La tassazione degli utili provenienti da paradisi fiscali

Giovambattista Palumbo
15 Gennaio 2018

La Legge di Bilancio 2018 ha stabilito una tassazione di favore per le società che dimostrano, anche tramite interpello di cui all'art. 167, comma 5, lett. b) del TUIR, l'effettivo svolgimento di un'attività industriale o commerciale, come principale attività, nel Paese a tassazione privilegiata. In questo caso gli utili sono imponibili per il 50%, restando ferma la possibilità di recupero attraverso il credito di imposta per le imposte assolte sugli utili maturati all'estero.
La definizione di paradisi fiscali

Il regime fiscale della black list (che dovrebbe individuare i cosiddetti paradisi fiscali) fu introdotto dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, che aggiunse all'art. 76 del TUIR previgente i commi 7-bis e 7-ter (ora art. 110, commi 10 e 11).

Il comma 7-bis, in origine, prevedeva un unico criterio, per la individuazione dei “paradisi fiscali”, costituito dal ridotto livello di imposizione sui redditi societari (totale esclusione oppure imposizione inferiore alla metà di quella italiana).

Sulla base di questa direttiva fu elaborata la prima lista di Paesi e territori a fiscalità privilegiata (cosiddetti “paradisi fiscali”), contenuta nel Decreto ministeriale 24 aprile 1992.

L'esigenza di contrastare la prassi di localizzare i redditi di un'impresa in Stati o territori a fiscalità privilegiata era stata avvertita anche a livello internazionale.

In particolare, il 20 gennaio 1998 il Comitato degli Affari fiscali dell'OCSE adottò un rapporto intitolato “Armful tax competition: an emerging global issue”, annoverando nella propria black list quarantuno Paesi in base:

  1. alla ridotta aliquota di imposizione effettiva;
  2. alla concessione di sgravi fiscali senza l'effettuazione di controlli sull'attività svolta;
  3. all'assenza di scambio di informazioni;
  4. all'assenza di trasparenza nell'apparato legislativo e amministrativo.

A stretto giro, in linea con le indicazioni dell'OCSE, anche il legislatore italiano intervenne una seconda volta – con la L. 21 novembre 2000, n. 342 – sul testo del comma 7-bis dell'art. 76.

La modifica riguardò, tra l'altro, i criteri da seguire per l'individuazione degli Stati e dei territori aventi regime fiscale privilegiato, venendo stabilito che, per perseguire le finalità previste dalla norma stessa, questi devono essere identificati in ragione di:

  • livello di tassazione sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia (come accadeva prima);
  • mancanza di un adeguato scambio di informazioni;
  • altri criteri equivalenti (per “altri criteri equivalenti” si intendono gli ulteriori elementi eventualmente individuati dall'OCSE o da altri organismi internazionali).

In forza di queste diverse direttive fu dunque emanato il Decreto ministeriale 23 gennaio 2002, contenente una nuova black list (tuttora in vigore).

Come si legge nel preambolo del decreto, nella stesura della seconda lista si tenne conto del livello di imposizione gravante sulla categoria dei redditi d'impresa, assumendo come parametro di riferimento la misura dell'imposizione applicata in Italia a titolo di IRPEG e dell'IRAP.

Se è vero dunque che l'assenza di collaborazione tra Stati e la mancanza di trasparenza rappresentano l'ostacolo fondamentale alla “scoperta” delle frodi fiscali realizzate attraverso società fiscalmente domiciliate in “paradisi fiscali”, è stato altresì ritenuto che non si sarebbe potuto legittimamente impedire a un'impresa di fare affari con un soggetto estero solo perché residente in uno Stato avente un regime fiscale privilegiato, perché ciò avrebbe significato l'indebita compressione della libertà di iniziativa economica.

A ben vedere anche nel Rapporto OCSE del 1998 si precisava che il basso (o insignificante) livello di imposizione costituiscono solo il punto di partenza per individuare i Paesi “a rischio”, dovendo ogni valutazione al riguardo tenere conto del livello di trasparenza amministrativa e della capacità del Paese estero di garantire un effettivo scambio di informazioni.

A questa impostazione si è informata, fino ad oggi, la legislazione italiana.

Si fa spesso del resto confusione sul concetto di “paradisi” fiscali, laddove, peraltro, il concetto di “paradiso”, fiscale o bancario o finanziario, varia molto a seconda dell'ordinamento giuridico a cui si riferisce.

La denominazione “paradisi bancari” caratterizza per esempio, specificatamente, quei Paesi in cui sono maggiormente privilegiati gli aspetti legati al segreto bancario, mentre nei “paradisi fiscali” assume maggior rilevanza l'aspetto delle agevolazioni fiscali.

Le organizzazioni criminali privilegiano comunque i primi tipi di “paradisi”, dato che l'esigenza dell'anonimato nelle operazioni economiche e la tutela del segreto bancario sono senz'altro per loro più appetibili rispetto a quella delle agevolazioni fiscali, anche considerato che pagare più o meno tasse su proventi comunque illeciti non è così gravoso come pagarli su proventi frutto di lavoro e fatica e soprattutto considerato che l'unico sistema che tali organizzazioni hanno per “lavare” il denaro “sporco” è proprio quello di immetterlo nel circuito ufficiale del sistema bancario internazionale.

Anziché distinguere allora i “paradisi” in “fiscali” e “bancari”, bisognerebbe parlare piuttosto di paradisi finanziari, usando un termine onnicomprensivo che faccia riferimento a tutti quei Paesi presso i quali:

  • il segreto bancario è rigidamente tutelato;
  • le operazioni valutarie e finanziarie sono rapide ed agevoli;
  • gli istituti di credito garantiscono l'anonimato;
  • lo svolgimento di accertamenti bancari o patrimoniali è inibito o, comunque limitato a casi di assoluta indispensabilità;
  • l'assistenza giudiziaria ad eventuali rogatorie non è garantita dalla esistenza di accordi internazionali;
  • l'irrisorietà (se non inesistenza) di gravami fiscali sui redditi societari e/o delle persone fisiche e sui redditi da capitale rende particolarmente vantaggiosi i depositi monetari, gli investimenti e le operazioni su valuta.

Come si può vedere, parlare solo di adeguato scambio di informazioni è un pò “riduttivo”.

Una definizione che recepisse tutti tali elementi sarebbe senz'altro più completa e coerente.

L'evoluzione normativa

La legge di Stabilità 2016, modificando l'art. 167, comma, del d.P.R. n. 917/1986, aveva già variato i criteri di individuazione dei paradisi fiscali, considerando fiscalmente privilegiati:

  • i regimi in cui “il livello nominale di tassazione” risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia;
  • i regimi speciali, ossia quelli che prevedono “particolari disposizioni”che comportano un livello di imposizione agevolato.

Per espressa disposizione normativa è stato dunque previsto che, in ogni caso, sia considerato privilegiatoun regime speciale che determina un livello di imposizione inferiore di oltre il 50 per cento rispetto a quello applicato in Italia, nonostante l'aliquota ordinaria dello Stato o territorio sia superiore alla metà di quella domestica.

Il 5 dicembre 2017, anche il Consiglio europeo ha pubblicato sul proprio sito, le conclusioni contenenti l'elencodegli aventi giurisdizioni non cooperative in materia fiscale (cd. paesi black list).

L'elenco, inserito nel documento intitolato “December 2017 Council conclusions on the list of non-cooperative jurisdictions in taxation matters”, è stato compilato tenendo conto di tre criteri, già fissati nel 2016 dal Consiglio stesso, che non sono stati rispettati dai paesi black list.

Tali criteri sono:

  • la trasparenza fiscale;
  • una tassazione equa;
  • applicazione delle misure anti-BEPS (erosione della base imponibile e spostamento degli utili) sul trasferimento dei profitti da uno stato all'altro.

Nell'ottobre 2017, conclusi i lavori di analisi, le giurisdizioni che non hanno rispettato i criteri di cui sopra (fatta eccezione di quelle colpite da calamità naturali) hanno ricevuto una lettera con la quale, l'UE ha comunicato loro l'esito del lavoro e richiesto il loro impegno politico per affrontare tutte le carenze individuate.

In risposta, la maggior parte delle giurisdizioni hanno presentato all'UE un fermo impegno politico per risolvere le incompatibilità del proprio Paese entro il 31 dicembre 2018.

Questo l'elenco degli stati black list secondo il Consiglio Europeo:

  1. Samoa Americane
  2. Bahrain
  3. Barbados
  4. Grenada
  5. Guam
  6. Korea
  7. Macao SAR
  8. Isole Marshall
  9. Mongolia
  10. Namibia
  11. Repubblica di Palau
  12. Panama
  13. Santa Lucia
  14. Samoa
  15. Trinidad e Tobago
  16. Tunisia
  17. Emirati Arabi Uniti
Il decreto internazionalizzazione

Il D.Lgs. 147/2015 (decreto per l'internazionalizzazione delle imprese), aveva già modificato integralmente le regole di tassazione riservate ai dividendi provenienti da Stati o territori a regime fiscale privilegiato.

A partire dall'esercizio 2015, la tassazione integrale dei dividendi ex art. 89, comma 3, d.P.R. n. 917/1986 si poteva infatti applicare solo nell'ipotesi in cui il socio italiano detenesse una partecipazione diretta in una società residente o localizzata in Stati o territori a fiscalità privilegiata.

In caso invece di partecipazione indiretta il socio italiano doveva essere titolare di una partecipazione di controllo nella sub-holding intermedia residente in uno Stato a fiscalità ordinaria (c.d. white list) che percepisse, a sua volta, utili da partecipate estere localizzate in Stati o territori a fiscalità privilegiata.

Per non subire la tassazione integrale dei dividendi provenienti da società ed enti localizzati in Stati o territori black list, il socio residente nel territorio dello Stato doveva dimostrare che dal possesso delle partecipazioni non conseguiva l'effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a fiscalità privilegiata, mediante la presentazione di apposito interpello disapplicativo, ex articolo 167, comma 5, lettera b), d.P.R. 917/1986.

Le novità della Legge di Bilancio 2018 in tema di tassazione dei dividendi provenienti da paradisi fiscali

In un tale contesto, infine, la Legge di Bilancio 2018 (L. 205 del 27 dicembre 2017) ha stabilito che per le società che dimostrano, anche tramite interpello di cui all'art. 167, comma 5, lett. b) del TUIR, l'effettivo svolgimento di un'attività industriale o commerciale, come principale attività, nel Paese a tassazione privilegiata, gli utili sono imponibili per il 50%, restando ferma la possibilità di recupero attraverso il credito di imposta per le imposte assolte sugli utili maturati all'estero.

Fino ad oggi, invece, la dimostrazione dell'esimente dell'attività commerciale consentiva la disapplicazione della disciplina Cfc, e quindi evitava la tassazione per trasparenza, ma non la tassazione integrale dei dividendi.

Viene inoltre previsto che non si considerano provenienti dai paradisi fiscali gli utili percepiti dal periodo di imposta successivo al 31 dicembre 2014 maturati in precedenza se il Paese non era incluso nelle black list.

Per gli utili maturati dopo il 31 dicembre 2014 occorre invece tenere presente che, come visto, si considerano privilegiati i Paesi con un livello nominale di tassazione inferiore al 50% di quello applicabile in Italia.

In sintesi:

  • Tassazione al 50% per i dividendi provenienti da società operative residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata;
  • esenzione ordinaria del 95% per gli utili prodotti quando la controllata non era inclusa nella black list, anche se al momento della percezione la stessa è considerata residente in un paradiso fiscale.
Il richiamo alla Risoluzione n. 144/2017

Per la dimostrazione della provenienza dei dividendi esteri si richiama comunque la Risoluzione n. 144 del 22 novembre 2017, con la quale l'Agenzia delle Entrate ha chiarito le modalità attraverso cui il contribuente deve ricostruire l'origine dei dividendi percepiti per il tramite di soggetti non residenti, indicando in particolare la documentazione probatoria utilizzabile per la ricostruzione analitica degli utili di fonte estera percepiti attraverso società intermedie non residenti e per la dimostrazione della provenienza o meno degli utili da Stati o territori a regime fiscale privilegiato.

La provenienza dell'utile percepito deve essere dimostrata dal contribuente attraverso unadeguato supporto documentale”.

La ricostruzione, in particolare, deve riguardare sia la formazione della provvista patrimoniale da cui il dividendo è stato attinto sia la consumazione della stessa in occasione della distribuzione.

In conclusione, l'Agenzia ritiene che le delibere adottate dalle società intermedie non residenti, dalle quali risulta che le somme distribuite sono attinte da riserve non alimentate da utili provenienti da Stati o territori a fiscalità privilegiata, costituiscono un “supporto documentale idoneo” a dimostrare che i dividendi percepiti dalla società italiana non rientrano nell'ambito applicativo del regime di imposizione disciplinato dall'art. 89, comma 3, TUIR.

L'istanza di interpello

Assume comunque oggi ancor più rilevanza l'interpello ex art. 167, comma 5 del TUIR, attraverso il quale, come detto, il contribuente potrà dimostrarel'effettivo svolgimento di un'attività industriale o commerciale, come principale attività, nel Paese a tassazione privilegiata.

Si ricorda a tal proposito che il contribuente non è vincolato alla risposta dell'Agenzia delle Entrate, la quale non sappresenta un atto impugnabile, non essendo munita dei caratteri di autoritarietà ed esecutorietà propri dei provvedimenti amministrativi.

L'attività svolta in tal caso dall'Agenzia non costituisce esercizio di potere impositivo, rimandato ad un momento eventuale e successivo, coincidente con l'emanazione di un atto lesivo della sfera giuridica del contribuente, impugnabile, questo sì, con ricorso alla CTP.

La risposta all'interpello non produce dunque effetti diretti ed immediati, avendo solo la funzione di rendere preventivamente nota la posizione dell'Agenzia in ordine all'interpretazione di una norma in relazione ad un caso concreto e, in caso di interpelli diretti ad ottenere la disapplicazione di disposizioni antielusive, di conoscere la valutazione dell'Agenzia circa l'assenza degli stessi effetti elusivi.

Si ricorda ancora, a tal proposito, che il citato D.Lgs. n. 156/2015 ha apportato numerose modifiche a questa materia e tra queste una delle principali novità è stata proprio quella che tale tipo di interpello è passato da obbligatorio a facoltativo, rientrando così nella generale categoria degli interpelli probatori.

Questa modifica si evince dall'art. 167, comma 5, lettera b) del TUIR, che ora stabilisce che “il contribuente può interpellare l'amministrazione”, mentre il testo prima vigente era: “il contribuente deve interpellare l'amministrazione finanziaria”.

Conclusioni

La possibilità della tassazione dei dividendi al 50% (anzichè integrale) si basa dunque tutta sulla prova dell'effettivo svolgimento di un'attività industriale o commerciale, come principale attività, nel Paese a tassazione privilegiata.

A tal fine può essere utile richiamare la giurisprudenza che si è già formata nel tempo su tali concetti (seppur in riferimento al diverso contesto della deducibilità dei costi black list).

L'art. 110 del TUIR, ai commi 10 e 11, disponeva, infatti, che non erano ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti ovvero localizzate in Stati o territori diversi da quelli individuati nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell'articolo 168-bis (cosiddetta white list).

Ai sensi del comma 11 i costi risultavano inoltre comunque deducibili quando le imprese residenti in Italia avessero fornito la prova che le imprese estere localizzate nei “paradisi fiscali”, svolgevano prevalentemente un'attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondevano a un effettivo interesse economico e che le stesse avessero avuto concreta esecuzione.

La disapplicabilità della norma di sfavore operava, dunque, a condizione che il contribuente italiano fosse in grado di provare, alternativamente, la sussistenza di una delle circostanze rappresentate, rispettivamente:

  • dallo svolgimento prevalente, da parte dell'impresa estera, di un'attività commerciale effettiva;
  • dalla rispondenza delle operazioni, le quali devono avere avuto concreta attuazione, a un effettivo interesse economico dell'impresa italiana.

La prima esimente è dunque ora la stessa rilevante anche ai fini della tassazione agevolata dei dividendi.

L'articolo 4 del Decreto crescita ed internazionalizzazione (D.Lgs. n. 147/2015) era peraltro poi intervenuto anche su questo profilo, laddove una prima novità del D.Lgs. 147/2015 consisteva, attraverso una modifica del comma 10, nel passare da una presunzione relativa di indeducibilità di tali costi (salva la prova della sussistenza delle circostanza esimenti sopra individuate) ad una presunzione legale di deducibilità nel limite del valore normale determinato ai sensi dell'art. 9 del TUIR.

Solamente per la parte di costo che eccedeva il valore normale era dunque necessario fornire prova delle circostanze esimenti per garantirne la deducibilità.

Le modifiche al comma 11 avevano inoltre variato le circostanze esimenti, necessarie esclusivamente al fine di dedurre la parte di costo eccedente il valore normale, essendo sufficiente fornire la prova che le operazioni:

  • rispondessero ad un effettivo interesse economico;
  • avessero avuto concreta attuazione.

Era stata dunque espunta proprio la prova dell'effettivo svolgimento, da parte del soggetto estero, di un'attività commerciale in via prevalente, ora invece “ripescata” sotto il profilo dei dividendi provenienti dai Paesi black list (laddove, peraltro, tale prova era stata a ben vedere superata proprio perché ci si era resi conto che era in realtà difficilmente reperibile e documentabile, quantomeno senza la collaborazione del fornitore estero).

La Legge di Stabilità 2016, con i commi 142-144, ha poi però comunque ulteriormente modificato la disciplina sulla deducibilità dei costi connessi a operazioni con Paesi black list.

In primo luogo, è stata abrogata la disciplina speciale che prevedeva, in caso di operazioni intercorse con soggetti operanti in Paesi o Stati a regime fiscale privilegiato, la deducibilità dei costi nei limiti del valore normale delle componenti negative, a meno che non fosse stato provato che le operazioni compiute non rispondessero a un effettivo interesse economico, concretamente eseguito. Pertanto, anche con riferimento a tali componenti negative, vanno applicate le disposizioni generali sulla deducibilità fiscale dei costi contenute nell'art. 110 del TUIR.

Si ricorda infine che la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 20033 del 7 ottobre 2015 ha stabilito che, in caso di contestazione in ordine alla deducibilità dei costi black list, l'Amministrazione, prima di procedere all'emissione dell'avviso di accertamento, deve notificare al contribuente un apposito avviso, concedendogli la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove dei presupposti richiesti dalla norma per la deducibilità dei costi, anche quando egli non abbia adempiuto all'obbligo di indicare specificamente gli stessi costi nella dichiarazione dei redditi.

Anche nella fattispecie della tassazione dei dividendi sarebbe dunque probabilmente opportuna l'estensione di tale procedura di contraddittorio anticipato.

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