Prevenire è meglio che curare: allerta ed incentivi all’emersione anticipata della crisi

05 Gennaio 2018

La riforma della disciplina della crisi d'impresa varata di recente con la L. 19 ottobre 2017, n. 155 segna un momento fondamentale di rinnovamento di istituti concepiti in una fase storica ormai lontana, e modellati secondo esigenze non più attuali. In un quadro di revisione profonda di tali istituti, particolare menzione meritano le cc.dd. “Procedure di allerta”, rivolte a consentire l'emersione anticipata della crisi, a beneficio dei creditori sociali e dello stesso debitore nella prospettiva della continuità aziendale. I principi tratteggiati dal legislatore, nel segno della confidenzialità e della speditezza di tale procedura, sono per buona parte condivisibili. Alcuni correttivi all'impianto delle procedure d'allerta, peraltro, appaiono necessari al fine di assicurarne l'utilità e l'efficacia.
Premessa

Una delle novità più significative introdotte dalla Legge 19 ottobre 2017, n. 155 è rappresentata dalle cc.dd. “procedure di allerta”: istituto che trova il suo corrispondente, all'interno della proposta di Direttiva UE 22 novembre 2016, nell'early warning, definito come il complesso degli strumenti “in grado di individuare un andamento degenerativo dell'impresa e segnalare al debitore o all'imprenditore la necessità di agire con urgenza”. Tale istituto persegue un fine certamente virtuoso, essendo inteso ad arginare il danno economico e sociale generato da “crisi ritardate”: fenomeni che, se opportunamente gestiti con strumenti correttivi di carattere preventivo, potrebbero conoscere esiti diversi da quelli di un (più o meno) lento ed inesorabile processo di decozione dell'impresa, con una ricaduta positiva – oltre che per l'impresa stessa – per i lavoratori in essa impiegati e per l'indotto dei fornitori (sovente colpiti dal default di uno o più clienti rilevanti, con il concreto rischio di un rovinoso “effetto domino”). La procedura di alert è pertanto funzionale non soltanto all'operazione di salvataggio in sé considerata, avendo essa l'obiettivo più alto e più ambizioso di sollecitare una cultura d'impresa più responsabile, che consenta una “bonifica” tempestiva a beneficio di tutti i soggetti che a vario titolo sono interessati dalla crisi.

Se gli scopi sono quindi indubbiamente nobili e condivisibili, va meglio compreso in chiave di analisi giuseconomica se e in che misura lo strumento concepito dalla Commissione Rordorf possa garantire soluzioni efficienti al problema di fondo (quello dei danni indotti dalle “crisi ritardate”) e se siano auspicabili correzioni di rotta nel segno di una maggiore efficacia di tale presidio, a tutela dell'imprenditore così come dei suoi creditori. Ed è questo, segnatamente, l'obiettivo del presente contributo.

Il contesto italiano ed il ruolo (necessariamente limitato) della giurisdizione

La ricerca di soluzioni efficienti al problema appena ricordato deve muovere, evidentemente, da un'osservazione quanto più possibile obiettiva del contesto (pur variegato) delle imprese italiane. Come è stato giustamente sottolineato da molti studiosi della materia, tale contesto si connota per la massiccia presenza di imprese cosiddette familiari, in cui il fattore “proprietà” si mescola con il fattore “gestione”. Sicché il proprietario del capitale è anche, molto spesso, il soggetto da cui passano tutte le decisioni che interessano i destini dell'impresa, non ultima quella in ordine alle misure da azionare in presenza di una fase di crisi. Non solo. Tale soggetto è lo stesso che nomina (e remunera) gli organi di controllo, che si trovano così non di rado a sostenere un fragile compromesso tra rigore (astratto) e opportunità (proprie). Un ulteriore connotato del sistema capitalistico domestico è quello di essere marcatamente bancocentrico, e quindi assai dipendente dal credito bancario. In queste condizioni – che vedono una limitata presenza di manager sganciati dalla proprietà e un significativo squilibrio tra indebitamento finanziario e capitale di rischio – è (sciaguratamente) comune assistere a crisi più o meno reversibili protratte per anni, sotto la gestione irrimediabilmente condizionata di un imprenditore sotto assedio, che elargisce pagamenti saltuari diretti solo ad “accomodare” i creditori più ostili. La realtà di questi ultimi dieci anni ci racconta di un vasto numero di imprese che hanno perpetuato una condizione di crisi sino a precipitare in una vera e propria insolvenza, nella vana attesa che qualche misterioso antidoto riportasse i conti in salute. Se così è, va considerata con favore la scelta operata dalla riforma – nel segno della crescente “degiurisdizionalizzazione” della crisi di impresa – di escludere per le procedure d'allerta l'intervento del Tribunale, come sede istituzionale in grado di favorire l'incontro di volontà tra debitore e creditore. Sul piano concreto, è infatti evidente il disincentivo anche “psicologico” che si sarebbe determinato in capo all'imprenditore (già di per sé poco incline ad ammettere – anche a se stesso – l'esistenza di una condizione di crisi), nel caso in cui la procedura d'allerta fosse stata concepita come uno strumento di natura necessariamente giurisdizionale, attivabile solo attraverso un apposito ricorso alla competente autorità. Un siffatto modello è invece caratteristico del sistema francese (che per primo ha sperimentato le procedure d'allerta), nel quale les entreprises en difficultè si rivolgono al Tribunale affinché sovrintenda, attraverso la nomina di un mandataire ad hoc o di un conciliateur, alla sequenza procedimentale finalizzata all'accordo con i principali creditori. Ma un sistema come quello francese è molto distante dalla realtà del normale imprenditore italiano, che difficilmente avrebbe accolto con favore l'ipotesi di ricorrere ad una procedura preventiva attraverso una sorta di autoconfessione all'autorità giudiziaria. In questo senso, la scelta del legislatore domestico si rivela azzeccata nel suo pragmatismo, e potrà auspicabilmente decretare il successo dell'alert in Italia, vincendo le resistenze (anche) di imprenditori poco avvezzi ad intrattenere rapporti con i Tribunali. Un limitato ruolo la giurisdizione invece lo conserva, e non potrebbe essere altrimenti, quando sia proprio l'imprenditore in crisi a richiedere al Tribunale l'adozione delle “misure protettive” (con particolare riguardo alla sospensione di procedure esecutive in corso) per condurre utilmente in porto le trattative con i creditori (art. 4, comma 1, lett. g), L. n. 155/2017): in questo caso, l'effetto espropriativo che si produce sui diritti dei creditori – primo fra tutti il diritto di azionare il recupero forzoso dei propri crediti – legittima l'intervento diretto del giudice e l'adozione di un adeguato regime di pubblicità che consenta ad ogni interessato di conoscere gli sviluppi della procedura in corso.

Se pertanto il Tribunale è di norma spogliato di ogni funzione di governo della procedura di allerta, il ruolo di (unico) protagonista della procedura suddetta è stato assegnato ad un apposito organismo istituito presso ciascuna camera di commercio, che ha il compito di ricercare su istanza del debitore una soluzione della crisi concordata con i creditori entro un congruo termine, comunque non superiore a sei mesi. L'organismo suddetto a propria volta dovrà nominare un collegio composto da almeno tre esperti iscritti presso un apposito albo istituito presso il Ministero della giustizia, designati rispettivamente dal presidente della sezione specializzata in materia di impresa del competente Tribunale, dalla camera di commercio e da associazioni di categoria. Anche la scelta di codificare (finalmente) la figura ed il ruolo di un soggetto dotato della necessaria autorevolezza va salutato con favore. Con ciò dovrebbe infatti essere facilitata la dialettica della comunità dei creditori con l'impresa debitrice, superando il forte gap avvertito di sovente nell'ambito degli accordi extra-concorsuali rispetto alle procedure concorsuali strettamente intese: l'assenza, cioè, di un soggetto che si interponga tra debitore e creditori, agevolando il flusso di informazioni e creando in tal modo le condizioni per un confronto costruttivo. La previsione, nell'ambito della procedura di allerta, di un soggetto autorevole verso il quale il debitore possa fare affidamento nella prospettiva di una soluzione concordata con i propri creditori può certamente rappresentare uno stimolo positivo – anche psicologico – per l'emersione anticipata della crisi (e quindi perché si realizzi, in ultima analisi, l'obiettivo del legislatore).

Per le ragioni illustrate, ha destato qualche perplessità la previsione studiata dagli estensori della riforma per l'ipotesi in cui non sia stato possibile accompagnare l'imprenditore ad una soluzione concordata con i propri creditori. A mente di tale previsione, “qualora il collegio non individui misure idonee a superare la crisi e attesti lo stato di insolvenza”, l'organismo sarà tenuto a darne “notizia al pubblico ministero presso il tribunale del luogo in cui il debitore ha sede, ai fini del tempestivo accertamento dell'insolvenza medesima” (art. 4, comma 1, lett. b), L. n. 155/2017). L'organismo si viene quindi a trasformare, da alleato dell'imprenditore nella ricerca di un'intesa con i propri creditori, a elemento di raccordo con l'autorità giudiziaria, reintroducendo in tal modo la giurisdizione nell'orbita di uno strumento preventivo pensato come modello negoziale e riservato di composizione della crisi. E questo, come è ovvio, può disincentivare dall'adozione dell'alert l'imprenditore diffidente, preoccupato che essa possa in realtà sfociare in una procedura giurisdizionale per l'accertamento dell'insolvenza. Tuttavia, questa norma di collegamento era probabilmente inevitabile. A mio avviso, tale norma dovrebbe infatti fungere da stimolo alla composizione della crisi – oltre naturalmente che per l'imprenditore (a ciò indotto dal timore di una procedura di liquidazione) – per gli stessi suoi creditori: i quali si troveranno ad essere più facilmente indirizzati ad una regolazione concordata della crisi, ben conoscendo i rischi di un eventuale accertamento dell'insolvenza (primo fra tutti, il rischio di incorrere nella revocatoria dei pagamenti conseguiti nel cd. periodo sospetto). In questo senso, è auspicabile – anche nella prospettiva dei futuri decreti delegati – che le prerogative dell'organismo di composizione possano essere intelligentemente “dosate”, perché siano efficacemente orientate ad un'attività di moral suasion tanto nei confronti del debitore quanto dei suoi creditori. Nel concreto svolgimento dell'incarico una siffatta attività dovrebbe essere rivolta, segnatamente, a misurare la gravità della crisi, al fine di favorirne la soluzione per via negoziale o, in alternativa, suggerendo in presenza di una fase più acuta della crisi stessa l'adozione di misure più strutturate (quali l'avvio di una procedura di concordato preventivo). Garantendo all'organismo, in questo modo, un ruolo che non sia limitato alla piatta burocrazia – limitato, cioè, ad una formale “attestazione” in merito alla soluzione raggiunta – ma che sia piuttosto focalizzato su di un servizio di consulenza attiva in favore dell'imprenditore in difficoltà.

L'identificazione della crisi ed il ruolo degli organi di controllo

Una delle maggiori difficoltà tradizionalmente incontrate dagli interpreti nella valutazione dei comportamenti osservati dall'imprenditore ha riguardato la corretta identificazione dei concetti di “insolvenza” e di “crisi”. Tanto la nozione di insolvenza quanto quella di crisi, sprovvista per lungo tempo di supporto esplicativo da parte del legislatore (e riferita oggi dalla L. n. 155/2017 alla “probabilità di futura insolvenza”), hanno infatti condotto ad un ampio ventaglio di interpretazioni, scontando inevitabilmente un forte tasso di discrezionalità. In effetti, lo stesso discrimine tra crisi “reversibile” e “irreversibile” è sovente definibile solo ex post, se si considerano tutte le variabili che possono intervenire sul ciclo economico e finanziario dell'impresa. Ciò che ha portato anche di recente più di uno studioso ad interrogarsi sull'opportunità di “agganciare” i concetti suddetti ad alcuni indici di salute (più o meno cagionevole) dell'impresa dotati di carattere il più possibile oggettivo, nel solco di quanto già previsto dal legislatore comunitario nell'ambito degli “Orientamenti sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione di imprese non finanziarie in difficoltà” (2014/C 249/01). In questo senso, merita di essere sottolineata la novità recata dalla riforma, che rimanda al decreto di fonte governativa per l'individuazione di un concetto “aziendalistico” di crisi, determinato sulla base di “indici finanziari da individuare considerando, in particolare, il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, l'indice di rotazione dei crediti, l'indice di rotazione del magazzino e l'indice di liquidità”. Il legislatore delegato dovrà quindi, attraverso una “incursione” nelle nozioni aziendalistiche dei più importanti indici che misurano la salute finanziaria di un'impresa (e tra questi, in particolare, gli indici di liquidità e di solvibilità), fornire dei parametri attendibili per identificare l'esistenza di uno stato di “crisi” (in tema, per un recente arresto giurisprudenziale, v. Trib. Milano, Sez. Imprese, 19 aprile 2016, in Soc., 2016). Ciò si rende necessario in quanto la condizione di crisi, nel senso tecnico appena precisato, costituisce il presupposto per l'applicazione di una serie di clausole normative riferite, nello specifico: (i) all'obbligo a carico degli organi di controllo e di revisione di avvisare l'organo amministrativo della società – ovvero, in caso di omessa o inadeguata risposta, direttamente l'organismo istituito presso la camera di commercio – dell'esistenza di fondati indizi della crisi; (ii) alla possibilità per l'imprenditore che abbia favorito l'emersione tempestiva della crisi suddetta di giovarsi di misure premiali sotto il profilo delle responsabilità personali. Per tale via, l'applicazione di importanti tratti di disciplina, che riguardano soprattutto le responsabilità degli organi investiti delle decisioni fondamentali e dei controlli dell'impresa, sarà sottratta alla sfera discrezionale del giudice, la cui valutazione dovrà tenere conto di parametri matematici ed oggettivi. In questo scenario, va opportunamente segnalato il ruolo certamente più proattivo che verrà ad essere assunto dagli organi di controllo e di revisione, rivolto ad una costante attività di carattere preventivo che consenta di cogliere i segnali di una crisi incipiente. Considerazioni, queste, destinate ad assumere rilevanza ancora maggiore nel quadro generale della delega, che ha notevolmente ampliato – mediante la previsione di un obbligo esteso alle s.r.l. medio-piccole (cfr. art. 14, comma 1, lett. g), L. n. 155/2017) – il novero di soggetti tenuti a dotarsi dell'organo di controllo o del revisore.

Incentivi positivi e negativi all'emersione anticipata della crisi

Dal momento che i comportamenti virtuosi sono – nell'esperienza empirica della crisi d'impresa – non sempre spontanei ma più spesso indotti da stimoli positivi o negativi, il grado di efficacia delle procedure di allerta e la conseguente realizzazione degli obiettivi del legislatore sono in ogni caso destinati ad essere apprezzati sulla base degli incentivi e dei disincentivi a tale scopo previsti nella riforma.

Gli incentivi operano anzitutto in favore dei membri del collegio sindacale i quali, ove abbiano assolto l'obbligo di avvisare nel termine di sei mesi dal verificarsi degli “indici di natura finanziaria” sopra menzionati l'organo amministrativo (ovvero l'organismo presso la camera di commercio, in caso di omessa o inadeguata risposta da parte di quest'ultimo), non saranno soggetti a responsabilità solidale con gli amministratori “per le conseguenze pregiudizievoli dei fatti o delle omissioni successivi alla predetta segnalazione”. La concreta portata di tale incentivo va apprezzata in funzione della delicatezza dell'attività di vigilanza richiesta ai sindaci che peraltro, come è stato correttamente sottolineato, era già regolamentata prima della delega nell'ambito dell'attività di monitoraggio della continuità aziendale (Buffelli, Il nuovo ruolo degli organi di controllo nel contesto delle procedure di allerta, in questo portale, 25/10/2017). A ben guardare, infatti, già prima della L. n. 155/2017 era presente a carico dei sindaci un dovere – codificato in via generale all'art. 2407 c.c. e declinato in concreto dalle “Norme di comportamento del collegio sindacale” dettate dal CNDCEC – di adoperarsi per la “Prevenzione ed emersione della crisi” (Norma 11.1.) attraverso un sistema di vigilanza idoneo a rilevare tempestivamente segnali di difficoltà tali da inibire un'effettiva continuità di esercizio dell'impresa. In presenza di tali segnali, le disposizioni in parola hanno sancito l'obbligo per il collegio sindacale di attivarsi mediante una puntuale segnalazione all'organo amministrativo ovvero, in caso di inerzia di quest'ultimo, attraverso la convocazione dell'assemblea dei soci. Attivando tali presìdi, nel contesto di un controllo diligente sull'attività degli amministratori, il collegio sindacale già nel regime ante legge delega era esonerato da ogni forma di responsabilità solidale; sicché la precisazione introdotta nella novella può avere come scopo (benemerito) quello di eliminare ogni incertezza applicativa, rafforzando l'interesse personale di ciascun sindaco a non omettere alcun adempimento che consenta l'emersione anticipata della crisi della società vigilata.

Con riguardo alla figura dell'imprenditore in crisi la L. n. 155/2017 ha stabilito, come “premio” per la presentazione dell'istanza nel termine di sei mesi dal verificarsi dei già richiamati “indici di natura finanziaria”:

(i) l'introduzione di una “causa di non punibilità per il delitto di bancarotta semplice e per gli altri reati previsti dalla legge fallimentare, quando abbiano cagionato un danno di speciale tenuità” ex art. 219, comma 3, l. fall. e di una “attenuante ad effetto speciale per gli altri reati”;

(ii) la previsione di “una congrua riduzione degli interessi e delle sanzioni correlati ai debiti fiscali dell'impresa”, sino alla conclusione della procedura d'allerta.

Come si vede, l'intento che ha ispirato gli estensori della riforma è stato quello di creare degli stimoli positivi che consentano di vincere la scarsa propensione sin qui dimostrata dagli imprenditori per l'emersione tempestiva della crisi, inducendo i medesimi a comportamenti virtuosi in cambio di utilità personali, anche in termini di responsabilità penali. Con riguardo a queste ultime, spetterà alla legislazione delegata superare la non trascurabile difficoltà di identificare un collegamento certo tra “gli altri reati” che beneficiano dell'attenuante ad effetto speciale e lo stato di crisi dell'impresa. Più in generale, la maggiore difficoltà è però legata alla naturale inerzia che accompagna l'imprenditore che si trovi ad affrontare una fase di involuzione della propria attività, e alla frequente incapacità di leggere tale fase in modo corretto. In questo senso, seppure è apprezzabile l'idea di stimolare l'imprenditore a rompere tale inerzia in cambio di vantaggi personali ed economici, permane qualche legittimo dubbio sulla reale efficacia che questi accorgimenti potranno dispiegare almeno nel prossimo futuro. In realtà io credo che, per accrescere l'incisività (e quindi l'utilità) delle procedure di contrasto preventivo della crisi, sia necessario iniziare finalmente a concepire le stesse come strumenti “di salute pubblica”, funzionali alla tutela di interessi che trascendono quello dell'imprenditore così come quello del singolo creditore. E a questo scopo, il vero tema da affrontare – dopo aver preso atto che i soli incentivi all'imprenditore solerte rischiano di essere scarsamente persuasivi – è quello della necessaria tutela degli interessi collettivi attraverso la previsione a carico dei creditori più “attrezzati” di validi disincentivi a perseguire fini segnatamente egoistici. In termini di pura efficacia, sono quindi dell'avviso che la novità più interessante introdotta dalla novella legislativa sull'alert non sia tanto quella riferita agli incentivi in favore dell'imprenditore, quanto quella relativa ai disincentivi a carico di soggetti diversi a non attivarsi con sollecitudine al ricorrere di ben individuati presupposti. In proposito, la legge di riforma prevede all'art. 4, comma 1, lett. d), di “imporre a creditori pubblici qualificati, tra cui in particolare l'Agenzia delle entrate, gli enti previdenziali e gli agenti della riscossione delle imposte, l'obbligo, a pena di inefficacia dei privilegi accordati ai crediti di cui sono titolari o per i quali procedono, di segnalare immediatamente agli organi di controllo della società e, in ogni caso, all'organismo di cui alla lettera b), il perdurare di inadempimenti di importo rilevante”. Laddove per inadempimenti di importo rilevante debbono intendersi quelli così considerati sulla base di criteri relativi, rapportati alla dimensione dell'impresa anche con riguardo agli importi scaduti e non versati, e comunque orientati, in generale, ad assicurare l'anticipata e tempestiva emersione della crisi. La segnalazione suddetta è anticipata dall'avviso del superamento della soglia rilevante indirizzato all'imprenditore, che nei successivi tre mesi potrà (i) definire la questione direttamente con il creditore pubblico qualificato, estinguendo il relativo debito o trovando comunque un accordo con il medesimo, oppure (ii) avviare motu proprio una procedura d'allerta o, nel caso in cui la crisi dell'impresa sia approdata ad una fase più acuta, una procedura concorsuale.

La scelta dei riformatori rivolta a sanzionare le condotte omissive dei creditori pubblici si rivela, a mio modo di vedere, alquanto azzeccata. Come ci racconta l'osservazione empirica di questi anni, il debito scaduto fiscale e previdenziale tende spesso a raggiungere soglie non più sostenibili, poiché l'imprenditore che soffre di una condizione di tensione finanziaria è portato a confidare nella minore “reattività” dei servizi di riscossione pubblici rispetto alle iniziative di recupero avviate da banche e altri creditori. La crescita del debito suddetto diventa quindi in concreto una modalità di finanziamento alternativa e (assai) costosa per imprese che hanno difficoltà di accesso al credito bancario o commerciale. Con la conseguenza, in difetto di soluzioni tempestive e strutturali, di un inesorabile aggravamento della situazione sino al default dell'impresa.

Le nuove disposizioni normative che colpiscono – con la perdita del privilegio che assiste i crediti fiscali e previdenziali – la condotta passiva dei creditori pubblici qualificati a fronte di chiari sintomi della crisi dell'imprenditore sono state peraltro oggetto di alcune riserve da parte degli osservatori, che meritano adeguata riflessione. In particolare, tali riserve si sono indirizzate anzitutto sul rilievo che il rischio della sanzione potrebbe condurre i creditori pubblici qualificati ad effettuare una segnalazione indiscriminata, al fine di allontanare ogni pericolo di perdere il privilegio sul proprio credito. Tale obiezione può tuttavia essere superata, anche nell'ottica dei futuri decreti delegati, attraverso una più precisa codifica del concetto di “inadempimenti di importo rilevante” idonei a far scattare l'obbligo di segnalazione; in questo senso, lo sforzo dovrebbe essere teso alla ricerca di una base quanto più possibile oggettiva di valutazione (in rapporto ad una serie di parametri ben indentificati) della soglia di rilevanza dell'inadempimento, al fine di evitare qualsiasi rischio di segnalazioni “a tappeto”. La valutazione operata dal creditore pubblico qualificato, inoltre, dovrebbe pur sempre essere rimessa al successivo controllo dell'organismo destinatario della segnalazione, per evitare ogni atto d'impulso di tale organismo in assenza dei presupposti di legge.

Più complicata, nell'attuale assetto disegnato dalla riforma, si rivela la soluzione rispetto ad un secondo rilievo sollevato dai primi commentatori della neo-introdotta disciplina delle procedure di allerta: quello legato al fondato convincimento, allo stato delle cose, che l'imprenditore che sia stato avvisato del superamento della soglia rilevante sarà fortemente persuaso – pur di non arrendersi alla necessità di dover affrontare una crisi incombente – a pagare il creditore pubblico qualificato, sovente a scapito di lavoratori e fornitori. Tale obiezione coglie assolutamente nel segno, perché rischia di favorire condotte dell'imprenditore dettate dal solo scopo di eludere l'obbiettivo dell'emersione anticipata della crisi; portando così, paradossalmente, ad un aggravamento, anziché alla composizione, della stessa. In un siffatto contesto, è certamente auspicabile che la scelta (intelligente) di mantenere le procedure di allerta al di fuori del controllo dei tribunali possa condurre ad un veloce cambio di paradigma, inducendo l'imprenditore razionale ad attivare velocemente la procedura d'allerta. Di sovente però, come l'esperienza insegna, l'imprenditore non opera razionalmente, ma indotto da stimoli esterni, anche ambientali, che lo portano a compiere scelte imponderate. In attesa pertanto che si compia un processo di transizione (anche) culturale che incoraggi l'imprenditore ad assumere decisioni idonee a realizzare l'interesse proprio e dei propri creditori, credo sia necessario interrogarsi in modo costruttivo su come possa concretamente realizzarsi in questo ambito la difficile coesistenza tra libertà d'impresa e tutela degli interessi collettivi; pensando, come è stato autorevolmente sostenuto, a misure in senso lato coercitivevolte a vincere le ritrosie dell'imprenditore a «prendere di petto» la situazione e a imporre, malgré lui, l'avvio di un percorso diretto alla salvaguardia dell'impresa […]” (così Jorio, Su allerta e dintorni, in Giur. comm., 2017, 264/I). Anche rischiando di avventurarsi nel terreno (assai minato) dei limiti all'autonomia dell'imprenditore, credo che vada quindi fatto lo sforzo di immaginare una soluzione che, pur mantenendo quest'ultimo al centro dei processi decisionali che lo riguardano, non sacrifichi l'interesse della generalità dei creditori meno “attrezzati” – e cioè di quelli che vengono normalmente chiamati a pagare per le crisi altrui – a beneficio del solo creditore qualificato. In questo quadro, sono dell'idea che il creditore pubblico qualificato dovrebbe essere tenuto alla segnalazione nei confronti dell'organismo individuato dalla legge non solo in assenza del pagamento (o di altra forma di definizione) in proprio favore, ma anche e soprattutto nonostante tale pagamento. E ciò in quanto, pur in assenza di una presunzione assoluta in tal senso, la presenza di “inadempimenti di importo rilevante” nel senso indicato dalla norma costituisce già di per sé, nella gran parte dei casi, un chiaro sintomo di una condizione di (pre)crisi. La previsione di un obbligo di segnalazione a carico del creditore pubblico, indipendentemente dal soddisfacimento del proprio interesse particolare, determinerebbe sì un limitato effetto espropriativo della libertà dell'imprenditore, mettendo in moto però un meccanismo diretto a salvaguardare l'interesse collettivo ad una rapida emersione della crisi reversibile ovvero alla manifestazione (seppur tardiva) dell'insolvenza. In ogni caso, con beneficio di tutti i creditori, ed in particolare di quelli dotati di minori strumenti di controllo, che vedrebbero garantita la condivisione degli eventuali sacrifici legati al percorso di risanamento dell'impresa (nell'ambito di una vera e propria “comunità di pericolo e di perdita”). L'effettuazione della segnalazione ad opera del creditore pubblico, anche in presenza dell'eventuale pagamento tardivo in proprio favore, darebbe luogo, segnatamente, a tre possibili scenari alternativi.

- A seguito della convocazione dell'imprenditore (art. 4, comma 1°, lett. e), l'organismo potrebbe anzitutto accertare l'inesistenza di qualsiasi sintomo di crisi, ancorché in fase iniziale. In tale ipotesi non si produrrebbe alcuna conseguenza a seguito della convocazione, dovendo l'organismo unicamente provvedere a stendere una relazione positiva, sempre in un ambito di assoluta riservatezza.

- L'organismo designato potrebbe invece riscontrare l'esistenza di sintomi oggettivi di uno stato di crisi reversibile, individuando quindi con l'impresa debitrice ed i suoi organi di controllo le soluzioni idonee al superamento della stessa.

- Il suddetto organismo potrebbe infine verificare l'esistenza di una condizione di crisi già manifesta e difficilmente reversibile: in tal caso, dell'eventuale insolvenza dovrebbe essere notiziato il P.M. al fine dei conseguenti adempimenti, come previsto nella già menzionata disposizione di cui all'art. 4, lett. b) della L. n. 155/2017.

In ogni caso, l'obbligo di segnalazione del creditore pubblico qualificato, ancorché eventualmente soddisfatto nelle proprie pretese, andrebbe a sicuro vantaggio degli altri creditori, che sarebbero resi partecipi della reale condizione del proprio debitore, contribuendo in sede di accordo al salvataggio – ove possibile – e alla continuità dell'impresa.

Riflessioni conclusive

L'introduzione delle procedure d'allerta segna certamente un importante cambio di passo all'interno del riformato impianto della disciplina concorsuale. Con l'alert l'imprenditore consapevole è posto infatti nella condizione di salvaguardare attivamente il valore della continuità aziendale, nell'interesse proprio e in quello (preminente) dei propri creditori, potendo a tal fine contare sull'apporto di un organismo che assicuri la dialettica con questi ultimi lontano dalle aule dei tribunali, attraverso una procedura rapida e confidenziale. Cionondimeno, credo che la disciplina delle procedure d'allerta, nell'ottica di una maggiore coerenza ed efficienza, possa e debba subire alcune correzioni di rotta. Tali correzioni riguardano anzitutto il perimetro di intervento dell'organismo delegato, che dovrebbe essere a mio avviso caratterizzato da una funzione di indirizzo ad ampio spettro nei confronti del debitore; sì da contemplare, oltre alla ricerca di una soluzione della crisi nell'ambito della procedura d'urgenza, l'indicazione di misure alternative (e segnatamente, l'accordo di ristrutturazione dei debiti o il concordato preventivo) necessitate dalla presenza di una fase più avanzata della crisi stessa, ancora non degenerata in una vera e propria insolvenza. In tal modo, il suddetto organismo potrebbe svolgere un'utilissima attività (pur sempre riservata) di consapevolizzazione dell'imprenditore, inducendolo a non ritardare oltre l'attivazione di adeguati presidi contro il possibile default. Ma soprattutto, importanti correttivi andranno a mio avviso apportati alla disciplina delle procedure d'allerta di fonte eteronoma, determinate cioè dall'intervento del creditore pubblico qualificato. Qui il problema di fondo risiede nel presumere che l'estinzione del debito fiscale o previdenziale, o l'accordo a ciò diretto raggiunto con il singolo creditore pubblico qualificato, costituisca un indice inequivoco del superamento dello stato di crisi dell'imprenditore. Laddove, al contrario, ciò in molti casi testimonia esclusivamente la volontà dell'imprenditore di ritardare l'emersione della propria condizione di difficoltà, avvantaggiando così il creditore pubblico a scapito di tutti gli altri. L'attivazione di una procedura, seppure riservata e sottratta a qualsiasi sindacato giurisdizionale, dovrebbe di contro perseguire lo scopo di spostare il baricentro dall'interesse del singolo creditore (pubblico) a quello della comunità dei creditori. La tutela del debitore in crisi, e ancor più quella dei suoi creditori non qualificati (di regola, le imprese), passa anche da qui.

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