Il principio dell’apparenza nelle impugnazioni

Francesco Bartolini
08 Gennaio 2018

La Corte di cassazione si è occupata di verificare se la causa in esame rientrasse, oppure no, tra quelle cui deve riferirsi, ex lege, la sospensione feriale.
Massima

L'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale deve essere compiuta in base al principio dell'apparenza, vale a dire, con riferimento esclusivo alla qualificazione dell'azione effettuata dal giudice nello stesso provvedimento, indipendentemente dall'esattezza di essa nonché da quella operata dalla parte.

Il caso

La ricorrente per cassazione aveva a suo tempo proposto opposizione avverso la “Ingiunzione di pagamento in funzione di precetto” notificatale da una concessionaria della riscossione per un importo di euro 12.107,97 dovuto per sanzioni ad infrazioni del codice della strada commesse tra l'aprile e il maggio 2005. L'opposizione fu respinta e fu rigettato il successivo appello, con sentenza del tribunale competente datata 18 febbraio 2016.

Con il ricorso l'interessata propose motivi di impugnazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per l'asserita violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale e processuale. In particolare, con l'atto si è contestato il preteso carattere “definitivo” dell'ingiunzione; e si è dedotta la prescrizione del diritto dell'ente impositore.

La questione

La questione oggetto della pronuncia della Corte aveva per presupposto un dato fattuale. Tra la data della pubblicazione della sentenza d'appello e la successiva proposizione del ricorso per cassazione erano trascorsi i sei mesi che attualmente sono sufficienti per condurre, in assenza di gravame nel termine breve, al passaggio in giudicato delle decisioni giurisdizionali. Nel caso specifico, quel termine aveva avuto inizio prima del periodo considerato dalla l. n. 742/1969 per l'applicazione della sospensione nel periodo feriale ed era andato a scadere successivamente ad esso: nonostante i sei mesi trascorsi, l'impugnazione con ricorso sarebbe risultata tempestiva ove la sospensione feriale fosse stata applicabile. La legge citata rimanda all'art. 92 dell'ordinamento giudiziario, il quale impone che durante le ferie dei magistrati siano in ogni caso trattate le cause che il legislatore ha considerato urgenti o comunque da esonerare dalla pausa estiva. Il problema, rilevato d'ufficio, si riduceva pertanto a verificare se la causa in esame rientrasse, oppure no, tra quelle cui deve riferirsi, ex lege, la sospensione feriale.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha dichiarato l'inammissibilità del gravame. Nella pronuncia si è rilevato che la notifica dell'impugnazione era avvenuta (19 settembre 2016) dopo che erano trascorsi sei mesi dalla data di pubblicazione della sentenza di secondo grado: così che doveva ritenersi decorso il termine decadenziale di cui all'art. 327 c.p.c..

Il punto è stato risolto in base ad una regola che nell'occasione è stata ribadita. Il parametro cui fare riferimento è l'inquadramento dato alla controversia dal giudice di merito. Non ha rilievo che la sua valutazione sia corretta o sia errata. Ai fini dell'impugnazione, la natura giuridica dell'azione esercitata, come identificata dal giudice predetto, costituisce il criterio al quale attenersi ad ogni effetto. Nella vicenda condotta all'esame della Corte, l'azione proposta dalla ricorrente era stata qualificata come opposizione all'esecuzione, in quanto era riferita ad un atto notificato quale titolo esecutivo e quale ingiunzione di pagamento. Ne è seguita la pronuncia di tardività del ricorso, posto che il citato art. 92 esclude l'applicazione della sospensione feriale, tra le altre fattispecie, alle cause di opposizione all'esecuzione.

Osservazioni

La decisione della Corte di cassazione è stata emessa in forma di ordinanza, e con motivazione semplificata, ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., che richiama l'art. 375 stesso codice. Essa pertanto è, nelle motivazioni, sintetica ed essenziale. Per la parte che qui interessa si limita ad affermare: «… il cd. principio dell'apparenza si applica anche agli effetti del regime della sospensione feriale, indipendentemente dalla correttezza della qualificazione del giudice della sentenza da impugnare, dovendo l'impugnazione di un provvedimento giurisdizionale essere proposta nelle forme ed entro i termini previsti dalla legge rispetto alla domanda così come qualificata dal giudice, le cui determinazioni sul punto assumono, indipendentemente dall'esattezza della relativa valutazione, funzione enunciativa della natura della vertenza, così da assicurare il massimo grado di certezza al regime dei termini di impugnazione …».

Il principio in questione pone in evidenzia una regola di facile interpretazione: sulla reale natura giuridica di un atto o di una controversia deve prevalere la valutazione che ne è stata operata dal giudice precedente, in modo che da essa consegua senza alcuna possibilità di dubbio il regime da applicare per il grado successivo. Il principio esclude ogni possibilità di ripensamento e ogni eventualità di incertezza.

In giurisprudenza esso è di lunga tradizione e di risalente origine. Meritano di essere ricordate Cass. civ., Sez. Un., 17 febbraio 1992, n. 1914, e Cass. civ., Sez. Un., 13 aprile 1994, n. 3467, tra quelle che imposero un orientamento poi proseguito ininterrottamente e che aveva visto tra le prime pronunce quelle di Cass. civ., n. 6675/1983 e di Cass. civ., Sez. Un., n. 2466/1986. Tra le ultime decisioni conformi possono essere citate Cass. civ., 8 marzo 2017, n. 5810, Cass. civ., 22 giugno 2016, n. 12872 e Cass. civ., 22 ottobre 2015, n. 21520, per limitare il richiamo alle più significative. La sentenza in commento si è, pertanto, schierata in un solco ripetutamente battuto e percorso.

Tanto premesso, va precisato che la stessa decisione non esaurisce il suo dictum in una ripetizione di principi conosciuti. Le va riconosciuto, innanzitutto, il merito di avere applicato, per la prima volta, il principio dell'apparenza alla fattispecie della sospensione dei termini per proporre impugnazione. La Corte, in sostanza, ha affermato che la qualificazione della natura della controversia si ripercuote anche sul regime della sospensione feriale: la quale si applica, o non si applica, a seconda della natura attribuita dal giudice di prime cure alla controversia che è stata decisa. La regola dell'apparenza produce i suoi effetti secondo logica: se alla controversia era stata attribuita una tipologia rientrante tra quelle che l'art. 92 dell'ordinamento giudiziario e la l. n. 742/1969 escludono dalla sospensione feriale, è conseguente che i termini per il gravame siano computati senza tener conto di detta sospensione.

Le argomentazioni della pronuncia della Corte, pur nella loro essenzialità, pongono in rilievo ulteriori spunti interessanti di approfondimento, per il lettore. L'uno di essi è costituito dal riferimento ad altre situazioni cui si applica il principio dell'apparenza, alle quali rimanda l'utilizzo della preposizione “anche”. In proposito si pone il quesito di chiarire quali siano le altre situazioni cui si estende il citato principio di apparenza. In secondo luogo, invita ad una riflessione l'accenno alla ratio individuata dal Supremo Collegio quale giustificazione del medesimo principio: che viene indicata nell'esigenza di disporre della massima certezza nella disciplina da riferire ai termini decadenziali delle impugnazioni.

Sul primo aspetto possiamo così riassumere alcune risultanze desunte dalle pronunce giurisprudenziali:

1) Dalla natura della controversia, come valutata dal giudice a quo, può dipendere l'attribuzione della giurisdizione. All'epoca della depenalizzazione di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, si posero questioni di ripartizione della giurisdizione tra il giudice ordinario (l'allora pretore) e l'autorità amministrativa. In proposito le Sezioni Unite della Suprema Corte (sent. 13 aprile 1994, n. 3467) richiamarono il principio dell'apparenza e confermarono, su questa base, la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di opposizione avverso l'ordinanza del sindaco che, ai sensi dell'art. 14, comma 2 della l. 30 aprile 1962, n. 283, aveva disposto la temporanea sospensione dell'autorizzazione all'esercizio di una attività di manipolazione di sostanze alimentari: era stato sostenuto dai giudici di merito che la controversia comportava la cognizione di situazioni giuridiche soggettive aventi la consistenza dell'interesse legittimo, e di conseguenza l'impugnazione doveva essere proposta davanti al giudice amministrativo. La regola non è priva di attualità, anche se le questioni di giurisdizione costituiscono, quasi sempre, l'espresso oggetto di motivi specifici di impugnazione.

2) Dalla natura della controversia, come valutata dal giudice a quo, può dipendere la tipologia dell'impugnazione. Sempre con riferimento alla normativa sulle depenalizzazioni, fu affermato che la tipologia dell'impugnazione, allora prevista solo nella forma del ricorso per cassazione avverso la sentenza pretorile, doveva dipendere dalla qualificazione, che il giudice avesse fatto, della controversia decisa, come effettivamente rientrante nel novero di quelle disciplinate dalla ricordata l. n. 689/1981: altrimenti sarebbe stato esperibile l'appello. Così si era pronunciata la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, con la citata pronuncia 3467/1994 e, prima ancora, con la pronuncia 17 febbraio 1992, n. 1914. Il criterio utilizzato si è rivelato tuttora utilizzabile: «… ove il giudice di primo grado abbia dichiarato inammissibile l'opposizione proposta ai sensi degli artt. 21 e 22 l. 24 novembre 1981, n. 689, sul rilievo che avverso l'atto impugnato doveva essere esperito un normale giudizio di cognizione, l'impugnazione proponibile avverso detta pronuncia è l'appello e non il ricorso straordinario per cassazione» (Cass. civ., 15 febbraio 2011, n. 3712). Le stesse Sezioni Unite avevano già dichiarato (Cass. civ., 1 febbraio 2008, n. 2434) inammissibile il ricorso per cassazione in una procedura svolta secondo le norme della legge succitata ma nella quale per il giudicante si era discusso di posizioni soggettive dell'opponente, estromesso da una riserva alpina di caccia.

In base alla medesima regola furono risolte le questioni relative al tipo di gravame consentito avverso le sentenze emesse in esito al procedimento di opposizione all'esecuzione e in esito al procedimento di opposizione agli atti esecutivi, nel lasso temporale in cui la questione ebbe rilevanza. Cass. civ., 22 giugno 2016, n. 12872, dichiarò appellabile ex art. 616 c.p.c., ratione temporis vigente, la sentenza impugnata in quanto resa all'esito di un giudizio da ritenersi di opposizione all'esecuzione, posto che un riferimento all'opposizione agli atti esecutivi contenuto nel provvedimento impugnato non aveva rilievo alcuno, per la sua genericità. Per la medesima conclusione, Cass. civ., 8 marzo 2017, n. 5810, e Cass. civ., 15 febbraio 2011, n. 3712. A sua volta, in una fattispecie diversa, Cass. civ., 22 ottobre 2015, n. 21520, confermò la decisione di merito che aveva ritenuto inammissibile l'appello avverso un'ordinanza cui aveva ritenuto dovesse applicarsi il regime impugnatorio dell'opposizione, disposto dall'art. 1, comma 51, della l. n. 92/2012.

3) Dal rito processuale osservato dipende il rito del grado successivo di giudizio. Di questa situazione sono emblematiche le pronunce in tema di processo del lavoro. «Ove una controversia sia stata erroneamente trattata in primo grado con il rito ordinario, anziché con quello speciale del lavoro, le forme del rito ordinario debbono essere seguite anche per la proposizione dell'appello, che, dunque, va proposto con citazione ad udienza fissa. Se, invece, la controversia sia stata trattata con il rito del lavoro anziché con quello ordinario, la proposizione dell'appello segue le forme della cognizione speciale» (Cass. civ., 11 luglio 2014, n. 15897). In proposito la Corte ha spiegato che deve essere osservato il principio di ultrattività del rito, che – quale specificazione del più generale principio per cui l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell'apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell'azione e del provvedimento compiuta dal giudice – trova specifico fondamento nel fatto che il mutamento del rito con cui il processo è erroneamente iniziato compete esclusivamente al giudice. In questo senso si vedano anche Cass. civ., 10 luglio 2015, n. 14401; Cass. civ., 6 febbraio 2015, n. 2265; Cass. civ., 14 gennaio 2005, n. 682.

4) Dalla natura dell'atto, quale ritenuta dal giudice a quo, può dipenderne l'impugnabilità e la tipologia del gravame. Un caso esemplare ha costituito oggetto della pronuncia di Cass. civ., 2 marzo 2012, n. 338, che, premesso il richiamo al principio dell'apparenza, ha preso atto della qualificazione assegnata dal giudice di merito, al suo provvedimento di sospensione del processo, quale atto ex art. 279, comma 4, c.p.c. e non di atto ai sensi dell'art. 295 stesso codice; qualificazione risultante non da una affermazione esplicita ma dal complessivo riferimento alla vicenda interna alla causa, in seguito alla proposizione dell'appello avverso la sentenza non definitiva.

L'ambito di maggior rilievo nel quale si posero le questioni concernenti la natura dell'atto è stato quello relativo all'impugnazione delle ordinanze e dei decreti. Questi particolari atti del giudice hanno, tendenzialmente, un limitato contenuto decisorio ma non anche l'attitudine al giudicato che è propria della sentenza. Di regola non sono soggetti ai mezzi di impugnazione tipici della sentenza e, di volta in volta, sono reclamabili od opponibili, secondo scelte, di ritenuta opportunità, del legislatore. I dubbi interpretativi hanno riguardato i provvedimenti che assumevano un vero e proprio carattere di decisione nel merito, incidenti su diritti soggettivi o comunque su interessi difendibili di una parte in causa. Per di più, provvedimenti che dovevano essere pronunciati in una forma predeterminata potevano, e talvolta lo erano, essere emessi erroneamente in una forma diversa. Si pose dunque la questione concernente l'impugnazione dell'ordinanza o del decreto avente contenuto di sentenza o frutto di errore del giudice nell'individuazione della forma corretta dell'atto.

La dottrina ha evidenziato che il dettato dell'art. 279, comma 4, c.p.c. indica chiaramente la scelta del legislatore di riferire il tipo di impugnazione alla forma attribuita all'atto da impugnare. La giurisprudenza ha seguito il diverso criterio della prevalenza della sostanza sulla forma. Ad esempio, si è ripetutamente ritenuta appellabile come vera e propria sentenza l'ordinanza collegiale che di essa aveva il contenuto, pur se sottoscritta dal solo presidente (Cass. civ., 29 maggio 1999, n. 5250; Cass. civ., 26 agosto 1993, n. 9033). In proposito viene seguito l'insegnamento delle Sezioni Unite (Cass. civ., 9 giugno 2004, n. 10946), che sul punto enunciarono il seguente principio di diritto: «Al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di ordinanza o di sentenza, e sia quindi soggetto o meno ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze, occorre aver riguardo, non già alla sua forma esteriore ed alla qualificazione attribuitagli dal giudice che lo ha emesso, ma agli effetti giuridici che esso è destinato a produrre». Nella specie decisa, il provvedimento - impropriamente qualificato ordinanza - con cui il giudice monocratico aveva affermato la propria giurisdizione è stato ritenuto avente natura di sentenza non definitiva, per tal modo dovendosi ritenere preclusa, in mancanza di riserva di impugnazione, la riproposizione della questione di giurisdizione attraverso l'impugnazione della sentenza definitiva.

Con riferimento all'impugnazione del decreto, Cass. civ., 8 febbraio 2017, n. 3302 ha affermato che il decreto emesso ai sensi dell'art. 317-bis c.c. ha natura sostanziale di sentenza, presentando i requisiti della decisorietà, in quanto risolve una controversia tra contrapposte posizioni di diritto soggettivo, e della definitività, con efficacia assimilabile, rebus sic stantibus, a quella del giudicato; pertanto, in relazione a tale decreto, l'impugnazione va proposta con appello, nei termini di impugnazione dettati dagli artt. 325 e 327 c.p.c., e non già con il reclamo ex art. 739 c.p.c..

In tutti questi casi, come è palese, la giurisprudenza ha abbandonato il principio dell'apparenza, fondato sulla forma dell'atto; in favore di una ricerca rivolta a identificare la reale natura dell'atto da impugnare. In questo modo, il criterio della certezza fornito ex prima facie dalle valutazioni del primo giudice ha ceduto il passo ad una indagine caso per caso, di vera e propria interpretazione della domanda e della pronuncia, nel loro contenuto e nei loro effetti.

Per tornare al principio dell'apparenza ed alla sentenza che si annota, si è rilevato che la pronuncia ha indicato in una esigenza di massima certezza la ratio che giustifica il detto principio nelle impugnazioni. In effetti, il fatto di seguire senza contestazioni la valutazione operata dal primo giudice (a meno che di essa si voglia fare oggetto specifico di gravame) fornisce un criterio oggettivo sufficientemente univoco ad assicurare l'auspicata certezza sulla stabilità delle decisioni giudiziarie. In proposito Cass. civ., 15 febbraio 2011, n. 3712, ebbe ad aggiungere che una ragione giustificatrice del principio va ravvisata anche nello scopo di escludere, attraverso la sua applicazione, che la parte possa conoscere soltanto ex post, ad impugnazione avvenuta, quale era il mezzo di impugnazione esperibile nel caso concreto.

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