La rinuncia tacita o implicita ai mezzi di prova nel processo del lavoro

Antonio Lombardi
16 Gennaio 2018

Nella pronuncia in commento, i Giudici di legittimità si sono occupati di delineare i confini della rinuncia tacita o implicita ai mezzi di prova nel processo civile e delle eventuali differenze tra le regole in tema di ammissione dei mezzi di prova nel rito civile ordinario e quelle che presiedono all'istruttoria nel processo del lavoro. Questione connessa di cui si è occupata la Corte è, poi, quella dell'assumibilità in grado di appello delle prove non ammesse o non acquisite in primo grado e, in generale delle preclusioni istruttorie in grado di appello.
Massima

Laddove nei rispettivi atti introduttivi delle parti di una controversia di lavoro siano stati tempestivamente articolati mezzi di prova, dalla mancata presentazione di un'ulteriore istanza di ammissione nelle udienze successive il giudice non può presumere l'abbandono e ritenerne la decadenza. In particolare, alcun comportamento processuale inequivocamente teso a rinunciare alle prove richieste potrebbe essere desunto dalla circostanza che nel corso dell'udienza preposta, tra l'altro, alla discussione sui mezzi istruttori, il procuratore abbia insistito «per la discussione della causa», evidentemente confidando nel fatto che il giudice potesse ritenere provate aliunde le proprie allegazioni.

Il caso

In un giudizio avente ad oggetto l'impugnativa di un licenziamento il giudice di primo grado aveva ritenuto la società convenuta decaduta dall'ammissione dei mezzi di prova, non avendo il procuratore di tale parte, all'udienza ex art. 420 c.p.c. preposta, tra l'altro, alla discussione dei mezzi istruttori, insistito per l'ammissione dei mezzi articolati in memoria di costituzione e risposta, avendo bensì chiesto di fissarsi udienza di discussione della causa. In sede di gravame la Corte d'appello aveva, tuttavia, ammesso la testimonianza richiesta dalla società nella comparsa di primo grado. Il lavoratore, in sede di ricorso per cassazione, aveva censurato sotto tale profilo la sentenza di appello, evidenziando l'avvenuta decadenza dall'acquisizione dei mezzi di prova, in virtù dell'implicita rinuncia agli stessi e, sotto concorrente profilo, dell'inammissibilità ex officio della prova rispetto alla quale una parte è decaduta in ragione dell'attivazione del meccanismo delle preclusioni processuali.

La questione

La questione esaminata verte, dunque, sull'individuazione dei confini della rinuncia tacita o implicita ai mezzi di prova nel processo civile e delle eventuali differenze tra le regole in tema di ammissione dei mezzi di prova nel rito civile ordinario e quelle che presiedono all'istruttoria nel processo del lavoro. Questione connessa è, poi, quella dell'assumibilità in grado di appello delle prove non ammesse o non acquisite in primo grado e, in generale delle preclusioni istruttorie in grado di appello.

Le soluzioni giuridiche

I comportamenti processuali concludenti sono i contegni, serbati in ambito processuale ai quali, sia pure in assenza di espresse manifestazioni di volontà, sia ascrivibile un significato processualmente tangibile, produttivo di conseguenze di ordine impulsivo o abdicativo. In tale ambito devono annoverarsi le rinunce implicite o tacite, ovvero quelle manifestazioni abdicative evincibili dal comportamento della parte, come le rinunce ad una o più domande o eccezioni giudiziali, o ad istanze da svolgersi in sede endoprocedimentale, come le istanze istruttorie.

La posizione della giurisprudenza, in merito ai comportamenti abdicativi taciti o impliciti, è univoca nel senso di considerare concludente la manifestazione tacita a condizione che sia possibile individuare un'assoluta incompatibilità tra il comportamento e la volontà di avvalersi della precedente istanza. Occorre, in altri termini, che nel contegno della parte sia insita, senza possibilità di una diversa interpretazione, l'inequivoca volontà abdicativa (Trib. Milano, 18 aprile 2013, n. 6709).

Può, in particolare, registrarsi il caso di mancata riproposizione di una domanda o istanza nella sede processuale deputata alla discussione o alla manifestazione della specifica volontà conforme. Così, ad esempio, nell'udienza di discussione dei mezzi istruttori, in relazione alle istanze istruttorie proposte negli atti introduttivi ovvero nell'udienza di precisazione delle conclusioni o, nel rito del lavoro, di discussione finale, relativamente alle conclusioni originariamente proposte.

L'omessa riproposizione di una domanda o una istanza è, univocamente, considerata di per sé sola insufficiente ai fini dell'individuazione di una rinuncia implicita o tacita, a meno che, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, non possa inequivocabilmente desumersi il venir meno del relativo interesse (Cass. civ., sez. II, 16 febbraio 2010, n. 3593).

Tale inequivoco comportamento, sintomatico del venir meno dell'interesse processuale, non è individuato neanche nella mancata comparizione del procuratore della parte all'udienza di discussione, «atteso che la legge non prevede un obbligo per la parte di insistere in udienza per l'ammissione di una prova già regolarmente indicata e valendo, piuttosto, l'opposta presunzione che la parte assente abbia voluto tenere ferme le richieste istruttorie precedentemente formulate, sulle quali il giudice ancora non si sia pronunciato» (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 2016, n. 25894), fatta salva l'ipotesi in cui l'udienza diserta sia quella preposta all'assunzione (e non all'ammissione) dei mezzi istruttori, caso in cui si verte nella diversa fattispecie di decadenza, espressamente prevista dall'art. 208 c.p.c..

Analogo principio è affermato con riferimento all'omessa partecipazione del procuratore all'udienza di precisazione delle conclusioni, dovendosi presumere, in assenza di elementi di tenore difforme, che la stessa sia da ricondurre a disfunzione di natura organizzativa e non già a volontà, implicitamente manifestata, di rinuncia alla domanda giudiziale (Trib. Monza, 2 luglio 2013).

Osservazioni

Discutibile appare la soluzione adottata dalla pronuncia in commento laddove, facendo applicazione dei principi oggetto di diuturna ermeneutica giurisprudenziale alla specifica controversia, si configura quell'inequivoca volontà abdicativa nel contegno serbato dalla parte processuale.

La circostanza, difatti, che il procuratore compaia all'udienza preposta per l'ammissione dei mezzi istruttori esplicitando la richiesta di fissazione dell'udienza di discussione, compiendo cioè un atto di impulso processuale nel quale è insita la volontà di non insistere nei mezzi istruttori articolati, non può che interpretarsi alla stregua di condotta processuale incompatibile con le richieste in precedenza formulate.

La stessa Cassazione, sia pure riferita al giudizio ordinario, si era espressa in questo senso, ritenendo che «la richiesta, formulata dalla parte che aveva domandato ed ottenuto l'ammissione di una prova testimoniale, di fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni in luogo dell'assunzione dei testimoni, è incompatibile con la volontà di proseguire nella fase istruttoria del procedimento, dimostrando, al contrario, l'intenzione di passare a quella decisoria, e consentendo, quindi, di presumere l'avvenuta implicita rinuncia alla suddetta prova, atteso che proprio la mancata predeterminazione normativa di un sistema di preclusioni e decadenze, caratterizzante quel rito, interamente governato dall'impulso delle parti, impone di valorizzare ed interpretare rigorosamente i comportamenti da esse tenuti» (Cass. civ., sez. I, 2 agosto 2013, n. 18540).

Né, d'altronde, la diversità di regole e principi che presiedono lo svolgimento del rito del lavoro, rispetto a quello ordinario, può giustificare una distonia ermeneutica rispetto alla questione di specie, afferente l'interpretazione dei contegni processuali concludenti, che non può che essere caratterizzata da necessaria unicità di soluzioni.

Assai discutibile appare altresì l'ulteriore osservazione operata dalla Corte, a supporto della tesi della legittimità dell'operato del giudice d'appello, secondo cui l'ammissione dei mezzi istruttori sarebbe comunque consentita dalla congerie di principi relativi alle facoltà istruttorie in secondo grado, che prevedono la possibilità di ammettere prove non ammesse o non acquisite in primo grado, a condizione che la parte non sia incorsa in decadenze o, laddove le prove siano indispensabili ad eliminare ogni incertezza circa la ricostruzione fattuale, anche nei casi in cui siano maturate le preclusioni istruttorie.

Tali principi, difatti, appaiono applicabili laddove non si riscontri una volontà abdicativa, espressa, implicita o tacita, nel corso del giudizio di primo grado, nel comportamento processuale della parte che, riproponendo le istanze istruttorie in secondo grado, pretende di trarne giovamento. La stessa Cassazione (cfr. Cass. civ., sez. lav., 25 settembre 2013, n. 21909) ha, difatti, avuto modo di evidenziare l'efficacia preclusiva della rinuncia all'audizione di testi ammessi, disciplinata dall'art. 245 c.p.c. - condizionata all'adesione delle altre parti ed all'assenso del giudice – rispetto all'assunzione di tale prova costituenda in secondo grado, così confermando che la volontà abdicativa della parte, sia pure contenuta in altro contegno processuale, rappresenta, diversamente dalla decadenza, ostacolo all'attivazione dei poteri ufficiosi in grado d'appello.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.