La legittimazione a rendere l’interrogatorio formale deferito ad una società

18 Gennaio 2018

Con il presente contributo, dopo una breve disamina delle disposizioni di legge che disciplinano l'istituto dell'interrogatorio formale, espresse talune valutazioni in ordine alla natura giuridica della confessione, sarà analizzata, alla luce degli orientamenti espressi in giurisprudenza e in dottrina, la questione della legittimazione a rendere l'interrogatorio formale deferito ad una società, riscontrando, in particolare, se sia possibile per il legale rappresentante delegare un terzo a rispondere.
Il quadro normativo

L'interrogatorio formale è una delle prove orali previste dall'ordinamento. Esso mira a provocare la confessione della parte alla quale è deferito e, quindi, è finalizzato ad ottenere dalla parte chiamata a renderlo dichiarazioni attestanti la veridicità «di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte», secondo la definizione contenuta nell'art. 2730 c.c..

L'interrogatorio formale trova la sua disciplina, nell'ambito del codice di rito, negli artt. da 228 a 232, 292, comma 1, e 102 disp. att..

Tali norme, in particolare, stabiliscono come deve essere articolato l'interrogatorio formale, sanciscono che «la parte interrogata deve rispondere personalmente» e disciplinano le conseguenze della mancata risposta.

La normativa del codice di rito deve, poi, essere integrata con la disciplina contenuta nel capo V, titolo II, libro sesto, del codice civile.

Tali disposizioni prevedono l'efficacia di prova legale della confessione, stabilendo, all'art. 2733 c.c., che essa forma piena prova contro la parte che l'ha resa così che il giudice è “vincolato” a ritenere effettivamente verificatisi i fatti confessati.

La natura di prova legale della confessione e gli effetti che ne derivano implicano che la stessa produca effetti analoghi a quelli di un atto dispositivo.

Invero, la peculiarità degli effetti che discendono dalla confessione ne condizionano la disciplina.

In particolare, l'art. 2731 c.c. stabilisce che chi rende la confessione «deve essere capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono» e «qualora sia resa da un rappresentante è efficace solo se fatta entro i limiti e nei modi in cui questi vincola il rappresentato».

Infine, l'erroneità dei fatti confessati non costituisce da sola causa di revoca della confessione, occorrendo, secondo quanto previsto dall'art. 2732 c.c., che la stessa sia stata determinata «da errore di fatto o da violenza»,così che deve ricorrere un vero e proprio vizio della volontà.

L'efficacia di prova legale presuppone che la parte cui è stato deferito l'interpello, abbia reso unicamente dichiarazioni confessorie di fatti a sé sfavorevoli. Quando, invece, la dichiarazione confessoria «si accompagna a quella di altri fatti o circostanze tendenti ad infirmare l'efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o estinguerne gli effetti», ai sensi di quanto previsto dall'art. 2734 c.c. «le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità se l'altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte. In caso di contestazione, è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l'efficacia probatoria della confessione».

Infine, se la parte, cui è deferito l'interrogatorio formale, non si presenta a renderlo ovvero si rifiuta, tale mancata risposta costituisce un comportamento processuale qualificato che, nel quadro degli altri elementi probatori acquisiti al giudizio, può fornire elementi di valutazione idonei ad integrare il convincimento del giudice sui fatti oggetto dei capitoli di prova.

In particolare, se la dichiarazione confessoria costituisce una prova legale, il cui valore di piena prova è stabilito direttamente dalla legge, alla mancata risposta non è collegato l'effetto automatico della fictio confessio, così che il giudice non deve ritenere necessariamente verificatisi i fatti su cui verte l'interrogatorio, rientrando nel suo prudente apprezzamento valutare la condotta della parte che non si è presentata alla luce del complessivo quadro probatorio emergente dagli atti.

Si osserva infine, nel ricostruire il quadro normativo di riferimento, che il nostro ordinamento prevede, accanto all'interrogatorio formale, l'interrogatorio libero delle parti, alla cui disciplina sono dedicati gli artt. 116, 2 comma, e 117 c.p.c., per i giudizi di cognizione ordinaria, e l'art. 420 c.p.c., per i giudizi soggetti al rito lavoro.

In particolare, diversamente dall'interrogatorio formale, che mira a provocare la confessione della parte che lo rende, l'interrogatorio libero ha come scopo quello di fornire al giudice dei chiarimenti sui fatti di causa, e, pertanto, ha un valore probatorio sussidiario ed integrativo nella valutazione delle altre prove.

La natura giuridica della confessione

Sebbene gli effetti tipici della confessione siano analoghi a quelli prodotti da un atto dispositivo, conformemente all'orientamento espresso dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria, deve escludersi la natura negoziale della dichiarazione confessoria.

In particolare, la confessione è una dichiarazione di scienza, la cui efficacia di prova legale è stabilita dalla legge, a prescindere dall'esistenza di un corrispondente intento del dichiarante.

Come è stato autorevolmente evidenziato in dottrina «chi confessa (…) non dichiara una volontà bensì un fatto; non dispone bensì narra; non regola qualcosa per l'avvenire, ma piuttosto riferisce intorno a qualcosa che è avvenuto». D'altra parte il vincolo che sorge per effetto della confessione «che opera direttamente sul fatto che ne ha costituito l'oggetto fissandolo in guisa definitiva ed incontrovertibile, non ha e non può avere carattere obbligatorio in senso tecnico, ma ha piuttosto carattere legale; riposa cioè sulla volontà oggettiva della legge e non sull'autonoma volontà del soggetto», tanto è vero che tale vincolo viene in essere a prescindere dall'intenzione del confidente, rilevando unicamente ciò che colui che ha reso la confessione ha dichiarato, a prescindere dall'effetto che questi voleva raggiungere con la sua dichiarazione (cfr. Furno, Confessione (dir. proc. civ.), in Enciclopedia del diritto, VIII, Milano 1961, 870 e ss.).

Ragionando diversamente dovrebbe ritenersi che l'autonomia negoziale possa di per sé sola costituire fonte di un'obbligazione vincolante per l'autorità giudiziaria e, quindi, per un organo dello Stato nell'esercizio di una delle funzioni in cui si esprime la sua sovranità, laddove viceversa il giudice è vincolato a ritenere accertati i fatti che hanno costituito oggetto di confessione non in forza della volontà della parte che quella confessione ha reso, ma per volontà della legge.

Legittimazione a rendere l'interrogatorio formale deferito ad una società

Così riassunta la disciplina dell'interpello e della confessione, si osserva che l'interrogatorio formale delle società e, in generale, delle persone giuridiche è reso dal legale rappresentante.

In particolare, sul punto va richiamata la disposizione di cui all'art. 2731 c.c. e va precisato che, conformemente all'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, l'efficacia probatoria della confessione postula che la stessa provenga da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono cioè da persona che abbia la capacità e la legittimazione ad agire negozialmente rispetto al rapporto. Ne discende che ove sia resa dal legale rappresentante di un ente è necessario che il rapporto di rappresentanza sia in vita nel momento in cui viene resa la confessione e che questa rientri nei limiti dei poteri attribuiti al rappresentante dalla procura o dalla legge.

Deve pertanto escludersi che possa rispondere all'interrogatorio formale un soggetto che, al tempo dei fatti era il legale rappresentante della parte/persona giuridica, ma che non ricopra più tale incarico al momento dell'udienza fissata per l'interpello. Tale soggetto non potrebbe infatti rendere dichiarazioni confessorie, non essendo più legittimato a disporre del diritto controverso in nome della persona giuridica (cfr. Cass. civ., sez. lav.,3 dicembre 2008, n. 28711).

Considerato che nel corso del tempo può cambiare il legale rappresentante di una società, ben può accadere che l'amministratore di una società non fosse in carica quando si sono verificati i fatti su cui verte l'interpello e che questi, pertanto, non ne abbia diretta conoscenza.

Deve pertanto riscontrarsi se, in tal caso, sia ammissibile l'interrogatorio formale.

Invero, al riguardo è stato osservato che l'interrogatorio formale deve essere tenuto distinto rispetto alla prova testimoniale. In particolare, l'accertamento di un fatto mediante l'escussione di testimoni richiede che questi ultimi abbiano avuto una diretta percezione dei fatti sui quali sono chiamati a deporre, attesa la limitata efficacia probatoria delle dichiarazioni testimoniali rese de relato. Diversamente «l'interrogatorio formale è diretto a provocare la confessione giudiziale. Tale effetto può essere realizzato esclusivamente mediante l'escussione del titolare del potere di disposizione del bene o del diritto controverso. Non rileva, di conseguenza, come per le prove per testi la diretta percezione o conoscenza delle circostanze di fatto dedotte nei capitoli, essendo invece ineludibile la qualità di parte dell'interrogando». Peraltro, ove si optasse per una diversa soluzione si introdurrebbe «un regime derogatorio in favore di tutti i soggetti diversi dalla persona fisica, del tutto irragionevole anche sotto il profilo della compatibilità costituzionale secondo i parametri degli artt. 3 e 24 Cost.» (cfr. Cass. civ., 25 luglio 2013, n. 18079).

Del resto, tale soluzione è in linea con l'orientamento secondo il quale «la valutazione del giudice in ordine all'ammissibilità ed alla rilevanza di un interrogatorio formale va effettuata ai sensi dell'art. 187 c.p.c. sulla base del contenuto dei capitoli in rapporto ai termini della controversia e non in base al supposto esito del mezzo istruttorio, perché altrimenti detta valutazione si risolverebbe in un apprezzamento fondato su una supposizione»(cfr. Cass. civ., 12 ottobre 1998, n. 10077; Cass. civ., 29 maggio 1998, n. 5313 e Cass. civ., 23 marzo 1995, n. 3380).

Ciò posto va richiamato altro orientamento giurisprudenziale secondo il quale invece «la natura strumentale dell'interrogatorio formale in quanto diretta a provocare la confessione giudiziale il cui effetto probatorio ha la sua base giuridica e logica nella conoscenza che il confidente ha del fatto che ne costituisce l'oggetto, comporta la sua inammissibilità ogni volta che sia da escludere che il fatto rientri nella diretta conoscenza dell'interrogando» (cfr. Cass. civ., 14 dicembre 1988, n. 6816).

Tanto esposto si osserva che, una volta fallita una società, l'interrogatorio formale non può essere reso né dal legale rappresentante della medesima società quando questa era in bonis, che non è più parte del giudizio né dal curatore del fallimento, privo del potere di disporre dei diritti della massa dei creditori (cfr. Cass. civ., sez.I, 16 agosto 2006, n. 18175 e Cass. civ., 20 gennaio 1995, n. 629, relative all'inammissibilità dell'interrogatorio formale del fallito nonché Cass. civ., sez.I, 3 agosto 2017, n. 19418 e Cass. civ., 24 luglio 2015, n. 15570, relativo all'interrogatorio formale del curatore fallimentare, e Cass. civ., sez. I, 11 ottobre 1997, n. 9881, relativa alla confessione resa dal commissario liquidatore che si trova nella stessa posizione del curatore fallimentare, Cass. civ., 23 ottobre 1997, n. 10418).

Si osserva, infine, che quando una società sta in giudizio non in persona del legale rappresentante, ma, nella sussistenza di tutti i presupposti di legge, di un rappresentante volontario, costui può rendere valida confessione. D'altra parte in tal caso la procura generale o speciale che è stata conferita deve prevedere, oltre al potere di stare in giudizio per il rappresentato, anche quello di disporre del diritto controverso.

La possibilità di delegare la risposta all'interrogatorio formale

Tanto premesso si osserva che nelle società di capitali, soprattutto se articolate su strutture complesse, eventualmente con sedi operative ubicate in più parti del territorio, si pone l'esigenza di delegare la possibilità di rendere l'interrogatorio formale a soggetti, operanti all'interno della società, diversi dal legale rappresentante, in ciò considerata sia la difficoltà che quest'ultimo può incontrare per recarsi in udienza a rendere l'interpello sia il fatto che il legale rappresentante della società potrebbe non essere al corrente dei fatti su cui è chiamato a rispondere.

Invero, conformemente a quanto previsto dall'art. 231 c.p.c., il soggetto cui è deferito l'interrogatorio formale, sia esso una persona fisica o una persona giuridica, deve rispondere personalmente ed oralmente.

Ne consegue, secondo l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, che l'interrogatorio formale non può essere reso a mezzo di un procuratore speciale e, ove a renderlo si presenti una persona diversa dal soggetto cui è stato deferito e, in particolare, un procuratore speciale delegato a rispondere in sostituzione del legale rappresentante, il giudice deve dare atto della mancata risposta all'interpello (cfr. Cass. civ., 9 luglio 1990, n. 7162; Cass. civ., 23 dicembre 1998, n. 128443; Cass. civ., 24 novembre 2000, n. 15195, nonché nell'ambito della giurisprudenza di merito App. Roma 18 maggio 2009, App. Roma 30 marzo 2009).

Con specifico riguardo alla posizione dei dirigenti preposti alle filiali bancarie, ai quali va riconosciuta la qualità di institori ai sensi dell'art. 2203, comma 2, c.c., è stato chiarito che essi possono agire e resistere in giudizio in nome della banca preponente per qualsiasi rapporto derivante da atti compiuti nella filiale alla quale sono preposti, secondo quanto previsto dall'art. 2204, comma 2, c.c.. É stato quindi evidenziato che quando ad agire in giudizio è l'institore, e, dunque, il dirigente preposto alla filiale, questi può rendere l'interpello. Viceversa se l'istituto di credito ha agito direttamente tramite il proprio legale rappresentante solo quest'ultimo può rendere l'interrogatorio formale (cfr. Trib. Caltanissetta 30 novembre 2002). Invero, l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità e di merito sopra riportato è condiviso dalla prevalente dottrina, che ha evidenziato che l'interrogatorio formale è un atto riservato alla parte e ciò sia nel caso in cui rivesta la qualità di parte il titolare del rapporto controverso sia che questi stia in giudizio tramite un proprio rappresentante legale o volontario. Sul punto è stato evidenziato che deve tenersi conto non solo della previsione dell'art. 231 c.p.c.., secondo il quale l'interrogatorio formale è reso dalla parte personalmente, ma anche di quanto disposto dall'art. 229 c.p.c., a mente del quale la confessione spontanea «può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente».Inoltre, l'art. 2730 c.c., nel definire la confessione, utilizza una locuzione, «la dichiarazione che la parte fa», che lascia inequivocabilmente intendere che si tratta di atto che deve essere compiuto dalla parte personalmente.

L'orientamento interpretativo, che esclude il ricorso alla delega per l'interrogatorio formale di una società, non è condiviso da tutta la dottrina, essendo stato criticato da qualche autore, che ha evidenziato che nell'ambito delle società, soprattutto se caratterizzate da una struttura complessa, la gestione dell'attività di impresa avviene secondo il principio della delega, con la conseguenza che al procuratore delegato a compiere atti negoziali in nome della società dovrebbe essere riconosciuta anche la possibilità di rendere l'interrogatorio formale nell'ambito delle controversie relative a tali rapporti negoziali.

Peraltro, deve valorizzarsi la previsione di cui all'art. 2731 c.c. che prevede la possibilità di ricorrere allo strumento rappresentativo anche per la confessione.

La delega nel libero interrogatorio

Diversamente da quanto sopra evidenziato con riguardo all'interrogatorio formale, è pacificamente ammessa la possibilità che il libero interrogatorio sia reso dalla parte a mezzo di un procuratore speciale.

La possibilità di delega è, invero, espressamente prevista dall'art. 420, comma 2, c.p.c., con riguardo al libero interrogatorio nell'ambito del processo del lavoro. La citata disposizione prevede, in particolare, la facoltà per le parti di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale che sia a conoscenza dei fatti di causa.

Invero, considerato che lo scopo del libero interrogatorio, ossia fornire al giudice chiarimenti in ordine ai fatti di causa, è identico nell'ambito del processo del lavoro e dei giudizi soggetti al rito ordinario, non vi è ragione per diversificarne la disciplina così che deve ritenersi la possibilità per le parti di delegare ad un procuratore speciale la facoltà di rendere il libero interrogatorio anche nei giudizi a cognizione ordinaria (cfr. Cass. civ., 30 agosto 1991, n. 9316).

Sul punto va altresì evidenziato che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, il procuratore speciale che ha reso l'interrogatorio libero non è parte del giudizio e può essere sentito anche come testimone, atteso che il conferimento della procura e la parte avuta nel rendere il libero interrogatorio non configurano un interesse che potrebbe legittimarne la partecipazione al giudizio rilevante ai sensi dell'art. 246 c.p.c. (cfr. Cass. civ., sez. lav., 13 marzo 1996, n. 2058).

Sul punto va infine considerato che la procura a rispondere al libero interrogatorio può essere conferita dalla parte anche al suo difensore, ma non può essere considerata compresa nella procura ad litem ancorché questa comprenda il potere di transigere e conciliare la lite (cfr. Cass. civ., 25 marzo 1983, n. 2096).

Peraltro, le ammissioni dei fatti di causa provenienti dal difensore della parte hanno particolare valore probatorio «sia perché riguardo alla loro prospettazione le medesime debbono normalmente farsi risalire alla parte dalla quale proviene la narrativa dei fatti antecedenti al processo sia perché provengono da un soggetto professionalmente qualificato ed edotto delle conseguenze giuridiche da esse derivanti» (cfr. Cass. civ., 27 aprile 1979, n. 2457, Cass. civ., 13 luglio 1977, n. 3150 e Cass. civ., 6 maggio 1977, n. 1725).

In conclusione

Alla luce di quanto sopra esposto deve ritenersi che, secondo il prevalente orientamento espresso in giurisprudenza e in dottrina, le società debbano rendere l'interrogatorio formale tramite il proprio legale rappresentante in carica al tempo dell'udienza in cui l'interpello deve essere reso, escludendosi la possibilità di delegare un terzo a rispondervi.

Guida all'approfondimento
  • Andrioli, Confessione (dir. proc. civ.), in Novissimo Dig.it., IV Torino, 1959, 11 e ss.;
  • Furno, Confessione (dir. proc. civ.), in Enciclopedia del diritto, VIII, Milano 1961, 870 e ss.;
  • Laserra, Interrogatorio (dir. proc. civ.), in Novissimo dig.it., VIII Torino 1962, 914 e ss.;
  • Mandrioli, La rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959;
  • Vaccarella, Interrogatorio delle parti, in Enciclopedia del diritto XXII, Varese, 1972, 372 e ss..

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario