che hanno partecipato al primo grado di giudizio non comporta mai l'inammissibilità del gravame. Si verifica, infatti, una fattispecie di litisconsorzio processuale, per cui la presenza di più parti nel giudizio di primo grado deve necessariamente persistere in sede di impugnazione, onde evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa questione. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza n. 17497/2015.
Ciò ai sensi dell'articolo 331 del c.p.c., applicabile al processo tributario: “Se la sentenza pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e, se è necessario, l'udienza di comparizione. L'impugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti provvede all'integrazione nel termine fissato”. L'inammissibilità, dunque, si verifica solamente se, nel termine concesso dal giudice, il pretermesso non viene regolarmente chiamato in causa. Tali situazioni, spiega la Cassazione, danno luogo all'insorgenza di un litisconsorzio processuale, tale che tutte le parti che abbiano preso parte al primo grado devono essere coinvolte nel grado d'appello, in un unico giudizio, per evitare che, in ordine alla stessa materia, si possano formare diversi giudicati. |