Dichiarazioni scritte di terzi e mancata riproposizione di richieste istruttorie nella precisazione delle conclusioni

15 Gennaio 2018

La Cassazione, nella pronuncia in commento, ha affrontato due aspetti di forte rilievo pratico nel giudizio civile di cognizione: la necessità o meno di riproporre anche in sede di precisazione delle conclusioni le proprie istanze istruttorie che in qualsiasi modo non siano state accolte ed il valore delle dichiarazioni scritte provenienti dai terzi in ordine ai fatti di causa, soprattutto dopo che la nota l. 18 giugno 2009, n. 69 ha introdotto l'art. 257-bis c.p.c., in tema di testimonianza scritta.
Massima

Le dichiarazioni scritte provenienti da terzi estranei alla lite sui fatti aventi relazione con questa non possono esplicare efficacia probatoria nel giudizio se non siano convalidate attraverso la testimonianza ammessa ed assunta nei modi di legge, ma possono unicamente assumere il valore di semplice indizio, l'utilizzazione del quale costituisce non già un obbligo del giudice del merito, bensì una facoltà, il cui mancato esercizio non può formare oggetto di utile censura in Cassazione, sia sotto il profilo della violazione dell'art. 115 c.p.c., sia sotto quello dell'omesso esame su un punto decisivo della controversia.

É onere della parte, che si sia vista respingere una richiesta istruttoria, riproporre tale istanza in sede di precisazione delle conclusioni.

Il caso

La decisione del Supremo Collegio si innesta su una fattispecie processuale molto ricorrente nelle aule di giustizia, prendendo le mosse da una domanda giudiziale di accertamento dell'intervenuta usucapione di una porzione di terreno. L'attore, in particolare, a quanto è dato di evincere dalla parte fattuale della motivazione, lamentava che una porzione di terreno facente parte di un più ampio compendio immobiliare pervenuto ai convenuti mediante decreto di trasferimento, sarebbe stato oggetto di usucapione in proprio favore.

Tale domanda, come noto, presuppone l'accertamento di due elementi costitutivi fondamentali: a) il materiale potere di fatto sul bene, non violento né clandestino, protratto per il periodo di tempo prolungato richiesto dalla legge (in genere 20 anni); b) l'animus possidendi, ossia la dimostrazione da parte dell'attore, attraverso fatti sintomatici, di aver posseduto la cosa comportandosi di fatto come se ne fosse il proprietario.

Sia il tribunale, in primo grado, che la Corte d'appello di Roma avevano respinto tale domanda di accertamento ritenendo non sufficientemente provata la richiesta.

La questione

I motivi di impugnazione avanzati nei confronti della decisione di secondo grado concernono, in sintesi, i seguenti aspetti:

a) violazione e falsa applicazione di disposizioni di legge, per non aver la sentenza di secondo grado pronunciato, in via alternativa: i) l'annullamento della decisione di prime cure; ii) l'ammissione di una dichiarazione scritta resa dinanzi all'addetto comunale da un teste ammesso e non escusso in primo grado a causa di un rinvio d'ufficio dell'udienza istruttoria, non comunicata né all'attore né al teste medesimo, ovvero iii) l'assunzione della prova testimoniale davanti al giudice del gravame;

b) violazione dell'art. 116 c.p.c. in relazione agli artt. 1140 e 1158 c.c. per non aver ritenuto raggiunta la prova dell'animus possidendi;

c) omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio, non avendo i giudici del merito proceduto all'assunzione della prova testimoniale omessa, né tenuto in alcuna considerazione le dichiarazioni scritte rese in sede stragiudiziale dal teste non escusso.

Le soluzioni giuridiche

Il nucleo della decisione ruota attorno al rigetto dei primi tre motivi di censura, cui è collegato anche l'ultimo, tutti attinenti alla mancata assunzione di un teste già ammesso, ma in seguito non escusso in concreto per vicende processuali legate ad un rinvio d'ufficio dell'udienza che non sarebbe stato comunicato alla parte che aveva interesse all'assunzione della prova. Invece che riproporre in sede di precisazione delle conclusioni la relativa richiesta istruttoria, l'attore si era limitato a produrre una dichiarazione scritta resa dal testimone in ordine ai fatti di causa davanti ad un addetto comunale (cd. atto di notorietà); salvo successivamente dolersi che di tale dichiarazione scritta il giudice di primo e di secondo grado non avevano tenuto conto, né quest'ultimo aveva provveduto all'assunzione della prova in sede di giudizio di secondo grado.

I Giudici di legittimità mettono in luce l'intrinseca contraddittorietà della condotta processuale dell'attore, interessato all'accoglimento della domanda di usucapione e, quindi, ad offrire la rigorosa prova che il relativo accertamento richiede.

Da un lato, infatti, ricordando anche un recente precedente (Cass. civ., n. 16290/2016), la motivazione della decisione in commento evidenzia l'onere della parte di riproporre le proprie richieste istruttorie non accolte in sede di precisazione delle conclusioni. In difetto, la conseguenza è ritenuta una implicita rinuncia delle stesse, senza che il giudice possa d'ufficio riprendere in considerazione la pertinenza e rilevanza della prova omessa o già respinta.

Dall'altro lato, in modo assolutamente convincente, la Corte evidenzia il valore meramente indiziario (verrebbe da dire il semplice argomento di prova) collegato a dichiarazioni scritte rese dai terzi in ordine ai fatti sui quali verte la causa. Poiché infatti si è di fronte ad una prova tipica costituenda, quella testimoniale, destinata a formarsi davanti al giudice e nel contraddittorio delle parti, la stessa non può essere trasformata in un corrispondente modello atipico, formato fuori dal giudizio e senza alcuna garanzia di attendibilità del dichiarante e senza il rispetto del contraddittorio. E comunque non si può pretendere che un simile scritto, in alcun modo neppure riconducibile all'istituto della testimonianza scritta di cui all'art. 257-bis c.p.c., possa acquisire lo stesso valore probatorio: si tratta di un documento, una prova atipica, di contenuto indiziario e liberamente apprezzabile dal giudice, che ne può disattendere il contenuto senza una particolare motivazione al riguardo e senza che ciò integri un vizio deducibile in sede di legittimità.

A tal punto, il restante motivo di impugnazione, tendente a fornire una semplice diversa interpretazione del materiale probatorio comunque acquisito al processo, ben può essere comprensibilmente respinto, in quanto nel giudizio di cassazione la deduzione del vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del Giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito. Infatti, prosegue il Collegio, le censure poste a fondamento del ricorso non possono risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito

In definitiva, il rigetto della domanda attorea di accertamento dell'intervenuta usucapione di una porzione di terreno facente è stata pienamente confermata, con condanna alle spese del ricorrente.

Osservazioni

La decisione in commento affronta in termini del tutto condivisibili due aspetti di forte rilievo pratico, la cui mancata o inesatta comprensione costituisce una delle insidie maggiormente frequenti nel passaggio dalla fase istruttoria a quella decisoria di ogni giudizio civile di cognizione:

a) la necessità o meno di riproporre anche in sede di precisazione delle conclusioni le proprie istanze istruttorie che in qualsiasi modo non siano state accolte;

b) il valore delle dichiarazioni scritte provenienti dai terzi in ordine ai fatti di causa, soprattutto dopo che la nota l. 18 giugno 2009, n. 69 ha introdotto l'art. 257-bis c.p.c., in tema di testimonianza scritta.

Un corretto inquadramento del primo problema non può non partire dalla seguente considerazione: la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni implica il rigetto, anche in assenza di un'apposita motivazione al riguardo, di tutte le richieste istruttorie precedenti che non siano state accolte ed espletate.

Da ultimo, conferma la validità di tale insegnamento la seguente recentissima decisione del Supremo Collegio: «deve ritenersi al di fuori di qualsiasi logica del sistema processuale la tesi secondo cui, in difetto di un formale provvedimento sull'ammissione delle prove, la fase istruttoria dovrebbe considerarsi non conclusa, legittimando quindi la produzione documentale tardiva allegata alla memoria conclusionale di replica. L'ordinanza con la quale il giudice rinvia le parti all'udienza di precisazione delle conclusioni presuppone, infatti, che la causa sia sufficientemente matura per la decisione e tale valutazione implica il rigetto delle istanze istruttorie in quanto ritenute superflue o irrilevanti» (Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2017, n. 7055).

Ciò posto, costituisce un principio altrettanto “granitico” quello per cui è onere della parte reiterare in sede di precisazione delle conclusioni la richiesta di ammissione delle proprie istanze istruttorie non accolte, pena la presunzione di abbandono delle stesse: «le istanze istruttorie non accolte in primo grado e reiterate con l'atto di appello, ove non siano state riproposte in sede di precisazione delle conclusioni, sia in primo grado che nel giudizio di gravame, devono reputarsi rinunciate, a prescindere da ogni indagine sulla volontà della parte interessata, così da esonerare il giudice del gravame dalla valutazione sulla relativa ammissione o dalla motivazione in ordine alla loro mancata ammissione» (Cass. civ., sez. III, 10 agosto 2016, n. 16886). Negli stessi termini anche Cass. civ., sez. III, 4 agosto 2016, n. 16290, secondo cui «la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie (nella specie, la richiesta di prova per testi, per ritenuta incapacità a deporre) ha l'onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni poiché, diversamente, le stesse debbono intendersi rinunciate e non possono essere riproposte in appello» (conforme anche Cass. civ., 14 ottobre 2008, n. 25157).

Si potrebbe dubitare della tenuta costituzionale di un principio siffatto, ma la giurisprudenza di legittimità, con una decisione poco nota ma assai perspicua, ha avuto modo di farsi carico (sia pure per respingere) anche una simile argomentazione, affermando che l'interpretazione degli artt. 189, 345 e 346 c.p.c., secondo cui l'istanza istruttoria non accolta nel corso del giudizio e non riproposta in sede di precisazione delle conclusioni deve reputarsi tacitamente rinunciata, non contrasta con gli artt. 47 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, né con gli artt. 2 e 6 dal trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (ratificato con l. 2 agosto 2008 n. 130), né con gli artt. 24 e 111 Cost., non determinando alcuna compromissione dei diritti fondamentali di difesa e del diritto ad un giusto processo, poiché dette norme processuali non escludono né rendono disagevole il diritto di “difendersi provando”, subordinano piuttosto lo stesso ad una domanda della parte che, se rigettata dal giudice dell'istruttoria, va rivolta al giudice che decide la causa, così garantendosi anche il diritto di difesa della controparte, la quale non deve controdedurre su quanto non espressamente richiamato (Cass. civ., 27 giugno 2012, n. 10748).

La motivazione della decisione in commento potrebbe anche concludersi qui, se non fosse che la parte la cui prova testimoniale non è stata assunta, ha ritenuto di produrre una dichiarazione scritta resa dal terzo (già indicato come teste) in ordine ai fatti di causa.

Come già si è ricordato, l'introduzione dell'art. 257-bis c.p.c. ha per la prima volta infranto la regola per cui la testimonianza è la prova orale per eccellenza, che si forma unicamente nel contraddittorio avanti al giudice. É stata così ammessa anche la testimonianza scritta, la cui fortuna processuale è tuttavia assai limitata, posto che la nuova norma la circoscrive sia nell'an che nel quomodo. Infatti, l'ammissibilità ed efficacia probatoria della prova testimoniale scritta richiede la ricorrenza di ben tre presupposti:

1. che vi sia l'accordo di tutte le parti;

2. l'ammissione del giudice, poiché detto accordo non è comunque vincolante, ma l'assunzione della prova è in concreto affidata ad una valutazione del giudice, che deve tener conto della natura della causa e di ogni altra circostanza;

3. la prova deve essere materialmente redatta utilizzando un apposito modello documentale disciplinato dall'art. 103-bis disp. att. c.p.c..

Solo rispettando tali rigidi requisiti la testimonianza scritta risulta ammissibile.

Ben si comprende, quindi, con riferimento al giudizio ordinario di cognizione, lo sfavore che la giurisprudenza nutre per generiche dichiarazioni scritte provenienti da terzi. Più in generale si tende infatti a ritenere che se è vero che in nome del principio del libero convincimento del giudice, è possibile porre a fondamento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito (purché sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione), deve tuttavia escludersi che le prove cd. “atipiche” possano avere l'effetto di aggirare divieti o preclusioni ed introdurre surrettiziamente elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richiede adeguate garanzie formali.

Si è così affermato che dall'assenza nell'ordinamento processuale vigente di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova discende che il giudice possa legittimamente porre a base del proprio convincimento anche le cd. prove atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se valutati criticamente con le altre risultanze del processo cosicché con riguardo alla dichiarazione di un terzo che la parte intenda produrre in giudizio la stessa si risolve in una vera e propria testimonianza scritta, la quale non può più rivestire alcun ruolo se non sia formata secondo il procedimento stabilito per il nuovo istituto, non essendovi ulteriore spazio, nell'ambito del giudizio ordinario di cognizione, per l'acquisizione di una mera dichiarazione scritta di un terzo, sostitutiva della prova testimoniale (Trib. Belluno, 10 ottobre 2011, in Giur. merito, 2013, con nota di Papagni). La stessa decisione ha però cura di precisare che al di fuori del processo ordinario di cognizione (nel caso si trattava di fase sommaria di un procedimento possessorio), il giudice può disporre l'assunzione di informazioni scritte provenienti da terzi, senza osservare la rigida formulazione dell'art. 257-bis c.p.c. e 103-bis disp. att. c.p.c..

Da ricordare, altresì, Cass. civ., Sez. Un. 23 giugno 2010, n. 15169, secondo cui «le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite possono essere liberamente contestate dalle parti, non applicandosi alle stesse né la disciplina sostanziale di cui all'art. 2702 c.c., né quella processuale di cui all'art. 214 c.p.c., atteso che esse costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono, quindi, contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo» (conforme, Cass. civ., sez. II, 14 marzo 2013, n. 6536).

Tali conclusioni vanno allo stato confermate, pur tenendo conto della vicenda relativa alla prevista introduzione (poi esclusa) di un nuovo art. 257-ter c.p.c., che avrebbe dato una legittimazione generale alle dichiarazioni scritte dei terzi. Tale disposizione, aggiunta dall'art. 15 d.l. 12 settembre 2014, n. 132 e poi soppressa in sede di conversione dalla l. 10 novembre 2014, n. 162, infatti prevedeva che la parte può produrre, sui fatti rilevanti ai fini del giudizio, dichiarazioni di terzi, capaci di testimoniare, rilasciate al difensore, che, previa identificazione a norma dell'art. 252, ne attesta l'autenticità. Il difensore avverte il terzo che la dichiarazione può essere utilizzata in giudizio, delle conseguenze di false dichiarazioni e che il giudice può disporre anche d'ufficio che sia chiamato a deporre come testimone.

Una tale possibilità deve oggi ritenersi esclusa, mentre, come ci ricorda la sentenza in commento, nell'ambito di un processo civile ordinario di cognizione le suddette dichiarazioni scritte resa dai terzi sui fatti di causa non possono che avere un ruolo meramente indiziario o quale argomento di prova.

Guida all'approfondimento
  • Besso, Prove atipiche e testimonianza scritta, Giur. it., 2001, 1378;
  • Carnellutti, La prova civile, Napoli, 2016;
  • Giordano, L'istruzione probatoria nel processo civile, Milano, 2013;
  • Ronco, Riflessioni sulla disciplina processuale e sull'efficacia probatoria delle scritture provenienti da terzi, in Riv. dir. civ., 1986, I, 545 ss.;
  • Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc.,1973, 402.

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