Le misure penali introdotte dalla legge delega

15 Gennaio 2018

Il presente breve lavoro è finalizzato a descrivere e analizzare sommariamente le novità in ambito penalistico introdotte dalla legge delega n. 155/2017 sulla riforma della disciplina della crisi di impresa.
Premessa

Il presente breve lavoro è finalizzato a descrivere e analizzare sommariamente le novità in ambito penalistico introdotte dalla legge delega n. 155/2017 sulla riforma della disciplina della crisi di impresa.

La legge delega per la riforma della crisi di impresa

In via generale si può osservare che la L. n. 155/2017, con cui il Parlamento ha conferito delega al governo per la riforma della disciplina della crisi d'impresa e dell'insolvenza, valorizza i principi di responsabilità e premialità, orientandosi per un trattamento benevolo sotto più punti di vista - fiscale, ma anche penale - all'imprenditore che, individuati alcuni indici rivelatori di una crisi d'impresa e di una probabile futura insolvenza, diligentemente attiva quell'insieme di meccanismi di risoluzione della crisi introdotti dalla legge delega stessa.

Tale principio sta alla base dell'idea, propria della delega, di distinguere i concetti di stato di crisi (intesa come concreta probabilità di futura insolvenza) e di insolvenza vera e propria.

Il superamento del termine “fallimento” con quello di “liquidazione giudiziale” vuole rendere l'idea, anche dal punto di vista terminologico, del cambiamento di insieme che la riforma intende imprimere alla disciplina della materia.

La delega, si può dire, da un lato “carica” l'imprenditore (e non solo, ma anche gli organi di governo e di vigilanza dell'ente) di nuove responsabilità, chiedendogli di munirsi di strumenti interni di rilevazione della crisi d'impresa e, una volta constatatane l'esistenza, iniziare con prontezza quel percorso di risanamento e di esdebitazione “bonaria” che la delega offre. Se l'imprenditore, facendo questo, si dimostra virtuoso, non solo potrà beneficiare di tali strumenti di risoluzione amichevole della crisi, ma gli sarà riservato anche un trattamento di favore sotto molteplici aspetti, come la riduzione delle sanzioni amministrative, e, sul piano penalistico, la concessione di attenuanti e, addirittura, di cause di non punibilità per alcuni reati fallimentari.

Si può quindi affermare che la delega interviene energicamente in via preventiva sulla crisi di impresa, al fine di creare il tessuto normativo per scongiurare l'insolvenza attraverso procedure negoziate, attraverso una nuova e preventiva fase di allerta, e usando strumenti di responsabilità e di premio verso l'imprenditore al fine di implementare e rendere efficaci e effettive le misure stesse.

Tale spirito riformatore, tale binomio responsabilità-premialità nell'ambito del diritto d'impresa, che riesce così mirabilmente a coniugare pragmaticità e moralità, non è nuovo, in realtà, degli esecutivi che sono espressione dell'attuale maggioranza parlamentare, avendo costituito l'imprinting anche di altre riforme importanti, tra le quali quella, recente, in tema di diritto tributario.

Ora, se entrambe tali riforme (e cioè quella della crisi di impresa e quella della disciplina sanzionatoria in ambito tributario di cui al D.Lgs. n. 158/2015) costituiscono un novum positivo per il Paese, è anche vero che, entrambe, sono anche un'occasione persa, per il Legislatore, per addentrarsi più in profondità nel rinnovamento, per affrontare problemi aperti e tuttora irrisolti.

Si pensi, riguardo alla riforma del diritto penaltributario, alla (pesante) assenza di presa di posizione del Legislatore in riferimento alla disciplina da adottarsi nei casi in cui alcuni reati tributari (e segnatamente quelli relativi al semplice mancato pagamento delle imposte, senza uso di mezzi fraudolenti) siano stati posti in essere in conseguenza di una crisi di liquidità di cui l'imprenditore sia incolpevole.

Così, nella novella introdotta dalla legge delega ora in commento, si è persa un'occasione preziosa per regolare alcuni aspetti rilevanti del diritto penalfallimentare, come, ad esempio, il problema della responsabilità oggettiva, o da posizione, che sorge ove, conformemente alla disciplina e all'interpretazione giurisprudenziale attuale, la sentenza dichiarativa del fallimento sia valutata quale condizione oggettiva di punibilità per i reati bancarottieri, quando da più parti si è sostenuto che i principi, costituzionalmente garantiti, di responsabilità personale e offensività impongono che il fallimento (rectius, l'insolvenza) sia una conseguenza quantomeno prevedibile (se non voluta) del fatto bancarottiero.

Su questo fronte, già nel 2002, il Legislatore era intervenuto, prevedendo a chiare lettere, in materia di bancarotta cd. societaria, la necessità, per la configurazione del reato, di un collegamento eziologico e psichico tra condotta illecita e dissesto.

Tale argomento, così spesso dibattuto non solo in dottrina, ma anche nelle aule di giustizia, non è stato preso in considerazione dalla delega, almeno esplicitamente.

Occorre tuttavia evidenziare che, a mezzo della legge in commento (art. 2), il Parlamento ha conferito delega al Governo di “riformulare le posizioni che hanno dato luogo a contrasti giurisprudenziali”. Tale previsione può costituire un grimaldello efficace, attraverso il quale il Governo può intervenire anche su temi non esplicitamente dettagliati nella legge delega, come, ad esempio, quello relativo ai rapporti tra condotta illecita e insolvenza.

Meccanismi stragiudiziali di risoluzione della crisi: i nuovi obblighi per l'imprenditore

Tale è il quadro generale, la situazione che fa da cornice agli interventi pensati dal Legislatore delegante in materia penalfallimentare.

Analizziamo ora sommariamente tali interventi.

In primo luogo, occorre premettere che non solo gli interventi diretti in materia penale sono idonei a incidere sulla disciplina penalistica, del fallimento così come di ogni altro aspetto della disciplina del vivere civile.

Infatti, la norma penale è strutturalmente, naturalmente aperta agli influssi non solo del costume del tempo e del luogo, ma anche di norme extrapenali, le quali possono, come elementi normativi della fattispecie, interagire con il diritto penale.

Tale è il caso della riforma in commento, la quale, come si è anticipato sopra, grava l'imprenditore (e i vertici dell'ente societario) di nuovi e stringenti obblighi, la cui violazione potrà essere alla base di contestazioni dal punto di vista penalfallimentare.

Più in particolare, si segnala in questo senso l'art. 4 della legge in commento, il quale si occupa del rivoluzionario strumento della “procedura di allerta”, e cioè degli strumenti stragiudiziali di sostegno alle imprese, che sono diretti “a una rapida analisi delle cause del malessere economico e finanziario dell'impresa” e sono destinati a “sfociare in un servizio di composizione assistita della crisi” (dossier del Servizio Studi sull'A.S. n. 2861, p. 11).

La procedura per l'assistenza al debitore è attribuita a un apposito organismo di composizione della crisi, da istituirsi, secondo la lettera della norma in commento, presso ciascuna Camera di Commercio.

Ora, a dire il vero, gli organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento già esistono, già sono istituiti, funzionanti e operanti presso ciascuna Camera di Commercio ai sensi dell'art. 15 L. n. 3/2012 (oltre che del relativo regolamento di attuazione n. 202/2014). E' quindi evidente che il Legislatore delegato dovrà confrontarsi con tale dato di fatto e approntare misure di raccordo e razionalizzazione, come tra l'altro puntualmente rilevato dalla relazione tecnica della Ragioneria Generale dello Stato, prot. n. 1-5663 del 2 ottobre 2017.

A parte tale presumibile “svista” del Legislatore delegante, occorre segnalare che la norma in commento prevede che il Legislatore delegato dovrà inserire l'obbligo, a carico degli organi di controllo dell'ente societario e degli organi di revisione, di avvisare immediatamente gli amministratori dell'ente “dell'esistenza di fondati indizi della crisi”, che dovranno essere determinati nello specifico dal Legislatore delegato (art. 4, lett. c).

Riguardo al collegio sindacale dell'ente societario, è previsto (art. 4, lett. f) che i membri del collegio non siano solidalmente responsabili con gli amministratori (per i fatti o le conseguenze pregiudizievoli successive), ove abbiano effettuato le dovute segnalazioni sullo stato di crisi all'organo amministrativo.

Ai sensi dell'art. 14 della legge delega, l'esecutivo dovrà introdurre nel decreto delegato, in riforma a disposizioni del codice civile, il dovere dell'imprenditore e degli organi della procedura di creare strutture interne all'impresa idonee a consentire una tempestiva rivelazione dello stato di crisi, così da poter utilmente attivare le procedure alternative di superamento della crisi di cui si è detto sopra.

E' quindi evidente che tutti gli organi societari, anche quelli di revisione e di controllo, siano pienamente coinvolti nel meccanismo di allerta e abbiano il dovere di attivarsi diligentemente al fine di effettuare le dovute segnalazioni all'organo di gestione. E' chiaro che l'eventuale violazione di tali doveri potrà portare a dichiarazioni di responsabilità.

Le misure premiali

Come si è anticipato, l'imprenditore che diligentemente si attiva e “autodenuncia” il proprio stato di crisi, “intesa come possibilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle considerazioni della scienza aziendalistica” (art. 1, comma 1, lett. c), avrà diritto a un trattamento premiale sotto diversi punti di vista.

Tale trattamento favorevole si sostanzia, dal punto di vista extrapenale, sia nella stessa possibilità di accedere al meccanismo “confidenziale” e stragiudiziale di sostegno alle imprese e soluzione negoziata della crisi, sia in una “una congrua riduzione degli interessi e delle sanzioni correlate ai debiti fiscali dell'impresa” (art. 4, comma 1, lett. h). Tale “alleggerimento” dei debiti verso il fisco potrà in alcuni casi (a seconda dell'entità delle riduzioni che sarà decisa dal Legislatore delegato) rivelarsi determinante per evitare l'insolvenza, dato che, nella prassi, si rileva come molto spesso proprio il peso dei debiti fiscali, e più in particolare delle sanzioni tributarie, contribuisca in misura rilevante a cagionare il dissesto dell'impresa.

Dal punto di vista penalistico, l'impianto normativo del Legislatore delegante prevede per l'imprenditore “virtuoso” (che cioè abbia diligentemente e tempestivamente adottato le iniziative descritte sommariamente sopra) una forma di esenzione del reato e una forma di attenuante.

La causa di non punibilità

Più in particolare, il Legislatore delegante ha previsto in primo luogo una causa di non punibilità “per il delitto di bancarotta semplice e per gli altri reati previsti dalla legge fallimentare” (art. 4, lett. h).

Secondo il tenore letterale della norma, quindi, la suddetta causa di esenzione dalla pena dovrebbe coinvolgere non solo il delitto di bancarotta semplice, ma anche gli altri reati fallimentari, come quello di bancarotta fraudolenta (documentale e patrimoniale), la bancarotta societaria, la bancarotta c.d. preterintenzionale (di cui all'art. 221 l.fall.).

Tuttavia, per ottenere l'esenzione dalla pena, non basta attivare gli strumenti di allerta previsti dalla riforma, ma occorre anche che il danno patrimoniale cagionato sia “di speciale tenuità”.

Il concetto di speciale tenuità che il Legislatore delegato dovrà osservare è quello di cui all'art. 219, comma 3, l.fall., che prevede una circostanza attenuante (a effetto comune) proprio nel caso in cui il danno patrimoniale cagionato dal reato fallimentare (qualunque esso sia) sia “di speciale tenuità”.

E' quindi evidente che il concetto di “speciale tenuità” in ambito fallimentare dovrà essere oggetto di un'approfondita analisi da parte della Giurisprudenza e della dottrina (ben maggiore di quella che gli è stata riservata finora), viste le conseguenze particolarmente pregnanti dal punto di vista pratico che ad esso saranno collegate.

Occorre puntualizzare altresì che la tecnica della causa di non punibilità è stata utilizzata e implementata in altri casi, in ambito di diritto penale d'impresa, dai governi espressione dell'attuale maggioranza parlamentare.

A titolo di esempio, con la riforma del 2015 cui si è fatto cenno sopra, il governo, nella sua qualità di Legislatore delegato, ha introdotto nella disciplina penaltributaria una rilevante causa di non punibilità, costituita dall'integrale pagamento (tempestivo) del debito tributario. Tale tecnica viene oggi utilizzata anche in campo penalfallimentare.

In generale, è utile ricordare che le cause di non punibilità rientrano nella categoria delle esimenti. A mezzo delle cause di non punibilità, il Legislatore esclude la punizione di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, per una valutazione di opportunità politico-criminale.

L'attenuante

Come si è visto, ai sensi dell'art. 4, lett. h) della legge delega in commento, tra le misure premiali di natura personale (diverse da quelle di tipo patrimoniale, di cui si è dato sopra succintamente conto) compare non solo la causa di non punibilità, ma anche la previsione di “un'attenuante ad effetto speciale per gli altri reati”.

L'attenuante in questione potrà essere concessa (solo) nel caso in cui l'imprenditore si adoperi tempestivamente al fine di attivare le misure di protezione e assistenza disegnate dalla legge delega.

La formula linguistica utilizzata dal Parlamento è evidentemente generica, quasi laconica, e lascia pertanto ampi spazi di manovra al governo in fase di esercizio della delega.

In primo luogo, il Legislatore delegante si preoccupa di stabilisce la natura dell'attenuante da inserire, che dovrà essere “ad effetto speciale”.

Ciò significa che l'attenuante in questione dovrà avere un “peso” particolare, speciale, più consistente rispetto alle “normali” attenuanti.

Occorre precisare al riguardo che le attenuanti, in generale, possono essere generali, e cioè quelle relative a tutti i reati, e descritte all'art. 62 c.p., oppure speciali, e cioè aventi ad oggetto uno o più reati determinati.

Inoltre, l'attenuante può avere un effetto “generale”, e cioè ordinario, che è quello descritto dall'art. 62 c.p. Ciò significa che la diminuzione della pena in seguito all'accertamento dell'esistenza dell'attenuante non potrà superare un terzo della pena stessa.

L'attenuante può altresì configurarsi, per la volontà del Legislatore, come a “effetto speciale”, e cioè determinante una diminuzione della pena superiore al terzo della stessa.

La tecnica della circostanza a effetto speciale, vista la sua grande rilevanza a fini pratici per il computo finale della pena, è utilizzata dal Legislatore quale forte incentivo per il reo, e riguarda molto spesso, come nel caso in esame, condotte successive (e in senso lato “riparatorie”) rispetto alla commissione del fatto di reato.

Si pensi, a titolo di esempio, alle attenuanti a effetto speciale che premiano il reo che collabora con la giustizia in materia di narcotraffico, associazioni mafiose, terrorismo e altri gravi reati.

Ancora, si pensi alla recente introduzione, da parte del governo espressione dell'attuale maggioranza parlamentare, dell'attenuante a effetto speciale, con uno “sconto” della pena “fino alla metà”, in materia di reati tributari, e segnatamente nel caso di tempestivo pagamento (prima dell'apertura del dibattimento) del debito tributario (cfr., art. 13 bis, D.Lgs. n. 74/2000).

Ora, il Legislatore delegante non ha precisato quale debba essere la riduzione della pena da applicarsi, fermo il fatto che tale riduzione dovrà essere maggiore rispetto al terzo, trattandosi di circostanza a effetto speciale.

Il governo dovrà quindi valutare attentamente, essendone stato lasciato libero dal Parlamento, il quantum della riduzione di pena da applicarsi.

Riguardo all'ambito di applicazione della circostanza in parola dal punto di vista oggettivo, occorre evidenziare la generica, quasi vacua indicazione del Legislatore delegante, che si limita a fare riferimento agli “altri reati”, senza ulteriori specificazioni.

Deve quindi intendersi che l'attenuante potrà essere applicata non solo a tutti i reati fallimentari, ma anche a reati di diversa natura.

Rapporti con la normativa antimafia e con quella relativa alla responsabilità amministrativa dell'ente

L'art. 13 della legge delega, rubricato “Rapporti tra liquidazione giudiziale e misure penali”, prevede che il governo adotti disposizioni per il coordinamento tra la procedura di fallimento (rectius, liquidazione giudiziale) e alcune misure previste da leggi speciali.

Si tratta in particolar modo delle misure cautelari adottate ai sensi della normativa antimafia e di quelle adottate ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001.

Il Legislatore delegante specifica che le misure antimafia dovranno essere considerate prevalenti rispetto “alla gestione concorsuale”; viceversa, quest'ultima dovrà prevalere rispetto alle misure cautelari emesse ai sensi della normativa sulla responsabilità amministrativa dell'ente in conseguenza di fatti reato.

Le misure antimafia

La normativa di riferimento in materia misure di prevenzione antimafia è costituita dal D.Lgs. n. 159/2011 (c.d. Codice Antimafia), il quale, tra l'altro e per quello che qui interessa, prevede che particolari categorie di soggetti, sebbene non accertati giudizialmente come colpevoli di alcun reato, siano soggetti a misure di prevenzione, al fine di circoscriverne la pericolosità; tali misure di prevenzione possono avere carattere sia personale (allontanamento, foglio di via etc.), sia patrimoniale (sequestro e confisca di beni). La più importante categoria di soggetti cui tali misure sono destinate è costituita da coloro che, in base a indizi concreti, sono ritenuti sospetti di appartenere a un'associazione a delinquere di tipo mafioso.

E' evidente che, nella prassi giudiziaria, eventuali misure antimafia (e segnatamente la misura del sequestro a scopo di confisca) adottate nei confronti dell'imprenditore possano intersecarsi con una procedura concorsuale a carico dello stesso, che potrà naturalmente instaurarsi prima o dopo l'emissione del provvedimento di prevenzione.

Il Codice Antimafia si fa carico, in una sua apposita sezione (artt. 63 e ss.), di disciplinare i reciproci rapporti tra le due procedure in esame.

Tale sezione è stata peraltro oggetto di riforma con il recente intervento di cui alla L. n. 161/2017.

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 63 e 64 D.Lgs. cit., sia che la misura antimafia intervenga prima o dopo la dichiarazione di fallimento, il bene colpito sarà nei fatti “asportato” dalla massa attiva del fallimento e i creditori del fallito potranno eventualmente soddisfarsi sul bene in questione una volta soddisfatte le pretese vantate dallo Stato in attuazione della misura antimafia.

La conseguenza sul piano pratico di tale impostazione è, evidentemente, quella di frustrare le aspettative dei creditori della massa concorsuale in favore dello Stato, il quale, attraverso la confisca, incamera, a discapito dei creditori del fallito, il bene oggetto della misura di prevenzione.

Occorre evidenziare al proposito che la soluzione della prevalenza del sequestro preventivo (anche per equivalente) o della confisca sulla procedura concorsuale era stata fatta propria dalla Giurisprudenza dominante già prima dell'entrata in vigore del Codice Antimafia. Detta soluzione è stata poi accolta normativamente nel Codice, nella riforma attuata con L. n. 161/2017 e, infine, è stata confermata nella legge delega oggetto del presente breve lavoro.

Le misure ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001

Il rapporto di forza è invertito quando la procedura fallimentare si trova a coesistere con la sanzione del sequestro (anche per equivalente) finalizzato alla confisca, o alla confisca stessa di un bene facente parte della massa attiva fallimentare, emesso ai sensi degli artt. 19 e 53, D.Lgs. n. 231/2001, il quale disciplina la responsabilità amministrativa degli enti in conseguenza della commissione di taluni fatti di reato commessi a loro vantaggio o nel loro interesse.

Occorre premettere che, ai sensi dell'art. 19, comma 2, D.Lgs. cit., in caso di sequestro o di confisca sono fatti salvi “i diritti dei terzi acquisiti in buona fede”.

Tale, laconica, disposizione ha dato adito a numerosi contrasti interpretativi in seno alla stessa Giurisprudenza di legittimità riguardo ai rapporti tra le procedure ora in esame.

Il contrasto è stato da ultimo risolto con sentenza delle SS.UU., con cui si è condiviso l'indirizzo della prevalenza dei diritti dei creditori della massa fallimentare su quelli dello Stato in esecuzione del sequestro o della confisca ex D.Lgs. cit.

Afferma in particolare la sentenza di cui si è appena fatto cenno: “se venga disposta la confisca dei beni in pendenza di una procedura fallimentare sugli stessi, lo Stato potrà insinuarsi nel fallimento per far valere il proprio diritto, che sarà soddisfatto dopo che siano stati salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede”; infatti, “lo Stato potrà far valere il suo diritto sui beni sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura“ (Cass. pen., SS.UU., n. 11170 del 2015).

Il Parlamento, nel conferire la delega al governo, mostra quindi di aderire alla posizione fatta propria dalle SS.UU., riconoscendo il buon diritto dei terzi in buona fede.

Mette conto evidenziare come, ad ogni buon conto, l'attuale assenza di una organica disciplina renda assolutamente opportuno, e anzi necessario, un intervento da parte del Legislatore.

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